mercoledì 26 gennaio 2022

IL MIRACOLO ECONOMICO DEL REGIME FASCISTA

IL MIRACOLO ECONOMICO DEL REGIME FASCISTA
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da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DALLA MARCIA SU ROMA ALL'ASSALTO AL LATIFONDO. Cap. XXXV. Guido Mussolini e Filippo Giannini
 
 

    "Sotto il dominio fascista, ci viene detto, l’Italia subì un rapido sviluppo capitalista con l’elettrificazione dell’intero paese, lo sviluppo e il fiorire delle industrie dell’automobile e della seta, la creazione di un moderno sistema bancario, la prosperità dell’agricoltura, la bonifica di notevoli aree agricole (...), la costruzione di una larga rete di autostrade ecc. (...). Il rapido progresso dell’Italia dopo la 2a guerra mondiale e il fatto che oggi è già in marcia verso uno sviluppo intensivo capitalistico sarebbe impensabile senza i processi sociali iniziati durante il periodo fascista". Così Mihaly Vajda scrive in The Rise of Fascism in Italy and Germany.
    Può sembrare poco credibile, ma l’ulteriore sferzata di dinamicità alla politica mussoliniana venne impartita proprio per battere la "grande crisi". E i "meccanismi messi in opera, per la fantasia istituzionale che questi dimostrarono, per il successo complessivo da essi ottenuto" (Giuseppe Galasso).
    Si può dire che ampie aree della penisola erano affogate in malsaniche paludi; chi era costretto a vivere in quelle zone raramente superava il quarantesimo anno d’età. Queste aree insalubri si estendevano dal Veneto all’Emilia-Romagna, dalla Maremma toscana all’Agro Pontino, dalle pianure del Garigliano, del Volturno, del Sele al Tavoliere delle Puglie e alla Basilicata, dalla Piana di Sibari alle terre della Sila e del Neto. E così per la piana di Catania e per il Campidano in Sardegna. Questa era la situazione del nostro territorio sino a quando non vennero intraprese gigantesche opere di bonifica, di trasformazione fondiaria, di risanamento del territorio.
    Così, quando negli anni Trenta tutto il mondo era soggiogato dalla profonda crisi economica, in Italia ebbe inizio un’attività frenetica i cui benefici si proietteranno nei decenni a venire.
    È impossibile elencare in poche pagine quanto allora fu compiuto; ricorderemo solo alcune realizzazioni, ripromettendoci di citarne altre in "appendice".
    Abbiamo già ricordato che nel primo dopoguerra il ritorno dei combattenti fu caotico e deludente. Le riforme promesse, quando i contadini erano al fronte, si rivelarono semplici parole. L’unica concreta iniziativa governativa fu la creazione, nel 1917, dell’Opera Nazionale Combattenti (ONC), concepita per facilitare l’inserimento nella vita civile dei reduci. L’ONC fu, negli anni dell’immediato dopoguerra "solo uno strumento di sottogoverno e ai braccianti disoccupati non restò che occupare con la forza quella terra che, seppur promessa, sembrava impossibile ottenere democraticamente" [6,445].
    Il fascismo trovò anche tale questione irrisolta.
    Ci volle la saggia politica agraria ispirata e pilotata da Arrigo Serpieri che promosse numerose leggi di carattere fondamentale, tra le quali, le più importanti: la legge N° 3256 del 30/12/23, sulla bonifica idraulica e della difesa del suolo; la legge N° 753 del 18/5/24 sulle trasformazioni agrarie di pubblico interesse. 
    Serpieri venne eletto deputato al Parlamento nel 1924, incarico rinnovato fino al 1935 quando fu nominato Senatore del Regno e capo della Commissione Agricoltura. Dal Senato fu epurato nel dopoguerra dal Governo Bonomi perché fascista (45/4).
    Come Sottosegretario di Stato organizzò e diresse i servizi per la prima applicazione della legge N° 3134 del 24/12/28 ("Legge Mussolini") per la "Bonifica integrale", le cui opere vennero affidate all’ONC.
    Le prime bonifiche, con impianti idrovori per il sollevamento delle acque, ebbero inizio nel basso Veneto e in Emilia. Nuova terra venne posta al servizio dell’agricoltura e, con essa, si crearono nuovi posti di lavoro.

    Dal suolo bonificato sorgono irrigazioni, si costruiscono strade, acquedotti, reti elettriche, opere edilizie, borghi rurali ed ogni genere di infrastrutture. Con questa tecnica la bonifica di Serpieri va ben al di là del semplice prosciugamento e diventa strumento di progresso economico.
    Dalle Paludi Pontine sorsero "in tempi fascisti" (così detti per indicare "in poco tempo") vere e proprie città: Littoria, inaugurata il 18 dicembre 1932, Sabaudia (giudicata uno dei più raffinati esempi di urbanistica razionale europea) il 15 aprile 1934; Pontinia, il 18 dicembre 1935; Aprilia, il 29 ottobre 1938; Pomezia, il 29 ottobre 1939. Nell’Agro Pontino furono costruite ben 3040 case coloniche, 499 chilometri di strade, 205 chilometri di canali, 15.000 chilometri di scoline. Furono dissodati 41.600 ettari di terreno, furono costruiti quattordici nuovi borghi che portano il nome delle principali battaglie alle quali parteciparono i nostri fanti.
    La bonifica di Maccarese, nell’Agro romano, è un’altra importante realtà: un’"azienda modello" agricolo-zootecnico-vivaistica, sorse su oltre 5 mila ettari di terreni bonificati con centinaia di case, campi sperimentali, caseifici, cantine sociali: tutto gestito da oltre 1500 lavoratori tecnici ecc.
    La "bonifica integrale" continuava senza soste: quella dell’Isola Sacra a Roma, con la fondazione di Acilia e di Ardea; quella dove poi sorgeranno Fertilia (Sassari), Mussolinia (oggi Arborea-Oristano); quella del Campidano (Cagliari), quella di Metaponto (Matera). E così le bonifiche si estenderanno in Campania, Puglie, Calabria, Lucania, Sicilia, Dalmazia.
    Non possono essere dimenticate le grandi opere realizzate in Somalia, Eritrea e in Libia; a solo titolo d’esempio citiamo il lavoro svolto da Carlo Lattanzi che visse per oltre quarant’anni sulla "Quarta Sponda". Si deve alla sua instancabile attività la bonifica e la messa a coltura di ampie aree a grano, oliveti, vigneti, frutteti ecc. su oltre 2600 ettari di terreni aridi e sabbiosi.
    Un cenno merita anche la gigantesca opera realizzata dall’ingegnere idraulico Mario Giandotti: un poderoso canale che, attingendo acque dal Po, irriga ampie aree di terreni coltivati nelle province di Modena, Mantova, Bologna, Ravenna, Forlì. Oltre 340 chilometri di canali danno vita a ben 325 mila ettari di terreno.
    Armando Casillo (dal cui lavoro abbiamo attinto alcuni dati) riporta i risultati delle bonifiche e delle leggi rurali. Ecco un sommario elenco: 5.886.796 ettari bonificati, tra il 1923 e il 1938, un confronto è necessario fra il periodo pre-fascista, quando in 52 anni nell’intera Penisola furono bonificati appena 1.390.361 ettari. A queste vanno aggiunte quelle delle colonie, dell’Etiopia e, poi, dell’Albania. Si aggiungano 32.400 chilometri di strade; 5.400 acquedotti; 15 nuove città e centinaia di borghi; oltre un milione di ettari di terreno rimboscati; un milione di fabbricati rurali; l’incremento della produzione che passò da 100 a 2.438; il lavoro agricolo per ettaro che aumentò da 100 a 3.618; i lavoratori occupati nelle opere di bonifica e nei nuovi poderi superavano le 500 mila unità. Né va dimenticata la sconfitta della malaria che causava, come già ricordato, centinaia di morti ogni anno.
    Un altro dato significativo sulla qualità tecnica raggiunta nel settore agricolo dal nostro Paese, è la comparazione fra i 16,1 quintali di frumento per ettaro raggiunto nelle terre bonificate e la produzione statunitense, considerata la migliore, ferma a 8,9 quintali/ettaro.
    "L’attribuzione ai braccianti di poderi nelle zone di bonifica è il fiore all’occhiello della politica rurale fascista. Come si vede, traguardi che cambiarono il volto dell’Italia" (Armando Casillo).
    Ma la spinta impressa da Mussolini è volta a nuove mete. La mattina del 18 dicembre 1932 il Duce lascia Roma in auto per recarsi ad inaugurare il nuovo Comune di Littoria. Ecco alcuni passi del discorso inaugurale [4,XXV,184]: "Camerati! Oggi è una grande giornata per la rivoluzione delle Camicie Nere, è una giornata fausta per l’Agro Pontino. È una gloriosa giornata nella storia della nazione. Quello che fu invano tentato durante il passato di venticinque secoli, oggi noi stiamo traducendo in una realtà vivente. Sarebbe questo il momento di essere orgogliosi. No! (...). Abbiamo vinto la nostra prima battaglia. Ma noi siamo fascisti e quindi più che guardare al passato siamo sempre intenti verso il futuro. Finché tutte le battaglie non siano state vinte, non si può dire che tutta la guerra sia vittoriosa. Solo quando accanto alle cinquecento case oggi costruite, ne siano sorte altre quattromilacinquecento, quando accanto ai diecimila abitatori attuali vi siano i quaranta-cinquantamila che noi ci ripromettiamo di fare vivere in quelle che furono le paludi pontine, solo allora potremo lanciare alla nazione il bollettino della vittoria definitiva".
    Quindi il Duce elenca i nomi delle nuove città che stanno sorgendo: "Sarà forse opportuno ricordare che una volta, per trovare lavoro occorreva varcare le Alpi o traversare l’Oceano. Oggi la terra è qui a mezz’ora soltanto da Roma. È qui che noi abbiamo conquistato una nuova provincia. È qui che abbiamo condotto e condurremo delle vere e proprie operazioni di guerra. È questa la guerra che preferiamo. Ma occorre che tutti ci lascino intenti nel nostro lavoro".
    Si può ben dire che negli anni della bonifica integrale "tutto il territorio italiano era un’enorme, bruciante, palpitante, esaltante operante fucina di opere, azionata da braccia, da idee, da inesauribile volontà di cambiare il volto a un’Italia rurale che aveva dormito per secoli" (Casillo). 
    L’elenco più completo di città e borghi costruiti in quel periodo è posto alla fine di questo capitolo.
    Volendo ricordare la nascita del "Lido di Milano", possiamo usare le semplici ed espressive parole di Don Franco Giuliani, autore del libro Tutte le opere del Duce Volume III: "Milano non ha il mare, non l’ha mai avuto, ma il Duce ha "creato" il mare, ecco come.

