lunedì 21 giugno 2021

RESISTERE PER ROMA

 

RESISTERE PER ROMA 



UOMINI CONTRO CARRI Senza reducismi e senza malinconia
Fernando Togni
 
 
    Ci si avviava alle sei del mattino e la notte schiariva. Allora non c'era l'ora legale. In quell'avamposto si faceva la guardia ininterrottamente per dodici ore. Lo comandava un maresciallo tedesco che disponeva d'una quindicina di uomini. Insieme si trovavano una quindicina di italiani, comandati da un sergente. Si stava in due per buca. 
Dopo i bombardamenti terrestri aerei e navali ai quali eravamo sottoposti di giorno, era molto dura quella guardia: svegli, senza parlare, senza fumare. È la vicenda quotidiana di tutti, in guerra, in prima linea. Ma metteva duramente alla prova la resistenza fisica. Non ci avevano insegnato come si faceva la guerra. Ma stavamo imparando. Solo poco tempo prima eravamo ancora all'università, o in fabbrica, o in negozio, o in ufficio. 
    Avevamo di fronte la maggiore potenza industriale e militare del mondo. Gli avamposti nemici erano sì e no a un chilometro e mezzo o due di fronte a noi; le nostre linee dietro alle spalle, più lontane. Eravamo isolati: con armi automatiche in mano; brandelli di sogni giovanili nel cuore; tristezze d'una patria devastata e invasa, intorno. E si sentiva un esteso sferragliare in lontananza, con rabbioso e intenso cannoneggiare zonale. 
Nessuno te lo dice, ma capisci da solo che è un attacco in forze, e non sai quando e come, ma ti aspetti che tra poco toccherà a te. 
    E infatti, quando ormai è chiaro, ci sei in mezzo. 
    Era il 15 aprile 1944. Avevo vent'anni: ero nell'Agro Pontino a contrastare gli anglo-americani sbarcati a Nettuno il 22 gennaio. 
    Uomini contro carri. Anche quella mattina, come per tutta la campagna d'ltalia (lo dice Eric Morris in "La guerra inutile" - Longanesi 1993) con buona pace del maresciallo Montgomery, abituato a battersi con presuntuosa arroganza sulla sicurezza del dieci contro uno, pagarono un alto prezzo, eccessivo. Ma a loro non importava molto. Eppoi, le classifiche sono sempre ingenerose e, in prospettiva, ridiscutibili o inutili. 
    Uomini contro carri. Non ce l'abbiamo fatta. Fui catturato così. È capitato a molti altri e, soprattutto, molti hanno lasciato la vita. 
    Non lo sapevo, ma in quel giorno, a Firenze, avrebbero ucciso Giovanni Gentile. 
    Dopo Aversa, Biserta e Orano, sono finito con gli altri negli Stati Uniti, a Hereford. 
    Sono qui a ricordarlo cinquanta anni dopo. 
    Nessun reducismo, né malinconia. Una vicenda qualunque nel mezzo di tante vicende qualsiasi. Ma vicende vissute da esseri umani: non di una parte o della parte avversa. Gli anniversari non dicono più niente, nemmeno i compleanni; ricordarli rivela - si dice - atteggiamenti datati, obsoleti, patetici. 
    Così l'anniversario di questo mezzo secolo - nel secolo della relatività - non mi turba più di tanto. 
    Mi domando, piuttosto, qual è il contenuto di tale ricordo, poiché questo considero ancora importante. Importante non per rendermi conto della vita vissuta, ma per dar senso a quella che vivo tuttora, e motivazioni al futuro. 
    Né scetticismo, né pessimismo. Invece, continuo senso del presente. Vale sempre la pena. Come nelle fusioni le bave si asportano, le scorie si disperdono e la statua vien fuori pura come l'artista l'ha concepita, così tra commemorazioni più o meno forzate e vuote, tra alluvioni di chiacchiere che continueremo a sentire, restano in eredità e durano tutte le oneste esperienze individuali; sono esse il filo che cuce o ricuce l'abito. Anche il costume di Arlecchino - che nella tradizione è un abito povero - un abito comunque è; e rappresenta l'affermazione d'una fede nella gioia di vivere. Cinquant'anni di cose viste. Di tutti i colori. 
In fondo, niente di nuovo, nel male e nel bene. La serenità di non giudicare: tanto, la vita ne ha per tutti. 
    La consapevolezza, modesta, di essere quello che sei. Continuando a coltivare dirittura e tenacia, accettando pure che la realtà possa avere aspetti incomprensibili. Però non desistere dal tentare; cercare sempre, soprattutto l'essere umano. 
    Cinquant'anni dopo: un ricordo in umiltà, solo come testimonianza e proposta.
 
 

VOLONTA’ N. 6-7 Giugno-Luglio 1994

                                                                                                                                   

mercoledì 16 giugno 2021

LETTERA A MARZIA

RISCOPRENDO LA STORIA SAPREMO UN GIORNO RITROVARE MOTIVI DI ORGOGLIO            


LETTERA A MARZIA
(Cinquant’anni e venti mesi) Scritta e pubblicata da Alberto Giovannini nel 1959
 
