mercoledì 29 giugno 2022

MA QUANTI DANNI FECE IL " MALE ASSOLUTO" ?

MA QUANTI DANNI FECE IL " MALE ASSOLUTO" ?



di Filippo Giannini


   Ripeto ancora una volta che di economia ne capisco poco, ma quel poco mi induce a ritenere che la soluzione dei mali che attualmente ci rendono la vita impossibile, ebbene – e lo ripeto – la soluzione, o almeno una soluzione parziale si trova nel periodo del male assoluto (che sempre sia benedetto). Nonché un’altra soluzione, anch’essa almeno parziale, della disoccupazione si trova anch’essa sempre nel mai sufficientemente deprecato Ventennio (che sempre e ancora sia benedetto), con l’anarchia, cioè bastare a se stessi, promuovendo, esaltando e incoraggiando il lavoro italiano.

   Sia chiaro un principio: quel che faccio e quel che scrivo sull’ argomento non è per  nostalgia (pur avendo vissuto “uno spicchio” di un periodo esaltante e irripetibile), ma per contribuire alla giusta rivalutazione di un grande uomo quale fu Benito Mussolini.

   I lettori più attenti ricorderanno che in un mio precedente articolo mi impegnai a fornire una spiegazione sul motivo che spinse l’intellettuale Cesare Muratti a scrivere, nel 1983,  questa osservazione: <Diciamo finalmente la verità VERA (maiuscolo nel testo, nda): in un certo momento il 98% degli italiani era per Mussolini>. Con l’aiuto di Alessandro Mezzano e del suo meraviglioso saggio proverò a presentare la risposta.

   Quel che segue è un elenco “frammentario ed incompleto, ma significativo, di alcune leggi, riforme ed opere che furono realizzate dal Fascismo e che cambiarono il volto della società italiana, ottenendo al regime e a Benito Mussolini quel consenso popolare, quasi totale, che oggi la cultura e la storiografia ufficiale si affannano a disconoscere” (purtroppo riuscendoci).

    Quelli riportati più avanti sono provvedimenti concepiti e attuati dal Regime fascista. Prima del suo avvento di questi provvedimenti o erano appena abbozzati o, comunque mai trasformati in leggi, oppure addirittura inesistenti non solo in Italia, ma anche in Europa e negli altri continenti. In altre parole, per essere più chiaro, l’Italia fascista in campo sociale, e non solo sociale, fu all’avanguardia nel mondo, pronta a fornire, una volta ancora, al mondo intero, un nuovo RINASCIMENTO, IL RINASCIMENTO DEL LAVORO.

   Già il 24 maggio 1920, in un articolo dal titolo “L’epilogo”, Mussolini su “Il Popolo d’Italia”aveva scritto: <Vogliamo rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, insegnargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche>. E, salito al potere, non perse tempo per attuare i suoi programmi.

   Scrive Mezzano, in merito alla “Tutela lavoro Donne e Fanciulli”, legge promulgata il 26.4.1923, Regio Decreto n° 653: <E’ una delle prime leggi sociali del Fascismo: nasce solo sei mesi dopo la Marcia su Roma del 22 Ottobre 1922, ed è chiaramente indicatrice di quella che sarà la politica sociale degli anni futuri del regime. Negli anni e nei secoli precedenti né la Chiesa, né la borghesia, né i socialisti ed i sindacati erano riusciti a migliorare ed a rendere umana la condizione delle donne e dei fanciulli, che erano costretti a lavorare nelle fabbriche, nelle miniere o come braccianti nelle campagne>.

   “Assistenza ospedaliera per i poveri, legge promulgata il 30.12.23, Regio Decreto n° 2841.

   Che il lettore provi ad ammalarsi nella “culla della più grande democrazia: negli Usa” e compari l’attuale stato sociale vigente in quel Paese con quello di“quell’Italia” di quasi un secolo fa.

   “Assicurazione Invalidità e Vecchiaia”. Legge promulgata il 30.12.1923, Regio Decreto n° 3184.

   <La legge decreta il diritto alla pensione d’invalidità e vecchiaia tramite un’assicurazione obbligatorie, al cui pagamento concorrono sia i lavoratori che i datori di lavoro. Il lavoro, componente fondamentale del nuovo Stato fascista, è un dovere (altro che “diritto”, come si ciancia oggi, nda) per ogni cittadino, ma che lo riscatta da quella posizione di servitù in cui lo Stato liberale aveva messo il lavoratore, per trarlo in una posizione di libertà e di dignità che lo investe in quanto uomo, e non solo in quanto lavoratore, e per questo gli assicura la certezza del sostentamento alla fine di una carriera di lavoro>.






   “Riforma della Scuola (Gentile)”. R.D.L. n° 1054 del 6.5.1923.  

   <La volontà di modernizzazione, che fin dalle origini pervade il movimento fascista, spinge il nuovo governo a progettare la creazione di una numerosa e preparata classe dirigente, in grado di sostenere un vasto disegno di sviluppo nazionale: obiettivo, questo, non realizzabile senza una scuola moderna, razionale, dinamica, produttiva ed accessibile a tutti>.

   La scuola non doveva fare distinzioni tra le classi sociali, ma garantire il diritto di studio a tutti, anche ai figli appartenenti alle classi meno abbienti. Questa riforma  poneva le basi per una scuola più moderna. A quest’opera di risanamento culturale e morale ha fatto seguito, dalla fine della guerra, un rilassamento disgregativo fino a giungere - e i lettori lo ricorderanno - al demagogico assioma del “sei politico”, senza che i governi del tempo fossero in condizione di arrestare la conseguente “avanzata dei somari”. La riforma di Gentile poneva in evidenza la preoccupazione del legislatore a ravvivare una tradizione pedagogica nazionale con i maestri e i professori perno della vita della scuola: “La riforma vivrà, se i maestri la sapranno far vivere”. E con questo spirito veniva valorizzata,, di fronte allo studente, la personalità dei maestri e dei professori, ad ogni livello, dalle elementari all’università. Oggi il maestro e il professore sono privi di ogni autorità e lo studente si sente autorizzato anche a deriderli e a declassificarli. Questo nel nome di una presunta uguaglianza di intenti. Sicché se durante il fascismo la scuola italiana era considerata la migliore del mondo, oggi…

   “Acquedotto Pugliese, del Monferrato, del Perugino, del Nisseno e del Velletrano”.

   Valga per tutti quanto detto per l’Acquedotto Pugliese, ricordando che questo è il più grande acquedotto del mondo: <I primi progetti risalgono al 1904, quando l’Ente Autonomo Acquedotti Pugliesi ne affidò l’esecuzione alla società ligure del senatore Mambrini (sic) (…). I lavori avrebbero dovuto essere terminati nel 1920, ma nel 1919 solo 56 Comuni su 260 avevano avuto l’acqua, mentre le opere intraprese erano spesso abbandonate, incomplete e deperivano (…). Nel 1923, sotto il governo Mussolini, l’Ente fu commissariato e passò alla gestione straordinaria; improvvisamente i lavori vennero accelerati, furono superate tutte le difficoltà che sino ad allora li avevano bloccati e furono portati a termine nel 1939>.

   Nessuna meraviglia per gli uomini di “quel regime”: il denaro pubblico era sacro. Oggi, invece, che si favoriscono gli appalti degli appalti, le modifiche delle modifiche di un progetto, le tangenti, le tante, troppe “cattedrali nel deserto”. Vale quanto ripetutamente scritto: qualsiasi confronto fra questo regime e quello precedente risulterebbe insostenibile; questo è il vero motivo per il quale si è coniato il termine “Fascismo: male assoluto” e sono nati i tanti dottor Pasquariello.

   “Riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere, R.D.L. n° 1955 del 10.9.1923
   <Prima del Fascismo quasi tutto era lasciato all’arbitrio del datore di lavoro, che spesso, con il ricatto psicologico della disoccupazione, costringeva i lavoratori a orari massacranti e in ambienti di lavoro malsani e insicuri>.