    Nel 1927 (23 giugno) varò una legge, la 1630, per la realizzazione di un "Idroscalo" per la città di Milano. Vero mare, perfino salato, arenile, pini marini, bagnanti, bagnini. Realizzazione ardita che solo il Duce poteva permettersi di portare a termine.
    L’"Idroscalo" è un grande canalone lungo 3 Km e largo 300 metri con 300 di testata per le manovre dei velivoli. Il bacino occupa una superficie di 610.000 mq. È alimentato da acque sorgive.
    L’Idroscalo è sempre stato segnalato come pantano. Il Duce l’ha trasformato in bacino, un lago, una "fetta" di mare con tutte le caratteristiche marine (...).
    Questo spettacolare miracolo fu inaugurato nel 1930, il 5 luglio.
    L’arenile ha 100 cabine, ha il suo "lungomare", con alberi intorno, alberghi, Luna Park, campi sportivi, prati. Al centro del bacino vi è un’isoletta che può essere raggiunta facilmente con una barca e trovarvi ogni divertimento".
    Sempre in piena "congiuntura economica" la nostra fantasia produttiva veniva riconosciuta ovunque. Il 22 dicembre 1932, il deputato laburista inglese Lloyd George rimproverava il suo Governo di inerzia e lo spronava, per risolvere i problemi della disoccupazione, proponendo di "fare come Mussolini nell’Agro Pontino".
    Ancora più incisivamente il giornale Noradni Novnij di Brno, il 15 dicembre 1933, scriveva: "Con successo infinitamente superiore a quello annunciato per il suo piano da Stalin, in Russia si è fatta un’opera di costruzione, ma in Italia si è compiuta un’opera di redenzione, di occupazione. All’altra estremità dell’Europa si costruiscono enormi aziende, città gigantesche, centinaia di migliaia di operai sono spinti con folle velocità a creare un’azienda colossale per il "dumping" (rifiuti - ndr) che dovrà portare la miseria a milioni di altri paesi europei. Mentre invece in Italia il piano Mussolini rende una popolazione felice e nuove città sorte in mezzo a terre redente, coperte ovunque di biondi cereali".
    I consensi non riguardavano solo i metodi usati dal Governo italiano per superare la "crisi congiunturale", ma essi partivano dagli anni precedenti.
    Lo svedese Goteborgs Handels del 22 marzo 1928, scriveva: "Non si può davvero non restare altamente sorpresi di fronte al lavoro colossale che il governo fascista viene svolgendo con una incredibile intensità di energica: amministrazione pubblica radicalmente cambiata, ordinamento sociale posto sulla nuova base della organizzazione sindacalista, trasformazione dei codici, riforma profonda della istituzione e un tipo di rappresentanza nazionale affatto nuovo negli annali del mondo".
    Il coro di meravigliati consensi andava dalla Bulgaria al Giappone, dalla Cina alla Francia.
    Il londinese Morning Post del 29 ottobre 1928: "L’opera del fascismo è poco meno che un miracolo". Il prestigioso Deily Telegraph del 16 gennaio 1928: "Il fascismo non è soltanto uno sforzo verso un nuovo sistema politico, ma un nuovo metodo di vita. Esso è perciò il più grande esperimento compiuto dall’umanità dei nostri tempi".
    Altri dati rivelano che quanto si scriveva nel mondo era ben meritato. Nel 1922 i braccianti erano oltre 2 milioni: nei primi anni del ’40 il loro numero si ridusse a soli 700 mila unità, gli altri erano divenuti proprietari, mezzadri o compartecipi di piccole o grandi aziende. Nella sola Sicilia i proprietari terrieri passarono dai 54.760 del 1911 a 222.612 del 1926. Questo è un ulteriore dato che può far meglio comprendere lo sforzo compiuto in quegli anni.
    Possiamo quindi dire che l’obiettivo politico fu, almeno in gran parte, centrato. Questo avveniva mentre nel mito marxista la collettivizzazione delle terre risultava fallimentare e affogata nel sangue e nella disperazione. Mussolini a Carlo Marx contrapponeva il contadino compartecipe della produzione. 
    Nacquero così, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, nuovi ceti di piccoli proprietari, superando i motivi della "lotta di classe" e creando lo "strumento di pace e di giustizia sociale".
Elenco di città e borghi sorti durante il governo Mussolini
    (Molte fra le località indicate sono rimaste semplici aggregati di case che dopo la fine del fascismo non hanno avuto ulteriore sviluppo).
    Littoria: oggi Latina, fondata il 30 giugno ed inaugurata il 18 dicembre 1932. Sabaudia: fondata in onore della dinastia Savoia il 5 agosto 1933 ed inaugurata il 15 aprile 1935. Pontinia: fondata il 19 dicembre 1934 ed inaugurata il 18 dicembre 1935. Aprilia: fondata il 25 aprile ed inaugurata il 29 ottobre 1938. Pomezia: fondata il 22 aprile 1938 ed inaugurata il 28 ottobre 1940. Mussolinia di Sardegna nell’oristanese, fondata nel 1930 e divenuta Arborea nel dopoguerra. Fertilia: nei pressi di Alghero. Mussolinia di Sicilia: inaugurata nel 1939, oggi divenuta Case M...olinia. Segezia: in Basilicata. Marconia: in Lucania nei pressi di Pisticci. Metaurilia: fondata nel 1938 presso Fano. Volania: nel ferrarese. Acilia nei pressi di Ostia fondata nel 1939. Carbonia: in Sardegna fondata il 17 dicembre 1938. Tirrenia: nei pressi di Livorno. Guidonia: inaugurata nel 1938. Cervinia: in Val d’Aosta sorta nel 1936. Felicia: oggi la slovena Cvic. Arsia: fondata il 27 ottobre 1936, in Istria, oggi Resa.
    Nel 1938 andarono in Libia 20 mila nostri agricoltori e trovarono pronti 26 villaggi agricoli: Olivetti, Bianchi, Giordani, Micca, Tazzoli, Breviglieri, Marconi, Garabulli, Crispi, Corradini, Garibaldi, Littoriano, Castel Benito, Filzi, Baracca, Maddalena, Aro, Oberdan, D’Annunzio, Razza, Mameli, Battisti, Berta, Luigi di Savoia, Gioda.
    Altri dieci villaggi libici nei quali berberi e indigeni imparavano dai nostri agricoltori a far fruttare la terra: El Fager (Alba), Nahima (Deliziosa), Azizia (Profumata), Nahiba (Risorta), Mansura (Vittoriosa), Chadra (Verde), Zahara (Fiorita), Gedina (Nuova), Mamhura (Fiorente), El Beida (la Bianca) già Beda Littoria.
 

 
 
da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DALLA MARCIA SU ROMA ALL'ASSALTO AL LATIFONDO. Guido Mussolini e Filippo Giannini
Anno di Edizione: 1999. Greco&Greco editori. (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)   

