domenica 30 agosto 2020

3 SETTEMBRE 1939: INIZIAVA COSI’ LA SECONDA GUERRA MONDIALE

3 SETTEMBRE 1939: INIZIAVA COSI’ LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Francia e Gran Bretagna responsabili della morte dell’Europa

Con le dichiarazioni di guerra degli Imperi francesi e britannico alla Germania del 3 settembre 1939, il Vecchio Continente sprofondava in quello che passò alla storia come il Secondo conflitto mondiale.
Tuttavia, questa data è stata rimossa dai manuali di storia, intenti ad attribuire al Reich la deliberata volontà di scatenare una guerra planetaria dagli esiti apocalittici. E, infatti, oggi nessuno mette in discussione la data del 1° settembre 1939 come data di inizio del quel conflitto.

Ma cosa accadde veramente questo giorno?
Prima ci tolleri il lettore una breve “retrospettiva”. Dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale, la Germania – come gli altri Stati sconfitti – venne duramente punita. La Pace di Versaglia, che provocherà un’instabilità tale da condurre a un secondo conflitto, venne studiata appositamente per garantire l’egemonia dei due Imperi-guida che avevano trionfato, anche a scapito dell’Italia che della coalizione vincente faceva parte.
Francia e Gran Bretagna decisero di punire la Germania e, tra le varie vessazioni imposte al Reich sconfitto, vi fu quella della costituzione della Libera Città di Danzig (Danzica) che de iure spezzava in due la continuità geografica della Germania e de facto permetteva l’incunearsi della Polonia in territorio tedesco, fino al Mar Baltico (all’epoca la Polonia era uno Stato continentale e non aveva accessi al mare).
Il ritorno alla Madre Patria di Danzig fu sempre nell’agenda di tutti i Governi germanici, ma la debolezza dello Stato tedesco e l’incapacità degli “amministratori” della Repubblica di Weimar frustrarono ogni ipotesi di “ritorno”.
Le cose cambiarono con l’avvento al potere del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi, i cui sostenitori si diffusero massicciamente in tutti i territori irredenti del Reich.
Anche a Danzig (95% di popolazione di origine germanica) i nazionalsocialisti ottennero la maggioranza e si schierarono compattamente per il ritorno alla Madre Patria.
Nel 1938, un referendum condotto sotto controllo di osservatori neutrali della Confederazione Elvetica confermò in maniera schiacciante – se ce ne fosse stato il bisogno – il desidero della città tedesca di riunirsi al Reich.
Danzig irredenta per i Germanici divenne un simbolo, come Trieste irredenta lo era stata per gli Italiani.
Ma Francia e Gran Bretagna, che ostacolavano il sorgere della potenza “concorrente”, fecero blocco e si schierarono nettamente contro ogni mutamento dei confini imposti alla Germania dal Trattato di Versaglia.
Nell’ottobre 1938, Hitler chiese palesemente alla Polonia la restituzione di Danzig, ma il Governo polacco, nel timore di perdere il suo unico accesso al mare e forte dell’appoggio internazionale, rifiutò sdegnosamente tutte le offerte germaniche.
Le reiterate proposte tedesche e i continui rifiuti del Governo polacco fecero comprendere che per salvaguardare i diritti del popolo di Danzig l’unica soluzione doveva essere affidata alle armi.
Nell’agosto 1939, il Reich concluse un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica, il cui obiettivo era quello di neutralizzare il forte esercito della Polonia con un duplice attacco: da oriente e da occidente. L’URSS, come pegno per il suo intervento, si assicurava addirittura i 2/3 dell’intero territorio polacco!
Il Governo della Polonia, consapevole della situazione, ma ancora sicuro di poter giocare le sue carte, proclamò la mobilitazione generale, respingendo anche l’ultima “ragionevole proposta” – come venne definita dalla Gran Bretagna – della Germania.
Stanche di pazientare e provocate dall’atteggiamento intransigente dei Polacchi, il 1° settembre, le Divisioni tedesche e un contingente della Repubblica Slovacca attaccarono.
Il 3 settembre 1939, Francia e Gran Bretagna utilizzarono questo conflitto “locale” per dichiarare guerra alla Germania, sapendo benissimo di scatenare una guerra mondiale.
Le alte probabilità che nel conflitto potesse essere coinvolta anche l’Italia – legata al Reich dal Patto di Acciaio – fanno ipotizzare che i due Imperi francesi e britannico volessero liquidare non solo la potenza continentale tedesca, ma anche quella italiana, la cui espansione marittima nel Mediterraneo e coloniale in Africa turbavano e irritavano le diplomazie dei due Governi democratici.
Del resto, Francia e Gran Bretagna decisero di attaccare solo la Germania e non l’URSS le cui Armate, dal 17 settembre, “scorazzavano allegramente” in territorio polacco.
Che la “difesa” della Polonia fosse stata solo un pretesto per scatenare una guerra mondiale in funzione anti-germanica e anti-italiana è dimostrato dal fatto che, quando l’URSS richiese formalmente di inghiottire nella sua zona di influenza tutta l’Europa orientale – compresa la Polonia – le “candide vestali” della democrazia britannica e francese accondiscesero al progetto, tradendo altresì i soldati dell’Armata polacca che combattevano valorosamente al loro fianco in Italia nella speranza di tornare un giorno nella loro Polonia, libera da ogni straniero.
La Seconda Guerra Mondiale arriverà ben presto a coinvolgere il Giappone, che nella sua espansione stava travolgendo gli interessi franco-britannici in Asia. Si ricordi che l’Impero del Sol Levante era in guerra “locale” con la Cina fin dal 7 luglio 1937. Strano che anche questa data non venga utilizzata come data di inizio del Secondo conflitto…
Francia e Gran Bretagna fecero molto male i loro conti. L’esercito francese – il più forte del mondo nel 1940 – venne travolto dalle Divisioni corazzate del Reich con una rapidità impressionante, mentre quello inglese – che vantava la Marina da guerra più forte del mondo – dovette ben presto chiedere aiuto ai “cugini” statunitensi.
L’entrata in guerra degli USA – che da tempo aspiravano a un conflitto mondiale per far rientrare la crisi decennale, per eliminare la minaccia giapponese e imporsi come Stato-guida – determinò la svolta.
A essere travolte dallo schiacciante strapotere statunitense, però, non furono solo le Armate dell’Asse, ma anche i sogni di gloria britannici (quelli francesi, orami, erano sepolti da un pezzo).
L’Inghilterra si troverà così a vincere una guerra sapendo di averla persa politicamente.
Questo declinò porterà con sé il crollo dell’intera Europa, oggetto della duplice occupazione sovietico-americana. Quell’occupazione a cui ancor oggi è costretta e che ha la sua chiara espressione nelle centinaia di basi militari statunitensi sparse in tutto il Vecchio Continente e nella farsa delle guerre “umanitarie” per l’“esportazione della democrazia”.