   E’ facilmente comprensibile come questa serie di leggi sociali, se da un lato proteggevano i lavoratori dallo sfruttamento, dall’altra danneggiavano gli industriali, il grande capitale, gli speculatori: e questi divennero gli oppositori del regime. Tuttavia il cammino intrapreso dal Fascismo non si fermerà sino a quando le potenze plutocratiche mondiali non si coalizzeranno per abbattere un regime che stava diventando, per esse, pericoloso.

   “Opera Balilla e Colonie marine per ragazzi”.



   La “Gioventù Italiana del Littorio” fu un’operazione colossale, mirante alla protezione dei ragazzi che vennero sottratti ai tanti pericoli che li minacciavano. L’attività ginnico-fisica, inculcò un’istruzione civile e sportiva.


   “Opera Nazionale Dopolavoro”

   Quasi in parallelo a ciò che per i giovani  era la GIL, nasce per i lavoratori l’OND. Questo organismo ha il compito di portare cultura e svago tra la classe operaia, che nel passato era stata costretta ad una vita esclusivamente di lavoro, di sacrifici e d’ignoranza>.

   Le strutture dell’Opera raggiunsero, in poco meno di un decennio, un livello unico al mondo. Alcune cifre significative: 1227 teatri, 771 cinema, 40 cine-mobili, 6427 biblioteche, 994 scuole di ballo e canto, uno stabilimento idrotermale, 11.159 sezioni sportive a livello dilettantistico con 1.400.000 iscritti, 2700 filodrammatiche con 32.000 iscritti, 3787 bande musicali e 2130 orchestre con 130 mila musicisti, 10 mila associazioni culturali. Con l’avvento delle “40 ore lavorative settimanali” i lavoratori e le loro famiglie possono viaggiare sui cosiddetti “treni popolari”, il costo del biglietto è ridotto del 70%. A guerra finita le strutture dell’OND confluiranno nella “Case del popolo” di matrice comunista e il PCI farà propri i principi ispiratori dell’OND facendoli passare (furbescamente) come proprie iniziative.

   “ Reale Accademia d’Italia, RDL n° 87 del 7.1.1926.

     <Nel quadro del progetto di risollevazione della Nazione da quello spirito di rassegnata sudditanza e di provincialismo culturali che avevano contraddistinto secoli di storia  prima e dopo l’unità, fu fondata l’”Accademia d’Italia” allo scopo di dare lustro e dignità all’ingegno e all’arte italiane>. L’Accademia venne poi soppressa, con Decreto Luogotenenziale del 28.9.1944, solo perché era una creazione del Fascismo. <Dopo la sconfitta e con l’avvento della Repubblica resistenziale, rifiorirono il servilismo e il provincialismo: l’Italia borghese, clericale e anticomunista volle essere colonia culturale, politica ed economica degli USA, mentre la sinistra comunista avrebbe voluto un’Italia satellite dell’URSS>.

   In merito all’Enciclopedia Treccani il giornalista Franco Monaco ha scritto: <In Inghilterra esisteva da duecento anni una Enciclopedia Britannica, ma in Italia nessuno aveva mai pensato che si potesse farne una italiana. Proprio Gentile la suggerì all’industriale Giovanni Treccani>.

   Treccani si mise immediatamente al lavoro. Sotto la direzione di Gentile lavorarono oltre 500 redattori e collaboratori selezionati nei vari rami della cultura italiana. Per espresso ordine di Mussolini fu adottato lo stesso principio che vigeva per l’Accademia d’Italia: la selezione doveva avvenire in base alla validità professionale e culturale del candidato, accantonando ogni preclusione di indole ideologica. Così all’Enciclopedia collaborarono anche noti “oppositori” e perfino alcuni firmatari del “Manifesto” di Croce. Il lavoro si svolse con velocità, capacità e puntualità miracolose. Il frutto di tutto ciò fu che l’Enciclopedia Italiana sopravanzò, come mole e valore culturale, sia la “Britannica” che la “Francese”. Nel 1937 l’Enciclopedia Italiana presentò il risultato del proprio lavoro: l’Enciclopedia era costituita di ben 35 volumi; i collaboratori erano stati in tutto 3000, <ossia tremila cervelli che Giovanni Gentile aveva amalgamato e ridotto all’osservanza di quei concetti generali di obiettività, precisione, chiarezza e concisione che l’Enciclopedia si era imposti> (Franco Monaco).

   “Bonifiche dell’Agro Pontino, dell’Emilia, della Bassa Padana, di Coltano, della Maremma Toscana, del Sele, della Sardegna ed eliminazione del latifondo siciliano”. RDL 3256 del 20.12.1923.

   <Nel 1923, solo un anno dopo la Rivoluzione fascista, Benito Mussolini amplia i poteri dell’ONC (Opera Nazionale Combattenti) e le affida il compito tecnico amministrativo di realizzare la bonifica dell’Agro Pontino, che non sarà un mero risanamento idraulico dei terreni, ma una vera e propria ricostruzione ambientale, secondo il piano di Arrigo Serpieri, Sottosegretario alla bonifica (…). Oltre alle dimensioni dell’opera di bonifica, che non ha avuto eguali in Italia in tutta la sua storia, è da sottolineare il rivoluzionario concetto che la ispira e che va sotto il nome di “Bonifica integrale”, sottolineato e riportato nell’intestazione delle leggi che vi si riferiscono>.

   Il progetto prevedeva una serie di interventi che andavano dalla sistemazione e dal rimboschimento dei bacini ai lavori di sistemazione degli alvei dei corsi d’acqua, alla trasformazione colturale e alle utilizzazioni industriali, sempre secondo una coordinata e armonica pianificazione del territorio. Dal suolo bonificato sorgono irrigazioni, si costruiscono strade, acquedotti, reti elettriche, opere edilizie, borghi rurali e ogni genere di infrastrutture. Dalle Paludi Pontine sorsero “in tempi fascisti” vere e proprie città: Littoria, inaugurata l’8 dicembre 1932; Sabaudia (indicata da tecnici stranieri come uno dei più raffinati esempi di urbanistica razionale), il 15 aprile 1934; Pontinia, il 18 dicembre 1935; Aprilia, il 29 ottobre 1938; Pomezia, il 29 ottobre 1939. Nell’Agro Pontino furono costruite ben 3040 case coloniche, 499 chilometri di strade, 205 chilometri di canali, 15.000 chilometri di scoline. La “Bonifica integrale” continuò nell’alto Lazio, in Campania, in Sardegna, in Sicilia e così via in tutta Italia, ma non solo in Italia: non si possono dimenticare le grandi opere realizzate in Somalia, in Eritrea, in Libia, in Etiopia. Tutto questo, come si è detto, “in tempi fascisti” e senza alcuna ombra di “democratiche tangenti o mazzette”. La risposta a queste opere colossali proveniente dagli uomini dei “diritti e della libertà” è stata (e non sto scherzando) che le bonifiche integrali furono “un danno ecologico“. Oppure, come ha scritto Piero Palumbo (“L’Economia italiana fra le due guerre”, pag. 84: <Duole (!) ricordarlo: i primi ecologisti indossavano l’orbace>. Un’osservazione che è un pugno nello stomaco al “Verde” Onorevole Pecoraro Scanio.



   
“Opera Nazionale Maternità e Infanzia, RD n° 718 del 15.4.1926.

    <Nella nuova società la cura e l’importanza delle donne e dei fanciulli, implicita nella dottrina fascista, assume l’importanza di istituzione mediante la fondazione dell’”Opera Nazionale Maternità e Infanzia”. L’ONMI vuole dare e darà un concreto supporto a quella fondamentale cellula umana e sociale che è la famiglia, intesa non quale generatrice di forza di lavoro e di consumo, come è nella concezione materialistica del capitalismo e del marxismo, ma quale culla e nucleo vitale delle tradizioni, della storia e del futuro della Nazione e dello Stato. Centro vitale della famiglia è, per il Regime fascista, la madre (…)>.