 
    Marzia carissima, domenica l’altra, al termine della puntata televisiva sui “Cinquant’anni di vita italiana”, in cui si descrivevano in termini raccapriccianti le vicende della Repubblica Sociale Italiana, tu hai chiesto, un po’ incredula e un po’ preoccupata: “-Ma papà era con quelli? ....”.
Sì Marzia, il tuo papà era con “quelli”, con i cattivi e perchè, nella tua mente bambina, non rimangano dubbi ti dice, ora, di essere orgoglioso di esserci stato, e ti assicura che, se dovesse tornare indietro nella vita, e trovarsi, con l’esperienza d’oggi, nelle identiche situazioni di allora, ci tornerebbe.
    I tuoi tredici anni scarsi ti permettono di afferrare e assorbire il succo velenoso di certe storie, ma ti impediscono di poter capire la storia. Tuttavia voglio dirti, non tanto per oggi, ma per il tempo abbastanza prossimo in cui alla storia, per forza di studi, dovrai avvicinarti, che ciò che la Televisione ha trasmesso (forse col recondito desiderio di far disprezzare centinaia di padri e di madri dai figli ignari) delle tragiche vicende Italiane tra il 1943 e il 1945, altro non è che il concentrato della vigliaccheria conformistica che impera nella nostra Patria.
    Tu non sai, cara Marzia, che molti tra quanti vorrebbero condannare tuo padre, in quanto colpevole di un delitto che gli Italiani difficilmente perdonano, quello della coerenza, vi sono coloro che gli furono Maestri e, quindi, coi loro scritti lo spinsero sulla strada che doveva condurlo nella Repubblica Sociale Italiana: e vi sono a migliaia, a centinaia di migliaia, a milioni i suoi compagni di un tempo, quelli cioè che dopo aver militato con lui, nel fascismo e “sotto” Mussolini, si squagliarono, stridendo alla maniera dei topi, non appena la barca incominciò a fare acqua.
    In sostanza le storie che la Televisione ha, dapprima ipocritamente e poi maramaldescamente, raccontate alla tua fantasia di bambina sensibile, avevano due scopi ben precisi: il primo di giustificare la dittatura del “ventennio”, il secondo di scaricarne tutte le responsabilità, morali prima ancora che politiche, sui vinti della Repubblica Sociale Italiana. Perchè vedi, Marzia, se in Italia non ci fosse stata la Repubblica, e la storia si fosse fermata al 25 luglio 1943, i “responsabili” sarebbero parecchi. Nessuno o quasi si salverebbe.  Oggi tu sai che Presidente dei Consiglio è l’Onorevole Segni, e se ascolterai la radio saprai ch’egli è un patriota e un antifascista, un sincero democratico.  Appunto perchè, per sua fortuna, c’è stato l’8 settembre 1943, che ha permesso a Segni di far dimenticare il giuramento di fedeltà al regime fascista e, probabilmente, il distintivo fascista portato all’occhiello, come professore Universitario.  Ti dico Segni, perchè è il nome del giorno, ma quando ascolterai altri nomi, e leggerai di altre benemerenze, di Fanfani o di Ingrao, di Taviani o di Lajolo, di Pella o di Achille Corona, di Tambroni o di Martino, di tutti o quasi gli uomini politici Italiani dispersi nei molti partiti, ricorda che la situazione è sempre la stessa.
    Per questo le storie che ti hanno raccontate “visivamente” alla Televisione, nella prima parte erano rivolte a giustificare il fascismo, e in certo qual modo, a farlo perdonare agli italiani e agli stranieri.  Le proteste dei comunisti e degli antifascisti professionali, durante le prime puntate del racconto, erano in parte giustificate, ma fiacche, forse anche perchè i protestanti avevano ottenuto assicurazioni sul galoppo finale del programma.  E d’altro canto, ad esempio, l’onorevole Arrigo Boldrini, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani, come avrebbe potuto protestare contro il filofascismo della TV fino al 25 luglio, se fino a quell’epoca egli era Centurione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale?
    Vedi, Marzia, quel che avvenne in Italia dopo l’8 Settembre ha rappresentato la più dolorosa tragedia della tua Patria, ma è servito anche a dare un falso passaporto di democrazia alla maggior parte dei vigliacconi che oggi comandano.
    Quante cose, potrei raccontarti, figlia mia, di quei tempi tragici. Basterebbe ti facessi storia, e potrei fartela, di molti che oggi vanno per la maggiore con l’aureola degli eroi, per farti ridere o per farti comprendere perchè, in definitiva, tuo padre, ch’è un uomo e non un topo, è stato con “quelli” e non con “questi”.
    Ti hanno fatto vedere tante cose tristi, tanti morti, tante distruzioni, ti hanno rattristata e forse, ti hanno fatto inorridire.  Ma non è tutto.  Sappi, bambina, che molti di quei lutti sono venuti “dopo”, sono cioè scaturiti da una reazione; ma sappi, soprattutto, che la guerra civile scaturì dall’imbecillità e dalla pavidità di una classe dirigente che dopo aver servito (servito è il termine esatto) il fascismo, e dopo essere stata complice dell’entrata in guerra, ha subito la pressione dell’antifascismo “resuscitato” dopo il 25 luglio per realizzare, nel più disastroso dei modi, il più criminoso rovesciamento di fronte che la storia ricordi.
    Hai visto sui teleschermi, la strage di trecentotrenta italiani alle Fosse Ardeatine?
    Ebbene, ricorda, bambina, che essa fu dovuta a rappresaglia perchè in Roma, dichiarata “città aperta”, ventisei soldati tedeschi disarmati furono uccisi dallo scoppio d’una bomba posta a tradimento dai comunisti.  E che gli autori dell’attentato, invitati a costituirsi per evitare la rappresaglia sui detenuti, si dettero alla macchia per poter essere in grado, poi, di entrare al Parlamento italiano come deputati del Pci e come eroi della “resistenza”.
    E’ una favola truce e turpe, quella che ti hanno presentata, figlia mia; ma incompleta. Lascia, perciò, che te la racconti anch’io, che te la completi.
    C’era una volta un amico del tuo papà, aveva ventotto anni, era onesto, sincero, povero e disinteressato. Intendeva -andare verso “il popolo” perchè al popolo voleva bene: si chiamava Eugenio Facchini, e ai primi di ottobre dei 1943, quando Bologna era ancora tranquilla, fu nominato Segretario federale della città. Tre mesi dopo fu massacrato a colpi di rivoltella (nella schiena) mentre stava andando a colazione alla mensa dello studente. Fu il primo morto della guerra civile a Bologna, e dalla sua ingiusta morte, che non dava gloria o vantaggio a nessuno, vennero le prime sanguinose reazioni.
    C’era una volta un vecchio professore universitario che mai si era occupato di politica, che dal fascismo non aveva ottenuto nè onori, nè cariche, nè guadagni, era un antico nazionalista che aveva sentito la necessità di “aderire” alla Rsi e, quindi, di reagire alla resa incondizionata di Cassibile e al rovesciamento di fronte che avevano disonorato la sua Patria. Era un uomo onesto, buono, che non aveva mai fatto dei male a nessuno e fatto dei bene a tutti, era uno studioso di fama mondiale. Si chiamava Pericle Ducati, e fu massacrato a revolverate mentre, con un libro sotto il braccio, tornava a casa.
    C’era una volta, la favola è lunga, Marzia!, il più grande filosofo contemporaneo, come un giomo saprai; lo spirito forse più alto che abbia avuto l’Italia in questo secolo, e fu ucciso, mentre rientrava in famiglia, per la somma di tremila lire.  Si chiamava, pensa, Giovanni Gentile.
    C’era una volta un Poeta, cieco di guerra, cieco a ventisei anni, che quando tutto crollava aveva ritenuto suo dovere servire i Mutilati, cioè coloro i quali avevano offerto, come lui, i doni più preziosi dell’esistenza alla Patria. Fu ucciso come un cane, a revolverate, in mezzo alla strada, senza una ragione e senza pietà.  Si chiamava Carlo Borsani.
    Tra i tanti nomi che hai ascoltato alla Televisione, questi non li conosci; tra i tanti funerali che hai veduto questi sono mancati; tra i molti orrori questi non sono stati menzionati. Tu hai veduto tante bandiere tricolori che sventolavano, gioiose alla fine della guerra civile, ma non ti hanno fatto vedere, per tua fortuna, il carnaio approntato in una piazza di Milano, dove Colui che tutti avevano servito e riverito, e che non aveva voluto fuggire perchè, se lo avesse voluto, come i maramaldi della Televisione affermano, avrebbe sempre avuto un aereo sul quale imbarcarsi era appeso per i piedi, a ludibrio di una plebe imbestialita e a eterna vergogna dell’italia moderna. Non ti hanno fatto vedere, nè ti hanno detto, Marzia, che mentre quelle bandiere sventolavano e quelle “formazioni” venivano passate in rassegna dai “vittoriosi”, migliaia e migliaia di uomini, donne, giovanotti, fanciulli venivano massacrati; che in una caserma di Vercelli settanta giovani disarmati venivano schiacciati vivi e ridotti poltiglia, per ordine e sotto gli occhi di un eroe della resistenza, il ragioniere Carlo Moranino, divenuto più tardi deputato al Parlamento Italiano per questa meritoria impresa.
    Questo, figlia mia, è il completamento della favola che gli amanuensi della Televisione italiana hanno approntato, per falsare la storia, per meritare gli elogi delle classi dirigenti e per far sì che i figli, intimamente, disprezzassero i padri. Ho dovuto raccontartelo fino in fondo, e dirti che cosa fosse lo “spirito della resistenza” perchè quella tua frase: -Ma papà era con quelli? ... mi ha dolorosamente colpito. Vedi bambina, io, in tanti anni e in tante vicende, non ho mai odiato nessuno; ma quando ho appreso di quella tua domanda ho sentito, per la prima volta, Dio mi perdoni, lo stimolo dell’odio.
    D’ora in avanti, Marzia, ti farò io la storia: e ti dirò chi veramente era Mussolini, cosa fu il fascismo e cosa fummo noi, vinti, protagonisti dell’ultima e disperata avventura.  Non credevo, dopo tanti anni, quando tutto doveva essere superato e dimenticato, di dover tornare a questo.  Ma tu devi sapere, voglio che tu sappia; voglio che quando sarai grande possa insegnare ai tuoi figli le cose che ti dirà tuo padre, perchè “questi” l’hanno voluto, me l’hanno imposto.
    Voglio dunque che tu possa essere orgogliosa di me, anche e principalmente se ero con “quelli”. Sì, ero con “quelli”: ero con Mussolini, con Giovanni Gentile, con Pericle Ducati, con Goffredo Coppola, con Francesco Ercole, con Giotto Dainelli, con Marinetti. E un giorno saprai, bambina, chi erano costoro, e vedrai che erano qualcosa di più e qualcosa di meglio dei Pani, dei Cadorna, dei Moranino; potrai renderti conto che anche tuo padre era un Italiano e per di più un Italiano coerente, che ha saputo subire fino in fondo la tragedia (che è storia) della sua Patria, anche se questa colpa gli vieta oggi di poter “rettificare” le storie della Rai-Tv, compilate e realizzate dal suoi antichi camerati, trasformatisi in maramaldi.
 

Tuo padre

venerdì 11 giugno 2021

I REPARTI SPECIALI DELLA REPUBBLICA SOCIALE -- 2--

I REPARTI SPECIALI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA: RESISTENZA AGLI INVASORI ANGLOAMERICANI



ANCHE QUEI RAGAZZI FASCISTI SONO MORTI PER LA PATRIA
Pio Acquaroli
 
 
    U.N.C.R.S.I. Federazione di Caserta
    Alla Redazione Casertana del «GIORNALE DI NAPOLI» Corso Trieste, 220 CASERTA
    In riferimento alla notizia pubblicata da codesto Giornale dal titolo: «Anche quei ragazzi fascisti sono morti per la Patria» sì precisa che:
    - i tredici giovanissimi combattenti dei Servizi Speciali della Repubblica Sociale Italiana fucilati a S. Maria C.V. e alla cava di S. Angelo in Formis non sono stati «trucidati dai nazisti» ma dagli «anglo-americani».
Alleghiamo per prova le foto delle esecuzioni di alcuni di essi.
    - Si precisa, inoltre, che l'U.N.C.-R.S.I. e l'associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della R.S.I. da molti anni si battono nelle competenti sedi, perchè sia generalizzata la decisione presa di recente per onorare i sei marò della Xa MAS uccisi dagli slavi di Tito.
    Siamo certi che codesta Redazione pubblicherà, con la cortesia che la distingue, citando la fonte, questa rettifica.
    IL PRESIDENTE Pio Acquaroli 
Fucilazione di Mario Tapoli, a sinistra, e Vincenzo Tedesco, napoletano, a destra, il 30 Aprile 1944 a S. Angelo in Formis da parte di M.P. della V armata americana.
 
 
GIORNALE DI NAPOLI Quotidiano del 25-X-1992

LA VERA STORIA DI ITALO PALESSE, L'OPERAIO FUCILATO DAGLI AMERICANI IL 30 APRILE 1944 Come la Rai, a Combat Film, ha orchestrato, senza scrupoli,  il vilipendio di un morto
Giano Accame
 
 
     Caro Marcello, resta in milioni di telespettatori della prima puntata di Combat Film la forte impressione dei quattro giovani fucilati dagli americani il 30 aprile 1944 a S. Maria Capua Vetere.
    Di uno di essi, Franco Aschieri 18 anni, l'ultima lettera alla madre contiene una carica di spiritualità tale da non potersi definire altro che eroica. 
 
    Ma chi ha più impressionato è stato Italo Palesse (nella foto in alto), operaio, 22 anni, dell'Aquila, per la spavalderia con cui ha fumato l'ultima sigaretta. Nella puntata del 13 aprile, Rai, uno ha presentato come testimone dell'epoca Renato Piendibene, partigiano sui Monti della Tolfa, il quale sostiene d'aver riconosciuto in Palesse l'infiltrato che lo fece arrestare dai tedeschi con altri compagni. La testimonianza era stata già riportata dall'unità (8 aprile) col titolo: «E' lui la spia che ci ha traditi, due di noi son morti alle fosse Ardeatine». Ma l'Unità non vi ha molto insistito, avendo forse colto un'imbarazzante discrepanza: la Pasqua del 1944 era il 9 aprile, mentre il massacro delle Ardeatine era avvenuto prima, il 24 marzo.
 