Pietro Cappellari
Ricercatore
Fondazione RSI
Istituto Storico

                                                                                                               

martedì 18 agosto 2020

LA VERITA’ SU VIA RASELLA


 

LA VERITA’ SU VIA RASELLA

 

E SULLA STRAGE DELLE FOSSE ARDEATINE

 

Di Antonio Leggiero

 

Molto è stato scritto, giustamente, sull’eccidio delle FOSSE ARDEATINE.

            Il problema è che, quasi tutto è stato prodotto, in modo deformato e incompleto, sulla falsariga ineliminabile, condizionante e coartante del “mito resistenziale”.

           

  Va ricordato, ad onor del vero, senza nulla togliere all’inaudita gravità della strage, che, in ogni conflitto e in ogni epoca storica, è stato sempre riconosciuto alle forze armate di una nazione il diritto legittimo di rappresaglia, a seguito di attentati eseguito contro le proprie truppe. Ciò è stato sempre praticato da tutti gli eserciti del mondo, anche da quelli, a torto, ritenuti più “umani”.

            Basti ricordare, realtà ai più sconosciuta, che l’esercito americano durante l’ultimo periodo di guerra, nei primi mesi del ’45, nei territori occupati in Germania, aveva imposto la regola dei cento tedeschi fucilati, per ogni militare statunitense ucciso!

            Di questo, nessuno ne parla. Non si può infangare la leggenda “degli americani buoni, portatori di civiltà”. Già, il mitico esercito “yankee” liberatore degli oppressi e castigatore dei cattivi. In Italia, più di mezzo secolo fa, gli americani eseguivano questo compito “in maniera impeccabile”, mitragliando i bambini nei giardini degli asili e delle scuole, durante le ore di ricreazione, colpendo le autoambulanze con le insegne della Croce Rossa in evidenza e lasciando dei “meravigliosi souvenirs” per le strade, in cui si nascondevano dei subdoli e terrificanti ordigni, che colpivano e martoriavano gli strati più inermi della popolazione (chi non ricorda le famigerate penne d’oro?), con bambini accecati e mutilati.

            Non divaghiamo e torniamo alle Ardeatine, cercando di ricostruire gli eventi così come si svolsero, in quel maledetto inizio di primavera, di circa sessant’anni or sono.

            Nel fare ciò, dobbiamo prima analizzare, almeno per sommi capi, una questione fondamentale, di cui poco o nulla si discute: quale fu la causa?

            In altre parole: come si giunse all’eccidio? Perché?Chi lo volle?

            Del resto, la logica vuole che di ogni fenomeno della realtà ci si interroghi prima sulla causa e poi sull’effetto, anche se quest’ultimo, può essere, per così dire, più appariscente e calamitante, a tal punto da richiamare maggiormente l’attenzione. Come è accaduto nel caso in questione.

            Iniziamo con ordine.

            Com’è noto, Roma viveva l’occupazione tedesca con una certa tolleranza, anche perché gli effetti del governo militare erano assai blandi.

            Naturalmente, questo non era gradito ai comandi partigiani, che vedevano ciò come un impedimento alle loro azioni di guerriglia, con i più estremisti che accusavano la popolazione di inerme acquiescenza all’occupazione tedesca.

            Ragion per cui, i capi decisero di agire, del tutto incuranti delle successive conseguenze sui civili. Ma questo era il normale “modus operandi” dei partigiani in Italia.

            Ed ecco quindi che, il 23 marzo 1944, un gruppo di GAP (acronimo che stava per GRUPPI D’AZIONE PATRIOTTICA, ma che, in sostanza, erano il braccio armato del PARTITO COMUNISTA, a cui, peraltro, è stato sempre alieno il concetto di Patria) entrò in azione. Il gruppo di fuoco era guidato da ROSARIO BENTIVEGNA e composto dalla sua compagna CARLA CAPPONI (nome di battaglia ELENA), FRANCO CALAMANDREI, CARLO SALINARI (nome di battaglia SPARTACO), RAOUL FALCIONI, FERNANDO VITAGLIANO, PASQUALE BALSAMO, SILVIO SERRA, FRANCESCO CURRELI e GUGLIELMO BLASI.

            Anche se, nelle stesse dichiarazioni dei partigiani partecipanti all’azione, a distanza di anni, vi sono ancora delle vistose incongruenze, sui nomi e sul numero di chi era presente a Via RASELLA. Ma, anche questo modo confuso e farraginoso di raccontare le loro azioni, fa parte del loro “cliché”.

            Comunque, questo fu, secondo la massima probabilità, il gruppo degli esecutori. Veniamo, quindi, ai mandanti.

