sabato 11 luglio 2015

LA STORIA IGNORATA


La storia ignorata

Di Fabio Calabrese

Alcuni anni fa il principe Otto d'Asburgo allora rettore dell'università di Urbino, nella sua prolusione d'inizio dell'anno accademico, a proposito della conoscenza della storia, fece un commento meno banale e più profondo di quel che può sembrare a prima vista:
“Chi non sa da dove viene”, disse, “non può sapere dove va, perché non sa dove si trova”.
I concetti che noi abbiamo della storia influenzano l'idea che ci facciamo del presente, e quindi contribuiscono a determinare le nostre azioni in vista del futuro; per questo motivo, tutti gli studiosi dei fenomeni sociali e politici, da Malinsky e De Poncins ad Orwell, hanno messo in rilievo il fatto che la manipolazione della conoscenza storica è uno degli strumenti principali dei sistemi che, totalitari o sedicenti democratici che siano, si propongono di plagiare l'opinione pubblica.
Le democrazie, è noto, non ricorrono ad un sistema dichiarato di censura, ma al plagio di un potente sistema mediatico, oltre alla sommesione delle voci dissidenti in un coro continuo di “informazioni” futili e/o irrilevanti.
“E' possibile ingannare tutti per un certo tempo”, recita un detto, “ed è possibile ingannare qualcuno per sempre, ma non si possono ingannare tutti per sempre”. Io mi auguro ardentemente che ciò sia vero, e forse non solo lo è, ma siamo giunti ad un punto di rottura. Se il catalogo di un'agenzia libraria on line che si occupa di diffondere le opere di piccole case editrici, che non ha una caratterizzazione politica, somiglia sempre di più a quello di una libreria revisionista, questo significa che “il potere” pur con i suoi potenti mezzi sta rimanendo sempre più solo nel ripetere le sue sempre meno credibili menzogne di stato soprattutto in campo storico, su tematiche quali fascismo e antifascismo, resistenza, comunismo, guerra fredda; è una situazione che per certi versi ricorda la glasnost degli ultimi tempi dell'Unione Sovietica con Gorbacev.
Sarà che di questi tempi il Grande Fratello mondiale non se la passa troppo bene: l'Irak somiglia sempre di più al Vietnam, Bagdad è peggio di Saigon; in Afghanistan la resistenza che sembrava schiacciata sta rialzando la testa, anche in Libano Hezbollah si è dimostrata uno scoglio più duro del previsto, poi c'è l'Iran che non si piega né alle minacce né ai ricatti, e come se non bastasse ci sono anche le rogne nel cortile dietro casa: il Venezuela di Chavez, il Brasile di Lula. Fatto sta che anche nella sin qui servilissima colonia Italia si comincia a parlare un linguaggio più libero, cominciando proprio dal revisionismo storico, così temuto dal Grande Fratello orwelliano e da quello reale. La storia (sin qui) ignorata torna sotto i riflettori e le sue lezioni possono indurre a rivedere l'atteggiamento verso il presente.
Parliamo de “La bottega editoriale”, il bollettino, reperibile all'indirizzo bottegaeditoriale1@soveria.info che recensisce due collane “dire-fare-scrivere” e “scripta manent” dell'editore Rubettino. Nella prima troviamo la recensione del libro di Paolo Palma Il telefonista che spiava il quirinale – 25 luglio 1943, (recensione di Paolo Acanfora), nella seconda La resistenza demitizzata di Giampaolo Pansa (recensione di Francesco Fatica) e Compagno cittadino, il PCI tra via parlamentare e lotta armata di Salvatore Sechi (recensione di Carmine De Fazio).
“Il telefonista che spiava il quirinale” non è un personaggio letterario, è Giuseppe Mangione, allora appunto telefonista del quirinale e che dopo la guerra acquisì una certa fama come sceneggiatore, che intercettò e trascrisse le conversazioni telefoniche del re Vittorio Emanuele III e del suo entourage attorno al luglio 1943. Le trascrizioni furono poi consegnate al noto esponente partigiano Rodolfo Pacciardi fra le cui carte sono state recentemente ritrovate.
