domenica 30 luglio 2023

24 Agosto 1943: in memoria di ETTORE MUTI

24 Agosto 1943: in memoria di ETTORE MUTI

Estate 1943, nell’Italia passata da Mussolini a Badoglio accadono cose strane. Ettore Muti, eroe di guerra pluridecorato, ex segretario del Partito Fascista, dà fastidio anche perché non vuol collaborare col governo nato dal golpe del 25 luglio che aveva rovesciato il Duce. Badoglio teme anzi che intorno alla figura di Muti possano riorganizzarsi i fascisti. E così, la notte tra il 23 e il 24 agosto per Muti scatta la condanna. Un’operazione sporca di cui, col tempo si è saputo ogni particolare.

ETTORE MUTI EROE D’ ITALIA


In una nazione in crisi di ideali, anche il ricordo di un eroe puo’ aiutare a crescere.
Ettore Muti, ravennate, classe 1902, prima di essere fermato da un colpo vigliacco alla nuca nell’estate ’43, è stato il vero ultimo eroe della storia militare e rivoluzionaria Italiana, alla faccia di chi la storia non la vuole insegnare, propinandoci solo miti esotici alla Cheguevara.
Ettore Muti è stato un giovane che si era ribellato, come altri suoi coetanei, alla standardizzazione del sistema e che, come pochi anni fa cantava Lucio Battisti, si è sentito libero di rifiutare le “ideologie alla moda” che nell’inizio secolo erano dettate dai grandi stati conservatori centrali: per Muti ed i suoi compagni solo l’uomo contava e non il blasone che lo rappresentava. Muti è stato un simbolo in quell’Italia di prima metà del secolo, che in pochi anni ha saputo ricostruire un paese arretrato e privato della sua personalità dai troppi colonizzatori, un’Italia che in quegli anni ha saputo esprimere il meglio della propria cultura di antiche tradizioni.
Certo molti Italiani già possedevano quei valori nel loro patrimonio, ma Muti è stato il sublime 
esemplare di eroe senza macchia e senza paura, pronto sia a difendere la libertà del popolo, che 
a sviluppare il moderno pensiero social-futurista nato tra gli arditi del D’Annunzio e sviluppato da sindacalisti come Corridoni o politici come Mussolini. Muti era affascinato dalla rivoluzione, fosse essa da rivendicare in Spagna come in Somalia, in Italia come in Anatolia. Ettore Muti SIGNORI, a sedici anni già si trovava a difendere l’Italia combattendo nei reparti d’assalto della prima guerra mondiale, mentre a quasi venti lottava da veterano a fianco del D’Annunzio per il diritto di Fiume ad essere una libera città.
Muti fu glorioso negli innumerevoli duelli vinti nei celi di mezzo mondo. Resta infatti famosa la battaglia di Alcazar, combattuta solo contro 18 caccia nemici, mandati tutti in fuga dopo averne abbattuto più d’uno.
Muti, anche dopo la sua morte, è stato il simbolo di quei giovani da poco diciottenni che, dopo il 1943 hanno preferito una morte onorevole, difendendo, con la divisa della Repubblica Sociale Italiana o con quella della Xa MAS i confini della patria dal tradimento dei savoia, fuggiti a Napoli dopo aver lasciato l’Italia nel caos, tra i tedeschi che sentendosi traditi e braccati schiacciavano la popolazione da una parte e con la forza sovrastante dell’esercito Slavo e Sovietico che premevano per annettersi la Venezia Giulia dall’altra parte. Anche a loro memoria, senza voler dare giudizi politici alle loro gesta, è dedicata la storia narrata in questa paginaMuti, nel suo essere soldato, cavaliere e rivoluzionario, non ha avuto mai paura di immolarsi per i suoi fratelli italiani; egli era e spero resterà per chi avrà la fortuna di conoscerne la storia, il simbolo di un’Italia che, in un breve arco di tempo, come una folgore nella sua millenaria storia, ha segnato indelebilmente la coscienza ed i cuori di un popolo forte e geniale; un popolo che, alle soglie del duemila, ha ancora bisogno di riconoscersi, per potersi criticare liberamente, sia nelle sue pagine più gloriose, come in quelle più tristi…. un popolo che non può non ricercare in quegli ideali l’energia per ribellarsi a quella morte lenta, chiamata “normalizzazione”.