            L’azione era stata autorizzata dal Comando Militare del CLN, di cui faceva parte RICCARDO BAUER, SANDRO PERTINI (da non ricordare soltanto come il simpatico connetto, che faceva i salti di gioia ai mondiali di calcio per la nostra nazionale, ma anche e soprattutto come famigerato “baciatore” omaggiante delle bandiere “titine” ed elargitore di vitalizi a tanti aguzzini delle foibe), RICCARDO BAUER e GIORGIO AMENDOLA, che era soltanto il responsabile militare delle formazioni partigiane comuniste a Roma, mentre il vero “deus ex machina” era il “mitico compagno ERCOLE ERCOLI”, alias PALMIRO TOGLIATTI.

            Torniamo a quel tragico pomeriggio d’inizio primavera, un pomeriggio pieno di sole, quando ancora le stagioni mantenevano i loro ritmi naturali.

            Il gruppo di GAP aveva osservato, in precedenza, che, tutti i giorni, alla stessa ora, attraverso Via RASELLA un reparto di tedeschi, per recarsi al cambio della guardia al Quirinale. Dopo averne studiato le mosse, stabilì che questo era il giusto obiettivo strategico (?).

            Occorre, già qui fare due doverose precisazioni storiche.

            Primo, questo reparto non era composto, come i più credono, grazie alla “vulgata resistenziale”, da sadici e feroci torturatori nazisti. Questi militi, invece, appartenevano all’Undicesima Compagnia del Reggimento di Polizia “BOZEN”, semplicemente aggregata, per motivi contingenti, alle SS, ma mai impegnata in vere e proprie azioni di guerra, principalmente per ragioni anagrafiche, in quanto erano uomini in là con gli anni.

            Secondo, non erano sanguinari e cinici “mostri teutonici” ma erano dei richiamati – riservisti ALTOATESINI, cioè ITALIANI.

            In ogni caso, alle 15 e 52 del 23 marzo ’44, ROSARIO BENTIVEGNA, appena ricevuto il segnale dell’arrivo del reparto, all’imbocco della strada, accese la miccia della bomba, occultata in un carretto della nettezza urbana, contenente diciotto chili di tritolo, più infiniti pezzi di acciaio e ferro, per accrescere l’effetto devastante.

            Fu l’inferno!

            A causa di quell’esplosione, morirono 32 militi tedeschi all’istante, più un altro, il giorno dopo, in ospedale.

            Fin qui, più o meno, la storia è abbastanza conosciuta.

            Pochissimi sanno, invece, che, nell’esplosione, morirono anche due italiani, che erano sul posto e che non avevano nulla a che vedere con tutta quella maledetta guerra! Costoro erano stati visti dagli attentatori, i quali non fecero nulla per salvarli, decidendo ugualmente di portare a compimento quell’insulso atto, che tanto sarebbe costato all’inerme popolazione.

            Quindi, li sacrificarono coscientemente. La prima vittima era un ragazzino di tredici anni. Si chiamava PIETRO ZUCCHERETTI, il quale, per una di quelle tragiche fatalità del destino che non perdonano, si trovava sul posto. Infatti, dovendosi recare al lavoro, era salito su un autobus che doveva farlo scendere a Via DEL TRITONE. Purtroppo, l’autobus quel giorno non rispettò la sua abituale tabella di marcia ed il ragazzo fu costretto a scendere alla fermata di PIAZZA BARBERINI.

            Fu attratto, adolescente, dalle note della canzone, che i militi tedeschi cantavano, mentre marciavano (“HUPF MEIN MADEL” – “SALTA RAGAZZA MIA”) ed invece di prendere Via DEGLI AVIGNONESI, rimase ad aspettare, quella che, ai suoi occhi, sembrava una simpatica parata militare. Secondo alcuni testimoni, per godersi meglio la “sfilata”, si era addirittura seduto sul carretto dei rifiuti, che conteneva i diciotto chili di tritolo!

            Fu la sua condanna. L’esplosione lo dilaniò orribilmente in sette pezzi, che furono scaraventati a diverse decine di metri di distanza. I piedi non furono mai trovati e di lui, rimase visibile sul selciato soltanto il tronco!

            L’altra vittima si chiamava ORFEO CIAMBELLA, aveva 60 anni e svolgeva l’incolpevole, anzi lodevole, compito di custode del deposito della Croce Rossa di Via RASELLA. Anche lui, fu preso in pieno dall’esplosione. Venne scaraventato a circa sessanta metri dallo scoppio! Non morì subito, ma dopo una lunga e terribile agonia, durata diversi anni, con il corpo pieno di schegge, che lo tormentarono, fino alla fine, tra indicibili sofferenze.

            Di questi due martiri nessuno o quasi ne ha mai parlato, se non un’eccellente inchiesta svolta dal giornalista PIERANGELO MAURIZIO, per conto del quotidiano “IL TEMPO”, una decina d’anni or sono.

            Per i partigiani, l’azione di Via RASELLA non provocò vittime civili.

            La domanda più straziante e lacerante, ovviamente non solo adesso, ma già allora era ed è: “Quale straordinaria importanza strategico-militare poteva avere quest’azione?”.

            Purtroppo, per quanto si cerchi di trovarne una soddisfacente, una risposta convincente non c’è. Se non quella di suscitare la prevedibilissima e scontatissima rappresaglia tedesca. Infatti, da tempo, le strade della capitale erano tappezzate con sinistri e lugubri manifesti, che annunciavano terribili rappresaglie per ogni azione contro le forze germaniche. Anche, dal punto di vista dei partigiani, nell’ottica della loro lotta ai tedeschi, non c’era assolutamente bisogno di compiere quella scellerata azione, visto che erano già sulla strada della capitale le colonne Alleate del Generale CLARK, che, infatti, di lì a settanta giorni circa, sarebbero entrate in Roma. E ciò sarebbe avvenuto con o senza VIA RASELLA.