Quello che ne emerge, è un quadro completamente diverso da quel che ci eravamo abituati a considerare di un episodio chiave della nostra partecipazione al secondo conflitto mondiale, quale fu quello del 25 luglio 1943, il “ribaltone” con cui fu soppresso il regime fascista, e che doveva preludere di lì a poco all'altro ed ancor più drammatico ed infamante “ribaltone”, l'armistizio ed il cambiamento di fronte dell'8 settembre.
Contrariamente a quel che ci è stato fatto credere così a lungo, l' “arresto” (ma di arresto non si trattò) di Benito Mussolini quando questi, dopo essere stato messo in minoranza nella seduta del Gran Consiglio del fascismo si recò dal re per presentargli le proprie dimissioni, non fu per nulla frutto di una decisione improvvisa di Vittorio Emanuele III, ma l'esito ultimo di una cospirazione accuratamente preparata, una congiura che ebbe la sua “anima”, la sua “eminenza grigia” nel ministro Acquarone, un personaggio che finora gli storici hanno considerato assolutamente di secondo piano.
Per gli antifascisti di allora, di poi, di oggi, è sempre stato motivo d'imbarazzo il fatto che la “bieca” dittatura mussoliniana finisse in una maniera così “parlamentare”, con una votazione, ed ancora il fatto che dopo essere stato messo in minoranza dal Gran Consiglio, Mussolini si sia recato tranquillamente ad offrire al re le proprie dimissioni. E' stato questo il comportamento di un tiranno? O non piuttosto quello di un leale servitore dell'Italia con la coscienza tranquilla, il cui torto, semmai, è stato quello di non avvertire la fosca atmosfera da congiura da basso impero bizantino che altri gli avevano addensato attorno, come spesso accade alle persone sincere e leali che non sono in grado di comprendere fino in fondo la malizia altrui? Se invece Mussolini scelse consapevolmente di consegnarsi nelle mani di chi voleva distruggerlo, può averlo fatto solo nel tentativo di evitare che per l'Italia alla tragedia del conflitto si sommasse l'altra tragedia della guerra civile. In ogni caso, la sua statura morale ne esce ingigantita: un gigante circondato da una torma di squallidi gnomi intenti solo a cercare di trarre un profitto personale dalle sventure della Patria.
In realtà questo libro aggiunge nuovi tasselli ad un mosaico che il gran parte conoscevamo già, così come sappiamo che all'uscita dal quirinale Mussolini non fu arrestato con un atto che avesse qualche parvenza di legalità, ma rapito e portato via in segreto su di un'ambulanza: è evidente che i cospiratori temevano una reazione popolare, ed in tal modo confessavano involontariamente la popolarità di cui ancora godeva Mussolini a dispetto del disastroso andamento della guerra.
E non parliamo di altri fatti oscuri di quella tragica fine di luglio che sembrava anticipare sinistramente la guerra civile, come l'assassinio in un vile agguato di Ettore Muti “il più bello” e sicuramente uno dei più amati leader fascisti.
In realtà, non è da adesso che sappiamo che fin dall'inizio del conflitto la monarchia e gli alti gradi militari ad essa vicini tennero un comportamento ambiguo, “il piede in due staffe”, come si dice, od arrivarono a sabotare lo sforzo bellico collaborando apertamente con il nemico, al prezzo delle vite cinicamente sacrificate di migliaia di nostri combattenti.
Poiché la repubblica nata dalla “resistenza” si è sempre preoccupata di non far conoscere agli Italiani la verità sulla tragedia che li aveva colpiti, e di nascondere il volto vile e laido dell'antifascismo, quello che fu il nostro più valido scrittore di cose militari, Antonino Trizzino andò incontro nel dopoguerra a tre processi per aver affermato e documentato nel suo celebre Navi e poltrone un fatto basilare ed incontrovertibile: la condotta della Regia Marina, dei suoi alti comandi, fu, dal punto di vista dell'interesse nazionale, folle e suicida: i nostri convogli destinati al nord-Africa furono mandati senza scorta lungo le rotte di un mare dove i britannici avevano una schiacciante superiorità; le vite di migliaia di nostri marinai furono sacrificate invano, e nel contempo la penuria di rifornimenti determinò il crollo del fronte africano che aprì le porte all'invasione dell'Italia. Non basta, in un altro libro dal titolo eloquente, Gli amici dei nemici, Trizzino ha documentato i contatti che ci furono fra i nostri alti comandi ed i britannici che furono costantemente informati dei movimenti delle nostre truppe e dei nostri convogli. La monarchia ed il suo entourage, gli alti gradi militari si preparavano a saltare sul carro del probabile vincitore o (le due ipotesi non sono in contrasto) vedevano nella sconfitta un mezzo per sbarazzarsi del fascismo. Peccato che intanto a farne le spese erano, con le loro vite, i nostri soldati ed i nostri marinai, e tutto ciò ha sempre avuto un solo nome: tradimento.