    A distanza di cinquant'anni i ricordi di Piendibene si sono comprensibilmente confusi con una dose di fantasia.
    Lo stesso 8 aprile Florido Borzicchi sui giornali Il Tempo, Resto del Carlino, La Nazione, ha riferito che secondo storici locali i giovani fucilati si trovavano nel carcere di S. Maria C. V. già da diversi mesi.                            
    Giorgio Pisanò, storico della Rsi, che la Rai si è ben guardata dall'interpellare, assicura che in genere quei processi duravano non meno di un paio di mesi e quindi Palesse non poteva aggirarsi tra la Tolfa e via Tasso pochi giorni piuma della fucilazione. Seri elementi di dubbio imponevano pertanto a Rai uno, con tutti i riguardi per una persona anziana e volta al perdono, ma anche col rispetto dovuto ad un operaio caduto, di famiglia povera, dispersa, non in grado di difenderne la memoria, di sottoporre ad un vaglio più scrupoloso i ricordi di Piendibene.
    Si è limitata a depurarli dagli errori più grossolani, come quello sulle Ardeatine, orchestrando senza scrupoli il vilipendio di un morto.
    Strumentalizzazione "riparatrice" della prima puntata, consumata in pompa magna, sostituendo, come conduttore, Vittorio Zucconi con il direttore Demetrio Volcic, che se ne è così assunto in prima persona la responsabilità.
    Pio Acquaroli della Unione Nazionale Combattenti della RSI, ci ha inviato una lettera in cui sostiene, dopo aver cercato e trovato documentazione adeguata, che il «volontario dei Servizi speciali della Rsi, Italo Palesse, catturato dagli anglo-americani nel 1943 (forse dicembre) era rinchiuso con certezza alla data 21 Gennaio 1944, nella cella n° 8 della IV sezione del Carcere di S. Maria C. V., ove rimase fino al 30 aprile '44, data della fucilazione».
    Dunque, a suo avviso, il partigiano Piendibene avrebbe, nella migliore delle Ipotesi, "preso una solenne cantonata".
    Acquaroli si dichiara disponibile ad esibire il carteggio in suo possesso.
    27 aprile 1994
 
 
L'ITALIA SETTIMANALE 27 Aprile 1994 N. 16

GIOVANI EROI DELLA R.S.I. Combatfilm: una trasmissione che ha suscitato tanto scalpore
Giano Accame
 
 
    Caro Meneghini,
     mi chiedi di ricordare per Nuovo Fronte i quattro giovani fascisti fucilati come spie dagli americani a Santa Maria Capua Vetere il 30 aprile 1944 e che sono balzati a notorietà nazionale mezzo secolo dopo con la trasmissione televisiva di Combat film su Raiuno. Potei farne i nomi e chiamarli eroi perché avevo letto di loro nella Storia della guerra civile di Giorgio Pisanò, a cui tutti facciamo ricorso per ripassare le vicende di casa nostra.
    Quando, tre giorni prima della trasmissione, da Raiuno invitandomi mi suggerirono di dare un'occhiata al Radiocorriere per capire di che si trattasse, mi colpì la piccola fotografia d'un giovane con la sigaretta in bocca e legato al palo dell'esecuzione. Mi pareva d'averla già vista e la ritrovai infatti nell'opera di Pisanò, così ricca di illustrazioni e di episodi. Si trattò evidentemente di una fucilazione-spettacolo, non solo filmata dai cineoperatori americani della V Armata, ma anche fotografata. Roberto Olla, il ricercatore della Rai che è riuscito a scovare ammucchiati in un magazzino statunitense centinaia di documentari sulla campagna d'Italia, si trovò per le mani anche un filmato che portava soltanto l'indicazione di «fucilazione spie fasciste». Non i nomi, non la data, né il luogo. Tutte cose che nella «nostra» tradizione erano invece già note, benché un po' confuse con decine di migliaia di tragedie analoghe. Mi colpì, rileggendola, la straordinaria lettera scritta alla madre dal giovanissimo Franco Aschieri, studente liceale milanese di 18 anni e paracadutista, alla vigilia della fucilazione. Essa rivela una spiritualità eccezionale insieme ai tratti inconfondibili dell'eroismo. Il sacerdote che li ha assistiti, don Giuseppe Ferrario, riferì che si erano tutti e quattro devotamente comunicati, ma anche d'un suo affettuoso rimprovero a Italo Palesse, operaio de L'Aquila di 22 anni, che abbiamo visto fumare spavaldamente l'ultima sigaretta, perché in punto di morte gridò «Dio stramaledica gli inglesi» mentre aveva prima promesso di non odiare il nemico. Nel filmato parve che avesse rifiutato i conforti religiosi, mentre sapevo che non era vero e lo dissi a Vittorio Zucconi, conduttore della trasmissione. Tra le polemiche suscitate vi fu su l'Unità (7 aprile) l'intervento di uno storico comunista, Claudio Pavone, che mi ha accusato di falsità: «Uno dei tre, nel filmato, rifiutava il prete. Ma Accame ha negato l'evidenza, tra l'altro. Perché è cattolico. Quindi, quando Zucconi ha notato quel rifiuto del prete, lui ha risposto che non era vero. E Zucconi, di rimando, quasi si scusava con lui».
    E' vero: sono cattolico, oltre che fascista, ma non sono abituato a mentire. Semplicemente sapevo come erano andate le cose e riconobbi subito nelle occhiate tra Palesse ed il prete l'eco dell'episodio da lui ricordato. Zucconi mi ha creduto sulla parola. Usanze da persone educate a cui Pavone ha invece mancato per faziosità, benché avessimo avuto qualche anno prima nella redazione de il Sabato uno scambio garbato di idee sul suo libro Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991).
    C'è purtroppo di peggio. La stessa Unità (8 aprile) pubblicò una fotografia di Italo Palesse con una lunga didascalia intitolata: «E' lui la spia che ci ha traditi, due di noi son morti alle Fosse Ardeatine». Vi si riferiva i ricordi di Renato Piendibene, partigiano della brigata Maroncelli operante tra Civitavecchia ed i monti della Tolfa, che dice d'essere stato arrestato dai tedeschi insieme ad altre persone su indicazione di Palesse, infiltratosi tra i partigiani con altro nome, alla vigilia di Pasqua del 1944. Alcuni tra gli arrestati sarebbero poi finiti alle Fosse Ardeatine. Le date però non combinano, perché il sabato santo del '44 era l'8 di aprile, mentre il massacro delle Ardeatine fu compiuto quasi due settimane prima, il 24 marzo. E' quanto basta per dubitare della memoria del testimone. Inoltre gli interrogatori ed i processi degli americani duravano in genere almeno un paio di mesi. Palesse avrebbe quindi dovuto essere già da tempo loro prigioniero e non poteva contemporaneamente trovarsi sui monti della Tolfa. Secondo un servizio di Florindo Borzicchi sui quotidiani della catena Monti (Il Tempo, Il Resto del Carlino, La Nazione) dell'8 aprile, che ricavava questa notizia da un ricercatore locale, i fucilati di S. Maria Capua Vetere sarebbero stati già imprigionati da diversi mesi.
    C'erano serie ragioni già apparse sulla stampa nazionale per dubitare sui ricordi del signor Piendibene, quando il 13 aprile Raiuno senza ulteriori riscontri in una nuova puntata di Combat Film, direttamente condotta dal direttore Demetrio Volcic visto che l'obiettività di Zucconi non era piaciuta, gli ha fatto ripetere la testimonianza, depurata del particolare più inattendibile sulle Fosse Ardeatine, senza il minimo scrupolo di sporcare la memoria di un fucilato. Una persona anziana a mezzo secolo di distanza può anche sbagliare, ma un servizio di Stato non doveva permettersi, senza accertamenti rigorosi, il vilipendio di un giovane operaio morto per una sua idea di patria e che non può difendersi. Io, che sono un privato, ho passato giorni a telefonare con Pisanò, con lo storico della Xa Nesi, coi comandanti degli N.P. che compivano le azioni al sud, da Buttazzoni, a Gallitto, con il collega Borzicchi, con lo storico locale di S. Maria Capua Vetere professor Alberto Perconte Licatese, per avere maggiori dettagli sulla vicenda di Italo Palesse e dei suoi camerati. Nessuno di loro era stato interpellato da Raiuno per un riscontro.
La lapide posta a Sant'Angelo in Formis, a ricordo dei 13 giovani volontari della RSI fucilati dagli angloamericani, porta scritte le seguenti parole: "Nel gigantesco scontro del "sangue contro l'oro" qui, tra Gennaio e Maggio del 1944, nella visione di una più grande Italia in un'Europa unita, caddero fucilati dagli invasori angloamericani, i giovani soldati della RSI.
 
    Le notizie che ho finora accertate sono poche e risalgono quasi tutte alla relazione stesa dal sacerdote che li ha assistiti (ormai morto da una ventina d'anni) ed alle memorie di un vicino di cella (ma tra cella e cella sembra vi fosse un rigoroso isolamento). Non sono nemmeno riuscito a sapere di che reparto fossero: erano presumibilmente tra i primi inviati della Rsi dall'altra parte. Gli atti dei processo che portò alla loro fucilazione si possono rintracciare solo negli Stati Uniti con una ricerca non facile, lunga, costosa. L'interesse suscitato dalla trasmissione di Combat Film in milioni di telespettatori ne meriterebbe la fatica e la spesa. Sarebbe una bella tesi di laurea, ma anche un bell'argomento per un ricercatore universitario appoggiato con una borsa di studio.
    Ovviamente il tema andrebbe allargato a tutti i processi militari alleati nei confronti di quegli italiani che si avventurarono nella «resistenza» dall'altra parte.
    C'è ancora tanto da scavare per conoscere veramente la nostra storia.
    Giano Accame
 
 


I MARTIRI DEI "SERVIZI SPECIALI"
Francesco Fatica
 
 
    Caro direttore,
    a proposito dei quattro giovani carcerati dei Servizi Speciali della RSI fucilati nella cava di S. Angelo in Formis, sono in grado di aggiungere notizie che possono servire a dare maggior luce su di un episodio della lotta clandestina fascista nella Campania invasa dagli anglo-americani e dagli eserciti di mezzo mondo.
    I tre giovani Franco Aschieri, Italo Palesse e Vincenzo Tedesco, di cui la trasmissione "Combat Film" - che tanto interesse ha suscitato in milioni di spettatori - ha trasmesso le tragiche sequenze della fucilazione, erano tutti volontari, come il camerata Giorgio Tapoli, studente in medicina, fucilato nella stessa mattinata del 30 aprile 1944, non inquadrato dalla cinepresa degli invasori.
Da sinistra: Franco Aschieri, Italo Palesse, Don Ferrieri, Giorgio Tapoli, Vincenzo Tedesco. Foto scattata la mattina dell'esecuzione.
 