   Con questa legge lo Stato si fece carico dell’assistenza e dell’aiuto alle madri, volgendo particolare attenzione alle cure per le madri-lavoratrici. Questa legge, anticipatrice dei tempi è, quindi, una delle innovazioni più prestigiose del regime fascista. Furono istituite in ogni provincia le “Case della madre e del bambino”, gli asili nido, i dispensari del latte: tutte organizzazioni che giunsero ad accogliere circa 2 milioni di assistiti. Tutto questo era integrato da una assistenza medica e da una propaganda igienica. L’”Ente Opera Assistenza” curava la gestione delle Colonie estive e invernali, istituite per assistere soprattutto i bambini di famiglie meno abbienti. Gestiva, inoltre, speciali scuole e Colonie per la terapia dei colpiti dalla tbc”, i convalescenziari e centri per la cura dell’anemia mediterranea. Oggi tutti possono vedere in che stato si trovano gli ospedali per la cura della talassemia e quelli pediatrici che furono costruiti sul litorale da Rimini a Riccione “Assistenza agli illegittimi, abbandonati o esposti, legge dell’8.5.1927, RDL n° 798.

   Mezzano: <Con questa legge lo Stato si assume la responsabilità di provvedere a quei bambini non desiderati che erano prima senza tutela ed alla mercé della carità privata e quindi considerati persone di seconda categoria>.

  Oggi, in “regime democratico”, molti fanciulli vengono abbandonati ai pedofili e alla droga. Le donne reclamano la libertà sessuale e il “diritto all’aborto”, sanzionato e garantito addirittura dallo Stato. E quando lo Stato non interviene il povero lattante è abbandonato come immondizia, in un cassonetto. D’altra parte, come disse Luciano Violante, “Questo è lo Stato dei diritti e della libertà”.

   “La Carta del Lavoro, Pubblicazione sulla “Gazzetta Ufficiale” n° 100 del 30.4.1927.

   <Puntualizza il rapporto fondamentale tra Fascismo e mondo del lavoro. Dichiara, istituzionandoli, i principi basilari a tutela dei lavoratori, nonché la preminenza, nello Stato Fascista, dell’interesse prioritario che lega gli obiettivi dello Stato a quelli del lavoro e dei lavoratori>. La “Carta del Lavoro” intendeva portare a confronto, su uno stato di parità, secondo un progetto di collaborazione e solidarietà che superasse la rovinosa filosofia materialistica della lotta di classe, due tradizionali antagonisti sociali: il capitalismo e il lavoro. Sarebbe troppo lungo elencare tutti i vantaggi per i lavoratori previsti in questa legge rivoluzionaria. Ne elenco solo alcuni: obbligatorietà della stipula di Contratti collettivi di categoria; istituzione della Magistratura del Lavoro; diritto alle ferie annuali; istituzione della indennità di fine rapporto; istituzione degli uffici di collocamento statali; assicurazione sugli infortuni sul lavoro; assicurazione per la maternità; assicurazione contro le malattie professionali; assicurazione contro la disoccupazione; Casse mutue per le malattie eccetera.

   L’antifascista Gaetano Salvemini scrisse: <L’Italia è diventata la Mecca degli studiosi della scienza politica, di economisti, di sociologi, i quali vi si affollano per vedere con i loro occhi com’è organizzato e come funziona lo Stato corporativo fascista (…)>. Oggi, invece, quotati giornali stranieri si affollano per denunciare la mafia politica e la pletora di deputati e senatori che siedono in Parlamento, pur essendo stati condannati dalla giustizia per reati vari. Non c’è che dire, anche oggi, siamo “studiati”.

   “Esenzioni tributarie per le famiglie numerose RDL n° 1312 del 14.1.1928 e
   “Assegni familiariRDL n° 1048 del 17.6.1937.

   Mezzano scrive: <In coerenza con la dichiarata importanza che il Fascismo attribuiva alla famiglia come cellula fondamentale della società, era importantissimo sgravare dalle spese fiscali quelle famiglie che già avevano impegni finanziari onerosi a causa dell’elevato numero dei componenti>.

   Grazie a queste leggi lo Stato riconosceva agli operai che si sposavano entro il venticinquesimo anno un assegno nuziale di 700 lire. Inoltre, se i coniugi guadagnavano meno di 1.000 lire lorde al mese, veniva loro concesso un prestito senza interessi compreso tra le 1.000 e le 3.000 lire. Alla nascita del primo figlio, il prestito si riduceva automaticamente del 10%; così, gradualmente, sino alla nascita del quarto figlio, il prestito veniva condonato. Il capofamiglia con prole numerosa (sette figli) godeva di privilegi particolari: Mussolini inviava, o consegnava personalmente, 5.000 lire, oltre una polizza di assicurazione. Una tessera  gratuita valida per tutti i mezzi pubblici cittadini giungeva al capofamiglia tramite la locale sezione della  Federazione fascista. Altri privilegi per queste famiglie numerose erano: la possibilità di contrarre prestiti a tasso bassissimo, sconti nell’affitto degli appartamenti, assegni familiari ragguardevoli. E ancora: per gli operai con un figlio, lire 3,60 la settimana; lire 4,80 per quelli con due o tre figli; 6 lire per quelli con quattro figli e oltre.

   “Legge sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali e legge istitutiva dell’INAIL, RD. n° 928 del 13.5.1929 e RD. n°264 del 23.3.1933, “Legge istitutiva dell’INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale)”, RDL n° 1827  del 4.10 1935.

   <Nel quadro della ristrutturazione del mondo del lavoro e nei rapporti tra i lavoratori e lo Stato, queste due leggi risolvono l’annoso problema delle conseguenze negative che situazioni accidentali potevano procurare a chi lavorava in particolari settori>.

   Il Regime fascista nel suo “programma politico e sociale per l’ammodernamento e l’industrializzazione del Paese”, come osservato anche da James Gregor, non poteva eludere una globale politica previdenziale. La competenza dell’INPS andava dall’invalidità e vecchiaia alla disoccupazione, dalla maternità alle malattie. Altre assicurazioni coprivano, praticamente, la totalità dei prestatori d’opera, garantendo così all’Italia un altro primato mondiale. Sulla scia dell’INPS sorsero, sempre negli anni ’30, l’INAM, l’EMPAS, l’INADEL, l’ENPDEP, tutti enti che permetteranno poi, anche se fra scandali, ruberie e arroccamenti di potere politico, all’Italia post-fascista di tutelare i lavoratori.

   “Istituzione del Libretto di Lavoro”.

    <Proseguendo nel perfezionamento delle norme a tutela dei lavoratori, per contrastare fenomeni come il lavoro nero, lo sfruttamento illecito di categorie deboli come donne e fanciulli, gli abusi sull’orario di lavoro e l’evasione dei contributi lavorativi e previdenziali e per far sì che, in generale, fossero rispettate tutte le leggi emanate a difesa del mondo del lavoro, viene istituito il Libretto di Lavoro>.

   Per avere solo una idea del maltrattamento subito dalla verità dopo la caduta del Fascismo, ecco come lo “storico” Max Gallo riporta la notizia in “Vita di Mussolini”, pag. 118: <Si crea un libretto di lavoro obbligatorio per meglio sorvegliare gli operai>. Come si vede il dottor Pasquariello non è solo.

   “Riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore settimanali” RD. n°1768 del 29.5.1937.