mercoledì 19 gennaio 2022

NOI E LORO. UNA PICCOLA DIFFERENZA CHIAMATA ONORE

NOI E LORO. UNA PICCOLA DIFFERENZA CHIAMATA ONORE
Nino Arena
 
 
La faziosità è dura a morire; la menzogna, soprattutto se finalizzata a radicalizzare un fatto arbitrario ha radici profonde; l’invito ai chiarimenti, se presuppone la fine del teorema illegalmente costruito per convalidare la falsità, viene di norma respinto. Poi tutto torna nel dimenticatoio ed ognuno si tiene le sue convinzioni cullandosi nell’ipocrisia e nella malafede. Talvolta, allorché vengono a mancare le motivazioni per controbattere accuse e invenzioni, si fa strada timidamente la loro "verità’’ riportata pedissequamente nelle occasioni, populiste e demagogiche, non di rado sui libri di testo, quasi sempre reperibile nella bibliografia resistenziale di comodo stampata dai grandi circuiti editoriali, nella speranza che "il luogo comune’’ si trasformi in "verità’’ storica: il gioco è fatto! Dovranno sopravvenire dirompenti eventi esterni, come accadde col muro di Berlino, per smantellare l’architrave della menzogna, meglio se originati al di fuori dell’Italia, in quanto ritenuti più credibili, attendibili, affidabili.
Molti anni or sono ho dovuto lottare contro un clan di pseudo storici (di parte) che, in contrasto col responso di una apposita commissione governativa, rifiutavano di accettarne le decisioni per malafede (leggasi: in contrasto con la loro ideologia). Si trattava del bluff sui fatti di Leopoli, di cui lo scrivente - per primo e con mesi di anticipo sulle conclusioni della commissione - denunciava il falso organizzato dal PCUS con la complicità di un giornalista comunista polacco.
Ogni tanto qualcuno si sente in diritto di emanare sentenze, forte, a suo parere, di trovarsi dalla parte "vincente’’; una ridicola convinzione poiché è risaputo che l’Italia ha perduto la 2ª guerra mondiale, che non ci sono stati vincitori e quelli che ritengono di essere tali sono soltanto poveri illusi, vissuti da sempre nella loro persuasione, nel loro sogno donchisciottesco ben al di fuori della realtà.
Una frase recentemente pronunciata da un personaggio di questo effimero clan di Soloni, ci ha colpito particolarmente: "... l’accostamento con la RSI non sarà gradito da noi veterani delle FF.AA. regolari (badogliani, tanto per precisare chi sono); una sottile distinzione per prendere le distanze dai partigiani, e precisava ancora: "Nel dopoguerra le faccende non si sono per niente chiarite, tant’è vero che i reduci della RSI ostentano ancora nelle celebrazioni la scritta Per l’Onore d’Italia. Una strana pretesa da parte del badogliano, che pensa di dettare condizioni e stabilire regole di comportamento, quasi che i reduci della RSI dovessero vergognarsi di tale "ostentazione’’.
Noi siamo di parere contrario, poiché gli atti compiuti da coloro che militarono al sud non sono sempre motivo edificante di ammirazione e ostentazione. Molti avvenimenti non possono essere accettati come atti onorevoli di cui vanagloriarsi e con loro attruppiamo i miserevoli individui del CLN che segnalavano agli aviatori alleati gli obiettivi da colpire (quasi sempre centri abitati); segnaliamo ancora la miseria morale degli uomini del Partito d’Azione che parlavano durante la guerra da Radio Londra contro l’Italia e che l’articolo 16 del trattato di pace salvò immeritatamente. Non sono atti di cui vantarsi gli aiuti militari italiani forniti a Tito - sanguinario despota balcanico - e da questi usati criminosamente per la pulizia etnica degli italiani, non sono atti ammirevoli quelli dati dalla marina cobelligerante alla Royal Navy permettendogli di affondare il "Bolzano’’ per pareggiare la notte di Alessandria; non sono atti meritevoli i bombardamenti dell’aviazione del sud in Istria su zone abitate da italiani; non sono episodi da ricordare nella storia, le uccisioni e i maltrattamenti verso i soldati della RSI uccisi o catturati in azione da reparti badogliani, così come sono da dimenticare le leggi liberticide, vessatorie e discriminanti applicate verso i combattenti della RSI, ancora oggi considerati come invalidi civili, valorosi mutilati degni di rispetto e attenzioni.
Non si può imporre la democrazia come modello comportamentale per poi rinnegarne i principî con atti contrari, così come non è accettabile imporre discriminatorie settarie nei confronti di coloro che a fine guerra si trovarono dalla parte perdente. Si finirebbe per perdere la faccia e rinnegare teorie libertarie applicabili a senso unico.
I soldati della RSI avevano scelto e combattuto sino all’ultimo per cancellare il tradimento badogliano (non il tradimento dei soldati o dei cittadini italiani, vittime ugualmente delle decisioni di pochi irresponsabili); lo avevano fatto per tentare di riscattare l’onore d’Italia infangato dai congiurati. Se altri ritengono che tale comportamento vada cancellato o dimenticato per compiacere coloro che implicitamente li osteggiavano, sappiano che la storia ha condannato i traditori, non i traditi.
Le frasi incriminate fanno parte di un maldestro tentativo inteso a prevaricare la libertà di pensiero (grave per un preteso paladino della libertà) di un amico che in perfetta buonafede aveva iniziato a raccogliere elementi di giudizio, testimonianze e documenti su una possibile pubblicazione sulle vicende postarmistiziali della divisione "Nembo’’. L’intervento, invece, mirava a perpetuare con pesante pressione personale (riteniamo) una pretesa differenza morale e ideologica, di pensiero e di idealità fra i paracadutisti del nord e quelli del sud, che avevano militato nella stessa unità prima e dopo l’armistizio, alcuni dei quali si erano inaspettatamente riscoperti "democratici e antifascisti’’ soltanto a posteriori e temevano il "contagio’’, o quanto meno il pericolo di essere allineati sullo stesso piano fra coloro che avevano accettato supinamente l’armistizio - servendo i Savoia e Badoglio - e gli altri che invece lo avevano rifiutato come immorale e che intendevano opporsi nel tentativo nobile ma difficile di riscattarne col sacrificio l’aspetto d’immagine vilipesa che il tradimento aveva appiccicato all’Italia.
Il problema meritava indubbiamente una precisazione, se non altro per far conoscere meglio la posizione ideale della parte che aveva scelto il nord e il riscatto dell’onore e coloro che invece si erano trovati al sud, non per libera scelta (molti settentrionali avrebbero sicuramente optato per combattere col nord) ma per collocazione geografica, obblighi militari, situazioni contingenti (molti al nord vissero questo problema) sicuramente non per motivazioni ideologiche o scelte politiche, considerando oggettivamente che la "Nembo’’ annoverava fino all’armistizio una larghissima percentuale di personale politicizzato, non tanto nella visione ortodossa e limitata del credente quanto nell’aspetto individuale di far parte di un Corpo d’élite che da sempre (lo si verifica ancora oggi ingiustificamente) ha nell’amor di Patria, nel dovere militare, nel sentimento nazionalista e nella purezza della gioventù nata e vissuta sotto il fascismo, sicuri pilastri di forza morale e affidabilità.
Nessuno di loro conosceva la definizione di democrazia, sapeva di battersi per la libertà, contestava apertamente il fascismo, anche se in quel periodo aleggiava un sottile ma avvertito malessere causato dal crollo del fascismo e dei suoi postulati ideologici; c’era confusione morale fra tutti gli italiani, si accertava la presenza di una stanchezza diffusa fra la popolazione e le FF.AA. causata da avvenimenti interni e dal negativo andamento del conflitto.
Esaminiamo i fatti e accertiamo quanto di vero esisteva nella "Nembo’’ in quel particolare periodo.
Al momento dell’armistizio l’unità frazionata fra Calabria e Sardegna contava circa 10.500 uomini in servizio di cui circa 7.000 paracadutisti, 1.200 militari dei servizi e 2.300 fra artiglieri, carristi e genieri aggregati alla "Nembo’’ per esigenze difensive territoriali. Abbandonarono l’unità i Btg. 3°, 12° e reparti minori dei Btg. 13°/14° passati poi alla RSI; 600 paracadutisti ritenuti politicamente inaffidabili furono internati nel campo di disciplina di Uras (Cagliari); altri 410 sospetti di simpatie fasciste furono radiati dai paracadutisti e assegnati ai Rgt. di fanteria 45° e 236°; altri 300 vennero distribuiti ad altri reparti e una trentina di ufficiali - fra cui il vicecomandante divisionale, il valoroso Folgorino Col. Pietro Tantillo - furono imprigionati, processati e infine prosciolti dall’accusa di "rifiuto per coerenza etica di sparare sui reparti tedeschi’’. Il resto si era sbandato. Una perdita complessiva di oltre 3.000 uomini che riduceva la "Nembo’’ a poco più di 4.000 paracadutisti con alcune centinaia di militari dei servizi.
Non mancarono le uccisioni isolate, gli atti di violenza, le ribellioni aperte. Da una parte si ebbe l’uccisione ingiustificata e involontaria del Ten. Col. Alberto Bechi Luserna-Capo di SM-ucciso da paracadutisti aderenti alla convalida del patto d’alleanza con la Germania. Venne decorato di Movm alla memoria. Gli autori identificati, furono processati nel dopoguerra e condannati a pesanti pene detentive. Dall’altra parte si ebbe l’uccisione ingiustificata ma volontaria del maresciallo Pierino Vascelli - valoroso libico e Folgorino-addetto allo SM divisionale, assassinato da ignoti per punire la sua ostentata fede fascista. Vascelli non ebbe alcuna decorazione, non ebbe un processo poiché i suoi assassini rimasero ignoti, coperti criminosamente dall’omertà. Due pesi e due misure che gridano giustizia e di cui ben pochi conoscono i retroscena.
Non risponde quindi al vero che la "Nembo’’ disponeva nel 1944 di 10 battaglioni paracadutisti, poiché era stata ristrutturata su 5 Btg. e 2 gruppi artiglieria, reparti minori e non superava le 4.000 unità allorché venne inserita nel CIL (Corpo Italiano di Liberazione) poiché altri 250 paracadutisti furono assegnati a reparti logistici (leggasi salmerie della 210a Divisione).
Al nord, invece, furono costituiti 3 Btg. paracadutisti arditi e un Btg. allievi; un Btg. N.P. (Nuotatori Paracadutisti) della Xª MAS e un Btg. paracadutisti della GNR ("Mazzarini’’) per circa 3.800 paracadutisti in gran parte volontari. Nel 1945 si ebbero altre trasformazioni: al sud venne disciolta la "Nembo’’ sostituita col Gruppo da combattimento Folgore con un Rgt. paracadutisti su 3 Btg. nuclei sparsi di paracadutisti fra il Rgt. artiglieria e i reparti genieri. Complessivamente non più di 3.000 paracadutisti oltre ad un centinaio di parà assegnati allo Squadrone F alle dirette dipendenze del comando XIII° Corps inglese.
Al nord, oltre ai precedenti reparti già accennati, si ebbero 2 Cp. autonome e reparti indipendenti composti da complementi, dal personale del disciolto gruppo artiglieria "Uragano’’ e dagli istruttori della scuola di Tradate; dal personale del gruppo speciale sabotaggio "Vega’’ e NESGAP della Xª MAS, dal Btg. NP e dal "Mazzarini’’. Complessivamente circa 4.000 uomini superiori, per organici e reparti costituiti, a quelli del sud. Nessun vantaggio numerico o per organici, quindi, sufficiente per affermazioni fuori luogo e giustificare maggiore importanza psicologica come avventatamente dichiarato dal nostro censore sudista. Anzi, una situazione a favore della RSI.