            E’ da ricordare anche che il Comando Militare Germanico di Roma riuscì a mitigare una richiesta di rappresaglia di HITLER ancora più tremenda, che consisteva nel far saltare in aria un intero quartiere, con CINQUANTA ITALIANI UCCISI PER OGNI TEDESCO! Detto Comando riuscì, invece, ad applicare la misura di DIECI ITALIANI PER UN TEDESCO.

            Va anche ricordato che tutta la carneficina che seguì alle FOSSE ARDEATINE, si sarebbe ancora potuta evitare, se si fossero consegnati i responsabili. Perché, allora, almeno qualcuno di questi partigiani, se veramente voleva essere un eroe, non si presentò? Il fulgido esempio di SALVO D’ACQUISTO era ancora fresco e non era avvenuto molto distante.

            Per carità, mi venga perdonato questo accostamento blasfemo, tra un EROE in odore di Beatificazione e dei cinici esecutori di ordini di Togliatti, accanito aguzzino di tanti italiani (anche comunisti) in Russia!

            Pertanto, inevitabilmente, ci fu l’inumana mattanza, che avvenne in alcune cave fuori Roma, lungo la Via ARDEATINA, dove furono massacrate 335 persone!

            Per cercare di comprendere, se mai sarà possibile, oggi, dopo sessant’anni, come queste reazioni indubbiamente brutali, profondamente inumane, terribilmente bestiali (ripetiamo, praticate da tutti gli eserciti), tuttavia, assumano, in quell’irripetibile contesto storico-militare il carisma di “legittimità” (ovviamente dal punto di vista strettamente giuridico, mai morale, per carità, altrimenti sarebbe la fine della coscienza umana), va ricordato un particolare rivelatore.

            Quando, a distanza di anni, si celebrarono i processi ai responsabili dell’eccidio delle ARDEATINE, coloro i quali vennero condannati all’ergastolo, per strage, in primis il colonnello HERBERT KAPPLER, vennero ritenuti penalmente responsabili non per i 335 morti, esecuzione avvenuta in ottemperanza di un ordine legittimo, ma per i cinque in pù, che furono aggregati, per errore, al gruppo dei condannati, nella concitazione degli eventi.

            Ed è il caso di ricordare anche l’anomala vicenda giudiziaria del capitano ERICH PRIEBKE, vice di KAPPLER, in un primo momento assolto, poi processato di nuoco, quasi a furor di popolo, per le enormi proteste di piazza della comunità ebraica, con nuova sentenza, stavolta, di condanna, quasi violando il sacrosanto principio di civiltà giuridica del “ne bis in idem”!. E questo non è avvenuto nell’immediato dopoguerra (si sarebbe anche potuto capire), ma qualche anno fa! Una chicca di chiusura. Nel 1982, allora Presidente della Repubblica SANDRO PERTINI (singolare coincidenza) furono decorati al valor militare il capo-esecutore del gruppo di fuoco ROSARIO VENTIVEGLIA e la moglie CARLA CAPPONI, partecipante all’azione di Via RASELLA (SIC!).

            Ce n’era proprio bisogno, dopo quarant’anni, e per quali straordinari meriti?

            Queste due medaglie stridono contro il buon senso e contro ogni logica.

            Visto che erano due, andavano conferite alla memoria delle due vittime innocenti e dimenticate di Via RASELLA: PIETRO ZUCCHERETTI e ORFEO CIAMBELLA.

            Per tutta riconoscenza, in un libro pubblicato l’anno successivo (’83) dal BENTIVEGNA, con il titolo “Acthung banditen”, lo stesso scrisse: “LA PROPAGANDA NEMICA DIFFUSE CHE CIVILI, RESIDENTI O DI PASSAGGIO, ERANO STATI COINVOLTI NELL’AZIONE DI VIA RASELLA. NON RISULTA DALLE FONTI STORICHE CONSULTATE, CHE VI SIANO STATI DEI CADUTI CIVILI”.

            Ogni commento è vano.

            Se non che questi due poveri cristi vennero uccisi per la seconda volta. Dalla stessa mano di chi li aveva uccisi, accendendo quella stramaledettissima miccia, in un soleggiato pomeriggio d’inizio primavera di tanti anni prima.

 

P.S.: va ricordato infine, per inquadrare meglio il personaggio BENTIVEGNA, che dopo l’ingresso delle truppe alleate in Roma, quindi, ad ostilità cessate, il gappista uccise a colpi di pistola un giovane tenente della Guardia di Finanza di nome GIORGIO BARBARISI, “reo” di avergli intimato di affiggere un manifesto, in una zona vietata. Ne nacque un alterco con conseguente omicidio. Una corte alleata condannò il BENTIVEGNA  diciotto mesi di reclusione per “ECCESSO DI DIFESA”.

 

Articolo tratto da STORIA DEL NOVECENTO anno V n. 52 del luglio 2005 pagine 36/37/38    

                                                                                                                                                          

giovedì 13 agosto 2020

Tra qualche decennio il giorno della memoria ricorderà il genocidio dei popoli europei

Tra qualche decennio il giorno della memoria ricorderà il genocidio dei popoli europei

Il 27 gennaio, le autorità festeggeranno – è il termine adatto dal loro punto di vista – il giorno della memoria. Non in nome degli ebrei morti durante la seconda guerra mondiale, ma per utilizzarli come mezzo per le loro politiche attuali. Come ogni anno, quest’anno più degli altri, faranno l’insensato parallelo con i migranti-immigrati-profughi. E non importa se il 99 per cento di questi ‘profughi’ sono islamici, e che nel 90 per cento dei casi vorrebbero la morte di ogni ebreo: questo è un optionale per chi fa dei morti un feticcio. Sfruttando l’ignoranza della popolazione.