Se poi aggiungiamo che la monarchia fece forti pressioni sul fascismo perché si arrivasse al più presto all'entrata in guerra, essendo Mussolini riluttante, ed i Tedeschi che conoscevano lo stato d'impreparazione delle nostre forze armate dopo che l'Italia aveva appena speso tutte le sue energie in due guerre consecutive in Etiopia e Spagna, nettamente contrari (non a caso, il giorno scelto per la dichiarazione di guerra fu il 10 giugno, il compleanno del re), è difficile sottrarsi alla conclusione che le vite degli Italiani e l'avvenire stesso dell'Italia siano stati sacrificati sull'altare di uno sporco gioco di potere.
Passiamo all'altro libro che bene s'inserisce su questa tematica: La resistenza demitizzata è per ora l'ultimo anello di una catena che l'autore ha iniziato nel 2003 con il bestseller Il sangue dei vinti, proseguita poi con Sconosciuto 1945 del 2005 e La grande bugia del 2006. La resistenza, lo sappiamo, non fu un'epopea, non ebbe nulla di nobile, fu un carnaio truce e vile, fatto di attentati e di colpi alla schiena, diretta contro i Tedeschi, ma soprattutto contro coloro che dopo l'8 settembre 1943 avevano continuato a combattere lo stesso nemico, e contro quanti minacciavano di essere un ostacolo alla “rivoluzione socialista” che si pensava d'instaurare a guerra finita. La stragrande maggioranza dei militi della Repubblica Sociale uccisi da mano comunista non caddero in combattimento, ma furono trucidati dopo essersi arresi ed aver ceduto le armi, quando non erano più in grado di difendersi. Con il 25 aprile 1945 non arrivò la “liberazione” ma la mattanza. Coloro che per due anni sanguinosi non erano stati capaci di fare altro che nascondersi sulle montagne, compiere attentati, colpire alla schiena, ora, vincitori per procura grazie ai bombardieri ed ai tank americani, sfogavano sui vinti e sugli inermi la loro barbarie bestiale.
La “resistenza” non è stata altro che questo, la pagina forse più vergognosa della nostra storia bimillenaria. Non questo lo sappiamo, lo sapevamo già ben prima che Giampaolo Pansa arrivasse a dirlo, tuttavia è un fatto molto importante che uno storico di formazione di sinistra e quindi antifascista arrivasse a dirlo, a renderlo noto al grosso pubblico tenuto nell'ignoranza per più di mezzo secolo.
Giampaolo Pansa ha iniziato questo percorso nel 2002, con un testo sui combattenti della Repubblica Sociale, I figli dell'aquila, e probabilmente a questo punto si è trovato di fronte alla verità di cosa è stata la “resistenza”, un'orrenda faida condotta soprattutto a guerra finita contro un “nemico” ormai inerme, poteva, come tanti prima di lui, insabbiare tutto, invece ha avuto il coraggio di rompere il muro dell'omertà. Come La grande bugia, La resistenza demitizzata è dedicata soprattutto a smentire gli avvocati d'ufficio della resistenza, i ben pagati megafoni e leccapiedi del regime che vorrebbero tenere la grande bugia ancora in piedi: Giorgio Bocca, Alessandro Curzi, Paolo Flores d'Arcais, Sergio Luzzatto, ed altri esemplari del più lugubre bestiario di quanti vilipendono la storia e prostituiscono l'informazione.