   Mezzano: <Non appena le condizioni generali dell’economia e dell’industria italiane lo permettono, il Fascismo continua la marcia intrapresa sin dal 1923 in direzione della riforma globale del mondo del lavoro, investendo parte del vantaggio economico nella ulteriore diminuzione dell’orario di lavoro e sottolineando il principio che il lavoro e il profitto debbono essere strumenti e non fini della società>.
   Questa legge (poi meglio conosciuta come “sabato fascista) era già prevista nel programma fascista del 1919 e si inserisce con naturalezza nell’obiettivo di forgiare lo “Stato del Lavoro” nel quale la figura del lavoratore si trasforma sempre più da salariato in protagonista e compartecipe dell’impresa.

   “Legge istitutiva dell’ECA (Ente Comunale di Assistenza). RDL n° 847 del 19.6.1937.
 
   Sempre Mezzano: <Viene istituito, in ogni comune del Regno, l’”Ente Comunale di Assistenza”, allo scopo di assistere individui e famiglie in stato di necessità e di controllare e coordinare tutte le altre associazioni esistenti che abbiano analogo fine>.

   E’ superfluo commentare questa legge, tanto è palese la sua finalità. I più bisognosi non vengono più assistiti da opere misericordiose, ma tramite una legge specifica dello Stato.

   Mi fermo qui perché, come ho scritto all’inizio, potevo presentare, per ovvi motivi di spazio, solo un elenco “frammentario ed incompleto” di alcune leggi sociali concepite dal Regime fascista. Tante altre tutte di spiccato valore sociale, uniche o prime nel mondo, arricchiranno la Storia del Fascismo. Una fra queste, <la più rivoluzionaria, la più geniale, la più popolare delle riforme del Fascismo, fortemente voluta da Benito Mussolini fu realizzata nella Repubblica Sociale Italiana>. Mezzano si riferisce alla “Socializzazione delle Aziende”: una riforma che avrebbe portato alla completa “Socializzazione dello Stato”una riforma che fu vanificata solo perché la plutocrazia mondiale volle mettere fine al Regime Fascista che, come disse Mussolini, <aveva spaventato il mondo>. Intendeva, ovviamente, “il mondo dell’usura e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.

   Mussolini e i suoi seguaci realizzarono uno Stato sociale, nonostante le difficoltà create lungo il loro cammino, decisamente all’avanguardia coi tempi, e questo senza aver avuto la possibilità di alcun esempio precedente. La validità di “quel sistema” è convalidata dal fatto che “quelle innovazioni”, come ha scritto Vittorio Feltri: <durano fino ad oggi, e sarebbero durate ancor più se l’inefficienza, l’incapacità e la disonestà dei Governi dei giorni nostri non le avessero distrutte>.

   Come concludere? Nella rovina di cui siamo investiti, solo un miracolo ci può salvare, e allora innalziamo una preghiera al Signore invocando per la tomba di Predappio lo stesso prodigio che ridette vita a Lazzaro.


                                                                                                                                                             

                                                                                                                                                             