Alcune precisazioni merita anche l’aspetto morale e giuridico, considerando obiettivamente l’illegittimità del governo Badoglio secondo giuristi e costituzionalisti affermati, nato da un colpo di Stato e mai convalidato dagli enti istituzionali. Semplicemente, come quello della RSI un governo di fatto ma del tutto arbitrario come aspetti decisionali, considerando che era scappato al sud con due soli riluttanti ministri militari (altri 12 ministri erano stati abbandonati a Roma), che si era trovato brutalmente al cospetto delle strutture amministrative create dagli alleati: AMGOT e ACC, cui doveva ubbidienza assoluta senza alcuna recriminazione, col territorio nazionale rigidamente controllato dai funzionari angloamericani (soltanto nel 1944 furono consegnate quattro province pugliesi (Lecce, Bari, Taranto e Brindisi) all’amministrazione badogliana. Badoglio fu costretto persino a utilizzare i comandi militari in assenza di strutture civili per applicare un minimo di legalità e ordine nel caos postarmistiziale, proclamando la legge marziale con i poteri riservati ai militari, con l’assurdo giuridico e offensivo, di emanare ordinanze agli italiani da parte di comandi militari italiani, come avveniva nei territori nemici occupati.
Ciò non impedì allo stesso Badoglio di emanare ordini suicidi per attaccare i tedeschi ovunque, col risultato nefasto di privare i soldati italiani delle garanzie internazionali dovute allo status armistiziale, trasformandoli in franchi tiratori, col risultato di farli uccidere impunemente dai tedeschi per dovute legali rappresaglie, come fatalmente accaduto a Cefalonia, Balcani e Lero. Un totale di 45 mila soldati uccisi ingiustificatamente nel dopo armistizio. Fu necessario l’intervento di Eisenhower a Malta il 29 settembre, che consigliò prima e intimò poi a Badoglio di far cessare le uccisioni, ripristinando lo status giuridico internazionale col dichiarare guerra alla Germania, cosa questa che avvenne il 13 ottobre successivo.
Resta ancora da chiarire il significato di cessare le ostilità "per impossibilità materiale di continuare la guerra "come dichiarò Badoglio all’armistizio, per poi ritrovare miracolosamente volontà e capacità operativa con la proposta di "passare armi e bagagli con gli anglo-americani’’ alla pari, come ingenuamente pensarono i congiurati come fosse la cosa più semplice del mondo, nella convinzione di ritenersi indispensabili e quindi di dirigere il gioco. Gli alleati respinsero invece sdegnosamente ogni ipotesi di alleanza (l’Italia non venne mai considerata alleata dalle Nazioni Unite, ma più dimessamente "nazione cobelligerante’’ di nessuna importanza giuridica e operativa) e l’offerta fatta da Badoglio sulla "Nelson’’ di concedere la "Nembo’’ venne ugualmente respinta (confronta al proposito la testimonianza dell’interprete ufficiale italiano Magg. Carlo Maurizio Ruspoli (fratello dei folgorini Marescotti e Costantino).
Cosa rimane dunque come argomenti per trattare con sufficienza e distacco i reduci della RSI? Riteniamo ben poco, se non il disagio inconfessabile di aver militato agli ordini di simili traditori che hanno meritato il disprezzo delle genti, anche a livello internazionale, e la squalificante etichetta di opportunisti.
Pochi giorni or sono, in una intervista concessa ad un giornalista del "Giornale’’, Indro Montanelli - che non può essere certamente accusato di simpatie fasciste, pur non rinnegando il suo passato politico - disse a proposito di Badoglio, alla domanda di come si sarebbe comportato personalmente l’otto settembre: "Io avrei fatto esattamente quello che fece il maresciallo Mannerheim Presidente della Finlandia, allorché fu costretto per totale impossibilità fisica, morale e materiale dovuta a cinque anni di guerra durissima, a continuare a combattere, chiedendo un armistizio all’URSS che premeva alle frontiere della Finlandia, abbandonando l’alleanza col Tripartito e la collaborazione militare con il Reich. Mannerheim spiegò ai tedeschi la sua situazione e li invitò ad abbandonare al più presto il territorio finlandese, cosa che si verificò regolarmente senza particolari problemi. Disse così, il decano dei giornalisti italiani, e aggiunse che deprecava il metodo usato da Badoglio - subdolo e inqualificabile - le riserve mentali, le occulte intenzioni dei congiurati, i tentativi umilianti di saltare sul carro dei vincitori.
Per concludere, spendendo due parole sull’aspetto morale, comprendiamo e giustifichiamo il dramma personale vissuto da migliaia di italiani rimasti al sud, consideriamo valido il rispetto del dovere militare, non accettiamo certamente l’abuso fatto a posteriori di presentarsi e di considerarsi "combattente per la libertà’’ quasi fosse una etichetta di squadrista antemarcia, come accadde con Mussolini, ma soltanto una convalida artificiosa che significava - se accettata implicitamente - complicità morale. "Ho dovuto ubbidire agli ordini di Badoglio e Messe, ma il mio cuore e la mia fede erano al nord con la Repubblica Sociale Italiana’’ dissero molti veterani del sud. "Il giorno che decisi di disertare venni ferito’’ dichiarò un paracadutista della "Nembo’’ oggi affermato medico a Roma. "Mi legarono ad un albero in prima linea perché mi ero rifiutato di sparare contro i tedeschi. Speravano che questi mi avrebbero ucciso come bersaglio indifeso; invece i tedeschi capirono la situazione e mi risparmiarono’’ disse un veterano del 16° Btg. Molti ancora, opposero pretestuosamente il giuramento fatto al Re come ostacolo morale alla loro adesione; ma nessuno seppe che il giuramento non aveva più alcuna validità poiché era stato infranto per primo dal Re, violando la Costituzione, che parlava del giuramento prestato dal sovrano "nel bene indissolubile del Re e della Patria’’. Ma soltanto pochi obbedirono sino all’ultimo allo spirito di tale giuramento e fra questi il vecchio generale Ercole Ronco, comandante della "Nembo’’, il Col. Camosso folgorino e il Ten. Col. Felice Valletti Borgnini - anch’esso folgorino - che preferirono abbandonare la vita militare al momento in cui Umberto di Savoia abdicò e partì per Lisbona. Gli altri transitarono senza particolari patemi d’animo dalla monarchia alla repubblica, scoprirono una nuova fede e fecero carriera.
Noi, dunque, rappresentiamo per diritto acquisito la continuità ideale fra la gloriosa Folgore di El Alamein e il paracadutismo della RSI: stessi ideali, stessi nemici, stesse conseguenze. Erano gli stessi nemici con l’elmetto a scodella che uccidevano i folgorini nelle sabbie egiziane e massacravano i ragazzini alla difesa di Roma; erano per noi i nemici di sempre, quelli del primo giorno di guerra e dell’ultimo giorno, quando ci sorvegliavano e ci angariavano nei campi di prigionia. Di esempio i folgorini comandanti Izzo e Valletti che combatterono con la Folgore a El Alamein, fianco e fianco con i parà germanici di Ramcke, non sapendo che un giorno si sarebbero scambievolmente uccisi sulla "Gotica’’ nella primavera del 1945, quando Badoglio e le circostanze li avrebbero messi l’uno contro l’altro. Questo mi disse nel dopoguerra Giuseppe Izzo, quando dovette battersi per salvaguardare il suo dovere di soldato contro il suo amico Hubner a Grizzano, un camerata che aveva condiviso con lui, in Egitto, le speranze, l’acqua e le munizioni contro i Tommy’s di Montgomery. A Grizzano si guadagnò una Movm, ma avrebbe sicuramente preferito meritarsela a El Alamein battendosi contro gli inglesi. La sua carriera militare si bloccò a Palermo, nel dopoguerra, allorché rifiutò di stringere la mano di Pacciardi, Ministro della Difesa, da Lui tacciato di "traditore della Patria’’.
Valletti Borgnini si battè coerentemente col suo dovere militare contro il reggimento Bomhler sulla "Gotica’’, pur avendo il padre generale nell’esercito della RSI e il fratello minore Luciano, compagno di corso dello scrivente alla scuola AA.UU. di Varese, giovane sottotenente della GNR (morirà a Coltano per malattia non curata dal detentore USA). Una tragedia familiare, lacerante, in cui il senso del dovere fu più forte degli affetti privati. Ma forse questi fatti non influiscono sulla sensibilità del censore intento a spargere l’apartheid fra i parà, dimenticando che essi furono i primi ad abbracciarsi a guerra finita, riconoscendosi come fratelli, non come nemici o soldati di classe inferiore. Ci auguriamo soltanto che quando in futuro vedrà nelle celebrazioni i paracadutisti della RSI ostentare orgogliosamente l’insegna di "per l’Onore d’Italia’’, comprenda cosa significò per centinaia di migliaia di soldati italiani quel motto e quell’impegno che vide oltre centomila caduti, quarantacinquemila feriti e mutilati, novantamila imprigionati in campi POW fra Algeria, Francia, Italia e USA e nelle patrie galere. Oltre trentamila i processati per "collaborazionismo col tedesco invasore’’ (erano soltanto i nostri alleati con cui avevamo sottoscritto un patto militare nel 1939). A questi dati statistici aggiungiamo il milione e mezzo di italiani epurati e messi alla fame, per completare il quadro; molti i suicidi, migliaia gli emigrati nel mondo, centinaia i dispersi nella Legione fra Indocina e Algeria "mort pour la France’’, un intero popolo diseredato da leggi antifasciste volute dal CLN con l’avallo di Umberto di Savoia che le firmò, mentre i "vincitori’’ si spartivano fraternamente posti di lavoro, ricevevano lucrose pensioni, sussidi, elargizioni, premi di smobilitazione, vitalizi, ricompense (anche al valore militare come accadde per Via Rasella). E gli altri? Alla fame o proscritti come appestati, come decretato dagli alpini partigiani con una vergognosa apartheid nostrana immorale e ingiustificata creata ad hoc.
Di certo Noi non abbiamo vestito i panni del nemico di sempre, non abbiamo avuto l’elmetto a bacinella, poiché era remota per i folgorini, in quanto inaccettabile, l’ipotesi che un giorno altri parà avrebbero vestito all’inglese, sarebbero stati da loro armati e si sarebbero schierati al loro fianco per combattere gli ex alleati ormai nemici, e se capitava (come in realtà si verificherà) anche altri italiani.
Badoglio aveva creato le premesse della guerra civile, provocato una frattura nelle coscienze, creato una divisione dei corpi e delle anime. Poi la nemesi storica si riprese la sua rivincita: Badoglio venne estromesso ed emarginato come cosa inutile ("usa e getta’’ si direbbe oggi); il suo Re, mortificato, umiliato dai vincitori e malvisto dai partiti del CLN andò in esilio in Egitto; suo figlio, strumentalizzato dai politici antifascisti, firmò decine di inique leggi persecutorie contro i soldati della RSI, poi, anch’egli ormai inutile, venne costretto a lasciare l’Italia.
Tutto ciò non toglie nulla al valore dimostrato in battaglia dai paracadutisti del sud poiché nomi di località come Ascoli Piceno e Macerata, Tolentino e Aquila, Chieti e Filottrano, Grizzano e la Herring furono altrettante tappe di una lacerante partecipazione fra il dovere militare e la fede, i sacrifici fatti in difficili condizioni morali. Centinaia i caduti con oltre 400 nominativi, 587 i feriti, 54 i dispersi, centinaia le decorazioni al valore concesse e fra queste soltanto sette quelle elargite da americani e polacchi (nessuna da parte inglese). Non inferiori quelle meritate dai paracadutisti del nord che ebbero 621 caduti, 316 feriti e 620 dispersi e prigionieri, oltre 400 le decorazioni meritate fra cui oltre 80 croci di ferro di 1ª e 2ª classe a riconoscimento del valore da parte dell’alleato germanico sempre prodigo di elogi e ammirazione per i volontari italiani.
Cosa dunque restava della nostra scelta fatta non per tentare di vincere (la guerra era ormai perduta per la Germania) se non per salvare l’Onore d’Italia? Fu soltanto un ideale premio morale emerso luminoso fra tante amarezze e umiliazioni inferte dai vincitori; un valore simbolico, idealizzato che nessuno potrà mai portarci via o permettersi di discutere. Lo abbiamo conquistato duramente con innumerevoli sacrifici e se la Storia ha cambiato in parte, grazie alla RSI, il suo severo giudizio sull’Italia, lo si deve anche a chi fece di tutto per cambiarlo, sacrificandosi nel nome d’Italia, riscattandone l’Onore.
La piccola differenza fra NOI e Loro è tutta qui!
 