Chi mente sapendo di mentire, molto spesso finisce per darsi la zappa sui piedi, e così Pansa ha buon gioco citando un'affermazione di Giorgio Bocca, il più accanito di quanti vorrebbero confutarlo:
«Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce».
In poche parole, il solco di ostilità fra la popolazione ed i Tedeschi e i combattenti repubblicani fu creato artatamente, con attentati che aveva lo scopo di provocare le rappresaglie secondo la logica del “tanto peggio, tanto meglio da parte di chi mirava a fare “la rivoluzione” e non aveva alcuna preoccupazione di quanto questa logica aberrante sarebbe costata all'Italia in termini di morti e distruzioni.
Nel libro è contenuto un omaggio doveroso ad un uomo che ha cercato invano di raccontare agli Italiani la verità: Giorgio Pisanò, autore di volumi come Storia della guerra civile in Italia e Gli ultimi in grigioverde che, nonostante un'indiscussa competenza, serietà e probità come storico non riuscì a trovare un editore abbastanza coraggioso da pubblicare la verità sul periodo più buio della storia d'Italia, allora divenne egli stesso editore, e la cui tipografia fu distrutta per ben quattro volte da quattro attentati rimasti rigorosamente senza colpevoli e che non ebbero alcuna eco sui mezzi “d'informazione”.
Da parte mia, aggiungerei un punto che sembra finora sfuggito a Pansa ed alla gran parte degli storici che si sono occupati di questi fatti. A sinistra è diffusa la leggenda, che ha sicuramente meno fondamento di quella dell'esistenza del mostro di Loch Ness, che la “liberazione” sarebbe stata opera dei “resistenti”, dei partigiani, e che gli angloamericani arrivati a cose fatte, si sarebbero limitati a togliere loro di mano il frutto della vittoria. Questa leggenda comporta una confusione fra attentati, pistolettate alla schiena nei vicoli, atti di terrorismo ed azioni militari. C'è poi da stupirsi se qualcuno cresciuto in questo tipo di “cultura” abbia poi pensato di riprendere “la lotta rivoluzionaria” con gli stessi metodi? Diciamo la verità una volta per tutte: le Brigate Rosse sono state figlie legittime della “resistenza” e della “cultura resistenziale”!
In questo discorso, ben s'inserisce il terzo libro citato, Compagno cittadino, il PCI tra via parlamentare e lotta armata di Salvatore Sechi. In questo caso, non si tratta per la verità di un testo organico ma di una raccolta di saggi, ma questo non muta in nulla la sostanza delle cose, che è semplicemente questa: il PCI ha sempre posseduto una struttura paramilitare segreta pronta ad intervenire per instaurare con la forza anche in Italia un regime comunista non appena le circostanze di politica interna e soprattutto internazionale l'avessero reso possibile, quella cui si è ripetutamente alluso come “Gladio rossa”.
La prima cosa che Sechi e De Fazio sulle sue orme ci fanno notare, è l'estrema difficoltà che esiste ancora oggi nel raccogliere informazioni su questo argomento, stante il clima omertoso, il “muro di gomma” che ancora oggi circonda tutto ciò che riguarda il Partito Comunista, eretto con l'attiva complicità di giornalisti e sedicenti intellettuali di sinistra:
“Il “muro di gomma” che esiste sull’argomento sembra essere stato messo in piedi per nascondere qualsiasi tipo di ricerca della verità storica da intellettuali faziosi e direttamente controllati dalla struttura partitica. Questa componente rappresenta un altro elemento di critica di Sechi, quello cioè, che la sinistra in generale (il riferimento è al Pci ma anche al Psi) avesse sempre avuto dalla sua parte, gestendo con molta attenzione una cerchia di giornalisti, scrittori e intellettuali che avrebbero permesso una “scrittura”, appunto, della storia relativa a questi partiti soprattutto, poco veritiera o strettamente di parte”.