giovedì 23 giugno 2022

STRAORDINARIE AVVENTURE DI SOLDATI DELLA RSI

DECIMA MAS: LEGGENDA DELLA RSI                       


STRAORDINARIE AVVENTURE DI SOLDATI DELLA RSI
Umberto Scaroni
 
 
    Fra le tante, gloriose e spesso incredibili imprese compiute dai Reparti speciali della Decima Flottiglia MAS, al comando del Principe Junio Valerio Borghese, le meno conosciute, anche perché segretissime, sono forse quelle affidate agli "N" del Gruppo Ceccacci, composto di due Squadre di esperti "nuotatori", agli ordini del S. Ten. Aladar Kummer e del S. Ten. Renzo Zanelli, particolarmente addestrati all'uso di esplosivi e destinati ad incursioni di sorpresa oltre le linee nemiche.
    Tali azioni non erano certamente facili da portare a termine, ed il loro successo dipendeva da un lungo e specifico addestramento, compiuto sulle spiagge di Jesolo, ma anche e soprattutto da un perfetto affiatamento fra i componenti della Squadra, nonché dalla fiducia e dalla stima reciproca, dato che la vita di uno era nelle mani dell'altro.
    Ci occuperemo qui, in particolare, delle azioni compiute dalla Squadra del S. Ten. Aladar Kummer, che, a causa del suo nome, è stato talora indicato come Ufficiale tedesco, mentre si tratta di un italianissimo figlio di Fiume che, dopo aver combattuto come Sottotenente nella Divisio­ne "Trieste" nella battaglia di El Alamein e, successivamente, in diverse azioni di contenimento durante la lunga ritirata di Libia, fu ferito ai confini della Tunisia e quindi trasferito con una Nave Ospedale a Napoli, ove rimase rico­verato per una ventina di giorni.
    Dopo una breve licenza di con­valescenza, fu destinato alla "dife­sa aeroporti" di Pianello Val Tidone (Piacenza), ove lo colse la vergognosa resa dell'8 settembre.
    Mentre l'Esercito si sfasciava miseramente, Kummer non esitò a presentarsi al Centro di recluta­mento della Decima MAS, a La Spezia, l'unico Reparto che non aveva ammainato la Bandiera, e, fra le varie specialità, essendo un ottimo nuotatore, scelse gli "N" del Btg. "N.P", e provvide perso­nalmente a costituire la squadra al suo comando, reclutando a Fiume dieci giovani amici, tutti universitari. Quindi raggiunse tesolo, per uno speciale addestramento, effettuato in gran segreto. In seguito ad una richiesta d'impiego di due Squadre "N" giunte dalla zona di operazioni, Kummer e Zanelli si recarono a Penne, sede del Gruppo Ceccacci, famoso per le missio­ni già compiute oltre le linee, nei territori occupati dal nemico.
    Purtroppo, proprio quando le Squadre erano pronte a compiere un'audace azione contro i mezzi da sbarco inglesi nel porto di Ortona, in seguito allo sfondamento del fronte a Cassino il Gruppo dovette ripiegare, risalendo l'Adriatico con tutti i suoi mezzi, fino a Cesenatico, ove requisì l'Albergo Roma, nel re­cinto del Porto Canale.
    Finalmente, verso la fine di lu­glio'44, la Squadra ebbe il battesi­mo del fuoco, sbarcando nottetempo con i "tacchini" sulla costa fra Senigallia ed Ancona (già in mano agli "alleati"); ove recò notevoli danni ad un deposito di munizioni, a diverse linee telefoniche ed a vari automezzi inglesi, rientrando incolume, dopo poche ore, con il motoscafo d'appoggio.
    L’entusiasmo della Squadra era alle stelle per il successo ottenuto, e già si stava organizzando una nuova audace impresa quando il Gruppo fu ancora costretto ad ar­retrare verso Nord, fino a Dosson (Treviso), usufruendo del Porto Corsini quale base operativa e di partenza per le azioni.
    Fu allora che la Squadra Kummer, onde poter disporre di un mezzo veloce per avvicinarsi agli obiettivi e sbarcare sulle spiag­ge con i battellini, si recò a Venezia, ove requisì il motoscafo del Conte Volpi di Misurata, che usò a metà ottobre per compiere un'azio­ne nella zona tra Miramare di Rimini e Riccione.
    Lasciato al largo il motoscafo, gli incursori raggiunsero silenziosamente la spiaggia con i battellini. Quindi, strisciando sulla sabbia, raggiunsero i cespugli sulla strada ove erano allineati numerosi grossi autocarri carichi di munizioni e di esplosivi.
Minati, indisturbati, tutti gli automezzi, gli arditi "nuotatori" provvidero quindi a tagliare tutti i fili di collegamento telefonico tra i vari Comandi alleati, creando un vero caos.
    Quando la Squadra, raggiunta la spiaggia, già si trovava al largo con i suoi battellini, iniziò una se­rie di terribili esplosioni che pro­vocarono un fuggi-fuggi generale ed il più completo scompiglio fra gli occupanti.
    Purtroppo, il previsto appuntamento con il motoscafo non avvenne perché si stava avvicinando l'alba, ed ai primi chiarori il mez­zo aveva l'ordine di allontanarsi dal luogo dello sbarco, per cui Kummer decise di pagaiare con il battellino verso Nord, accorgendosi però, dopo un giorno di faticosa navigazione, che la corrente con­traria lo allontanava sempre più dalla spiaggia, per cui preferì pun­tare verso terra, per sbarcare la sera sulla spiaggia e tentare di attraver­sare le linee a piedi.
    La Squadra sbarcò infatti vicino a Rimini, e si avviò camminando in colonna lungo la circonval­lazione della città. Ad un certo punto, però, arrivò nel senso con­trario una pattuglia nemica (anche questa in fila indiana) che portava sul basco dei distintivi simili a quelli dei nostri Marò, il cui capofila li salutò militarmente. Kummer, istintivamente, tese il braccio in avanti nel regolamentare saluto fascista, ma, accorgendosene, ripiegò subito il braccio portando la mano al berretto. Tutto andò liscio, e le colonne sfilarono così una accanto all'altra con una sequenza da film comico, malgrado la pericolosità della situazione.
La squadra Kummer decise quindi di dividersi per tentare separatamente di rientrare attraverso le linee con maggiori possi­bilità di successo: chi scelse di indossare abiti civili e chi, con Kummer, decise di restare in divi­sa. Quest'ultimo gruppetto si di­resse quindi verso Cesenatico, zona familiare, e si rifugiò in una cascina disabitata dei dintorni, ma improvvisamente, di notte, fu sorpreso e catturato da un gruppo di soldati polacchi, che lo caricò a calci su un camion e lo portò in carcere a Forlì, da dove, dopo qualche giorno, fu trasferito a Roma, a Cinecittà, ove aveva sede il servizio di spionaggio alleato.
    Kummer, dopo venti giorni di demoralizzante isolamento, fu infine interrogato da un ufficiale maltese, che parlava italiano, ed avendo appreso che anche gli altri componenti della Squadra erano stati catturati in borghese, riuscì a salvar loro la vita dichiarando e dimostrando che non erano spie, ma militari incursori del suo Reparto che tentavano di passare le linee senza dar nell'occhio.
    Quanto alle informazioni mi­litari richieste, Kummer ebbe l'impressione che quegli interrogatori, anche se rimanevano senza risposta, fossero inutili, dato che gli "alleati"... sapevano già tutto!
    In tempi successivi, nella sua stessa cella furono rinchiusi il collega Zanelli - la cui Squadra era stata pure catturata dopo un riuscito attacco nelle retrovie inglesi - ed il fratello Carlo, dei mezzi d'assalto della Decima dislocati a San Remo, catturato in mare dopo aver affondato il suo M.T.M.
    I tre prigionieri studiarono su­bito insieme un piano di fuga, ma non riuscirono a realizzarlo perché vennero divisi e trasferiti nel campo di concentramento di Afragola (Napoli). Ad Afragola furono caricati su un treno di carri bestiame diretto a Taranto, dove sarebbero stati imbarcati per l'Algeria. Giunti in Basilicata, non volendo essere trasferiti in Africa, i nostri amici tentarono finalmente la fuga, riuscendo a scardinare le tavole dal fondo del vagone con un vecchio chiodo arrugginito strappato a fa­tica dalla porta. Quindi, dì notte, riuscirono a calarsi uno alla volta sulle rotaie, approfittando dei rallentamenti del treno e subito si al­lontanarono dalla ferrovia attraverso la campagna dove, in una casa colonica, trovarono una insperata e generosa accoglienza da parte dei contadini, ai quali si era­no presentati come cittadini del Nord desiderosi di tornare a casa, e che offrirono loro da mangiare e da dormire.
    All'indomani, considerata la grande distanza dalle linee del fronte, allora attestate sulla Linea Gotica, approfittando del fatto che Zanelli parlava l'inglese, i tre fug­giaschi compirono una ennesima bravata, chiedendo ed ottenendo il passaggio su un camion diretto al Nord. Tutto andò bene, e con un auto-stop dopo l'altro il gruppetto riuscì ad arrivare a Roma senza destar sospetti.
    Proseguendo a piedi verso la Toscana, mentre attraversavano la piazza di un paese, i tre fuggitivi furono però notati da alcuni citta­dini che, insospettiti, li trattennero in Comune "per chiarimenti" fino all'arrivo dei Carabinieri, i quali, evidentemente informati della loro fuga, senza tanti discor­si li portarono a Roma, proprio a Cinecittà, ove l'Ufficiale maltese dei Servizi Segreti li accolse sorridendo ironicamente chiedendo loro se avevano fatto un bel viaggio!
    Ciò, anziché deprimere, stimolò la reazione dei nostri Eroi, che subito si misero all'opera per rea­lizzare il piano di fuga già studia­to nel corso della loro precedente "villeggiatura" a Cinecittà. Dopo aver svitato con un coltello trafugato la griglia dell'aeratore sul soffitto della cella, strisciando nel tubo dell'aria Kummer e Zanelli riuscirono infatti a calarsi nella "stanza dei microfoni" (ove si registravano le conversazioni fra i detenuti), che non aveva reticolati alle finestre, e di qui scapparono di notte, ultimando con successo le loro mirabolanti avventure.
    Arrestati dagli inglesi nel 1945, verso la fine della guerra, Kummer e Zanelli vennero trattenuti "per punizione" nel campo speciale di concentramento di Rimini fino all'estate 1947, quando gli inglesi, lasciando l'Italia, furono costretti a liberarli.
    II S. Ten. Aladar Kummer è ora un attivo componente ed un valido collaboratore della Federazione di Bergamo dell'U.N.C.R.S.I..
 
 
NUOVO FRONTE N.225. Gennaio-Febbraio 2003. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

VITTORIOSISSIMI I MARINAI DELLA DECIMA, PERCHE' HANNO REALIZZATO TUTTI I LORO PROPOSITI
da DECIMA! - GLI ENNEPI' SI RACCONTANO.  Sergio Bozza
 
    "PER L’ONORE"
    "Riscattare la dignità del soldato italiano, vendicare l’inganno perpetrato alla nostra flotta, frenare la tracotanza dei tedeschi"
    Obiettivi raggiunti, Capitano!
     