    Precedentemente erano stati fucilati, sempre nella stessa cava, altri agenti dei servizi speciali e molti altri ancora furono catturati e fucilati in seguito, anche altrove.
    Nei primi mesi della RSI, in mancanza di una organizzazione specifica, gli agenti dei servizi speciali si appoggiavano all'alleato tedesco. Essi, tutti volontari, provenivano da diverse armi, ma anche, talvolta, erano di fresco arruolamento, addestrati appositamente e in qualche caso, provenienti dalle file della GIL e del GUF.
    Alcuni provenivano dal collegio accademico della GILE (Giov. Ital. del Litt. all'estero) intitolato a "Costanzo Ciano" dove erano stati abilitati radiotelegrafisti.
    Franco Aschieri era figlio di una signora tedesca e del progettista dell'Università di Roma. Ad arruolarlo insieme ad altri giovanissimi volontari contribuì Ugo Esposito della Xa MAS, che aveva avuto il permesso da Borghese di mettersi a disposizione del comando tedesco per operazioni oltre le linee. Anche lui aveva frequentato il Collegio accademico della GILE "Costanzo Ciano".
    In seguito, com'è noto, furono inviati oltre le linee reparti di NP, di paracadutisti, di aderenti al PFR, singoli informatori e sabotatori, propagandisti e franchi tiratori, come avvenne nei primi giorni dell'occupazione di Firenze, dove furono fucilati sui gradini dì S. Maria Novella i giovanissimo spavaldi camerati - tra cui, voglio ricordare, c'era anche una fanciulla - di cui scrissero Giorgio Pisanò e Curzio Malaparte.
    Nella Cava di S. Angelo in Formis è stata posta una lapide che ricorda, oltre i dodici fucilati dei Servizi Speciali, il tenente di vascello Paolo Poletti, assassinato dal sergente americano di guardia nel vicino carcere di S. Maria C.V., ove era stato rinchiuso dopo essere stato torturato dall’OSS (servizio segreto americano) in una della villette isolate tra Torre dei Greco e Torre Annunziata, vicino Napoli, dove gli americani aggredivano con torture inenarrabili gli italiani a cui volevano estorcere delle informazioni. Paolo Poletti non parlò, ma per le torture subite impazzì e fu trasferito al carcere di S: Maria C. V., ove fu rinchiuso nella cella N°8, cella imbottita riservata appunto ai pazzi.
    Qui il Martire dava in escandescenze e si strappava i vestiti, per cui fu spogliato completamente e lasciato ammanettato, ma continuò angosciosamente fin quando, la mattina del 19 Maggio 1944, trovato il cancello della cella aperto, si portò nel corridoio, sempre ignudo, ammanettato e continuando a urlare. Ovviamente tutto era stato predisposto per dare una sia pur minima giustificazione al sergente americano che lo freddò barbaramente con la pistola d'ordinanza, eliminando così una scomoda testimonianza della efferatezza degli invasori. Il tenente di vascello Paolo Poletti, immolatosi venticinquenne, fu uno dei primi agenti speciali della RSI; era riuscito a farsi accreditare come ufficiale della R. Marina distaccato presso l'OSS. Aveva così carpito preziose informazioni che trasmetteva poi in RSI, ma si era poi troppo scoperto per facilitare il passaggio delle linee alla principessa Maria Pignatelli, che riuscì così ad essere ricevuta da Kesserling e da Mussolini per riferire sull'attività e sulle possibilità dell'organizzazione clandestina fascista operante nelle terre invase e capeggiata dal marito principe Valerio Pignatelli di Cerchiara.
    Sarebbe ora che, dopo cinquant'anni di colpevoli e faziose assenze dei giovani, la nuova compagine decida di sistemare adeguatamente la Cava di S. Angelo in Formis per dare le competenti onoranze ai martiri. Queste e molte altre notizie riguardanti la lotta clandestina ha raccolto e sta raccogliendo il Centro Studi e Documentazioni sulla lotta clandestina fascista nelle terre occupate dagli anglo-americani 1943-1945 C/O federazione UNCRSI via Bellini, 67, 80135 Napoli, Fax 5442447,tel.081/5495081 089/876735.
    Francesco Fatica
    Napoli
 
 


«SABOTATORI» DELLA RSI FUCILATI DAGLI ALLEATI Furono trattati come spie degne di disprezzo e presto furono dimenticati: in realtà furono dei puri eroi
Filippo Giannini
 
 
    Nell'estate 1944 aerei angloamericani, insieme alle bombe, lanciarono dei «volantini» che annunciavano l'avvenuta esecuzione di giovani «sabotatori» appartenenti ai «Reparti Speciali» della RSI.
    Insieme alla logica del «bombardamento a tappeto», il lancio di questi «volantini», rientrava nella tecnica alleata della «guerra del terrore». 
    Infatti il padre di uno di questi giovani (Alfonso Guadagno) apprese in questo modo incivile l'avvenuta esecuzione del figlio. Interessante, dal punto di vista storico, il testo di questi «manifestini», da uno dei quali ne stralciamo una parte. Su un lato del foglio erano stampate le foto dei giovani giustiziati, sul retro venivano indicati i loro nomi, il luogo e la data di nascita. Il testo così continuava:
    «Prima di loro altre spie sono state passate per le armi, benché nei loro casi non furono buttati manifestini. Inoltre, altri ancora sono stati già catturati e finiranno davanti ai plotoni d'esecuzione alleati (... ) Ma gli Alleati non possono essere generosi in casi di tale gravità. La legge internazionale ammette la pena di morte quale punizione dei reati di spionaggio e sabotaggio. Le Nazioni Unite intendono applicare questa legge (... )».
    Il messaggio continua con altre minacce rivolte a quei giovani che avessero voluto seguire l'esempio dei catturati e candidati alla fucilazione.
    La «legge internazionale», alla quale gli Alleati nel loro «volantino» fanno riferimento, è quella dell'Aja, aggiornata poi con quella di Ginevra: «(Art. 4) Gli illegittimi combattenti vengono dovunque perseguiti con pene severissime e sono generalmente sottoposti alla pena capitale. Nella guerra terrestre i franchi tiratori che operano nelle retrovie nemiche, infiltrandosi alla spicciolata sotto mentite spoglie, vengono passati per le armi in caso di cattura, lo stesso dicasi per i sabotatori».
    Quindi, quei giovani appartenenti ai «Reparti Speciali» della RSI, se catturati dagli Alleati «sotto mentite spoglie» (non in uniforme regolamentare) erano passibili della pena di morte. E nulla abbiamo da eccepire su tutto ciò. Solo una rapida e semplice considerazione: passibili della stessa pena, perché il reato era identico, lo erano anche «i partigiani» nella RSI. In realtà il governo della RSI agì con moderazione, perché la gran parte dei franchi tiratori fu rinchiusa in prigione (i più pericolosi considerati ostaggi a difesa di attentati), molti altri, dietro loro richiesta e previo formale impegno a non nuocere più alle Unità della RSI, venivano inviati come «lavoratori militarizzati» nei «Battaglioni Complementi». Nella maggioranza dei casi, questi mantennero il loro impegno sino alla fine delle ostilità.
    Dopo il disastro dell'8 settembre '43, la resistenza contro le forze occupanti angloamericane, nel Sud d'Italia, fu condotta da elementi fascisti. Queste erano piccole formazioni clandestine che operavano isolatamente, ma delle quali sarà opportuno fare la storia.
    Nel Nord, in seno alla nascente RSI, si formarono «Servizi Speciali», nei quali operavano giovani volontari, di entrambi i sessi che, superato il periodo d'addestramento, venivano paracadutati o sbarcati da sommergibili o, ancor più semplicemente (ma audacemente) attraversavano le linee del fronte per operare con azioni di sabotaggio e raccolta di informazioni. Il loro numero era di circa 4000 volontari e di questi, tra i 70 e i 100, furono catturati e passati per le armi.
    La testimonianza di coloro che furono accanto a questi giovani negli ultimi istanti della loro breve vita, può offrire un quadro della fine stoica di alcuni di loro.
    In questi anni di grande confusione morale è bene ricordare che quei ragazzi, come vedremo, provenivano da ogni regione d'Italia, dal Nord al «profondo» Sud.
    I primi:
    Mauro Bertoli nato a Massa Apuania il 23 giugno 1925 e Luigi Cancellieri nato a Monteroni di Lecce l'l1 gennaio 1925. Entrambi reagirono con sdegno all'armistizio dell'8 settembre e presentatisi alle autorità della RSI, espressero il desiderio di essere arruolati nei «Servizi Speciali» dell'Esercito repubblicano. Iniziarono immediatamente le missioni loro assegnate. Nell'ultima di queste, furono catturati dagli inglesi nel dicembre 1943. Sottoposti a sevizie non rivelarono nulla che potesse compromettere le missioni degli altri componenti del loro «Gruppo».
    La mattina del 21 gennaio 1944 vennero caricati su un camion e trasportati sul luogo dell'esecuzione, in una cava di S. Angelo in Formis. Così don Nacca, parroco di S. Erasmo, che li assistette sino all'ultimo, li ricorda:
    «I supremi valori della fede cattolica furono per essi il viatico sicuro per affrontare sereni e coscienti la realtà ultraterrena (un'ora prima della morte essi consumarono il pranzo rituale con un tal senso di giovialità da far pensare a me che tra la vita terrena e quella celeste per essi non c’era alcun distacco(...). Il Duce era per essi qualcosa di sacro e perciò meritorio della loro immolazione. Ricevuto l'ordine di uscire di cella per essere tradotti al posto dell'esecuzione, mi raccomandarono ancora una volta: - Padre, dica alle nostre mamme che il nostro cuore non morirà, ma sarà sempre vivo e bruciante d'amore per esse (...). Affrontarono la morte senza scomporsi, con la fronte alta e senza paura (...)».
    Marino Canteli, nato a S. Giovanni in Persiceto (Bo) il 21 giugno 1922 ed Enrico Menicocci, nato a Marsiglia il 19 marzo 1924.
    Dopo la cattura, gli interrogatori e il giudizio, furono condotti anche loro, il 16 aprile 1944, nelle cave di S. Angelo in Formis. Don Umberto Piccirillo, parroco di Portico, lasciò questa testimonianza:
    Il 30 aprile 1944 fu la volta di:
    Italo Palesse, nato a Cavalletto d'Ocre (Aq) il 10 ottobre 1921; Franco Aschieri, nato a Milano il 26 aprile 1926; Mario Tapoli, nato a Roma il 4 giugno 1925; Vincenzo Tedesco, nato a Napoli il 14 aprile 1925.
    Di questo gruppo, Italo Palesse, a seguito di una recente trasmissione televisiva (Combat Movie), è noto perché su di lui si scagliò una menzogna comunista, poi smascherata.
    Franco Aschieri, figlio di un noto architetto, quando fu catturato, essendo poco più che diciassettenne, fu portato in un campo di prigionia algerino, poi, appena compiuti i diciotto anni, riportato in Italia per essere fucilato.
    Ecco come li ricorda don Giuseppe Ferriero in uno stralcio delle sue memorie:
    Per la notevole carica di spiritualità contenuta nell'ultima lettera scritta da Franco Aschieri alla madre, è doveroso citare, almeno, i passi più toccanti:
    Il 6 maggio 1944, a S. Maria Capua Vetere furono portati davanti al plotone d'esecuzione:
    Alfredo Calligaro, nato a Campolongo (Ud) il 16 agosto 1918; Domenico Donnini, nato a Urbania (Ps) il 19 febbraio 1919; Virgilio Scarpellini, nato a Ronica (Bg) il 22 gennaio 1925 e Giulio Sebastianelli, nato a Cupramontana (An) il 13 agosto 1915.
    Anche il «Comitato per le Onoranze ai Caduti della RSI» di S. Angelo in Formis (come più avanti avremo modo di ricordare), nulla sa dei primi due, ma è accertato che tutti appartenevano alla Xa MAS.
    Di Virgilio Scarpellini si sa che dopo varie missioni, svolte con esito positivo, l'ultima affidata riguardava la polveriera di Aversa. Scarpellini riuscì a far saltare il deposito ma, mentre tentava di raggiungere il sommergibile che lo avrebbe riportato nelle proprie linee, fu catturato.
    Gli Alleati tentarono per 18 giorni di farlo parlare, ma non riuscirono ad infrangere la ferma decisione del giovane. Portato davanti al plotone d'esecuzione, accompagnato da don Alfredo Contini (che dopo pochi giorni morì) intonò l'Ave Maria di Schubert. Al momento del «nunc et in hora mortis nostrae» fu fulminato dalla scarica di dodici moschetti.
    L'ultima lettera fu inviata ai fratelli:
    Ed ora un fatto che disonora l'etica militare degli Alleati: essi requisivano, per svolgere i loro interrogatori, alcune villette isolate nei pressi di Napoli. Qui essi usavano torturare i giovani dei «Servizi Speciali» che cadevano nelle loro mani. Paolo Poletti, nato a Firenze il 26 ottobre 1919, subì sevizie tanto atroci che impazzì. I1 giovane fu ammanettato e rinchiuso in cella, ma urlava in continuazione, si strappava i vestiti di dosso, si graffiava. Gli americani escogitarono la soluzione «Yankee»: un giorno il Poletti, sempre in preda al delirio, poggiò le mani contro la porta della cella che «stranamente era stata dimenticata socchiusa». Il povero giovane, sempre urlando, uscì nel corridoio ingiuriando la guardia, la quale gli scaricò contro la sua pistola d'ordinanza. Il tentativo di fuga fu la giustificazione per eliminare un testimone pericoloso. Il suo corpo fu portato di nuovo in cella ove rimase per due giorni; dopodiché fu «pigiato con forza» in una cassa troppo stretta per contenere agevolmente la sua taglia.
    Alfonso Guadagni, nato ad Afragola (Na) il 7 aprile 1925; Ennio Viviani, nato a Verona il 18 settembre 1926 e Vito Bertolozzi, luogo e data di nascita ignoti per questi due ultimi, ma tutti e tre furono fucilati il 31 maggio 1944 a Nisida. Andarono alla morte con ammirevole dignità. Ennio Viviani, data la sua giovane età non avrebbe dovuto essere portato davanti al plotone d'esecuzione. Condotto nel luogo del martirio «morì cantando gli inni della Patria e inneggiando al Duce».
    21 giugno 1944 a Nisida è la volta di Pietro Brambilia, nato a Milano l'l1 dicembre 1916: «Pregò e si fece legare al palo, affrontando la morte con coraggio e con spirito di sacrificio».
    Silvio Bartolini, nato a Piacenza il 29 gennaio 1920, venne fucilato il 24 agosto 1944. «Fatto sedere incappucciato su una sedia morì gridando Viva l'Italia».
    Carmelo Fiandro [*1 nota di italia-rsi], fucilato insieme ad altri tre; si ignorano i nomi di questi ultimi e il luogo dell'esecuzione.
    I Caduti sopra citati, riguardano i fucilati nell'Italia centro meridionale. Ma man mano che il fronte si spostava verso Nord, l'attività dei Servizi Speciali si ripeteva quasi senza soluzione di continuità, quindi la cattura e, purtroppo, le esecuzioni.
    Il 26 novembre 1944 alle Cave di Majano (Fi) venne fucilato Ruy Blas Biagi. Sempre a Firenze, il 6 dicembre 1944, Luigi Piras e Franco Berselli. L'l1 gennaio 1945 fu la volta di Angelo Lencioni. Mario Martinelli e Giuseppe Boni furono fucilati il 30 gennaio 1945. Goffredo Agostini, Raffaele Venturini e Giorgio Simino caddero il 14 febbraio 1945. Domenico Muscatiello e Ermete Benvenuti vennero fucilati alla vigilia di Pasqua pochi giorni prima della fine della guerra.
 