Dal tronco del Fascismo, folgorato dal tradimento regio del 25 luglio, il 18 settembre, dopo l’infausta parentesi badogliana, rifioriva la nuova robustissima pianta dello squadrismo .
E come nel 1919 il fascismo fu prima di tutto squadrismo, cioè azione,così il fascismo repubblicano, risorgeva sotto il segno dello squadrismo.

Il giorno dell’appello-radio del Duce, restituitoci per divino disegno, da un pungo di eroi tedeschi, alcuni uomini delle vecchie squadre d’azione, ringiovaniti nello spirito, dal disperato ma contenuto dolore e dalla ferrea volontà di rinascita, si ritrovarono e si riconobbero, nella stessa parola d’ordine del Capo:combattere.Combattere per vincere.Vincere per ridare vita onorata all’Italia.
La passione di quei pochi, 18 in tutto, ben presto dilagava dall’angusta piazza di San Sepolcro, riaccendendo la sopita passione, rimovendo la perplessità accorata di molti, ancora attardati dal dubbio.Ma più ancora i “18” si ripresentavano alla vita vile degli italiani, supinamente disposti a subire l’onta della disfatta senza combattere, signori di coraggio e di audacia.
I ranghi della prima squadra “Ettore Muti”, ben presto si ingrossarono; nuove squadre dai cari indimenticabili nomi degli eroi della vigilia, si riformavano per incanto.
La rinnovata primavera del sangue, irrompeva travolgente nel buio inverno spirituale e morale della Patria, accorata ma non doma, dall’avverso destino.

La speranza ritornava in molte coscienze.Il rigagnolo ben presto diventava travolgente fiume.
Chi rimaneva contro di noi? Il numero poco conta.”Molti nemici, molto onore!”.
La lotta serrata e senza quartiere ben presto aveva ragione della piazza.Le case del fascio, chiuse dal governo del tradimento, venivano riaperte.Il fascismo riconquistava col sangue, il diritto a dirigere il Paese, sulla via dell’onore e del combattimento.
L’ambiente era presto tonificato e tutto intorno era promessa di rinascita.Il popolo assente prima, titubante poi, cominciava a riavvicinarsi al fascismo, sicura premessa di ripresa della coscienza dei doveri dell’ora.Le squadre di azione avevano così assolto al loro compito e per ordine del Duce, venivano sciolte.
Non volendo disperdere ma conservare e possibilmente potenziare lo spirito squadrista, per concorde decisione dei Comandanti delle squadre, veniva formata la Legione “Ettore Muti”.La quale, conservando intatte le forze spirituali del volontarismo squadrista, le potenzia in una quadrata ed organica formazione che, costituisce oggi una poderosa salvaguardia, contro le forze del disordine e del disfattismo.