    I nostri sacrifici sfortunati?
    Perché sfortunati?
    Non è retorica. Racconto:
    In una notte di settembre del 1943, di ritorno da una sfibrante "Missione di ricupero" (di armi, munizioni, vestiario, viveri, attrezzature, ecc., tutte merci che scoprivamo, sequestravamo, o pagavamo a mercato nero) ci si trovava nella caserma del Muggiano, intenti a mangiucchiare quanto un cuciniere assonnato ci aveva ammannito, quando inaspettatamente comparvero Junio Borghese, comandante della Decima Mas e il maggiore Umberto Bardelli, all’epoca suo braccio destro. Il Principe con la mano ci fece cenno di stare seduti e ci ascoltò sull’esito della missione.
    "Buon lavoro, gente!" (in marina gli equipaggi sono chiamati "gente") ci disse alfine "Ora riposatevi perché ci sarà ben altro da fare".
    I due stavano allontanandosi quando, chissà perché, un allievo ufficiale, Giuseppe Mainenti, disse ad alta voce: "Comandante, vinceremo!". Borghese si fermò, e solo dopo qualche istante, girandosi con una delle sue famose occhiate a Bardelli, tornò ad avvicinarsi lentamente alla nostra tavolata.
    Alla fioca luce che a malapena illuminava la vasta e silenziosa mensa ci guardò attentamente, uno per uno; mise un piede sulla panca e, sporgendosi in avanti appoggiato a un ginocchio, ci disse: "Se siete qui è perché siete degli uomini e a questi uomini io dico di ascoltarmi attentamente e di ricordare sempre". (Non so se avete mai sentito Borghese, ma quando il Comandante parlava, inchiodava l’uditorio con il suo periodare, breve e secco com’era). "Non ci sarà nessuna vittoria, perché la guerra è perduta, definitivamente perduta da quando gli USA sono entrati nel conflitto".
    "Non avete la minima idea di quale sia la loro vera capacità industriale. Io lo so. Perciò nessuna illusione di vittoria. Noi siamo qui, e andremo fino in fondo, perché all’ombra della nostra bandiera dobbiamo batterci a ogni costo per riscattare l’onore del soldato italiano, perché dobbiamo vendicare l’infame inganno perpetrato nei confronti della nostra flotta, perché dobbiamo difendere - capitemi chiaramente - la nostra terra e le nostre genti dalla jattanza e dalla prevaricazione dei tedeschi. Sarà difficile, sarà duro, correrà sangue, ci saranno immensi sacrifici, ma se manterremo questi propositi - solo questi propositi - e li realizzeremo, allora sì che avremo vinto".
    Con una fredda inquisitiva occhiata a ognuno di noi, di scatto, si rizzò e senza aggiungere altro se ne andò col taciturno Bardelli.
    Cari, tristi pessimisti: Gli NP, gli uomini della Decima (con tutti i soldati della RSI) hanno mantenuto l’impegno prospettato dal Comandante, lo hanno realizzato e quindi:
    "Noi abbiamo vinto".
    I nostri sacrifici sono stati sfortunati?
    Al contrario: fortunatissimi.
    Compreso a fondo il significato dell’onore delle armi riconosciuto alla Decima dagli inglesi?
    Viste le dichiarazioni di Eisenhower?
    È il massimo!
    E inoltre: lo scomodo alleato tedesco è stato tenuto a bada e non ha fatto vendette sull’Italia. Innocue furono rese le ciurmaglie politiche. Funzionarono le ferrovie, gli approvvigionamenti alimentari, gli assegni familiari per un milione di prigionieri, le scuole di ogni tipo, la vigilanza contro i ladri, l’agricoltura che molto produsse e il lavoro dei civili che non mancò mai. Tutto, e al meglio, fino al penultimo giorno, 24 aprile 1945. Che si voleva di più?
    Possiamo andare fieri a rapporto:
    "Abbiamo vinto, comandante!"
    Nella Storia, quella con la "S" maiuscola, il silenzio dei vinti molte volte vale di più del clamore dei vincitori.
    Decima!
    Dal Nieppi
    ex allievo uff.
    II compagnia "NP"
 
 
 GLI ENNEPI' SI RACCONTANO.  Sergio Bozza



mercoledì 15 giugno 2022

LO SBARCO IN SICILIA NEL 1943 Gli USA e la mafia

mafia

LO SBARCO IN SICILIA NEL 1943 Gli USA e la mafia

 

Vittorio Martinelli


Nei primi dieci mesi di guerra i sommergibili tedeschi affondarono nei pressi delle coste dell’Atlantico cinquecento navi statunitensi; era chiaro che venivano riforniti di viveri e di nafta da spie e traditori; marina e controspionaggio si dimostrarono impotenti. Il controspionaggio ebbe l’idea di ricorrere ai servigi della mafia, con la mediazione di Salvatore Lucania (detto “Lucky Luciano”) che stava scontando una condanna a 15 anni. I fratelli Camardos e Frank Costello, con la loro organizzazione mafiosa, riuscirono dove le strutture ufficiali avevano fallito: I’attività filo-nazista fu stroncata.

Da cosa nacque cosa. Abrogati nel 1942 i “decreti Mori” parecchi mafiosi ritornati in Sicilia avviarono contatti con gli “angloamericani” che incominciarono ad arruolare uomini d’origine siciliana. A mezzo dei pescherecci, i mafiosi esercitarono lo spionaggio nel Mediterraneo; poi fornirono notizie sulle infrastrutture dell’isola, la dislocazione e la consistenza delle truppe dell’Asse in Sicilia. Del resto perché gli Alleati iniziarono l’invasione dell’Europa meridionale dalla Sicilia, anziché dalla Sardegna o dalla Corsica, dalle quali sarebbe stato agevole effettuare sbarchi in Toscana, Liguria o Provenza?

La tranquillità nelle retrovie delle truppe che sarebbero sbarcate costituiva la preoccupazione principale dei comandi alleati: fu scelta la Sicilia con la certezza di poter contare, sull’appoggio della mafia. Fu quest’ultima ad ospitare dal 1942 il colonnello Charles Poletti, futuro governatore militare, dall’aprile 1943 il colonnello britannico Hancok e un buon numero d’infiltrati italo-americani.

Dalla relazione conclusiva della Commissione antimafia presentata alle Camere il 4 febbraio 1976: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell’esercito americano furono inviati nell’isola, per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca l’occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò una apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della “preparazione psicologica” della Sicilia. Fu così predisposta una fitta rete informativa, che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia, e mandò nell’isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori. Ma l’episodio certo più importante è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco da Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana.

Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie dell’infiltrazione alleata in Sicilia prima dell’occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l’idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell’esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per preparare all’occupazione imminente le popolazioni locali. “Luciano” venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”. E un fatto che quando il 10 luglio 1943 gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, raggiunsero Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “…è storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d’accordo con il gangsterismo americano, s’adoperò per tenere sgombra la via da un mare all’altro…”.

Ancora la Commissione antimafia: “la mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti”.

Scrisse Lamberto Mercuri: “fu in quei mesi che la mafia rinacque e non tardò ad affacciarsi alla luce del sole: in realtà non era mai morta, né completamente debellata: le lunghe ed energiche repressioni del prefetto Mori ne avevano sopito per lungo tempo ardore e vigoria e fugato all’estero i capi più “rappresentativi” e più spietati che avevano tuttavia mantenuto contatti e legami con l’onorata società dell’isola”.

Nella confusione seguita all’invasione e alla caduta del Fascismo, la mafia vide l’opportunità di riorganizzare il vecchio potere, di insinuarsi nel vuoto del nuovo, raccogliendo i frutti della collaborazione con gli alleati. Molti suoi uomini noti ebbero cariche importanti: per esempio, un mafioso celeberrimo, don Calogero Vizzini, fu nominato da un tenente americano sindaco di Villalba; nella cerimonia d’insediamento, fu salutato da grida di “Viva la mafia!”.

“Vito Genovese – scrisse Mack Smith – benché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti compreso l’omicidio, e sebbene avesse servito il fascismo durante la guerra, risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità americana. Egli utilizzò la sua posizione e la sua parentela con elementi della mafia locale per aiutare a rastaurarne l’autorità…”.

Divenne il “braccio destro indigeno” del governatore Poletti, ma una banda ai suoi ordini rubava autocarri militari nel porto di Napoli, li riempiva di farina e zucchero, (pure sottratti agli alleati) che vendeva nelle città vicine. Altri mafiosi, meno noti, divennero interpreti o “uomini di fiducia”. L’atteggiamento del Governo militare fu ispirato a criteri utilitaristici; sta di fatto, però, che quest’apertura verso gli “amici degli amici” permise in breve alla mafia di riorganizzarsi, di riacquistare l’antica, indiscussa influenza. Aveva sempre cercato l’alleanza con il potere (anche con quello fascista, agl’inizi) ma per la prima volta le veniva conferito un crisma di legalità e di ufficialità che le consentiva d’identificarsi con il potere. I “nuovi quadri” saldarono o ripresero solidi legami con la malavita americana, indirizzandosi verso il tipo di criminalità associata “industriale” caratteristico del gangsterismo USA nel periodo tra le due guerre.

Sul numero di aprile di “Volontà” ho riepilogato le vicende della lotta – vittoriosa – condotta dal Fascismo contro la mafia. Il seguito della vicenda dimostra come, grazie agli anglo-americani, la seconda guerra mondiale rappresentò per la mafia l’occasione d’oro per una rigogliosa rinascita, come i fatti hanno dimostrato ampiamente.