Roma 1944. I fascisti Sabelli e Testorio condannati per attività clandestina, salutano romanamente il plotone d'esecuzione britannico [*2 nota di italia-rsi]. E' interessante sapere che nei primissimi mesi del 1998 l'apertura di archivi dei servizi speciali britannici ha rivelato che nell'immediato dopoguerra agenti inglesi, fuori dalle regole internazionali, continuarono a cercare e ad uccidere i comandanti tedeschi ritenuti responsabili della fucilazione di agenti britannici infiltratisi in Germania e scoperti. 
 
 
    Franco Sabelli e Armando Testorio entrambi romani furono gli ultimi ad affrontare il plotone d'esecuzione. L'8 settembre '43 non accettarono la resa e si arruolarono nelle SS. Quando Roma cadde sotto l'occupazione alleata, i due restarono in città per svolgere azioni di disturbo e trasmettere informazioni. Identificati, furono condannati a morte e fucilati il 26 giugno 1945. L'esecuzione avvenne a Forte Bravetta; prima della scarica mortale alzarono il braccio al saluto romano e intonarono «Giovinezza». Questo fatto, già di per sé drammatico, si arricchì di un altro episodio sublime: poche ore dopo l'esecuzione, la giovane moglie di Testorio, Nella, si uccise gettandosi da una finestra della sua abitazione. Sul suo corpo venne trovata una lettera il cui testo riportiamo integralmente:
    Una valida testimonianza è offerta da un volume, ormai introvabile e scritto nel dopoguerra, dal titolo: «Madre Lotta» di Rico Covella di Bari. Questi faceva parte dei «Servizi Speciali», fu catturato e scampò al plotone d'esecuzione perché, all'epoca, appena diciassettenne. Conobbe molti giovani rinchiusi con lui nelle carceri di S. Maria Capua Vetere e ci ha lasciato preziosi ricordi. «Madre Lotta», pagg. 36-37:
 
 
 
    Nello svolgere le ricerche per questo lavoro, con rammarico ho notato che mancano notizie delle identità, del luogo di sepoltura e ogni altra informazione riguardanti tanti giovani dei «Reparti Speciali» che affrontarono la morte ad opera degli angloamericani. Alcune salme di questi militari della RSI sono state recuperate grazie all'ammirevole dedizione del «Comitato Sezionale per le Onoranze ai Caduti della RSI fucilati dagli angloamericani a S. Angelo in Fortis nel 1944», con sede in S. M. Capua Vetere. Ma la nobile iniziativa sostenuta dal capitano Vittorio Corradini, dalla famiglia Sparaco, dalla signora Monticelli, dal dott. Piccirillo, dal dott. Acquaroli e da tutti i componenti il «Comitato» deve essere sostenuta da organismi che dispongano di maggiori poteri. In caso contrario la memoria di tanti ragazzi che con tanto amore hanno donato la loro vita, andrà perduta.
 
 
STORIA VERITA’ N. 17 Settembre-Ottobre 1993. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
 
 

COME SI PUO' STRUMENTALIZZARE UNA TRAGEDIA Ancora sui servizi speciali della RSI
Lettera di Filippo Giannini
 