“Il 19 marzo è la data di costituzione della Legione.Il 23 dello stesso mese, nella storica ricorrenza della fondazione dei Fasci di Combattimento, per ordine del Duce, una formazione mobile composta di 500 Arditi, in completo assetto di guerra, veniva avviata in zona di impiego.Il battesimo del fuoco, nella lotta antipartigiana, era quanto mai doloroso.Cadevano a diecine i nostri migliori.Ma dal loro sacrificio fiorivano le premesse di un più solido organismo.Nuove reclute affluivano.Tra queste parecchi renitenti, riconquistati al dovere;molti militari affascinati dalle gesta della Legione.La “Ettore Muti” col sangue dei suoi eroi, e l’ardimento degli Arditi, si era conquistata il suo “Mito”.
Da allora ad oggi, il numero degli Arditi volontari, è andato gradatamente aumentando, tanto da rendere necessario lo sdoppiamento della Legione in due formazioni.L’una mobile, dislocata in zona d’operazione, l’altra territoriale per i servizi di polizia ausiliaria.Troppo lungo sarebbe qui riepilogare le azioni compiute.Basta a riepilogarle l’ambito onore dell’ologio del Duce:” La Legione “Ettore Muti” è la mia “pupilla” e gli Arditi sono veramente tali, degni di portare il nome dell’Eroe”. Così il Duce.
Nel nome purissimo dell’Eroe ravennate e serrata nel cuore l’alta consegna, concludiamo con il giuramento di sempre: Con Mussolini e per Mussolini, ovunque e dovunque, fino alla morte.Questo è lo spirito; questa la ferrea volontà di tutti i “Mutini”.Oggi più di ieri, domani più di oggi; crescendo di amore e di dedizione”.

giovedì 20 luglio 2023

DEMOCRAZIA DEL LAVORO

DEMOCRAZIA DEL LAVORO

 

DAL BORDELLO NEL QUALE SIAMO STATI GETTATI A SEGUITO DELLA SCONFITTA (SI BADI BENE: SCONFITTA MILITARE, NON DELLE IDEE) DEL 1945, C’E’ UNA VIA D’USCITA?


DEMOCRAZIA DEL LAVORO (Per intenderci quella MUSSOLINIANA)

di Filippo Giannini
   L’11 marzo 1945, il fondatore del Partito Comunista d’Italia, Nicola Bombacci, parlando al Teatro Universale, di fronte alle Commissioni interne degli stabilimenti industriali, fra l’altro affermò: “Il socialismo non lo farà Stalin, ma lo farà Mussolini che è socialista”. 
E il 13 marzo successivo, parlando allo stabilimento industriale dell’Ansaldo, di fronte a più di mille operai disse: “Fratelli di fede e di lotta, guardiamoci in viso e parliamo pure liberamente: voi vi chiedete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista, amico di Lenin, di vent’anni fa? Sissignori, sono sempre lo stesso, perché io non ho rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica Sociale Italiana, è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è veramente decisi  a rivendicare i diritti degli operai”.
   Quale era la strada intrapresa da Nicola Bombacci? Per giungere allo Stato Organico, alla Socializzazione dello Stato, il passaggio era (ed ancora oggi dovrebbe essere) lo Stato Corporativo.
Michaal Shanks, economista di vasta esperienza internazionale, già direttore della Commissione europea degli affari sociali e presidente  del Consiglio nazionale dei consumi, nel suo libro What is wrong with the modern world? (Cosa c’è di sbagliato nel mondo moderno?) indica lo Stato Corporativo di Mussolini, di fronte al persistente crisi del liberismo e del marxismo, come l’unico modello per uscire dalle contrapposizioni vigenti nella Democrazia Parlamentare. 
Non c’è alternativa, conclude l’economista inglese: o lo Stato Corporativo o lo sfascio dello Stato.
   Oggi, anno 2011 Era LXVI dello Stato Sfascista, siamo giunti allo Sfascio dello Stato.

   È sotto gli occhi di tutti (a parte di coloro che ne godono i privilegi) le ingiustizie e le disuguaglianze che consentono e alimentano una società basata su sistemi liberali in politica e liberisti in economia. Questi sistemi sostenitori di una libertà che si trasforma inanarchia dove solo il più svelto, il più spregiudicato, il più privo di scrupoli, il più prepotente, il più imbroglione, il più ricco prevale su tutti. 
E ancora una volta ricordiamo l’ammonimento di Benito Mussolini: “La corruzione non è NEL sistema, ma è DEL sistema”, e possiamo aggiungere che ciò è ampiamente comprovato. Allora, giusto come ha scritto il giornalista Franco Monaco: “Per rifare l’Italia, per rifarla Nazione bisogna mandare all’aria anzitutto i partiti. Perché una vera democrazia è cosa ben diversa da quella di loro comodo, grottesca impalcatura di gole profonde. Una vera democrazia  non può fondarsi che sulla serietà pura e semplice del lavoro, quindi su una rappresentanza chiara, diretta e responsabile di tutte le categorie produttive”.
   Ora un po’ di storia.