Una delle poche cose che appaiono sicure al riguardo, è che questa struttura non sarebbe potuta esistere senza la disponibilità di grandi quantità di denaro, di origine certamente illecita. La fonte principale sembra essere stato il sistema di tangenti imposto dal PCI alle aziende italiane che intendevano commerciare con i Paesi comunisti, ossia proprio quel sistema di “pizzo” mafioso che tutti conoscevano fino alla fine degli anni '80 e di cui l'inchiesta “mani pulite” non ha voluto trovare traccia:
“A fianco delle grosse capacità di gestione e mantenimento del sistema partitico, c’era un apparato che prendeva sostentamento dalle ingenti quantità di denaro che il Pci riusciva a cooptare dai grandi mercati internazionali e che, a dire dell’autore, ne faceva il punto di riferimento del mercato import-export verso e dai paesi europei sotto l’orbita sovietica e anche verso il mercato “rosso” orientale rappresentato dalla Cina.”
C'è una considerazione che merita aggiungere: il nomignolo di “Gladio rossa” attribuito alla struttura paramilitare clandestina del PCI che, c'informa Sechi, non cessò di essere operativa prima degli anni '80, è del tutto improprio. “Gladio”, ovvero “Stay Behind” era una struttura segreta ma pienamente legittima costituita in ambito NATO con il compito di organizzare la resistenza dietro le linee in caso d'invasione sovietica. L'esistenza di tale struttura fu resa di dominio pubblico, vanificandone la funzione, dall'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti con un atto contrario alla sicurezza nazionale, per ingraziarsi il PCI. Se qualcuno agì in modo illecito ed in danno dell'interesse nazionale nella vicenda “Gladio” fu lo stesso Andreotti, un individuo che, non solo per questa vicenda, ma si pensi ad esempio alla sua implicazione nell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli e ai suoi legami con il boss mafioso Totò Riina, dovrebbe sedere a vita non sui banchi di Palazzo Madama ma sul tavolato di una cella.
Quello di “Gladio” non fu il solo caso nel quale una struttura del tutto legittima che svolgeva attività anticomunista, fu criminalizzata e fatta passare per golpista; un altro esempio allucinante fu la vicenda di Edgardo Sogno, a capo di una struttura che si occupava di fornire assistenza a quanti cercavano di fuggire od erano fuggiti dai “paradisi” comunisti dell'Est. Il PM Luciano Violante imbastì contro di lui una montatura giudiziaria “golpista” che non aveva nessun riscontro nella realtà. Per Sogno iniziò una lunga ed allucinante vicenda giudiziaria che è poco definire kafkiana, e per Violante una rapida carriera politica che lo ha portato fino alla presidenza della Camera. Dovremmo seriamente interrogarci sul vero significato di una democrazia che tratta da criminali coloro che difendono la libertà, e porta ladri, assassini e farabutti di ogni specie ai supremi vertici dello stato.
La cosiddetta “Gladio rossa”, invece, era un'organizzazione del tutto illegale con compiti di sovversione e, presentandosi l'occasione, di presa del potere con la violenza o di fiancheggiamento di un'eventuale invasione sovietica. Tutto ciò nell'ormai desueto linguaggio dei nostri padri aveva un nome preciso: tradimento.
Indipendentemente da quali fossero le sue finalità, la “Gladio rossa” era un'organizzazione illegale di per sé, poiché in Italia c'è una legge, la legge Scelba che proibisce ai partiti di dotarsi di organizzazioni paramilitari, ma siamo sinceri, nessun PM avrebbe mai incriminato né tanto meno nessun giudice avrebbe mai condannato il PCI in base alla legge Scelba, perché la democrazia ha un'altra stranezza, certe leggi sono “strabiche”, colpiscono una parte politica (e sono fatte apposta per colpirla), ma non le altre. Un esempio recente di ciò è anche la legge Mastella da poco introdotta che introduce il reato di “istigazione al genocidio”, ma possiamo essere matematicamente sicuri che essa non colpirà mai gli esaltatori delle foibe; ed io che vivo a Trieste, una città dove c'è una minoranza slovena che ha mantenuto intatto tutto il suo sciovinismo antiitaliano, vi posso assicurare che ce ne sono.
Il muro delle menzogne comincia a mostrare le prime crepe, ma non ci dobbiamo illudere: l'era degli inganni non è finita e non finirà né domani né dopodomani, ma un giorno la gente non ne potrà più di coloro che non hanno fatto altro che ingannarla, e sulla menzogna hanno fondato il loro potere.

 

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