 
    Caro Direttore, «la menzogna in bocca a un comunista è una verità rivoluzionaria». Lo ha detto Lenin.
    La menzogna che andrò a denunciare si è svolta in due fasi
    e si è avvalsa di due personaggi principali: Renato Piendibene, nativo di Civitavecchia, partigiano, ed Italo Palesse, di Cavalletto d'Ocri (l'Aquila), milite della Rsi.
    Prima fase: 6 aprile 1994. La prima puntata della trasmissione tv «Combat Film» creò forte turbamento nel pubblico per le crude immagini da «bassa macelleria» di Piazzale Loreto e per la presentazione «quasi in diretta» della fucilazione di quattro giovani appartenenti ai «servizi speciali» della Rsi. Il coraggio dimostrato da quei ragazzi (tra i quali Italo Palesse), di fronte al plotone d'esecuzione americano, aveva toccato la pubblica opinione. Il partito «progressista», che tuttora controlla la Rai, scese in campo per rimettere «le cose al posto giusto».
    13 aprile 1994. Il conduttore della prima puntata del documento fu indotto a rinunciare all'incarico e sostituito, addirittura, da Demetrio Volcic, che diresse la trasmissione «Combat Film» di quella sera, nella quale fu presentato il partigiano Renato Piendibene che, durante la lunga intervista, accusò uno dei giovani fucilati di essere una spia che «alla vigilia di Pasqua» del 1944 aveva consegnato lui ed i suoi compagni alle SS tedesche. Stando all'esposizione del signor Piendibene, portato a via Tasso, lì avrebbe rivisto la «spia».
    Tutta la vicenda si svolge entro due date fisse: la vigilia di Pasqua, cioè l'8 aprile 1944, giorno della cattura dei partigiani e il 30 aprile, sempre in quell'anno, giorno della fucilazione di Italo Palesse.
    Dalla scheda ritrovata in via Tasso della «presa in consegna» risulta che il signor Piendibene vi entrò il 30 maggio 1944, quindi esattamente 30 giorni dopo la morte di Italo Palesse, la «spia». Incontrare un fucilato, anche se a via Tasso, è cosa difficilmente spiegabile.
    Ancora: l'8 aprile, ma di quest'anno (1994) il signor Piendibene rilasciò un'intervista a «L'Unità» nella quale attestò: «E' lui la spia che ci ha traditi, due di noi sono morti alle Fosse Ardeatine». Ora, se si considera che Piendibene e i suoi compagni, come abbiamo visto, caddero in mano delle SS l'8 aprile 1944 (la «vigilia di Pasqua») e l'eccidio alle Fosse Ardeatine fu perpetrato il 25 marzo di quell'anno, la rozzezza della menzogna risulta evidente.    
    Quando questo fu fatto notare, è scattata la seconda fase: diversi quotidiani ricevettero una «nota d'agenzia» nella quale il signor Piendibene dichiarava che nell'intervista tv non aveva mai indicato Italo Palesse come l’infiltrato, ma un certo De Angelis, e che i due trucidati alle Fosse Ardeatine altri non erano che i «civitavecchiesi Chiricozzi e Margioni rastrellati in via del Tritone».
    Si tratta, quindi, di stabilire la vera identità del ragazzo legato al palo in attesa dell'esecuzione e indicato ripetutamente da Piendibene come la «spia» o «l'infiltrato».
    E' fuor di dubbio che il signor Piendibene, nell’intervista televisiva, dichiarò (testualmente): «Come non lo conosco? E' proprio lui (... )». Alla domanda dell'intervistatore: «L'ha riconosciuto subito l'altra sera?», il signor Piendibene replicò: «Subito, subito, mi sono pure sentito male quando l'ho visto (... )». Poi più avanti: «... un'altra prova che è stato lui a farmi arrestare, era che mi fu presentato dentro gli uffici delle SS a via Tasso».
    Concludendo: il titolo apparso su «l’Unità» dell'8 aprile scorso era chiarissimo: «E' lui la spia che ci ha traditi, due di noi sono morti alle Fosse Ardeatine»; se concediamo per vera la rettifica, questa avvalora ancor di più l'intento di strumentalizzazione della prima versione: «Per due di noi ... » è evidente che intendesse due
    appartenenti alla «Banda Maroncelli», alla quale il signor Piendibene si vanta di aver appartenuto. E' fuor di dubbio che la persona ripetutamente indicata sul teleschermo dal signor Piendibene quale «spia» altri non era che Italo Palesse e non De Angelis, nome mai menzionato durante la lunga intervista e nominato solo nella «nota».
    Ad ulteriore prova:
    a) anche l’intervistatore conosceva il nome del giovane legato al palo: infatti chiese al signor Piendibene (testualmente): «Lui, insomma, faceva la staffetta partigiana, questo Italo Palesse?». La risposta del signor Piendibene: «Sì, faceva, viveva in mezzo a noi partigiani ... » ;
    b)i parenti di Italo Palesse tuttora residenti a Cavalletto d'Ocri;
    c)i volantini lanciati sul Centro-Nord Italia nel 1944 dagli angloamericani, che comunicavano l'avvenuta esecuzione di dieci agenti della Rsi e fra questi era chiaramente indicato nome, luogo e data di nascita di Italo Palesse;
    d)la testimonianza di Rico Covella (unico sopravvissuto
    fra i 70 appartenenti ai "Reparti speciali", perché all’epoca, diciassettenne) che nel suo libro «Madre Lotta», a pag. 32, attesta che Italo Palesse era presente, con lui, sin dal gennaio 1944 nel carcere di S.M. Capua Vetere cella N. 8;
    e)l'opuscolo «Soldati della Rsi fucilati dagli angloamericani» ove a pag. 13 appare la foto di quattro giovani in attesa di essere fucilati il 30 aprile 1944 e fra loro è indicato Italo Palesse;
    f)la testimonianza del cappellano don Giuseppe Ferriero, confessore dei quattro giovani, che nelle sue memorie fra l'altro attesta: «30 aprile 1944, sempre nelle cave di pozzolana, cadono Franco Aschieri di Milano, paracadutista, classe 1926; Mario Timperi (alias Giorgio Tapoli) nato a Roma il 24 giugno 1925; Italo Palesse, nato a Cavalletto d'Ocri (Aquila) il 10 ottobre 1921 e Vincenzo Tedesco nato a Napoli il 14 aprile 1925. Andarono alla morte cantando ... ». Dopo aver descritto la fucilazione dei primi due giovani, don Ferriero così continua: «Quello di Aquila si toglie anche lui la camicia. Lo legano, desidera una sigaretta ... ».
    Come si evince da queste testimonianze, tutto quadra con quanto si vide su «Combat Film».
                                                                    Filippo Giannini
    
    
NUOVO FRONTE N. 145-146 Agosto Settembre 1994

 
 
 
Cade fucilato Franco Aschieri. Gli è accanto Don Ferrieri
 
Italo Palesse pochi istanti prima di essere fucilato.
 
 
 
        «Il 16 aprile 1944 Monsignor Beccarini, arcivescovo di Capua, mi ordinò di recarmi nel carcere di S. Maria Capua Vetere per portare la parola di conforto ai giovani fascisti, Cantelli e Menicocci, ambedue condannati a morte nel marzo '44 (...). Un nodo mi stringeva la gola. Dopo quasi otto mesi mi trovavo di nuovo dinanzi ai rappresentanti della vera Patria che dagli invasori venivano considerati come traditori, ma dalla gente bennata erano considerati come veri e degni figli d'Italia. Li abbracciai in carcere e li confessai. (... ) Alle ore 9,45 siamo usciti dalle celle. Nel carcere, per ogni dove, si sentivano le grida degli altri carcerati che piangevano per la triste sorte dei loro fratelli (...). Alla cava di pietra, ai due paletti già pronti, furono legati con una fune. Una benda copriva i loro occhi ed un mirino venne posto sul loro cuore. I giovani avrebbero voluto essere liberati dalle bende per guardare ancora una volta, come essi dicevano, in faccia i loro giustizieri, perdonarli forse e morire, ancora una volta guardando e salutando il bel cielo d'Italia, per la quale avevano tanto sofferto e lottato».
        Una scarica di otto fucili li fulminò all'istante».
    «Li trovai che cantavano. Appena mi videro stettero zitti, e quando il cancello di ferro si aprì, mi si strinsero intorno... Il milanese e il romano erano biondi, quello di Aquila bruno, robusto, con un'aquila sul petto; il napoletano bassotto con i calzoni da ufficiale (...). Un militare della M.P. mi disse che avevo altri due minuti di tempo. - Siamo già pronti - fu la risposta. Li volli accompagnare sul luogo del supplizio... Uscii con due di loro fra quattro M.P. americani armati. Il pianto dei carcerati ci accolse alla uscita del corridoio (...). I due, il romano, studente in medicina, e il napoletano risposero inneggiando all'Italia fascista (...). Arrivammo. Due pali in una partita di grano verde, dietro una cava di pozzolana (...). Eccoli vicino al palo, il romano si toglie la camicia. Mi dice che non vuol farsela bucare. Gli legano le mani. E’ sorridente (...). Passo al napoletano, sorridente, bruno, carino. Mi raccomandano le lettere che hanno scritto ai loro cari (...) . Due soldati caricano i dodici moschetti. Un comando secco; puntano il fucile; un terzo comando ancora; parte la raffica. Vidi cadere i cari giovani, mi avvicinai a loro recitando tre Requiem e un De Profundis per ciascuno (...) Si vanno a rilevare gli altri due, che arrivano alle 11,45. Appena mi vedono mi sorridono; hanno trovato un viso amico che è lì per confortarli. Quello di Aquila si toglie anche lui la camicia. Lo legano, desidera una sigaretta (...). Mentre lo legano, il milanese grida tre volte: - Viva il Duce - e l'altro risponde: - Viva - E ancora: - Dio stramaledica gli inglesi! - Io lo guardo e lui capisce: avevo detto loro di non odiare il nemico. Poi i soliti comandi secchi. Li vidi piegarsi pian piano. Ascoltai il loro rantolo: i colpi non erano stati precisi come la  prima volta. Che strazio al mio cuore (...)».
        «Cara mamma, con l'animo pienamente sereno mi preparo a lasciare questa vita che per me è stata così breve e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze sensazionali (...). Ti prego, mamma, fa che il mio distacco da questa vita non sia accompagnato da lacrime, ma sia allietato dalla gioia serena di quegli animi eletti che sono consapevoli del significato di questo trapasso. Ieri, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che avevo già conosciuta da bambino: ho sentito cioè che il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva fino a divenire immenso (...). Non ho alcun risentimento per coloro che stanno per uccidermi perché so che non sono che degli strumenti scelti da Dio (...). Io resterò vicino a te per sostenerti e aiutarti finché non verrai a raggiungermi; perché sono certo che i nostri spiriti continueranno insieme il loro cammino di redenzione (...). In questo momento sono lì da te e ti bacio per l'ultima volta, e con te papà e tutti gli altri cari che lascio. Cara mamma termino la lettera perché il tempo dei condannati a morte è contato fino al secondo. Sono contento della morte che mi è destinata perché è una delle più belle, essendo legata ad un sacro ideale. Io cado ucciso in questa immensa battaglia per la salvezza dello spirito e della civiltà, ma so che altri continueranno la lotta per la vittoria che la Giustizia non può che assegnare a noi. Viva il fascismo. Viva l'Europa. Franco».
    «Muoio con l'animo tranquillo perché ho la coscienza di aver dato tutto, con slancio e devozione, alla mia Patria, che ho amato più di me stesso, della mia famiglia e, forse, di Dio. Fratelli cari, non maledite la mia idea né il mio gesto: ho fatto quello che ogni italiano aveva il dovere di fare (...)».
 