 
NUOVO FRONTE N. 197 Dicembre 1999.
 

 

venerdì 7 gennaio 2022

"MARO' A 16 ANNI"

REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA. I CAMPI DI PRIGIONIA IN ITALIA             


 

San Rossore 1945

"MARO' A 16 ANNI" (da)
Sergio Moro
 
 
    Provenienti da Alessandria dove abbiamo sostato una sola notte, e diretti a Genova via ferrovia, una volta giunti venimmo sistemati con altre centinaia di soldati della Repubblica Sociale Italiana nel campo sportivo di calcio di Marassi. Nuova perquisizione eseguita dalla polizia militare americana all'ingresso del campo. Mi sequestrano il cucchiaio. Non ho più nulla: fazzoletti, pettine, gavetta mi erano già stati tolti in precedenza dai partigiani.
    Il giorno del trasferimento da Alessandria a Genova sono sicuro di non avere ricevuto pasti da parte dei vincitori. Svegliati all'alba, incolonnati verso l'uscita del campo, dove era in attesa una colonna di camion americani guidati da militari negri, veniamo trasferiti a sud.
    A nord era pericoloso sostare, perché era ancora in corso la liberazione di grandi città.
    Si parte: la meta è Pisa.
    Lungo il percorso Versilia - Massa Carrara, veniamo aggrediti da civili, con una fitta sassaiola.
    Vengo raggiunto al petto da un grosso sasso che di rimbalzo mi cade sulle ginocchia; mani più leste delle mie lo raccolgono e lo rigettano con violenza verso la parte degli assalitori. La strada ancora dissestata dal furore della guerra, non era ancora sistemata, perciò la colonna dovette rallentare e così incappammo nella sassaiola.
    Si prosegue più celermente una volta lasciata la zona disastrata.
    Nel pomeriggio si giunge al campo di San Rossore, allora tenuta reale di caccia. In otto soldati prendiamo posto sotto una tenda. Il campo è situato su un terreno sabbioso, meno male perché si dorme a terra, senza coperte. Al mattino presto sveglia, e subito adunata e in riga. A pochi passi dalla mia tenda, verso l'ingresso del nostro recinto vedo due camerati morti. Mi avvicino con altri e riconosco dai gradi e dalla divisa che sono due sottotenenti della Guardia Nazionale repubblicana. La voce che circola è che le guardie hanno sparato perché i due hanno tentato la fuga. Ma se li separavano ancora molti metri dal cancello, perché sparare loro? Comodo dire "Volevano fuggire! " erano caduti riversi in direzione della strada che divide i vari campi, all’interno del campo, e non verso i reticolati all’esterno. Mistero! Non voglio lanciare accuse, ma gli americani bevevano molto, e sparavano per un rumore qualsiasi all’interno del campo. Del gruppo che occupa la tenda fa parte anche il mio ritrovato sergente, solo pochi giorni prima, con un gesto eroico si addossò una colpa non sua per salvare altri dalla fucilazione. Mi racconta che l'avevano picchiato e gli avevano tolto gli occhiali: era molto depresso. Finalmente si mangia, vengono distribuite scatole da dieci razioni americane alle quali vengono tolte sigarette, zucchero e, non sembra vero, i tagliaunghie. Le scatole contengono frutta, minestra, verdure disidratate. Basta metterle a bagno in acqua che tutto ritorna a grandezza naturale. Per noi era un'assoluta novità. Quanta roba avevano gli americani!
    A fianco avevamo ucraini che avevano aderito all'esercito di Hitler. Erano ancora tutti in divisa della Wermacht, da loro ci divideva una barriera di filo spinato alta tre o quattro metri. Con gli ucraini, attraverso la rete, si barattavano orologi, penne stilografiche, anelli, medaglie, catenine in cambio di pane. Noi buttavamo la merce di scambio oltre la rete, loro la prendevano e sparivano di corsa. E noi a pensare: addio orologio! Invece andavano da qualcuno a farlo visionare e ritornavano con il pane. Erano leali!
    Noi eravamo un poco "carognette" conoscendo il destino che li aspettava, lavori forzati a vita e molte fucilazioni perché avevano tradito. Li sfottevamo dicendo "Piccolo padre Stalin zac! Taglia la testa a tutti". Non abbiamo sbagliato, riconsegnati ai sovietici, tutti persero la vita. A loro favore voglio ricordare che erano ucraini invasi dai russi, quindi rivolevano la loro autonomia, che i loro connazionali oggi hanno ritrovato.
    Nel recinto di fronte a noi, oltre la strada interna che percorreva tutto il campo, erano prigioniere le Ausiliarie, Corpo femminile in divisa e come noi vincolate da un giuramento. Erano molto compite, orgogliose, disciplinate e forti nel loro disagio. Ma il più eccezionale compagno di prigionia che ci capitò fu un partigiano. Al nostro arrivo a Genova alla Stazione di Porta Brignole, per raggiungere lo stadio di Marassi avevamo dovuto passare tra due ali di folla inferocita. Noi vinti, in silenzio, ma fieri, uniti San Marco con San Marco, Alpini con Alpini, inquadrati, ufficiali in testa, ai quali sono maggiormente rivolti insulti e sputi.
    Gli Alpini sono in gran numero. Improvvisamente due di loro escono dalle file, sollevano di peso il più agitato di tutti quelli che c'insultavano, alto, magro, giovane, e lo intruppano con loro. Nessuno mi crederà, ma condivise con noi tutto il periodo di prigionia. Ad alcuni di noi anzi insegnò il gioco degli scacchi. Era stato soprannominato da alcuni "Palmiro", da altri "Stella Rossa".
    Nei primi giorni di reclusione aveva fatto un gran sbraitare a ridosso del filo spinato che separava noi militari dalle guardie americane, proclamandosi partigiano: nessuno l'ascoltava. Sarebbe stato buon gioco di tutti proclamarsi partigiani, con la speranza di vedersi aperto il cancello della libertà. Si rassegnò, e divise con noi sei mesi di stenti.
 
 
SAN MARCO N. 21. Luglio-Settembre 1998

 
 

FUGA DA SAN ROSSORE Estratto da una lettera di Saverio Rizzi
 
 
    ... dopo Uscio veniamo circondati e catturati dagli americani. La prima notte di prigionia la trascorriamo a Gattorna. Il mattino successivo siamo scortati fino a Lavagna.
    Durante il tragitto a piedi, la gente c'inviava tutti gli epiteti possibili, ma noi procedevamo cantando i nostri inni. Non fummo malmenati solo perché gli americani lo impedirono armi in pugno. Il giorno dopo siamo trasferiti coi camions a San Rossore. Passano quaranta giorni e quaranta notti interminabili. Nessuno può scrivere a casa per avvertire i familiari del nostro destino, e sono in ansia per i miei che ignorano tutto della mia sorte.
    Il 10 giugno 1945 radio campo sparge la notizia che saremo trasferiti, chi dice in America, chi al Sud. Tante sono le voci. Il settore in cui ero rinchiuso coi miei camerati era dal lato opposto alla spiaggia. In mezzo vi era la strada interna del campo, oltre la quale vi era un settore ancora vuoto, che a sua volta dava verso la spiaggia. Quel settore vuoto forse era meno sorvegliato? Probabile. Uscire dal campo sembrava quindi una cosa possibile, ma poi? Non potevo certo andare in giro in divisa della San Marco. Io non fumavo, ed avevo accumulato nello zaino parecchi pacchetti di sigarette fin da prima di essere fatto prigioniero. Trovo tra i prigionieri un civile che accetta di darmi il suo vestito in cambio delle sigarette. Non mi spaventano certo i reticolati, né le sentinelle dai musi neri, e in quella notte decido la fuga solitaria. Oltre tutto nessuno mi aveva mai chiesto le generalità, e penso che non sapessero nemmeno bene quanti eravamo. Come avrebbero fatto a riprendermi, una volta che fossi arrivato a casa? Indossati gli abiti civili, dopo la mezzanotte attraverso il viale interno entro nel settore vuoto e giungo ai reticolati. Attendo un po’ di tempo: nessuno si muove. Mi butto fuori e via nella pineta. All'alba sono alla periferia di Pisa. Poi, attraverso l'Appennino, arrivo a Bologna, quindi a Padova: era il 13 giugno. Infine a Bassano del Grappa termina la mia fuga e ritrovo la mia famiglia. 
 
 
SAN MARCO N. 21. Luglio-Settembre 1998

 

SAN ROSSORE: 339° POW CAMP Una cronaca e due testimonianze di reduci della San Marco
 
 
    Lo spirito che animò gli uomini di San Marco, e tutti coloro che si schierarono con la Repubblica Sociale Italiana, non fu spezzato dalla sconfitta dell'aprile '45, e li sostenne, orgogliosi dei loro ideali, nei campi di prigionia militari, nelle carceri e per molti di loro fino davanti ai carnefici che ne fecero strage. In memoria di quanti soffrirono la durezza dei campi di concentramento, e di quanti vi trovarono anche la morte, SAN MARCO ha pubblicato due anni fa in edizione integrale i sei numeri de "Il Megafono", giornale murale interamente scritto ed illustrato a mano nel Campo P.O.W. 337L/5 di Coltano da prigionieri di guerra per i loro camerati. Questo volume, meglio di qualsiasi discorso, illustra l'animo con cui venne affrontata quella prova. In esso appare chiara la volontà di non rinnegare nulla del proprio passato, e, contemporaneamente, quella di prepararsi ad affrontare nel modo migliore, una volta tornati alla vita civile, il mondo che li attendeva oltre i reticolati. Pensiamo di fare cosa gradita ai lettori che ancora non lo abbiano richiesto, nel ricordare che è ancora possibile avere copie del volume sia nell'edizione normale a lire sessantamila che in quella numerata a lire centoventimila. In realtà per molti Coltano non fu il primo campo di prigionia. Molti trascorsero un primo periodo nel Campo di San Rossore. Alla rievocazione di quei giorni sono dedicati gli scritti che qui di seguito vi presentiamo. La diversa origine ne giustifica il diverso tono e la diversa lunghezza. Un articolo il pezzo di Davide Del Giudice, brani di un libro di memorie quello di Sergio Moro, frammenti di una lettera il contributo di Saverio Rizzi. Li unisce la dirittura delle coscienze, la semplicità e lo spirito indomito (N.d.R.) 
 
SAN MARCO N. 21. Luglio-Settembre 1998 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
SAN ROSSORE 1945/1998
Davide Del Giudice
 
 
    All’interno del parco naturale di San Rossore, già tenuta reale dei Savoia ed in seguito tenuta presidenziale, nel 1945 gli americani allestirono un grande campo di prigionia denominato "POW Camp n° 339".
    In realtà non si trattava di un solo campo, ma di diversi settori della grande tenuta che vennero disboscati e disseminati di baracche e tende. Prima dei prigionieri italiani della RSI e dei tedeschi, vi avevano trovato alloggio le varie divisioni alleate in addestramento o a riposo dal fronte. I prigionieri arrivarono qui nel 1945 e quasi tutti i soldati repubblicani vi soggiornarono prima di essere inviati nei campi di Coltano. A San Rossore vissero la prigionia anche molti volontari dei paesi dell'Est Europa arruolatisi nella Wermacht. I soldati repubblicani, e tra di essi molti uomini della SAN MARCO, non stettero troppo male a San Rossore, perché il cibo era sufficiente (razioni da combattimento USA in pacchi di cartone), e il dormire sulla soffice sabbia non era proibitivo nelle miti notti di maggio. La dura prigionia di Coltano sarebbe venuta di li a breve. Gli italiani, in ogni modo, approfittando delle manchevolezze dei servizi di guardia dei soldati di colore della 92a Divisione USA, riuscirono in diversi casi a fuggire, come un ufficiale della "Leonessa" che, afferrato il Garand ad un soldato alleato glielo assestò pesantemente sul capo, fracassandogli il liner dell'elmetto, fuggendo poi in maniera rocambolesca, assieme ad un camerata e vagando per giorni nella tenuta, dormendo nelle tane dei cinghiali, prima di raggiungere l'agognata libertà. Non altrettanto bene andò il tentativo di fuga di due giovanissimi gemelli livornesi già ufficiali della GNR; furono visti allontanarsi dalle sentinelle e falciati senza pietà. Era il 5 maggio 1945. Nei giorni successivi le razioni individuali calarono notevolmente e le sigarette cominciarono a scarseggiare. Il 10 giugno 1945 i prigionieri italiani furono incolonnati a piedi e, passando per Pisa tra gli scherni ed i lazzi della popolazione, raggiunsero i campi 337 e 338 di Coltano: Oggi, dopo 53 anni, solo alcuni spiazzi ancora disboscati e diverse scritte in inglese ormai sbiadite su quelli che furono i muri delle autorimesse, ci ricordano che in questo luogo un tempo c'era un campo di prigionia. Ma la sabbia cela in se ancora preziosi cimeli che il nostro fidato metal detector individua dopo ore di paziente ricerca. Affiorano tra le altre cose un Leone di San Marco con ancora tracce di vernice rossa, ed un gladio da giubba, mute testimonianze d'uomini coraggiosi che in un tempo ormai lontano sacrificarono la loro giovinezza e poi anche la vita in nome degli ideali di Patria e Onore.
 

 
SAN MARCO N. 21. Luglio-Settembre 1998

sabato 1 gennaio 2022

LE RESPONSABILITA' NELLA GUERRA DI ETIOPIA.