Ma tra qualche decennio, i ‘nuovi europei’ festeggeranno un altro giorno della memoria, ricordando la grande sostituzione etnica che li avrà portati a spadroneggiare sul continente una volta chiamato Europa. Ricorderanno, con divertimento e un pizzico di incredulità, come tutto sia avvenuto per volontà o ignavia degli europei stessi, che li hanno fatti entrare con tutti gli onori. Ricorderanno con divertimento e incredulità i nomi Merkel, Renzi, Hollande e di altri politici. Ricorderanno come sia bastato sacrificare qualche bambino, per fare calare ogni difesa ad una civiltà moralmente decadente: e quando parliamo di ‘decadenza’, non ai soli costumi ci riferiamo, che pure ne sono parte, ma in primis al nichilismo e alla mancanza di volontà di potenza.

Oggi viviamo l’epoca del ‘grande vittimismo’, la vittima, vera o presunta (quasi sempre presunta) ha sempre ragione. E allora, fate un piccolo sforzo di immaginazione, piangete la vittima di oggi che verrà ricordata in futuro. E magari, evitate che divenga vittima, perché la Storia non è scritta.

 

venerdì 7 agosto 2020

SOVRANITA' E IDENTITA' CONTRO IL TIRANNO GLOBALE

SOVRANITA' E IDENTITA' CONTRO IL TIRANNO GLOBALE

...Ma se il pensiero corrompe il linguaggio,
anche il linguaggio può corrompere il pensiero.

George Orwell


Finché non diverranno coscienti della loro forza non si ribelleranno.
E, finché non si ribelleranno, non diverranno coscienti della loro forza.

George Orwell

Centosettant'anni dopo la celebre definizione di Metternich, l'Italia sembra tornata ad essere nulla più di “un'espressione geografica”. So che non si tratta di una valutazione accettata ma quel che io vedo, e che chiedo di confutare a chi vi riuscisse, è un Paese spogliato d'ogni sovranità e in crisi d'identità, con in tasca una moneta straniera, Berlino per capitale effettiva, un inglese impostore eletto a nuova madrelingua ed il relativismo culturale a sovrintender le menti in vece di religione di Stato.

Mi perdonerete se salto a pie' pari il primo punto, ma dell'euro ho già scritto così tanto da rischiare la pedanteria. Basti ricordare che anche Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze di Romano Prodi, ha ora dovuto ammettere, in palese contrasto alla narrazione tuttora egemone a sinistra, che la moneta unica è “un marco tedesco sottovalutato”.

Per quanto iperbolica, dubito poi che la pur fastidiosa immagine di Berlino capitale richieda spiegazioni particolarmente approfondite. Come noto, infatti, la lunga stagione italiana dei governi tecnici, cominciata nell'estate del 2011 e temo ancora lontana dall'auspicabile fine, fu conseguenza di una violenta impennata dello spread, innescata, guarda caso, da una maxi-vendita dei Btp fin lì gelosamente conservati nelle casseforti di Germania. Fu la Cancelliera Merkel in persona poi, una volta vinta la campagna d'estate dello spread, a dichiarare ufficiosamente il “protettorato tedesco”, dettando punto per punto l'agenda politica di Roma con la famigerata formula – evoluzione delle antiche condizioni di pace - dei “compiti a casa”. Da allora Berlino dispone, magari per mezzo dei suoi ventriloqui di Bruxelles, e Roma esegue, vergando con le lacrime e il sangue degli italiani quaderni su quaderni di “compiti a casa”...

Desidero tuttavia far notare che alla docile accettazione del giogo tedesco è andato aggiungendosi, da qualche tempo, uno spettacolo altrettanto mortificante, ma ancor meno comprensibile: l'oblio organizzato della lingua italiana, ovvero dell'ultimo retaggio ancora intatto della nostra identità nazionale.

Con una decisione giudicata oltraggiosa persino dall'Accademia della Crusca, il Ministero dell'Università e della Ricerca guidato da Valeria Fedeli ha infatti stabilito che i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) che ambiscano al finanziamento pubblico dovranno essere scritti in inglese, tollerando tuttavia che i candidati che lo desiderino alleghino alla domanda una copia sussidiaria in italiano. E' dunque vero, come ha subito protestato il ministero, che “è scorretto dire che la lingua italiana sia stata bandita”. In effetti è stata solo degradata, in Italia, al rango di una lingua complementare e facoltativa.

Sbaglia di grosso, peraltro, chi tenta di ricondurre la portata della questione ad un livello settoriale, ricordando che le pubblicazioni scientifiche internazionali vengono di norma compilate in inglese. Il bando, infatti, ammette anche Prin di natura umanistica; dunque persino chi volesse presentare un progetto orientato alla conservazione della poesia vernacolare sarà costretto a spiegarlo ...in inglese. Se non siamo all'assurdo, poco ci manca.

Temo tuttavia che sia alquanto ingenuo ridurre l'assurdità di una simile decisione alla scarsa inclinazione personale della signora Fedeli per l'italiano. L'adozione dell'inglese, che non è solo la lingua della scienza ma è e resta soprattutto la lingua dei mercati, obbedisce infatti ad un imperativo categorico della globalizzazione che, attraverso la distruzione programmata degli idiomi nazionali, mira a costruire un prototipo seriale di homo novus, perfettamente identico ai propri simili a prescindere dal luogo di nascita e dalla cultura di provenienza. Da qui la necessità di procedere per costante sottrazione delle differenze, cominciando naturalmente dalla lingua, dal momento che lingue diverse esprimono diversi pensieri. Uniformare il linguaggio serve perciò a uniformare i pensieri mentre uniformare i pensieri è la condizione essenziale per uniformare i comportamenti.