   Prima con il Lodo di Palazzo Vidoni dell’ottobre 1925, poi con la Carta del Lavoro presentata il 21 aprile 1927 (sì, signori, addirittura più di ottanta anni fa) codificava, per la prima volta al mondo, i rapporti fra capitale e lavoro, cioè fra il proprietario di un’azienda e il lavoratore, basava l’intero sistema sulla collaborazione di classe in contrapposizione all’allora vigente lotta di classe, rendendo, in pratica, due forze non più ferocemente antagoniste, ma collaborative nel comune interesse. 
Di nuovo Franco Monaco (Quando l’Italia era ITALIA, pag. 47): “Questa unitarietà di comportamento dei datori di lavoro e dei lavoratori non poteva essere basata che su una loro uguaglianza totale: giuridica, politica ed economica. Perciò l’ordinamento corporativo ridimensionava il capitale, gli toglieva la vecchia arroganza padronale, lo faceva diventare strumento tecnico dell’economia, senza per altro mettere in discussione la proprietà privata”. 
La Carta del Lavoro fu la premessa legislativa necessaria per l’impalcatura dell’apparato corporativo. 
Con la creazione nel luglio 1926 del Ministero delle Corporazioni, nel 1930 vide la luce il Consiglio Nazionale delle Corporazioni.  
   L’insieme dell’edificio corporativo andava costruito in tempi assennati perché sottoposto a continue verifiche, limature, variazioni, aggiunte. 
A seguito di ciò, con la legge del febbraio 1934 il sistema corporativo appariva quasi compiuto, mancava solo la sostituzione della ormai praticamente esautorata Camera elettiva con un organo espresso dalle corporazioni. Le elezioni plebiscitarie a lista unica, nel marzo 1934 e conseguente impresa etiopica, avevano probabilmente ritardato la variazione istituzionale e la creazione del nuovo assetto rappresentativo corporativo.
   Nel 1939 entrò in funzione la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, organo legislativo e rappresentativo, con 600 deputati chiamati Consiglieri Nazionali.
   La nascita dello Stato Corporativo rappresentò il tentativo di superare i limiti del così detto Stato liberale e l’incubo dello Stato sovietico. Il Secondo conflitto mondiale infranse l’esperimento in una fase che era già cruciale a causa dell’isolamento internazionale provocato dalle sanzioni e dall’autarchia. 
Così si espresse il Direttore de Il Giornale d’Italia in un vecchio articolo.
    Il Dottor Sebastiano Barolini di Pontinia (Lt) ha scritto che ha avuto la ventura di studiare il Diritto Corporativo che pone l’uomo al centro della Società e, riassumendo: 
1) Ridimensionamento dello strapotere dei padroni attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese; 
2) Partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese; 
3) Partecipazione dei lavoratori alle scelte decisionali onde evitare chiusure di aziende o licenziamenti improvvisi senza che ne siano informati per tempo i dipendenti, i quali sono interessati a trovare altre soluzioni atte a non perdere il posto di lavoro; 
4) Intervento dello Stato attraverso i suoi funzionari immessi nei consigli di amministrazione allorquando le imprese assumono interesse nazionale a maggior difesa dei lavoratori (altro che l’intervento di Marchionne); 5) Diritto alla proprietà in funzione sociale e cioè lotta alle concentrazioni immobiliari e diritto per ogni cittadino, in quanto lavoratore, alla proprietà della sua abitazione; 
6) Diritto alla iniziativa privata in quanto molla di ogni progresso sociale di contro all’appiattimento collettivista e alle concentrazioni capitaliste; 