                NOTE di italia-rsi:
                [*1 nota di italia-rsi] Nella sezione Cyberamanuensi della antologia italia-rsi abbiamo raccolto una memoria di un familiare del Caduto Carmelo Fiandro che riporta la relazione (completa di altri nomi) scritta dal sacerdote che seguì la vicenda e che la famiglia Fiandro ha ricevuto, al Cairo, dopo un anno dall'accaduto:
                memoria sul Caduto Carmelo Fiandro
                [*2 nota di italia-rsi]
                Purtroppo siamo stati successivamente informati che il plotone di fucilazione dei giovani Sabelli e Testorio, rivestito con le divise dell'invasore, era composto da italiani delle truppe collaborazioniste dell'esercito degli Alleati. 
    «Il 26 giugno 1945. Raggiungo mio marito al di là. Mai più nessuno potrà fucilarmelo, mai più nessuno potrà dividerci: in ciò i signori comunisti sono impotenti. E voi, ministro Togliatti, che fino all'ultimo siete voluto essere vigliacco, come tutti i vostri degni compagni, allungando inutilmente lo spasimo di due vite che vivevano l'una per l'altra, possiate essere maledetto. A me spetta l’eterna felicità, egli mi attende. Desidero che siano rispettati tutti i desideri di mio marito, e che vengano con me le foto del nostro adorato bimbo e dell'unico uomo che nella mia vita ho amato. Gualtieruccio caro, mamma e papà veglieranno sempre su di te. Nella Testorio. A morte il comunismo!»
     (...) Ma ecco ancora rumore di chiavistelli ed il cancello si apre: è il rancio speciale per Rico, minorenne (...). Il cancello si riapre, entra un ufficiale americano e consegna ai tre, dei fogli di velina, uno per uno: sono i fogli di comparizione in giudizio e contengono i capi di imputazione che sono uguali per tutti. La causa è fissata a quattro giorni dopo (...). Il difensore, un capitano dell'esercito inglese arriva il giorno prima del processo: - Siete stati arrestati in divisa? - Chiede - No - risponde Mauro (Mauro Bertoli ndr) - Eravamo in borghese - Allora non c'è alcuna speranza- Replica l'inglese e si accomiata.
        Il processo comincia l'indomani in un'aula del Tribunale di S. Maria Capua Vetere a porte chiuse e dura due giorni.
        Un interprete dell'esercito americano traduce in uno sgradevole italiano: - Siete condannati a morte per fucilazione a mezzo moschetto - Vi è un moto impercettibile di Mauro verso Rico - Sta su - gli sibila senza girarsi - Sta tranquillo è passata - gli risponde Rico, immobile anche lui.
        I tre giovani vengono accompagnati all'uscita e, su una camionetta, ricondotti in carcere.
        La camerata, solitamente fredda, ha un tepore accogliente quella sera.
        - Scusami per un momento fa - dice Mauro a Rico appena soli - ma ti ho visto impallidire-.
        - Avevo capito già prima - spiega Rico -  avevo afferrata la parola «dead», ma quel porco di interprete l'ha detta in un modo!... ho dovuto farmi forza per non vomitare - .
        (...) - Speriamo che ci facciano scrivere a casa - dice Mauro - vorrei preparare mamma (...)
        (...) Sono in attesa Mauro e Gino (Luigi Cancellieri ndr) silenziosi, alla finestra della cella numero 1. Nel cortile sostano chiacchierando fra loro gruppi di ufficiali, americani, inglesi, italiani ed alcuni civili. La porta di accesso al cortile si apre per lasciare entrare un nuovo gruppo di ufficiali alleati: sono insieme per una ragione. Attraversano tutto l'atrio e si avviano all'ingresso dell'ala che ospita i ragazzi. Rico sente, dai loro passi che oltrepassano la porta della sua stanza: sono diretti alla stanza n. 4; vi entrano ed un interprete traduce a Mauro e Gino, in piedi, il dispositivo della sentenza che sarà eseguita quella mattina.
        Due preti si sostituiscono agli ufficiali.
        - Sei pentito di quello che hai fatto? 
        - Non ho nulla da pentirmi, se fosse necessario tornerei a servire l'Italia allo stesso modo
        -Desiderate qualcosa in particolare? -  domandano prima di accomiatarsi. 
        - Se fosse possibile una buona mangiata -  dice Gino - è quasi mezzogiorno! Ma non ho più alcun appetito
        Quando un sergente americano arriva con un grande vassoio, aiutato da Mauro, Gino raccoglie tutto nelle scodelle del carcere e le depone sulla brandina di Rico, poi si fruga le tasche, ne estrae le poche sigarette che gli hanno offerto quella mattina e le depone accanto alle scodelle, coi cerini. Quando li portano via, passano dinanzi alla porta della cella n. 1, ma sono ormai lontani da ogni cosa; dietro la porta della cella, Rico è appeso col corpo abbandonato, con le mani serrate sulle sbarre della finestrella. E’ un bene che non abbia avuto la forza di tirarsi su, forse avrebbe gridato, forse avrebbe urlato, forse avrebbe turbato i suoi fratelli.
        Riesce ad arrivare alla finestra del cortile e li vede andare, dritti come uomini, ognuno fra quattro nemici.
        Legati al palo, Mauro si affloscia solo dopo la scarica.
        A Gino, prima del «fuoco», manca la forza fisica nei ginocchi; il capo, incredibilmente ricciuto, è eretto (...)
* * * * * * * * * * * * * * * *
"DOPO QUASI OTTO MESI MI TROVAVO DI NUOVO DINANZI AI RAPPRESENTANTI DELLA VERA PATRIA..."
Don Umberto Peccerillo - Parroco
 
 
    Il 16 aprile 1944 nella stessa cava di pozzolana vennero fucilati MARINO CANTELLI di Luigi e di Bussolari Ambellina, nato a S. Giovanni in Persiceto (Bologna) il 21-VI-1922, del quale non ci è noto né il grado, né il reparto militare, ed ENRICO MENICOCCI di Rizzieri e di Spadani Ildegonda, nato a Marsiglia il 19-111-1924, del quale parimenti è sconosciuto il grado e il reparto militare.
    Ecco la relazione del sacerdote che li assistette sacerdote che li assistette, don Umberto Peccerillo parroco di Portico:
    «Nel sedici aprile 1944 Monsignor Baccarini, Arciverscovo di Capua, mi obbligava ad andare nel carcere di S. Maria C. V. per portare la parola di conforto ai giovani fascisti Cantelli Marino e Menicocci Enrico, ambedue condannati a morte nel marzo del 1944.
    «Alle ore 7 precise antimeridiane mi trovai nel carcere suddetto e bruciavo dal desiderio di avvicinare subito detti giovani per dire la parola della religione ad essi che erano in procinto di spiccare il volo per l'eternità. Un nodo mi stringeva alla gola. Dopo quasi otto mesi mi trovavo di nuovo dinanzi ai rappresentanti della vera Patria che dagli invasori venivano considerati come traditori, ma dalla gente bennata erano considerati come i degni figli d'Italia, purissimi eroi che avrebbero preparato la riscossa per perpetuare, idealmente allora e realmente in seguito, la tradizione di operosità fascista che in vent'anni aveva rialzate le sorti d'Italia.
    «Li abbracciai in carcere e li confessai. I Sacramenti loro amministrati furono la mia edificazione. Forse nel mio ministero parrocchiale non ho trovato ancora giovani d'oro come quelli che, genuflessi dinanzi a me, stavano per ascoltare la parola del Signore. Dopo la confessione, in un cantuccio del carcere piangevo dirottamente al vedermi circondato da quella plebaglia di sbirri inglesi che armati di tutto punto mi guardavano in cagnesco. Alle ore 9,45 siamo usciti dalle celle. Che scena di terrore! Nel carcere da per ogni dove si sentivano grida di terrore degli altri carcerati condannati per reati comuni che piangevano per la triste sorte dei loro fratelli; sembrava che a momenti fosse scoppiata la rivolta tra gli agenti di custodia e gli inglesi.
    «Tre macchine accompagnarono il triste corteo, una prima di indiani, la seconda con i condananti e la terza portava me ed un maggiore americano al luogo della «giustizia». 
    Alla Cava di pietra due paletti erano pronti, vicino ai quali con una fune furono legati i due giovani. Una benda copriva i loro occhi ed un mirino veniva posto sul loro cuore. Detti giovani avrebbero voluto essere liberati da dette bende per guardare ancora una volta, come essi dicevano, in faccia i loro giustizieri, perdonarli forse e morire, ancora una volta guardando e salutando il bel cielo d'Italia per la quale avevano tanto sofferto e lottato. Una scarica di otto fucili li fulminava sull'istante. In due casse già pronte venivano composte le loro salme e poi portati al cimitero di S. Maria C. V. Onore e gloria agli eroi ed ai patrioti che dal cielo assisteranno alla resurrezione della Patria calpestata. Il loro spirito aleggerà attorno ai veri loro compagni che nel fecondo silenzio dell'Idea che non morrà aspettano il momento di poter loro innalzare un cippo marmoreo che dovrà essere la piccola Fiamma che dovrà accendere il sacro fuoco apportatore di luce nella Patria infranta ma non abbattuta».
 
 
LETTERE DEI CADUTI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA [stralcio da] L’Ultima Crociata Editrice. 1990 Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)

sabato 5 giugno 2021

ESSERE UNA FIAMMA BIANCA

 

FIAMME BIANCHE



ESSERE UNA FIAMMA BIANCA Una lettera appassionata, un ricordo indelebile!
Eros Perugini
 
 
    Giovanissimo, avevo allora 14 anni, aderii ai Reparti Avanguardisti dell' O.B., costituitisi nei primi  mesi dell'anno 1944 a Milano. Il gruppo del quale facevo parte, si trovava presso la scuola "Fratelli  Bandiera" che a sua volta dipendeva dalla Sede Centrale di via Conservatorio. Questo reparto era  suddiviso in tre plotoni per un totale di circa 150 giovani, comandati da un ufficiale delle Brigate  Nere.
    Ricordo che eravamo così ben organizzati da sembrare una piccola accademia militare. Avevamo  diversi insegnanti qualificati. Alcuni operavano come dopo-scuola insegnando materie scolastiche,  altri si dedicavano all'educazione civico-politica con liberi dibattiti relativi ad argomenti allora attuali  come: lo Stato Repubblicano, la Socializzazione ecc., altri ancora all'educazione fisica e ginnica e  con pratica alla guida della motocicletta. Altra attività di rilievo era il Centro Sperimentale Artistico.
    Molti giovani camerati venivano preparati al canto, cori ed a numeri di arte varia. Questo gruppo,  di cui facevo parte, si esibì in diversi teatri della città: Puccini, Smeraldo e all'EIAR. Tali spettacoli  erano a sfondo patriottico e propagandistico.
    Inoltre vi era la parte dell'addestramento militare. Disciplina, marce, conoscenza e uso delle armi  da guerra. Eravamo muniti di un moschetto con il quale si effettuavano esercitazioni presso il  poligono di tiro a segno di Piazzale Accursio. I giovani maggiori di qualche anno partecipavano al  "Campo" che credo si trovasse nella provincia di Vicenza. Alcuni chiesero poi di essere arruolati nei  vari reparti dell'Esercito della R.S.I.
    Ai giovani, che tra i primi aderirono alle Fiamme Bianche, con lodevole comportamento e  preparazione militare consegnarono una tessera da "Pioniere" ed uno scudetto raffigurante una P da  applicare sulla giacca della divisa.
    Non sarà una grande storia la mia, anche se ci sono stati momenti di pericolo per la propria vita  prima e dopo la fine della guerra, ma giuro che sono fiero di essere stato Fiamma Bianca e  soprattutto per ciò che in quel periodo ho imparato il senso dell'onore, del sacrificio, della onestà,  del rispetto e dell'amore verso la Patria, sono stati per me un insegnamento utile di cui ho poi fatto  tesoro nel corso della mia vita.
 