La sostituzione strisciante dell'italiano con l'inglese non riguarda solo l'istruzione universitaria. Da quest'anno, infatti, gli studenti di tutte le scuole secondarie dovranno assistere, oltre alle consuete (e, intendiamoci, sacrosante) lezioni “di” inglese, anche a lezioni “in” inglese delle principali materie scientifiche. Materie scientifiche, forse non lo sapete, come la storia. Ma non c'è un cortocircuito logico nel pretendere che la storia d'Italia venga insegnata in inglese? In quella storia, quantomeno, sembrerebbe mancare qualcosa. Qualcosa di enorme.

Si dice che il frutto non cada mai troppo distante dall'albero. Ed è vero. A spacciare tutte queste innovazioni legislative per progresso, in effetti, è una classe politica rampante che ormai da anni, sfoggiando il classico cosmopolitismo del provinciale, ha preso a giustificare ogni porcheria dell'agenda mondialista in un inglesorum subdolo che tanto ricorda il viscido latinorum usato da Don Abbondio per far fessi i villani. Chiamandolo esoticamente Jobs Act, Matteo Renzi è riuscito a conferire un'accecante veste di modernità alla cancellazione delle tutele dei lavoratori, evitando così che la base popolare del Pd, operaista e post-comunista, interpretasse immediatamente quella legge per ciò che era: una contro-riforma reazionaria e padronale. D'altro canto oggi è facile per il popolo cadere nel tranello dei dotti. Politici e giornalisti non fanno che ripeterci che bisogna fare la spending-review perché altrimenti sale lo spread e rischiamo il default, esponendo anche i nostri risparmi al rischio di un bail in. E chi sostiene il contrario, ovviamente, sta solo raccontando fake-news...

Dovendo pagare il mio tributo alla cultura anglosassone, consentitemi di parafrasare un micidiale fustigatore dei “modernisti” d'ogni tempo quale fu, e continua ad essere, George Bernard Shaw. Anche io, come lui, non credo sia necessario essere stupidi per parlare inglese tra italiani, ma certamente aiuta.

Per il gusto dell'ironia, che anche nel delirio del mondo globale resta la spada più adatta ad infilzar le idiozie, dimenticavo di dirvi che persino la Rai, malgrado i noti problemi di bilancio, ha voluto contribuire all'internazionalizzazione linguistica del Paese lanciando un nuovo canale della Radio-televisione Italiana totalmente in inglese.

Cambiare la lingua, come detto, serve a riprogrammare le menti. Ma le menti, per conservare l'illusione di funzionare in autonomia, necessitano di un “software” filosofico capace di restituire un senso anche al non-senso. Questa filosofia-guida, a mio avviso, è chiaramente rintracciabile nel Relativismo Culturale, una piattaforma di pensiero ispirata alla negazione d'ogni pensiero che predica l'iper-tolleranza per meglio praticare la tirannia. Esagero? Giudicate voi. Con la surreale giustificazione del rispetto delle diversità (ma a nulla di effettivamente diverso, in realtà, è più concesso di esistere), questa corrente di non-pensiero chiama padri e madri “genitore 1” e “genitore 2”, mette al bando i sostantivi maschili, corregge la trama delle opere liriche, infila mutandoni di legno alle statue ed offre riparo culturale a chi trasforma Gesù in Perù, arrivando persino ad invocare, ora, l'abbattimento sistematico di quei monumenti che darebbero equivoca testimonianza delle “epoche buie” del nostro passato.

Il buio di ieri contro la luce del domani che stiamo costruendo oggi... Non so voi ma io, se mi fermo a considerare il presente, fatico ad immaginare qualcosa di più buio di questo Oscurantismo Illuminista e di questa mefistofelica promessa di consegnarci Tutto, ma solo se, prima, avremo accettato di prostrarci al Nulla.

A. Montanari
 
                                                                                                                                                           

sabato 1 agosto 2020

ALLA LUCE DELLA STORIA

ALLA LUCE DELLA STORIA

di Andrea Del Ponte


Non penso che la storia sia, come con una certa banalità afferma Cicerone, "maestra di vita"; credo invece, con Machiavelli, che "una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique" siano strumenti preziosi per comprendere il senso dei meccanismi dell’agire politico nel presente e per tentare di prevederne e prevenirne gli sviluppi futuri. Per chi, come me, è nato nei primi tempi della guerra fredda e del boom economico, ed è sempre stato un attento osservatore degli eventi, è la vita stessa ad avere insegnato a conoscere e a distinguere i progetti dei governanti e i movimenti dei popoli; per quanto riguarda lo studio del passato, mi pare che oggi esso sia straordinariamente utile, come dimostrerò, per dissipare almeno in parte la spessa coltre di silenzi e di menzogne con cui viene occultato il progetto autoritario dell'Unione Europea. Infatti, non è certo la prima volta, nelle vicende del nostro continente, che si sia architettato un tale disegno di potere sotto le parvenze degli ideali di pace e di giustizia: la prima analogia è suggerita con estrema evidenza dalla storia greca.

Nell’immaginario collettivo Atene è poco meno che un simbolo: culla della democrazia, scuola dell’Ellade, archetipo della civiltà occidentale. Non che questo ritratto sia del tutto falso: bastano, a legittimarlo, i Sofocle, i Pericle, i Fidia, i Socrate, i Platone. Però l’oleografia sottace il lato oscuro e sgradevole che s’accompagna a tanto splendore: il fatto cioè che Atene, dopo aver aggregato a sé da tutto il mondo greco centinaia di pòleis amanti della libertà e grate d’averle liberate dal mortale pericolo persiano, finì per imporre agli alleati una feroce dittatura democratica che li trasformò da confederati in sudditi. Alludo alla famosa e famigerata Lega delio-attica, fondata nel 478 a.C. per volontà di Aristìde.