LE RESPONSABILITA' NELLA GUERRA DI ETIOPIA. LA POSIZIONE INGLESE A DIFESA DEI PROPRI INTERESSI

da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DA VERSAILLES AL 10 GIUGNO 1940. Cap. VIII. Guido Mussolini e Filippo Giannini
 
 

    Il 1935 fu l’anno dei grandi avvenimenti che avrebbero condizionato la futura politica internazionale.
    Scrive Amedeo Tosti, nel testo già citato, a pag.26: "Con il conflitto italo-etiopico e il conseguente urto italo-britannico si può considerare aperta la crisi che doveva condurre alla seconda guerra mondiale. I fatti sono noti e non è il caso qui di rievocarli. Il Governo fascista aveva da tempo mire espansionistiche in Etiopia. Sul finire del 1934, in seguito ad incidenti di frontiera nella regione Somalia-Ogaden, abilmente provocati da Roma (?) e, comunque, esagerati dal Governo fascista, i rapporti fra l’Italia e l’Etiopia entrarono in una fase di acuta tensione. Della controversia il Governo etiopico volle che fosse investita la Società delle Nazioni e la richiesta trovò un valido sostenitore nel Governo britannico, il quale riteneva opportuno combattere, fin dall’inizio, le chiare aspirazioni imperialistiche di un regime autoritario quale quello fascista che poteva seriamente compromettere la pace generale, tanto più che l’Inghilterra si trovava, in quel momento, di fronte ad un grande movimento di opinione pubblica, in seguito agli atteggiamenti dell’altro Governo autoritario ed antidemocratico: il nazionalsocialismo tedesco".
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    È bene, intanto, sottolineare che il libro di Amedeo Tosti fu scritto negli anni immediatamente seguenti il secondo dopoguerra e, quindi risente del clima di penalizzare la parte perdente. E allora, come si svolsero realmente i fatti?
    Premessa: la prima forma storica dell’impero etiopico fu il Regno di Axum (dal nome della sua capitale) che si trovava nella provincia del Tigrè a nord dell’attuale Etiopia e, secondo una vecchia leggenda, la dinastia regale di Axum discenderebbe dalla regina di Saba. 
    Sino agli inizi dell’attuale secolo, l’Abissinia, allora dai confini molto ristretti, si accrebbe con una politica di conquiste intraprese dal Negus Menelik e proseguita da Selassiè, sottomettendo e annettendo all’Abissinia i territori dei Galla, Sidano, Arusi, i regni negri di Kaffa e Wolamo, lo Yambo, il Barau, il sultanato di Tiern e, addirittura, nel 1935 il sultanato di Jimma. È una realtà che queste conquiste altro non erano che spedizioni per razzie di schiavi.
    Quel che scrive Tosti (e, come detto, condiviso da altri): "Il Governo fascista aveva da tempo mire espansionistiche in Etiopia", non è corrispondente alla realtà o, almeno, è un’affermazione che va rettificata nel tempo. Infatti, proprio nel 1923 e proprio il Governo fascista, malgrado la diffidenza inglese, s’era fatto principale sostenitore dell’ammissione dell’Etiopia nella Società delle Nazioni, E ancora, nel 1928 era stato firmato un trattato di amicizia e cooperazione italo-etiopico.
    Furono, invece, proprio i Governi pre-fascisti ad avere mire sull’impero etiopico. Analizziamo, pur se sinteticamente, i fatti: 1882, inizio della politica coloniale. Impianto delle colonie di Assab. 1885, occupazione di Massaua (Mussolini aveva due anni). 
    1887, fu inviato sconsideratamente in quelle terre un reparto composto da appena cinquecento uomini al comando del tenentecolonnello Carlo De Cristoforis, reparto che fu massacrato da truppe abissine guidate dal Ras Alula. 1888, spedizione di 20 mila uomini al comando del generale San Marzano contro l’Abissinia. Il sultanato di Obbia sulla costa dei Somali diventa protettorato italiano. 
    1889, Trattato di Uccialli: protettorato italiano sull’Etiopia. 
    Estensione del protettorato sulla costa dei Somali. 1890, i possedimenti italiani sulla costa africana del mar Rosso vengono raggruppati in un’unica colonia che prende il nome di Eritrea. 1895, guerra all’Etiopia. 1896, il Governo Crispi fu il responsabile, per beghe di partito fra liberali e l’opposizione socialista, del mancato invio dei rinforzi alla spedizione italiana comandata dal generale Baratieri che, proprio per le inadeguate forze a sua disposizione, subì una disastrosa sconfitta ad opera del Negus Menelik ad Adua. Erano eventi che avevano marcato in profondità la coscienza di almeno un paio di generazioni di italiani. L’umiliazione di quelle sconfitte era sentita, come sostengono alcuni commentatori: "al di là di quanto imposto dalla sua entità sia sul piano militare che politico". Ma gli appetiti coloniali dei Governi pre-fascisti si svilupparono anche verso il Nord Africa. Fu infatti il Governo Giolitti a volere l’impresa di Libia che persino Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia, scritta polemicamente durante il fascismo, la esaltò come iniziativa di sensibilità politica. E ancora: 1908, tutti i possedimenti italiani sull’Oceano Indiano vennero conglomerati sotto l’ unico nome di Colonia della Somalia Italiana. 1911, ultimatum alla Turchia e inizio della guerra italo-turca. Occupazione di Tripoli. La guerra venne estesa dalla flotta, oltre che in Tripolitania, anche nel Mar Egeo e nel Mar Rosso. Occupazione delle isole di Stampalia, di Rodi e di tutto il Dodecanneso. 1912, la Camera approvò con 431 voti su 470 e al Senato all’unanimità la sovranità italiana sulla Libia. Pace di Losanna tra Italia e Turchia. Istituzione del Ministero delle Colonie. Né va dimenticato che la riappacificazione della Libia, avvenuta nel primo dopoguerra, fu condotta, con mano di ferro, dal liberaldemocratico Giovanni Amendola, allora Ministro delle Colonie.
    In questo contesto, va ricordata l’Albania. Infatti, per ordine del Governo Nitti vennero inviati in quel Paese notevoli contingenti di truppe italiane. A gennaio 1920 i delegati albanesi si riunirono a Lushnje e costituirono un Governo provvisorio a Tirana, chiedendo la completa indipendenza dell’Albania e, di conseguenza, il ritiro dei 70 mila soldati italiani, comandati dal generale Settimio Piacentini, che occupavano il loro Paese.Il 3 gennaio 1920, il Governo provvisorio albanese presentò un ultimatum al generale Piacentini, ultimatum che venne respinto. A seguito di ciò, il 5, il 6 e l’11 giugno gli albanesi attaccarono Valona. Le truppe italiane respinsero l’attacco e nuovi rinforzi vennero inviati in Albania.
    Se quindi, ci fossero colpe da addebitare al Governo Mussolini, queste sono di essere riuscito lì dove i Governi pre-fascisti delittuosamente fallirono.
    Come si giunse al conflitto italo-etiopico?
    Dopo i disastri sopra accennnati, sull’Etiopia si erano concentrati gli interessi, oltre che commerciali anche strategici, della Gran Bretagna e della Francia. A testimonianza della crescente attenzione, su quella zona africana, delle potenze europee, è l’attestato dell’accordo, siglato nel 1906 il quale fissava le rispettive zone d’influenza in Etiopia fra quelle due potenze e l’Italia. 
    I nostri rapporti con quel Paese africano si andarono deteriorando nel 1930.
    Guariglia,(6) in una memoria del 1932 scrisse "Il problema del nostro rapporto di Potenza con l’Etiopia e della nostra penetrazione pacifica e militare in essa, s’impose, ripeto, fin dal momento del nostro sbarco ad Assab". 
    La tensione nei rapporti italo-etiopici si aggravarono alla fine del 1934, quando un contingente abissino si accampò davanti al fortino di Ual-Ual difeso dai Dubat, soldati somali fedeli all’Italia, al comando del capitano Roberto Cimmaruta.
    Ual-Ual era una località posta al confine, sin da allora incerto, fra Somalia ed Etiopia, ma mai rivendicato dal Governo Abissino. 
    Il 5 dicembre di quell’anno, dopo che i Dubat rifiutarono la richiesta abissina di sgombero, questi scatenarono l’assalto e lo scontro si concluse all’alba del giorno seguente con la vittoria italiana, ma le nostre truppe coloniali lasciarono sul terreno 120 morti.
    Bruno Barrella su Il Giornale d’Italia del 18 luglio 1993, rammentando i fatti di Ual-Ual, scrive: "È l’ultimo di una catena di episodi di sangue che avvenivano lungo uno dei confini più labili dell’epoca.
    Mussolini da tempo aveva deciso di completare la conquista del Corno d’Africa, ma la difficoltà maggiore era costituita proprio dall’appartenenza dell’Etiopa alla Società delle Nazioni come Membro a pieno titolo e dalle garanzie che il Negus Hailè Selassiè aveva da tempo ricercato, e trovate presso gli inglesi, di cui era un vassallo fidatissimo. Dieci giorni dopo Ual-Ual, il Negus, nonostante la sua piena responsabilità nella strage, chiede alla Società delle Nazioni l’avvio della procedura necessaria per un arbitrato internazionale per dirimere i contrasti con Roma. Mussolini invece pretende le scuse, la punizione dei responsabili e il riconoscimento della sovranità italiana sulla regione dove sono avvenuti gli incidenti. Ogni composizione attraverso gli organismi internazionali, fa sapere, non è desiderata né accettata. Ed a Pietro Badoglio, allora Capo di Stato Maggiore Generale, vengono assegnati i piani della guerra.
    Per risolvere pacificamente il dissidio creatosi a seguito degli incidenti di Ual-Ual, venne istituita una commissione arbitrale italo-etiopica, presieduta dallo specialista greco di diritto internazionale Nicolaos Politis. La commissione il 3 settembre 1935 emetteva la sentenza attribuendo le cause degli scontri agli atteggiamenti ostili di alcune autorità locali abissine, escludendo, di conseguenza, ogni responsabilità italiana.
    Una testimonianza, forse unica sulle colpe abissine per gli "incidenti" ai pozzi di Ual-Ual, ci viene fornita da un lettore de Il Giornale d’Italia, che in data 20/08/1996, quale persona presente ai fatti, scrive: "Il sottoscritto in compagnia di un maggiore del Regio Esercito nel territorio di Ual-Ual, vide i 14.000 armati etiopi che il Negus inviò contro la Somalia italiana, lungo il fiume Uebi Scebeli (3000 da una riva del fiume ed 11.000 dall’altra riva) e che solamente dietro intervento dell’aeronautica italiana, in particolare del velivolo comandato dal M.llo pilota Perego si riuscì a far indietreggiare il predetto contingente. Purtroppo diversi militari etiopi, disertori o disgregandosi (così nel testo ndr) rimasero lungo il confine che imbattendosi con i Dubat italiani, originarono l’intervento Italo-etiopico".
    Mussolini cercava l’assicurazione che, in caso di conflitto, Francia e Inghilterra non sarebbero state ostili. Per quanto riguarda la Francia, nell’incontro di Roma del 4 gennaio 1935 con il Primo Ministro francese Laval, questi, in cambio di una politica più morbida dell’Italia nei Balcani e un freno nelle rivendicazioni dei diritti italiani in Tunisia, assicurò il benestare francese all’iniziativa italiana in Etiopia.