 
NUOVO FRONTE N. 163. Aprile 1996. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

LE FIAMME BIANCHE. EPIGONI DEL VOLONTARISMO GIOVANILE ITALIANO
Arnaldo Fracassini
 
 
     Il desiderio di partecipare alla guerra accanto ai più "grandi" è un fenomeno di tutti i tempi e di  quei popoli in cui i giovani sono stati educati all'amor patrio ed alla fede verso un ideale.
    Nella sua storia anche l'Italia ha numerosi esempi di "volontarismo" giovanile. Come non  ricordare il gesto di Perasso, ragazzo genovese, noto come Balilla, che scagliando una pietra contro  gli invasori della sua città dette inizio alla loro cacciata?... Ed i numerosi ragazzi accorsi sulle  barricate durante i moti risorgimentali?... E così, dagli studenti toscani che nel 1848 si coprirono di  gloria a Curtatone e Montanara, fino ai "picciotti siciliani" che si unirono ai "Mille" di Garibaldi.
    Quando nel 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale il fenomeno si ripeté ed i giornali ed i  bollettini dell'epoca ce lo confermano: esempi significativi tra tanti, le due Medaglie d'Oro al valor  militare conferite una allo Scout romano Alberto Cadiolo, "il più giovane combattente insignito della  massima onorificenza" e l'altra a Vittorio Montiglio, figlio di emigranti, imbarcatosi clandestinamente  per tornare in Patria ove, a soli 14 anni, riuscì ad arruolarsi per combattere su tutti i fronti e  promosso S. Tenente a 17!... Ed i leggendari "Ragazzi dei '99 accorsi al fronte dopo Caporetto?...
    Anni dopo, nel '35, durante la campagna in A.O. non pochi ragazzi tentarono di imbarcarsi per  unirsi alle truppe in partenza e con gran delusione si videro respingere. Fu allora che il Luogotenente  Generale della M.V.S.N. Renato Ricci, Presidente dell'Opera Nazionale Balilla, costituì, presso  ogni Comitato provinciale dell'Ente, "manipoli" di Avanguardisti moschettieri, selezionati per doti  fisiche e morali, i quali, in caso di necessità, avrebbero potuto essere impegnati nella campagna  coloniale. Ebbero una divisa speciale ed un armamento che li distinse dagli altri Avanguardisti, un  particolare addestramento premilitare; furono convocati a Bolzano per dimostrare la loro  preparazione, ma la campagna terminò il 9 maggio '36 con la proclamazione dell'Impero ed i  moschettieri rimasero come formazione speciale dell'O.N.B.
    Quando nel 1940 l'Italia entrò nuovamente in guerra circa 24.000 Giovani Fascisti (inquadrati  nella GIL, l'ente che aveva assorbito l'ONB) accorsero volontari per la "Marcia della Giovinezza"  per dimostrare la loro preparazione ed il desiderio di combattere. Nel tardo autunno i 22  Battaglioni nei quali erano confluiti furono sciolti ma molti vollero andare al fronte con le FF.AA.  Nacque il Reggimento "VOLONTARI GIOVANI FASCISTI" che, regolarmente inquadrato  nell'Esercito, si coprì di gloria in Africa settentrionale a Bir el Gobi. Altri Battaglioni di "Volontari  della G.I.L." furono impegnati a fianco delle FF.AA. distinguendosi per valore ed entusiasmo.
    Nel '43, come è noto, il Regio Governo di Badoglio proclamò l'armistizio (8 settembre) e fuggì al  Sud abbandonando l'Italia e tutte le FF.AA. al loro destino. Nel caos che ne seguì le FF.AA.  germaniche, tradite dall'improvviso voltafaccia, con 14 loro Divisioni neutralizzarono 33 delle nostre  ormai allo sbando senza direttive centrali; e dei 900.000 soldati sbandati sui vari fronti circa  400.000 furono "cautelativamente" internati in Germania. Solo circa 180.000 fra Ufficiali, sottufficiali  e soldati (prevalentemente della M.V.S.N.) rimasero al loro posto, a fianco dei Tedeschi, per  salvare l'"Onore d'Italia" e costituirono il primo nucleo delle nuove FF.AA.
    Liberato con ardita operazione dalla prigione sul Gran Sasso, Mussolini formò la Repubblica  Sociale Italiana e fra le molte iniziative per normalizzare la vita della Nazione volle la ricostruzione  delle FF.AA. e ovviamente, riapparve il fenomeno dei volontarismo giovanile: la stampa dell'epoca è  piena di notizie di fughe di giovani da casa e le foto ritraggono molti ragazzi arruolati in Unità  combattenti. Una fra tutte quella del Btg. "BARBARIGO" della Xa Divisione, schierato a Roma  prima di partire per il fronte di Nettuno: in essa si notano due ragazzi in uniforme, accanto al padre,  e la "mascotte" accanto al trombettiere
    Per disciplinare queste fughe, evitare il decadimento morale e non tradire le aspettative di questi  giovanissimi volontari, il Gen. Renato Ricci, Comandante della Guardia Nazionale Repubblicana e  Presidente della ricostituita Opera Balilla (già forte di circa 650.000 iscritti) riprese l'idea del 1935,  disponendo la formazione presso ogni Comitato provinciale dell'Ente di Reparti di  "AVANGUARDISTI VOLONTARI MOSCHETTIERI", di età non inferiore ai 15 anni (limite che  conobbe qualche deroga in difetto da parte di qualche ragazzo che per prestanza fisica "barò"  sull'età), di sana e robusta costituzione e di ineccepibili doti morali, con l'avallo dei genitori. I reparti,  pur nati nell'O.B., furono posti alle dipendenze del Comando Generale della G.N.R. I giovani  ebbero uniforme simile alle altre dei reparti combattenti ma si distinsero per le "Fiamme bianche" sul  bavero della giubba e dalle quali trassero il nome. Dopo un severo addestramento presso le sedi di  reclutamento il 20 maggio '44 i Reparti furono concentrati in un Campo a Velo d'Astico (VI) per un  ulteriore impegno. Già in quei primi tempi alcuni giovani caddero; come i 7 dei Reparti toscani  falciati da un mitragliamento della tradotta che li trasportava al Campo nazionale presso Canàro  (RO). A Velo d'Astico i circa 6000 FF.BB. furono ripartiti in 6 Legioni. Impegnati diuturnamente in  severe attività cantavano, con la spensieratezza giovanile: "i sedici anni li consumiamo fra la gavetta e  le scarpinate!..." ardenti d'entusiasmo e desiderosi di combattere per mostrare il loro valore. E ben  presto lo dimostrarono: il 18 luglio a Tonezza il I° Battaglione, accantonato nella Caserma della  ex-Scuola A.U. fu attaccato da 60 partigiani, ma i ragazzi, cantando "Fratelli d'Italia", combatterono  valorosamente. Caddero il Ten. PETTINATO e le Fiamme bianche CECCARELLI, NASUTI e  TREVISAN, ma anche tre partigiani.
    Come ha scritto Pisanò: "i giovani che avevano anelato al battesimo di fuoco contro nemici esterni  si trovarono a combattere contro connazionali, ma caddero nella disperata ultima trincea della  Patria, quella che abbracciava la migliore Gioventù d'Italia!... " Quel Battaglione si era dato il motto:  "RENDICI L'ONORE! " e veramente dimostrò di esserne degno.
    Il 10 agosto il Campo fu sciolto, i giovani più idonei furono immessi in due Battaglioni inviati  prima al Albavilla (CO) poi a Marzio (VA) e quando nacque la Divisione "ETNA" della G.N.R. i  ragazzi furono smistati prima nel I° Btg. Ciclisti d’assalto “ROMA", poi in reparti di Difesa  contraerea. Altri passarono in altre formazioni combattenti della R.S.I. ovunque distinguendosi per  l'impegno ed il valore. Citando ancora il Pisanò:... "dove mancò l'esperienza dei vecchi combattenti  supplì il coraggio spesso temerario, e dove non poteva prevalere il numero supplì l'entusiasmo!..."
    L'ultima prova delle "Fiamme bianche", come è noto, avvenne a Bagnolo S. Vito (MN) il 24  aprile'45. La Compagnia "CACCIATORI DI CARRI", ripiegando sotto la pressione nemica, lasciò  alcuni giovani ex-Moschettieri a contrastarla. Rifulse il loro valore, una colonna nemica dovette  arrestarsi ma tre giovani caddero: BASSANI, BRIZZI e DELLA ROCCA, dopo una difesa  disperata!
    Anche se per troppo tempo ignorate, causa la perdita di ruolini e documenti ufficiali, le "Fiamme  bianche" col loro entusiasmo, il loro coraggio, il loro sangue generoso, hanno dimostrato  ampiamente di essere degni dei loro fratelli maggiori e dei loro padri. E tutti coloro che in Italia,  oggi, parlano di COSCIENZA o di VOLONTARISMO per trovare scappatoie al servizio militare  di leva o pretesti per usufruire di sovvenzioni pubbliche, e spesso irridono, con incolpevole  ignoranza, un periodo storico (ipocritamente tenuto loro nascosto o alterato per certi opportunismi  politici) e quelli che combatterono dalla "parte sbagliata", dovrebbero tacere e far tanto di cappello  di fronte a chi, quando in Italia sembrava tutto perduto e gli stranieri, al Sud ed al Nord, ne  calpestavano il territorio, accettò di combattere non per paghe speciali, ma per l'amore e ]'Onore  della Patria. Particolarmente i giovanissimi!
 
 
NUOVO FRONTE N. 163. Aprile 1996. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)