7) Edificazione si una giustizia sociale che prelevi il di più del reddito ai ricchi e lo distribuisca fra le classi più povere attraverso la previdenza sociale, l’assistenza gratuita alla maternità e all’infanzia, le colonie marine e montane per i bambini poveri, l’assistenza agli anziani, il dopolavoro per i lavoratori, i treni popolari e via dicendo; 
8) Eliminazione dei conflitti sociali attraverso la creazione di un apposito Tribunale del Lavoro in base al principio che un cittadino non può farsi giustizia da sé altrettanto deve valere per i conflitti sociali ad evitare scioperi e serrate che tanti danni provocano alle parti in causa ed alla collettività nazionale; 
9) Abolizione dei sindacati di classe ormai ridotti a cinghie di trasmissione dei partiti che li controllano e creazione dei sindacati di categoria economica con conseguente modifica del Parlamento in una Assemblea composta da membri eletti attraverso le singole Confederazioni di categoria dei datori di lavoro e dei lavoratori; 
10) Attuazione, particolarmente nel Mezzogiorno, della bonifica integrale, che toglie ai latifondisti le terre incolte, le rende produttive e le distribuisce in proprietà gratuita ai contadini poveri.
   Nell’Enciclica di Pio XI Quadragesimo anno, si legge fra l’altro: “Ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale di cui però dispongono a loro grado e piacimento”. 
Insieme alle famose Encicliche Rerum Novarum Centesimus Annus si può affermare che le Encicliche papali sono la trasposizione politica dei problemi sociali che avevano proposto la Chiesa.
   Quindi rivolgiamo una esortazione ai giovani, ne va del vostro futuro: dedicatevi allo studio del Diritto corporativo e ignorate le interessate e fraudolenti, mendaci voci che vi parlano di spinte corporative o di iniziative settoriali corporative
Lo Stato Corporativo è tutto l’opposto perché è volto, attraverso l’esame dei programmi proposti dalle singole Confederazioni di categoria, a formulare una seria e globale programmazione economica ben diversa da quelle inconsistenti dall’attuale disonesto e incapace regime.
   Siamo ora declassati a Nazione di serie B a causa dell’incapacità e corruzione dell’attuale regime.
    A dimostrazione di quanto scritto, oltre al già citato Michaal Shanks, diamo la voce ad altri studiosi e autorità che sono al di sopra di ogni sospetto di simpatie per il passato regime.
Un riconoscimento alla validità della proposta corporativa venne addirittura da Gaetano Salvemini: 
“L’Italia è diventata la Mecca degli studiosi della scienza politica, di economisti, di sociologi, i quali vi si affollano per vedere con i loro occhi com’è organizzato e come funziona lo Stato corporativo fasci­sta. Giornali, riviste, periodici specializzati, facoltà di scienze politiche, di economia, di sociologia, delle grandi come delle piccole università, inondano il mondo di articoli, di saggi, opuscoli, libri che formano già una biblioteca di dimensioni rispettabili sullo Stato corporativo fascista, le sue istituzioni, i suoi aspetti politici, i suoi indirizzi di politica economica, i suoi effetti speciali”.
      In questo contesto non possiamo non ricordare che quando Mussolini, nel 1934, affermò. 
“L’America va verso l’economia corporativa”, disse molto meno di quanto non si potrebbe credere. L’America non riusciva a superare la crisi economica che l’attanagliava e Roosevelt, favorevolmente colpito dalla politica mussoliniana, inviò attraverso Italo Balbo, “parole di apprezzamento per l’organizzazione corporativa del nostro Paese”. 
In merito ha scritto Vaudagna: “In Italia intellettuali, politici e giornalisti videro nel New Deal una sorta di corporativismo in embrione, che seguiva la strada aperta dal fascismo”. 