Si erano appena concluse, trionfalmente per i Greci, le guerre persiane: memorabile, in particolare, la vittoria navale con cui a Salamina, nel 480, la piccola ed eroica Atene democratica aveva umiliato la presuntuosa flotta nemica. Ne era risultato sminuito l’antico prestigio della città rivale, Sparta, potenza militare esclusivamente terrestre e chiusa, nel suo severo conservatorismo oligarchico, a qualunque novità culturale o politica. Perciò un gran numero di Stati greci, pieni di ammirazione per la forza che Atene traeva dalle sue libere istituzioni, ne accettarono di buon grado la proposta di fondare insieme una confederazione con lo scopo unico e dichiarato di continuare la guerra marittima contro i Persiani. Ciascun alleato s’impegnava a fornire navi alla flotta comune o, in alternativa, a versare una somma annuale di denaro, detta phòros ; centro della Lega e sede del tesoro comune era l’isola di Delo. Non si era mai visto, in tutta la storia della frammentatissima Grecia, il sorgere di un organismo federale così vasto e imponente, esteso dall’una all’altra sponda dell’Egeo. Cominciava allora quella che con termine tecnico si chiama pentecontaetìa, cioè un periodo di circa 50 anni sostanzialmente di pace sul suolo greco, interrotto solo nel 431 dallo scoppio della guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta. "Atene e i suoi alleati" (questa era la locuzione ufficiale per indicare la Lega) battevano indisturbati i mari: indiscussa la supremazia militare, fiorenti i commerci e le arti, forte e rispettata la dracma.

Ma a poco a poco gli equilibri iniziali si sbilanciarono: Atene accentuò sempre più il peso politico della sua supremazia, fino a trasformare la Lega in puro strumento della propria potenza autoritaria e imperiale, tramutando i sỳmmachoi ("alleati") in sudditi. Il momento culminante della metamorfosi fu il 454, quando il tesoro comune venne trasferito da Delo ad Atene, sotto il pretesto di un controllo migliore e più sicuro; da allora esso cominciò a venire usato senza più nessuno scrupolo per accrescere la città di splendidi monumenti e di nuovi strumenti militari a suo esclusivo vantaggio.

Come aveva potuto Atene trasformarsi da cane da guardia della libertà della Grecia in lupo feroce, intollerante dell’altrui autonomia? Tecnicamente, basti pensare che nel grande Parlamento della Lega ogni polis, grande o piccola, aveva la sua rappresentanza, con diritto di voto e di parola uguale rispetto alle altre, ma che un’eventuale opposizione di stati più indipendenti veniva facilmente superata grazie ai voti dei numerosi staterelli minori, docili alle direttive di Atene; inoltre, il tesoro comune venne amministrato sin da principio da dieci alti magistrati tutti ateniesi. Politicamente, il passaggio dall’egemonia all’impero fu dovuto all’estremizzazione dell’ideologia democratica, lanciata sempre più in una lotta assoluta e apodittica contro l’opposizione oligarchico-conservatrice all’interno e all’esterno, sino a ricorrere a qualunque mezzo, per quanto tirannico e ingiusto, pur di perpetuare il proprio potere.

Due sono le città tragico simbolo di questa involuzione : Mitilene e Melo.

Mitilene, polis dell’isola di Lesbo, proprio di fronte alla costa anatolica, era stata uno dei primi aderenti alla Lega delio-attica, e aveva collaborato fedelmente con Atene sino all’inizio della guerra del Peloponneso (431 a.C.). Ma a questo punto l’insofferenza per la crescente protervia dell’imperialismo ateniese e il desiderio di conservare la libertà aveva spinto il governo oligarchico locale a decidere di staccarsi dalla lega navale e a cambiare alleanza, aderendo alla lega peloponnesiaca, capitanata da Sparta. Già da tempo, tuttavia, Atene aveva mostrato con i fatti che, contrariamente ai patti stabiliti, non era disposta a tollerare la defezione di nessun membro della Lega: nel 469 aveva ridotto all’obbedienza con la forza Nasso, che aveva cercato di uscire dall’alleanza; stessa sorte era capitata nel 465 a Taso. Ora si era in tempo di guerra, e la reazione ateniese fu ancora più dura: rimasta sola, data l’impossibilità per Sparta di inviare così lontano aiuti efficaci, Mitilene, sottoposta ad assedio, dovette capitolare ed attendere nel terrore le decisioni dell’ex alleata. Ad Atene l’assemblea approvò in fretta e furia la proposta dell’estremista democratico Cleone: esecuzione capitale per tutti gli uomini di Mitilene atti alle armi, schiavitù per le donne e i bambini. Tanto sarebbe costata l’aspirazione dei Mitilenesi alla libertà ! Parte immediatamente una nave da guerra per comunicare e far eseguire la sentenza. Ma il nuovo giorno porta con sé dubbi e rimorsi per l’enormità della ritorsione: viene convocata immediatamente una nuova assemblea, dove al parere di Cleone, che ribadisce la sua feroce opinione, si contrappone stavolta quello del moderato Diodoto, che suggerisce una repressione meno indiscriminata, non mosso da pietà ma unicamente da considerazioni di utile economico e militare. Fortunatamente prevalse la sua proposta: un’altra nave, inviata a tutta forza a Lesbo per comunicare il nuovo decreto prima che l’irreparabile fosse avvenuto, riuscì a toccare l’isola in tempo. Non che la nuova punizione fosse comunque lieve: furono messi a morte mille aristocratici, abbattute le mura della città, requisita la flotta, espropriata la terra e ceduta a tremila coloni ateniesi.