Si suol dire oggi, da chi intende sminuirne il successo, che il Fascismo non debellò la mafia, semplicemente la costrinse all’inazione, tant’è vero che poi si ridestò più forte di prima. Se fu poco, perché il regime attuale non perviene al medesimo risultato? Basterebbe. Senza più delitti ed attività criminale, la mafia si ridurrebbe ad una patetica, folcloristica conventicola segreta che non darebbe noia e non farebbe più paura a nessuno.

 

                                                                                                                                           

mercoledì 8 giugno 2022

Perchè l’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale? Di donna Rachele.


Perchè l’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale? Di donna Rachele.

Ecco a voi la verità raccontata dalla donna che viveva accanto 
al Duce e che lo aveva sposato: Rachele Guidi.
Si è tanto detto e scritto sull’entrata in guerra dell’Italia nella seconda guerra mondiale, ma non si è mai arrivati ad una versione definitiva. Vediamo insieme il resoconto di Donna Rachele dal libro delle sue memorie. Chi piu’ informata sugli eventi e sulle reali motivazioni della moglie del Capo del governo?
- I tentativi di evitare la guerra-
«Quando si rese conto che non poteva far piu’ nulla per evitare la guerra, mio marito cercò di tenerne fuori l’Italia il piu’ a lungo possibile. Non era un segreto per nessuno che se l’Italia fosse stata obbligata ad una guerra, le Forze Armate non sarebbero state pronte al cento per cento, prima del 1943. Dapprima mio marito cercò, grazie al «Patto d’Acciaio», di convincere Hitler ad assumere un atteggiamento meno bellicoso, ma si rese conto che i suoi tentativi erano destinati al fallimento. “Spero di potere acquietare con la mia franchezza i bollenti spiriti dei generali del Fuhrer,” disse “perché oggi l’Italia è soltanto in grado di poter affrontare un conflitto di violenta ma breve durata. Ma le guerre sono come le valanghe: non puoi prevedere il loro volume, né la durata né la direzione. C’è stata persino una guerra di cento anni, Rachele, ma farò il possibile per evitarla o rimandarla.”
Secondo mio marito, il colpo di grazia alla pace mondiale era stato dato dal «Patto di non aggressione»stipulato tra la Germania nazista e la Russia comunista. Ne fu molto irritato, non per il fatto in sé, poiché aveva sostenuto presso il Fuhrer in alcune occasioni l’utilità di un modus vivendi con l’Unione Sovietica, ma perché Stalin aveva così autorizzato la Germania a correre qualsiasi avventura in Occidente. “In parole povere, adesso Hitler è libero di invadere la Polonia.” disse.
Il 25 agosto non c’erano piu’ dubbi: la Germania voleva la guerra. Nella giornata del 25 Hitler aveva mandato a mio marito un lungo messaggio. Terminava la lettera facendo appellto all’aiuto dell’Italia in virtu’ del «Patto d’Acciaio» e alla sua comprensione. Fu questa la parola alla quale il Duce si aggrappò per cercare di ritardare la scadenza e di tenere l’Italia fuori dal conflitto, qualora non ci fosse nessun’altra soluzione pacifica. Rispose immediatamente al Fuhrer con un messaggio “temporeggiatore” dove lo informava che, se voleva che l’Italia si mettesse subito al fianco della Germania, doveva prima rifornirla di materie prime e di armamenti. Il suo scopo era restare neutrale fino al 1942, anno in cui riteneva che l’Italia sarebbe stata pronta per entrare in guerra, se fosse stato necessario.
Manda a Hitler un nuovo messaggio con i quantitativi volutamente esagerati per impedirgli di fornire tutto. Il 28 agosto Hitler risponde nel senso che il Duce si augura: non può mandare all’Italia tutto quello che gli è stato chiesto, ma accetta la sua neutralità a tre condizioni, che devono restare segrete.
Le condizioni sono queste: l’Italia non deve rendere nota la propria neutralità prima dell’inizio delle ostilità, al fine di impegnare su di essa le forze armate francesi e inglesi; deve proseguire ostentatamente i suoi preparativi militari, sempre allo stesso scopo; il Governo italiano deve mandare altri operai per sostituire i cittadini tedeschi che partono per il fronte.
Il Duce si trova ora in una posizione “ambigua” nei confronti di Francia e Inghilterra, proseguendo ufficialmente i preparativi di guerra. Questa sensazione trova conferma negli avvenimenti, che precipitano a partire dal 30 agosto.
Quel giorno Hitler riceve la risposta inglese alle sue proposte. Non gli dà soddisfazione. Il 31 agosto la situazione è disperata. Il Duce fa un ultimo tentativo: si dichiara disposto a intervenire presso il Fuhrer, purché la Polonia accetti di dare Danzica alla Germania. Halifax risponde che la proposta di cedere Danzica è inaccettabile. Mussolini tenta un altro mezzo: nel pomeriggio propone alla Francia e all’Inghilterra una conferenza per il 5 settembre, allo scopo di riesaminare il trattato di Versailles. Se questi due paesi si dichiarassero d’accordo, il Duce potrebbe frenare Hitler ancora una volta.
Ma la sera stessa, Ciano viene a sapere che le comunicazioni fra Italia e Inghilterra sono interrotte. Lo stratagemma ideato per dare l’impressione che anche l’Italia sarebbe entrata in guerra, è riuscito al di là di ogni speranza dello stesso Fuhrer: gli inglesi non hanno piu’ fiducia nell’Italia e sono convinti che mio marito li inganni. Allora, per provare la buona fede degli italiani, Ciano rivela a Percy Loraine, ambasciatore britannico a Roma, che l’Italia rimarrà neutrale. Risultato: il 31 agosto 1939, per aver voluto aiutare la Francia e l’Inghilterra ad arrivare ad una conferenza di pace, l’Italia era arrivata a non rispettare un accordo segreto stipulato con la Germania. E dopo essersi trovato in una posizione ambigua nei confronti di Francia e Inghilterra per far piacere ad Hitler, mio marito si trovava nella stessa situazione nei confronti del Reich. E, dopo aver rischiato di essere attaccato dalla Francia e dall’Inghilterra il nostro Paese ora correva il rischio di essere attaccato dalla Germania. Debbo aggiungere che il gesto di Ciano del 31 agosto di rivelare la neutralità italiana degli a Inghilterra e Francia fu una delle ragioni per cui Ribbentrop ed altri gerarchi nazisti vollero liberarsi di lui.
Di fronte a questo nuovo aspetto della situazione, il Duce non si ferma ma si ostina nei tentativi di pace. Tuttavia, prima di presentare una nuova proposta, vuole proteggersi le spalle: la mattina del 1 settembre, di buon’ora, chiede ad Attolico di ottenere da Hitler un telegramma che lo sciolga in quel momento dagli obblighi dell’alleanza. Il telegramma arriva immediatamente. La risposta è favorevole. Però, arriva subito un altro telegramma: Hitler fa capire a Mussolini che non vuole piu’ transigere ed è deciso ad andare avanti, occupare Danzica, anche a costo di fare la guerra alla Polonia. Nonostante questo messaggio, il Duce provocò un ultimo sussulto di speranza, il 2 settembre, proponendo nuovi negoziati; Hitler, conciliante contro ogni aspettativa, accetta. Nel pomeriggio, alla presenza di André Francois Poncet e di Percy Loraine, rispettivamente ambasciatori di Francia e di Inghilterra a Roma, Ciano telefona ad Halifax a Londra e a Bonnet a Parigi per trasmettere la proposta di Mussolini. Alle diciannove, Halifax richiamò Ciano per dirgli che la proposta italiana era accettabile solo a condizione che “le truppe tedesche si ritirino dal territorio polacco, che esse hanno cominciato ad occupare dal giorno prima”.