Roosevelt, nel contesto di una economia che era sempre stata ispirata ai principi del più sfrenato ed incontinente liberismo, introdusse , con le buone e assai più con le cattive, il coordinamento economico da parte dello Stato, la qual cosa fu, non a torto, valutato come un punto di svolta determinante.
    Zeev Sternhell, ebreo, professore di Scienze Politiche presso l’Università di Gerusalemme, col saggio “La terza via fascista” (“Mulino”  1990), nel quale, tra le molte altre considerazioni, possiamo leggere: 
“Il Fascismo fu una dottrina politica, un fenomeno globale, culturale, che riuscì a trovare soluzioni originali ad alcune grandi questioni, che dominarono i primi anni del secolo”. L’autore continua a spiegare: “Le ragioni dell’attrazione esercitata dal Fascismo su eminenti uomini della cultura europea, molti dei quali trovarono in esso la soluzione dei problemi relativi al destino della civiltà occidentale>. 
Sono proprio le soluzioni sociali ad attrarre maggiormente il giudizio del  professore di Scienze Politiche:
“Il corporativismo riuscì a dare la sensazione a larghi strati della popolazione che la vita fosse cambiata, che si fossero dischiuse delle possibilità completamente nuove di mobilità verso l’alto e di partecipazione”.
   Torniamo a Roosevelt. Questi aveva impostato la campagna elettorale all’insegna del New Deal, ossia ad un vasto intervento statale in campo economico, proponendo un’alternativa al liberismo capitalista. 
Una volta eletto Roosevelt (e questo nel dopoguerra venne accuratamente nascosto) inviò, nel 1934, in Italia Rexford Tugwell e Raymond Moley, due fra i suoi più preparati uomini del Brain Trust per studiare il miracolo italiano.
   E allora, per tornare al titolo di questo pezzo, riprendiamo uno stralcio del lavoro di Lucio Villari:
“Tugwell e Moley, incaricati alla ricerca di un metodo di intervento pubblico e di diretto impegno dello Stato che, senza distruggere il carattere privato del capitalismo, ne colpisse la degenerazione e trasformasse il mercato capitalistico anarchico, asociale e incontrollato, in un sistema sottoposto alle leggi e ai principi di giustizia sociale e insieme di efficienza produttiva”.
 Roosevelt inviò Rexford Tugwell a Roma per incontrare Mussolini e studiare da vicino le realizzazioni del Fascismo. Ecco come Lucio Villari ricorda il fatto tratto dal diario inedito di Rexford Tugwell in data 22 ottobre 1934 (Anche l’Economia Italiana tra le due Guerre, ne riporta alcune parti; pag. 123): 
“Mi dicono che dovrò incontrarmi con il Duce questo pomeriggio… La sua forza e intelligenza sono evidenti come anche l’efficienza dell’amministrazione italiana, è il più pulito, il più lineare, il più efficiente campione di macchina sociale che abbia mai visto. Mi rende invidioso… Ma ho qualche domanda da fargli che potrebbe imbarazzarlo, o forse no”.  
   Erano gli anni che da tutto il mondo (e lo ripeto: da tutto il mondo) politici e studiosi venivano in Italia per studiare il MIRACOLO ITALIANO. Esattamente come oggi, vero? E chi può ci smentisca!
   Andiamo verso la conclusione e citiamo di nuovo Franco Monaco: “C’è una sola strada da percorrere, tutta italiana, ma preclusa ai grassatori: una strada da riprendere con un impegno non tribunizio, ma di studio e di ampia informazione pubblica, se si vogliono veramente ricostruire i valori crollati”.
   Per valori crollati, Franco Monaco si riferisce a quelli crollati nella non troppo lontana sconfitta militare del 1945, quando i liberatori ci imposero le loro leggi, quelle basate essenzialmente sul valore del dollaro.
Torneremo presto sull’argomento, in quanto convinti corporativisti.
Abbiamo ricevuto la mai che qui sotto riportiamo, con preghiera di “farla girare”. Cosa che facciamo con grande, grandissimo, anzi, infinito piacere.
 