    Questi accordi non risultano dai testi ma si svelano dallo scambio segreto di lettere tra Laval e Mussolini dove risulta, secondo quanto scrive Renzo De Felice in Mussolini il duce, che la Francia "lasciava mano libera" all’Italia in Europa. Il testo della lettera di Laval era volutamente ambiguo e dichiarava che l’interesse francese sarebbe stato solo di natura economica. In ogni caso, con la Francia, che avrebbe preferito avere l’Italia al suo fianco contro Hitler piuttosto che avversaria, l’accordo fu raggiunto.
    E l’Inghilterra?
    Scrivono molti storici, piuttosto frettolosamente, e citiamo ad esempio Max Gallo in Vita di Mussolini, pag. 199: "(Mussolini ndr) respinge un Piano Eden di compromesso, arringa centomila soldati (...)".
    Ma cosa veniva ad offrire Eden a Roma il 23 giugno 1935?
    A mezzo del suo Ministro degli Esteri Antony Eden, il Governo Baldwin presentò una proposta di compromesso che si articolava in questo modo: l’Etiopia avrebbe ceduto all’Italia l’Ogaden ricevendo in cambio dall’Inghilterra il porto di Zeila. Ma questo avrebbe accresciuto il prestigio dell’Etiopia a danno dell’Italia che, con l’Ogaden, avrebbe ricevuto kilometri quadrati di sterile deserto. I giornali di allora scrissero che era una proposta indecente.
    Guariglia nei suoi Ricordi a pag. 245, attesta: "Mussolini seppe conservare tutta la sua calma di fronte a questa manifestazione inglese dove non si poteva dire se predominasse l’ottusità, l’improntitudine o il disprezzo assoluto non tanto verso la politica italiana, quanto verso il popolo italiano, fascista o non fascista che fosse, della cui intelligenza non si faceva, da parte inglese, il benché minimo conto".
    Alessandro Lessona, allora Ministro delle Colonie del Governo Mussolini, nel 1937, così testimoniò: "Io ho il privilegio d’essere l’unico collaboratore di Mussolini a conoscenza del suo segreto pensiero e devo, per la verità, dichiarare solennemente ch’egli si augurò sempre di evitare il conflitto armato con l’Etiopia. Anche quando più decisi erano i preparativi, continuò a coltivare la speranza che "ritenendolo deciso alla guerra" si potesse giungere ad una soluzione pacifica. Cadono dunque le illazioni e le responsabilità che si sono volute addossare sulle spalle di Mussolini per aver voluto provocare la guerra etiopica ed aver così acceso la fiammella della seconda guerra mondiale. Se responsabilità vi furono, sono da attribuire alla testardaggine, all’animosità con le quali Eden condusse le trattative ginevrine".
    Ma cos’era in definitiva che spingeva la diplomazia inglese ad una simile linea? Riteniamo, in primo luogo, una diversa politica inglese nei confronti del pericolo tedesco; infatti pochi giorni prima la Gran Bretagna aveva stipulato con Hitler quell’indecoroso accordo navale del quale sopra abbiamo accennato. Secondo: escluso che alcun inglese si preoccupasse davvero dell’indipendenza o meno dell’Etiopia, altri e più sottili timori furono a smuovere il Governo britannico e cioè, una volta che l’Etiopia fosse stata popolata da milioni di coloni italiani e dotata di un esercito formato da nazionali ed indigeni, essendo quel Paese posto in una posizione strategica vitale nel seno dell’Africa, sarebbe stato un serio pericolo per i possedimenti britannici in quelle aree.
    Altro motivo probabilmente valido e di cui ne condividiamo il contenuto, è quello esposto da Luigi Rossi in: Uomini che ho conosciuto: Mussolini, pag. 335: "Fu proprio la visione anticolonialista ed antiimperalista di Mussolini (che rompeva gli schemi classici degli interessi afroasiatici di Londra) ad impressionare sfavorevolmente gli inglesi. Mussolini, a proposito del problema delle colonie (in rapporto all’ipotesi di un reintegro dei tedeschi in Africa), aveva sostenuto che per superare i vecchi schemi (visti i fermenti suscitati dopo la guerra soprattutto da Gandhi), occorreva un salto di qualità. Era necessaria, quindi, un’integrazione euro-afro-asiatica per valorizzare globalmente le tecnologie industriali più avanzate e le risorse di materie prime dei Paesi inseriti nel circuito coloniale, allargando i benefici comuni a tutte le popolazioni indigene. Era allora una concezione ardita (...)".
    Sempre nel citato Volume, Luigi Rossi chiarisce le motivazioni dell’atteggiamento di Antony Eden, nei confronti dell’Italia, in forma piuttosto colorita. L’Autore riferisce di un colloquio avuto con un giornalista inglese dell’Agenzia Reuter, Cecil Sprigge: "Immagina" disse Sprigge a Rossi "che l’Impero britannico sia una grande automobile. L’abitacolo è rappresentato dal Regno Unito, l’albero di trasmissione si snoda attraverso il Mediterraneo per arrivare fino all’estremo Oriente, ma il motore è rappresentato dai possedimenti imperiali. Ti spieghi così la ragione per cui Eden è stato sempre così pregiudizialmente contrario a qualunque politica che potesse rafforzare l’Italia nel Mediterraneo. E siccome questa politica era spinta avanti con forza da Mussolini, ti spieghi perché Eden fu sempre un irriducibile nemico di Mussolini stesso. Diverso invece il rapporto con Hitler, nel cuore dell’Europa, stretto tra la Polonia e la Francia, premuto dalla Cecoslovacchia e guardato a vista dai sovietici". 
    "La storia recente" obiettò Luigi Rossi (eravamo allora nel 1956 e l’Impero inglese era già in briciole) "ha dimostrato che Eden era miope. Anzi quasi cieco".
    "Sprigge sorrise e mostrò di apprezzare la battuta. Infatti Sprigge non era malato di edinite" 
    Gli avvenimenti precipitavano: il 20 agosto Mussolini inviò una lettera a De Bono, posto a capo del corpo di spedizione italiano in quel settore: "Io credo che dopo il 10 settembre tu debba senz’altro aspettare la mia parola d’ordine". 
    Il 20 settembre la Home Fleet entrava nel Mediterraneo con lo scopo evidente di dissuadere l’Italia da ogni azione in Etiopia; si trattava di una forza mai vista in tempo di pace: 6 navi da battaglia, diciassette incrociatori di vario tonnellaggio, il tutto scortato da 53 caccia, undici sommergibili, più una gran quantità di unità di appoggio.
    "Mussolini" scrive D’Aroma "viveva in quei giorni un’alternativa grave di pensieri e di decisioni opposte. Alle volte gli appariva che l’Inghilterra avrebbe alla fine voluto discutere e non tagliare i ponti; in certe giornate, viceversa, gli pareva certo che l’Inghilterra, una volta stremata l’Italia con le sanzioni, subito dopo avrebbe attaccato il nostro Paese".
    Su queste considerazioni, il Duce preparò una relazione e la presentò al Re. Così Vittorio Emanuele III rispose al suo Primo Ministro: "Sapevo quasi tutto quello che lei m’ha schiettamente riferito. So pure dell’opposizione, cauta ma viva, che si è diffusa tra i suoi principali collaboratori. M’hanno informato e so i nomi di molti generali e ammiragli che paventano e discutono troppo. Ebbene: adesso proprio che gli inglesi sono nel nostro mare e credono di averci spaventati, adesso il suo vecchio Re le dice: - Duce, vada avanti. Ci sono io alle sue spalle. Avanti, le dico!".
    Ricevuto l’ordine di Mussolini, il 3 ottebre le truppe di De Bono varcarono il fiume Mareb, che segnava il confine fra l’Eritrea e l’Etiopia.
    Il giorno prima, alle 18,30, dal balcone di Palazzo Venezia, oltre all’annuncio dell’inizio delle ostilità, Mussolini frà l’altro disse: "Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un pò di posto al sole (...) noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo".
    Il 7 ottobre l’Italia fu dichiarata Paese aggressore e il 10 ottobre 1935, in virtù dell’art. 16 dello Statuto della Società delle Nazioni, il Ministro britannico riuscì a mettere insieme una maggioranza di 51 Stati su 54 che votarono a favore dell’applicazione di sanzioni economiche contro l’Italia. Era la prima volta, dalla costituzione della Società delle Nazioni, che tale procedura veniva applicata; iniziava quella fase che avrebbe fatalmente portato l’Italia a schierarsi dall’altra parte (come vedremo più avanti) e questo per la difesa di un Paese che, come disse poi il Segretario degli Affari Esteri inglese, Lord Simon alla Camera dei Comuni il 24 giugno 1936: "Io non ero disposto a veder andare una sola nave in una battaglia navale anche vittoriosa per la causa dell’indipendenza abissina".
    E allora, perché le sanzioni?
    Questa domanda assume un aspetto ancor più inquietante leggendo quanto disse un altro membro della Camera, Lord Mottiston, rispondendo alla domanda perché non si opponeva all’impresa italiana in Abissinia: "Volevo distruggere la ridicola aberrazione per cui sembrava una cosa nobile simpatizzare per le bestie feroci. La legge abissina era di mutilare i vivi e poi seppellirli nella sabbia affinché morissero. C’era allora un milione di questa genia; io speravo che coloro i quali volevano indire manifestazioni contro gli italiani si ricordassero che i prodi figli d’Italia affrontavano proprio allora quegli sciagurati (...). Avevo telegrafato al generale De Bono sul problema della schiavitù in Abissinia, rispose che le truppe italiane erano state accolte col più commovente entusiasmo non solo da quelli che erano stati ridotti in schiavitù ma anche dalla popolazione media (...). Rivelai tutto ciò alla Camera dei Lords il 23 ottobre 1935. Io dissi che era un’infamia mandare armi o cooperare all’invio di armi ai brutali, crudeli abissini e negarne agli altri che combattevano con onore (...). Il comandante italiano in Abissinia aveva telegrafato a Mussolini: "Come sapete ho viveri e vestiario sufficiente per le truppe per i prossimi mesi, ma non vedo come potrei nutrire anche 120 mila uomini, donne e bambini che vengono a porsi sotto la nostra protezione". Mussolini rispose: "Dobbiamo assumerci tale rischio. Continuate a nutrire la popolazione indigena come prima" (...)".
    Iniziava così l’avventura etiopica che, come disse Churchill a pag. 192: "Il ricordo della disfatta umiliante che l’Italia aveva subito quarant’anni prima ad Adua, e della vergogna quando il suo esercito era stato non solo distrutto, ma i prigionieri erano stati oscenamente seviziati, si annidava esacerbato nella mente di tutti gli italiani".
    In ogni caso, mai il consenso del popolo per Mussolini fu più alto; per rispondere alle inique sanzioni, fu indetta la Giornata della Fede, tendente a raccogliere oro per far fronte alle difficoltà dovute al provvedimento della Società delle Nazioni. Solo a Roma 250 mila spose donarono le loro fedi, 180 mila a Milano. Tutta l’Italia fu percorsa da un’ondata di entusiasmo come mai si verficò nei secoli passati. Si può dire che l’Italia aveva, finalmente, il suo popolo omogeneo, da Nord a Sud.
    Gli stessi antifascisti si allinearono alla politica mussoliniana: Benedetto Croce donò la sua quantità d’oro e la sua medaglia di senatore, seguito dal liberale ed ex direttore del Corriere della Sera Albertini; nello stesso modo agirono Vittorio Emanuele Orlando e il socialista aventiniano Arturo Labriola, rientrato in Italia dal suo esilio a Bruxelles, dopo aver comunicato la sua solidarietà all’Italia fascista.
    Gli stessi comunisti lanciarono il loro appello ai fratelli in Camicia Nera.
    La dichiarata tradizionale amicizia italo-britannica era in frantumi. Il Governo inglese agiva come se la pace europea si difendesse nel Corno d’Africa e non, invece, per quanto stava accadendo in Europa.