Si dirà: si era in tempo di guerra, e le circostanze potevano legittimare reazioni radicali ad atti avvertiti come tradimenti.

Ma era assolutamente tempo di pace nel 416, quando si verificò il tristemente celebre episodio di Melo, ed Atene e Sparta erano addirittura alleate per effetto dei trattati del 421. Occorre premettere che nella seconda confederazione navale vigeva una capitale distinzione fra alleati autònomoi (= indipendenti") e hypèkooi (= "sudditi"): dunque i Melii – antichi coloni spartani governati da un’oligarchia e membri indipendenti della Lega – nel 416 si resero conto che sarebbe stato loro impossibile continuare a praticare una politica autonoma dalla volontà imperiale di Atene; d’altronde, l’adesione alla Lega, stando ai trattati, non comportava affatto l’automatico accodarsi degli alleati alle guerre di Atene che non fossero contro i Persiani; perciò essi, volendo mantenere la propria libertà e rifiutando di essere coinvolti nel conflitto, che sentivano imminente, con la madrepatria Sparta, chiesero per via diplomatica di restare in rapporto di amicizia con Atene su un piano di parità, nello spirito originario della Lega, conservando la neutralità nel caso di una guerra tra le due potenze nemiche. Ma la tirannide ateniese per preservare il proprio dominio non poteva accettare alcuna forma di compromesso : la più ferrea ragion di stato ebbe la prevalenza assoluta sulle ragioni del diritto – come ci testimonia Tucidide nel famoso episodio noto come "Dialogo dei Melii e degli Ateniesi" – e la "democratica" Atene decise di infliggere a Melo una punizione esemplare: tutti i maschi in condizione di combattere furono massacrati, fatti schiavi le donne e i bambini, requisito il territorio e ceduto a 500 coloni.

A chi legge non saranno certo sfuggite le numerose, inquietanti corrispondenze tra la Grecia del quinto secolo a.C. e le odierne vicende europee. Ne sottolineerò solo qualcuna.

Atene soleva giustificare la propria politica imperiale – che riconosceva esplicitamente – con lo slogan perché soli abbattemmo il barbaro. Oggi l’Unione Europea si sente autorizzata a qualunque abuso, in nome beninteso della "libertà" e della "democrazia", dal fatto di essere sorta sulle ceneri della barbarie nazifascista, attribuendo a sé il merito di aver garantito al continente cinquant’anni di pace e progresso (la nostra pentecontaetìa): cosa che, per dirla con Ida Magli, è una "spudorata menzogna".

Atene negava ai suoi stessi alleati la libertà di scegliere la forma di governo preferita, adducendo a pretesto la supremazia assoluta e indiscutibile del proprio modello di democrazia, ma in realtà per difendere sino alle estreme conseguenze il proprio potere. Oggi l’Unione Europea, ostentando virtuosamente l’antifascismo che è nel suo DNA, mostra di voler imporre un modello unico di coalizioni di governo, approvando quelle di centro-sinistra e castigando o censurando preventivamente quelle di centro-destra: il caso Austria è emblematico, mentre già si sta profilando un caso Italia. Che il dispregio della volontà dell’elettorato sia dovuto in realtà a un’egemonica volontà di perpetuazione del potere da parte delle forze socialiste interne ai singoli Stati è una verità ignota ai più.

La Confederazione navale tra gli Stati greci democratici aveva il suo cuore nel tesoro di Delo, il suo motore nella dracma, il suo braccio armato nella flotta: il suo assetto era tutto fondato – in maniera fin da principio di tipo assolutistico – su una struttura economica e militare. La ragion d’essere dell’Unione Europea è, come ognuno sa, l’economia, e il suo dio è l’Euro, al quale ogni valore è stato sacrificato. I rapporti fra Atene e gli alleati erano soprattutto di tipo monetario, attraverso il versamento forzato del phòros. Oggi chi non ottempera alle imposizioni di Bruxelles paga con multe; e Dio solo sa – ma qui è urgente un’indagine approfondita – quale fiume di denaro scorre ogni anno dalle casse di ciascuno Stato a quelle dell’Unione.

Nella Lega delio-attica le decisioni venivano prese a maggioranza, utilizzando cioè una modalità di voto che, se da un lato favoriva la rapidità di scelta, dall’altro consentiva ad Atene di isolare e neutralizzare facilmente gli eventuali dissenzienti. Non è un caso se, dopo lo "strappo" austriaco e danese, anche l’Unione Europea si sta orientando ad abbandonare il criterio dell’unanimità nelle votazioni – che espone al rischio del veto – per adottare quello della maggioranza semplice, che spiana la strada a qualunque progetto egemonico.

Atene pretendeva dagli alleati l’obbedienza assoluta, non tollerandone né l’uscita dalla Confederazione né semplicemente una diminuzione dell’impegno. Nel Trattato di Maastricht non è neppure contemplata la possibilità che un Paese membro possa un giorno decidere di uscire dall’Unione: il presente trattato è concluso per una durata illimitata (art. Q del Titolo VII – Disposizioni finali). Qui entriamo nel campo della futurologia, ma non credo di essere particolarmente pessimista se, guardando al percorso dell’egemonia ateniese, trovo del tutto coerente con le attuali premesse il ricorso, un giorno, all’uso confederato della forza militare europea contro quel Paese che avesse osato di voler uscire dall’Unione. Del resto, la prontezza e la violenza dell’intervento occidentale contro l’"eccentrica" Serbia lasciano pochi dubbi in proposito.

Tempi cupi attendono noi, periferia dell’Impero. Non resta che una resistenza disperata della cultura e dell’intelligenza. O un metaforico trasferimento a Berlino.

Andrea Del Ponte