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Ed ora leggete quanto segue:
    Il giorno 21 settembre 2010 il Deputato Antonio Borghesi dell’Italia dei Valori ha proposto l’abolizione del vitalizio che spetta ai parlamentari dopo solo 5 anni di legislatura in quanto affermava che tale trattamento risultava iniquo rispetto a quello previsto dai lavoratori che devono versare 40 anni di contributi per avere diritto ad una pensione.
Ecco com’è finita:
Presenti 525
Votanti 520
Astenuti 5
Maggioranza 261
Hanno votato sì 22
Hanno votato no 498
 i 22 sono: BARBATO, BORGHESI, CAMBURSANO, DI GIUSEPPE, DI PIETRO, DI TANISLAO, DONADI, EVANGELISTI, FAVIA, FORMISANO, ANIELLO, MESSINA, ONAI,
 MURA, PALADINI, PALAGIANO, PALOMBA, PIFFARI, PORCINO, RAZZI, ROTA,
 SCILIPOTI,  ZAZZERA.
 Ecco un estratto del discorso presentato alla Camera:  Penso che nessun cittadino e nessun lavoratore al di fuori di qui possa  accettare l’idea che gli si chieda, per poter percepire un vitalizio o una pensione, di versare contributi per quarant’anni, quando qui dentro sono sufficienti cinque anni per percepire un vitalizio. È una distanza tra il Paese reale e questa istituzione che deve essere ridotta ed evitata. Non sarà mai accettabile per nessuno che vi siano persone che hanno fatto il
 parlamentare per un giorno – ce ne sono tre – e percepiscono più di 3.000 euro al mese di vitalizio. Non si potrà mai accettare che ci siano altre persone rimaste qui per sessantotto giorni, dimessisi per incompatibilità, che percepiscono un assegno vitalizio di più di 3.000 euro al mese. C’è la
 vedova di un parlamentare che non ha mai messo piede materialmente in Parlamento, eppure percepisce un assegno di reversibilità. Credo che questo sia un tema al quale bisogna porre rimedio e la nostra proposta, che stava in quel progetto di legge e che sta in questo ordine del
 giorno, è che si provveda alla soppressione degli assegni vitalizi, sia per i deputati in carica che per quelli cessati, chiedendo invece di versare i contributi che a noi sono stati trattenuti all’ente di previdenza, se il deputato svolgeva precedentemente un lavoro, oppure al fondo che l’INPS ha
 creato con gestione a tassazione separata. Ciò permetterebbe ad ognuno di cumulare quei versamenti con gli altri nell’arco della sua vita e, secondo i criteri normali di ogni cittadino e di
 ogni lavoratore, percepirebbe poi una pensione conseguente ai versamenti realizzati.
    Proprio la Corte costituzionale, con la sentenza richiamata dai colleghi questori, ha permesso invece di dire che non si tratta di una pensione, che non esistono dunque diritti quesiti e che, con una semplice delibera dell’Ufficio di Presidenza, si potrebbe procedere nel senso da noi prospettato,che consentirebbe di fare risparmiare al bilancio della Camera e anche a tutti i cittadini
E ai contribuenti italiani circa 150 milioni di euro l’anno.
 
Non ne hanno dato notizia né radio, né giornali, né TV OVVIAMENTE. Facciamola girare noi!!!
   Oggi, 9 ottobre 2011 sempre LXVI Era Sfascista, il Presidente Giorgio Napoletano ha lanciato questo monito: <Dobbiamo ridare dignità e decoro alla politica >. La risposta data dal Parlamento italiano il 21 settembre (risposta poco sopra riportata), non è adeguata al monito?