    Molto acutamente Trevelyan nella sua Storia d’Inghilterra, a pag. 834: "E l’Italia, che per la sua posizione geografica poteva impedire i nostri contatti con l’Austria e coi Paesi balcanici, fu gettata in braccio alla Germania dalle - sanzioni economiche - decretate e si e no applicate per l’aggressione di Mussolini contro l’Etiopia (1935-1936). In questo disgraziato episodio, l’Inghilterra non ebbe la risolutezza né di rifiutare il suo intervento né di intevenire sul serio. Si sacrificò l’Europa all’Abissinia, senza salvare l’Abissinia".
    "Fu gettata nelle braccia della Germania (...)" Questa frase richiama singolarmente quella di Churchill, citata all’inizio del presente lavoro: "Adesso che la politica inglese aveva forzato Mussolini (...)". Tutto ciò non era che la logica conseguenza dei fallimenti di tutte le iniziative per il disarmo e le soluzioni negoziate, fallimenti dovuti agli egoismi e alla cecità che generarono dal famigerato Trattato di Versailles. 
    Alle sanzioni non aderirono Stati Uniti, Giappone e Germania. Fu quest’ultimo Paese i cui diplomatici, approfittando della singolare situazione politica europea, furono abili nel cogliere il momento favorevole e sfruttarlo a proprio vantaggio.
    Nel tentativo di esporre le ragioni del Governo italiano, Guglielmo Marconi si recò a Londra, ma non solo cozzò contro l’intransingenza britannica, ma la Corona inglese giunse a tal punto d’arroganza da offrire al nostro grande scienziato un titolo nobiliare purché si astenesse dal dimostrare la sua adesione all’impresa etiopica. È superfluo aggiungere che Guglielmo Marconi rifiutò sdegnato l’oltraggiosa offerta.
    Chi si avvantaggiò di questa situazione fu Hitler che vedeva prendere sempre più forma il suo disegno tracciato nel Mein Kampf: un’alleanza politico-militare tra Italia e Germania. A tal scopo mobilitò abilmente la stampa tedesca che, sull’onda emotiva delle sanzioni, si prodigò in dichiarazioni di simpatia e di amicizia per il nostro Paese e, in particolare, per Mussolini. E Mussolini si trovò a subire il dinamismo hitleriano in quanto i margini di manovra per altra politica si erano paurosamente ristretti, ma anche perché e soprattutto perché l’Italia dipendeva principalmente dalla Germania per le forniture delle materie prime. 
    Peraltro, anche durante il conflitto italo-etiopico, Mussolini non dette mai seguito agli inviti che venivano da oltr’Alpe. Come disse giustamente, a nostro avviso, Renzo De Felice in un’intervista rilasciata in occasione del cinquantenario dell’entrata in guerra dell’Italia: "Mussolini aveva un’atavica paura dei tedeschi". In quest’ottica, riteniamo, va letta la politica estera mussoliniana nella seconda metà degli anni ’30.
    La sera del 5 maggio 1936, di fronte a una folla immensa, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciò la vittoriosa conclusione dell’impresa africana e, fra l’altro, proclamò: "Nell’adunata del 2 ottobre, io promisi solennemente che avrei fatto tutto il possibile onde evitare che un conflitto africano si dilatasse in una guerra europea. Ho mantenuto tale impegno e più che mai sono convinto che turbare la pace in Europa significa far crollare l’Europa". Poche volte una profezia si è trasformata in storia come nel caso appena citato.
    Il 9 maggio dello stesso anno, tra le 22,30 e le 22,45, Mussolini pronunciò un altro discorso: "Il discorso della proclamazione dell’Impero". Quando si affacciò al balcone un urlo immenso si levò dalla folla: "Anche stavolta l’adunata oceanica è impressionante" 
    "(...) L’Italia ha finalmente il suo Impero, Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate dei giovani, gagliarde generazioni italiane. Impero di pace, perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti e si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose, incoercibili necessità di vita. Impero di civiltà e umanità per tutte le popolazioni d’Etiopia. Questo è nelle tradizioni di Roma, che dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino".
    Questi principi di civiltà sono confermati da Renzo De Felice ne: Intervista sul fascismo, pag. 52: "Non si tratta di imperialismo di tipo inglese o francese: è un imperialismo, un colonialismo che tende all’emigrazione, che spera cioè che grandi masse di italiani possano trapiantarsi in quelle terre per lavorare, per trovare quelle possibilità che non hanno in patria. Insomma non si parte tanto dall’idea di sfruttare le colonie, quanto soprattutto dalla speranza di potervi trovare terra e lavoro".
    È quello che francesi e inglesi non intendevano tollerare: sarebbe stato un esempio pericoloso per la politica coloniale di quei Paesi che non volevano saperne di cambiare, cioè mantenere il principio che le colonie erano terre da sfruttare.
    Cessata la guerra in Africa, cessò anche a Ginevra: qui il 30 maggio 1936 Hailè Selassiè avanzò una proposta tendente a non far riconoscere la conquista italiana; venne respinta con 28 voti contro 1 e 25 astensioni. Il 4 luglio successivo l’Assemblea, quasi all’unanimità votò per la fine delle sanzioni. Fu un innegabile successo di Mussolini, ma una sconfitta del buon senso.
    Osserva Trevelyan in Storia d’Inghilterra, pag. 834: "Gli storici futuri avranno lo sgradevole compito di ripartire la colpa dei molti errori commessi fra i successivi Governi inglesi e l’opposizione e l’opinione pubblica i cui umori mutevoli sono stati spesso accarezzati dai Governi con troppa docilità".
    Infatti il danno era compiuto: Inghilterra e Francia avevano mostrato la propria ostilità al Governo fascista. Ma altri errori, forse (semmai possibile) ancora più gravi, saranno posti in atto addirittura nelle settimane successive.
    Anche la Chiesa di Roma elogiò l’impresa etiopica: il gesuita Antonio Messineo su Civiltà Cattolica plaudì con due saggi intitolati: L’annessione territoriale nella tradizione cattolica e Necessità economica ed espansione coloniale.
    Fu il Cardinale Ildefonso Schuster a richiamare la volontà divina: "Cooperiamo con Dio in questa missione nazionale e cattolica in bene, in questo momento in cui sui campi d’Etiopia il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza la catena degli schiavi, spiana la strada ai missionari del Vangelo".
    Pochi anni dopo, nel momento del maggior bisogno, tutto sarà nascosto e dimenticato.
    Il clero anglicano prese posizione ma, al contrario della Chiesa cattolica era allarmato dei successi italiani (e aveva fondati motivi per preoccuparsi) perché l’Italia cattolica (che non era più l’Italietta) minacciava di erodere l’impero britannico anche per mezzo della religione. Scrive in merito Franco Monaco a pagina 76 del Quando l’Italia era Italia: "Di qui le prediche contro l’Italia, feroci e calunniose, del primate Arcivescovo di Canterbury e del Vescovo di York. Agli inglesi non si poteva dare torto. In effetti le nostre aspirazioni andavano molto più in là delle loro stesse paure. Un giorno tutta intera la fascia orientale africana, con l’Egitto, il Sudan e giù giù fino all’Uganda e al Kenya, avrebbe potuto vederli finalmente partire per sempre. L’Etiopia non era che il primo passo, il primo di un cammino non solo politico: poiché la Nazione giovane portava nel suo seno il cuore del Cattolicesimo e le due forze si integravano (...)". 
    Certamente i timori britannici erano fondati; si consideri, oltretutto, che il Governo italiano prevedeva di inviare in Etiopia ben 15 milioni di coloni e all’uopo stava predisponendo grandiosi lavori strutturali.
    Per il leone britannico era troppo!
    Anche se l’argomento sarà trattato con maggior rilievo nel volume Uno scudo protettivo - Mussolini, il Fascismo e gli ebrei, è opportuno rilevare in questa sede, che la conquista dell’Etiopia e la successiva proclamazione dell’Impero, furono salutate dalla stampa ebraica e dalla stragrande maggioranza degli ebrei italiani, con esultanza.
    Su Israel del 10 ottobre 1935, in occasione del Kippur, i Rabbini invocarono il favore divino "in quest’ora storica e su chi regge i destini e sui valorosi soldati italiani".
    In ampie zone dell’Etiopia, fra Gondar e il lago Tana, vivevano popolazioni di religione giudaica: i falascià. L’Unione delle Comunità giudaiche, nel 1936, prese contatto con il Ministro delle Colonie, Lessona, allo scopo di assistere e organizzare gli ebrei etiopici. Da parte del Ministro ci fu la massima disponibilità. 
    L’incarico di questa operazione fu assunto dal Rabbino Carlo Alberto Viterbo.
    A fine luglio 1936 C.A. Viterbo partì per l’Africa Orientale e il 22 agosto successivo si incontrò ad Addis Abeba con il Maresciallo Rodolfo Graziani "che gli manifestò la sua comprensione e simpatia per gli israeliti" e lo assicurò che: "le popolazioni falascià, note per il loro spirito laborioso, avrebbero ottenuto la particolare benevola attenzione del Governo".
    Uno dei risultati di questa iniziativa fu che molti ebrei etiopici vennero a studiare, negli anni successivi, in Italia.
    Prima di chiudere l’argomento del conflitto italo-etiopico, non è male riportare quanto in questi giorni (febbraio 1996) alcuni giornali titolano: Il Duce in Etiopia usÒ i gas. Sono scoperte ripetute da Denis Mac Smith e immediatamente ampliate da Angelo Del Boca. Le smentite vengono proprio da coloro che erano sul posto e sono innumerevoli. Ne riportiamo solo due perché racchiudono nei concetti le motivazioni delle altre.
    Il Signor Toni Summanga di Venezia, l’8 maggio 1991 su Il Giornale fra l’altro ricorda: "Francia e Inghilterra deluse del mancato fallimento dell’operazione diffusero subito la voce che gli italiani avevano usato i gas. Io in Africa Orientale ci sono stato. Appena arrivato ad Addis Abeba, mi fu chiesto da un commerciante francese che risiedeva sul posto se avevamo usato i gas. Da Massaua ad Addis Abeba, non ho mai visto né sentito parlare di maschere che pure avremmo dovuto usare se avessimo lanciato i gas. Abbiamo impiegato le armi convenzionali (moschetto, cannone, qualche velivolo e truppe coloniali (...)".
    Per avere un altro giudizio più diretto, l’8 febbraio 1996 abbiamo contattato il generale Angelo Bastiani, presidente del gruppo Medaglie d’Oro del Nastro Azzurro. Oggi DECEDUTO, all’epoca della guerra in Africa Orientale era un sottufficiale al comando di una banda coloniale. Il generale Bastiani ci ha detto: "È una vigliaccata, rieccoci con le carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie di ogni assalto, ci avrebbero dato almeno le maschere antigas… Alla battaglia conclusiva di Maiceo, al lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche il Negus… a proposito del Negus: perché lui che ne avrebbe avuto tutto l’interesse, mai disse che lo combattemmo coi gas?".
    (…)
 
 
da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DA VERSAILLES AL 10 GIUGNO 1940. Guido Mussolini e Filippo Giannini
Anno di Edizione: 1998. Greco&Greco editori. (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)