Ribbentrop non risponde al telegramma che Ciano gli fa avere, per informarlo delle conizioni proposte da Londra.
La mattina del 3 settembre la Francia e l’Inghilterra dichiararono guerra alla Germania. Ormai anche loro avevano deciso per la guerra.»
-L’Italia entra in guerra-
«Fin dal 1939, durante una seduta del Gran Consiglio del Fascismo, il Duce aveva esposto le rivendicazioni dell’Italia nei confronti della Francia: tutti i terroitori al di qua delle Alpi dovevano essere italiani e quelli che si trovavano oltr’Alpe, francesi. Di fatto, questa rettifica non comportava una grande perdita per la Francia. La frontiera, credo, sarebbe passata per Mentone e Nizza. Il Duce aveva anche reclamato la Tunisia- che doveva passare sotto il protettorato italiano- Gibuti e la Corsica.Queste rivendicazioni non erano mai state svelate e i propositi dell’Italia erano rimasti segreti. “Come potrò pretendere dalla Germania il riconoscimento delle nostre rivendicazioni se l’Italia sarà rimasta alla finestra? Andrebbe a picco il nostro prestigio e la nostra posizione come potenza mondiale. Inoltre non voglio che Hitler rimanga il solo interlocutore degli inglesi e dei francesi, nel loro stesso interesse; e questo, Churchill, lo sa bene.”
Gli interventi presso il Duce si moltiplicarono, sia da parte dei tedeschi che degli “alleati” (Francia e Inghilterra) Questi si auguravano che l’Italia non entrasse in guerra; ma nel frattempo, per merito della loro strepitosa avanzata, le truppe tedesche erano sempre piu’ vicine a tutti i confini italiani. Hitler, che aveva sciolto il Duce dai suoi impegni nel 1939, quando la guerra sembrava limitata Alla cortese attenzione di Polonia, fece intendere la eventualità che questa volta non si sarebbe fermato alla frontiera italiana se il nostro Paese fosse rimasto neutrale. Ma soprattutto era lo Stato Maggiore del III Reich minacciava puramente e semplicemente di invadere ed occupare l’Italia. Ed era proprio quello che il Duce aveva temuto sin dal primo giorno di guerra.
Questa nuova e grande preoccupazione era nata dopo la visita fatta a Palazzo Venezia da Sumner Welles, inviato speciale di Roosvelt. Appena arrivato in Italia si chiuse nell’ufficio di mio marito ed ebbe con lui un colloquio molto lungo ma soprattutto “molto franco”. Il contraccolpo di questa visista americana non tardò a farsi sentire: appena informato, Hitler mandò a sua volta a Roma un influente messaggero, il Ministro degli Esteri von Ribbentrop. Se non sbaglio, fece intendere che le truppe tedesche non avrebebro esitato ad occupare militarmente l’Italia qualora avesse fatto un ennesimo “giro di Valzer”.
Da quel giorno il Duce si convinse che la non belligeranza dell’Italia non poteva durare a lungo.Tuttavia, per non sacrificare un solo soldato italiano prima del momento giusto, cercava di tenere duro il piu’ possibile. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua azione psicologica: prima al Brennero, dove incontrò mio marito per esporre i suoi piani; poi facendo annunciare, il 9 aprile, l’attacco alla Norvegia e alla Danimarca. L’11 aprile gli mandò un messaggio amichevole seguito da un altro il 20, e poi altre lettere, il 28 aprile e il 4 maggio, con nuovi annunci di vittorie.
Il 10 maggio si ebbe il gran colpo. Ciano avvertì il Duce che l’ambasciatore tedesco Von Mackensen gli aveva detto che forse avrebbe dovuto disturbarlo durante la notte per una comunicazione urgente che aspettava da Berlino. Infatti alle quattro del mattino Von Mackensen gli consegnò una lettera sigillata dal Fuhrer nella quale questi annunciava la decisione di attaccare l’ Olanda e il Belgio. Chiedeva inoltre a mio marito di prendere le disposizioni che riteneva opportune per l’avvenire dell’Italia. Parlando chiaramente, voleva dire: “Aspetto di vedere cosa farete. Adesso la mossa spetta a voi.”
Che cosa potevano fare i “tiepidi” messaggi che continuavano ad arrivare dall’America, dalla Francia e dall’ Inghilterra? Il 24 aprile Paul Reynaud aveva scritto a mio marito per esprimergli la sua convinzione che la Francia e l’Italia non potevano battersi prima che i loro capi ne avessero discusso.
“Bisognava discutere prima, non ora” aveva commentato Mussolini con amarezza.
Solo pochi giorni dopo l’intimazione di Hitler del 10 maggio, fu Churchill a scrivere al Duce. Ricordo una frase: “Dichiaro di non essere mai stato nemico della nazione italiana, né, in fondo al cuore, avversario di colui che in Italia detta legge…”
“E’ proprio il momento di scrivermi queste cose” disse Benito.”Se nel 1935 gli inglesi non avessero fatto votare le sanzioni dalla Società delle Nazioni, avremmo potuto costituire un blocco europeo.”
E a proposito di un’altra frase di Churchill che metteva in guardia il Duce contro l’aiuto che l’Inghilterra avrebbe certamente ricevuto dall’America, se questa si fosse decisa a entrare a sua volta in guerra, mio marito commentò: “L’Inghilterra non può oggi opporsi alla macchina bellica tedesca. Gli Americani sono troppo lontani e, anche se decidessero di intervenire, i tedeschi avranno vinto prima che essi abbiano avuto il tempo di fare qualcosa.”
Ogni giorno arrivavano a Roma notizie sulla fulminea avanzata del Reich. Era una vera e propria marcia trionfale, che trovava echi non solo nel partito fascista e nell’esercito italiano, ma anche fra il popolo.Ogni mattina arrivavano a Palazzo Venezia migliaia di lettere, e tutte con lo stesso ritornello:“Come sempre, l’Italia arriva per ultima: i tedeschi si prenderanno tutto”.
Il 30 maggio 1940 la tensione raggiunse un punto culminante.
Quel giorno il presidente Roosevlt fece pervenire al Duce un messaggio personale, col quale lo esortava a rimanere fuori dal conflitto. Mio marito ne fu piuttosto scosso.
La sera arrivò a Villa Torlonia con un pacco di fotografie e film, che in parte gli erano stati procurati da Vittorio grazie alle sue relazioni col mondo del cinema.
Erano documentari sulle operazioni militari tedesche in Polonia. Dopo cena, li facemmo proiettare nel salone in cui avevamo trascosro tante piacevoli serate. Quella sera fu un inferno. Eravamo atterriti di fronte a quella valanga di ferro e di fuoco, a quei mostri d’acciaio che avanzavano schiacciando tutto sul loro passaggio, mentre nel cielo volteggiavano gli Stukas, le cui sibilanti sirene ci laceravano gli orecchi. Un’emozione intensa alterava la voce di Benito: “Hai visto? Tutte quelle truppe, tutti quei formidabili armamenti non sono piu’ lontani, ora. Ben presto arriveranno ai nostri confini; e d’altra parte, se lo vogliono, i tedeschi non hanno bisogno di attraversare la Francia: abbiamo dei confini in comune, adesso. In poche ore possono invadere l’Italia. Non ci sono piu’ dubbi, Rachele: che noi entriamo in guerra o no, i tedeschi occuperanno l’Europa. Se non saremo al loro fianco, saranno i soli a dettar legge all’Europa di domani.” Mi posò una mano sulla spalla, mi guardò negli occhi e disse:“Rachele, anche noi abbiamo dei figli. Anche noi tremeremo per loro come milioni di altri italiani. Ma io non posso piu’ indietreggiare. Nel solo interesse dell’Italia, ma anche per evitare che subisca la sorte della Polonia, dell’Olanda e di tanti altri paesi. Dio mi è testimone che ho fatto tutto il possibile per salvare la pace.”»
Da Mussolini privato, di Rachele Mussolini (1973)