lunedì 21 febbraio 2022

Uccidete Gentile per educarne cento

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 G. GENTILE                           TOGLIATTI IL CRIMINALE

                                            ROSSO CHE LO FECE UCCIDERE

Uccidete Gentile per educarne cento

C’è una data, un simbolo e un atto da cui prende origine la cancellazione del pensiero avverso, l’eliminazione con disprezzo di chi non si conforma e l’egemonia culturale. È il 15 aprile del 1944. In quel giorno viene ucciso un filosofo, forse il più grande filosofo italiano del Novecento e il più grande promotore di cultura in Italia. Giovanni Gentile fu filosofo del fascismo e la definizione è vera ma riduttiva: la sua filosofia era già compiuta prima che nascesse il fascismo, la sua impronta culturale va ben oltre il regime; fu gran ministro della pubblica istruzione, fece una vera riforma della scuola, fondò l’Enciclopedia italiana, fondò e diresse istituti di cultura. Fu ucciso da un commando di partigiani comunisti. Non ricostruirò la storia dell’assassinio, i retroscena, i colpevoli. Il miglior libro sul tema, il più onesto, resta quello di Luciano Mecacci, La ghirlanda fiorentina, edito da Adelphi.

Eravamo in guerra, il clima era feroce. Ma a Gentile, prima che il suo passato di ministro e di fascista, non si perdonò il suo appello alla pacificazione e a sentirsi italiani prima che fascisti e antifascisti. Inviso anche ai fascisti più fanatici, fu proprio quel suo appello alla concordia a renderlo ingombrante; avrebbe favorito una transizione meno feroce dal fascismo all’antifascismo.

Non rivangherò le responsabilità comuniste, l’atto d’accusa di Concetto Marchesi prima dell’omicidio, la “sentenza di morte” emessa contro di lui, poi la dissociazione del Partito d’Azione; e non tornerò sul tema se il mandante fosse Palmiro Togliatti o l’Intellettuale Collettivo. Ne ho scritto abbastanza. Non ci sarebbe comunque da sorprendersi di Togliatti, considerando le sue responsabilità nel massacro degli anarchici da parte dei comunisti in Spagna, sui comunisti italiani rifugiati e trucidati in Unione sovietica, la complicità sulle foibe… Il suo cinismo e il suo allineamento a Stalin non ci impediscono di riconoscere la sua grande intelligenza politica, l’amnistia concessa da Guardasigilli ai fascisti, il suo ruolo di costituente e poi nella repubblica.

Togliatti avrebbe potuto giustificare l’esecuzione come azione di guerra ma andò oltre, usando parole sprezzanti. Come sarà per Mussolini e i gerarchi, non bastò “giustiziarli”, ma vi fu lo scempio di Piazzale Loreto; così non bastò uccidere Gentile, si volle fare scempio della sua figura e del suo pensiero. Sull’Unità del 23 aprile del ’44 Togliatti rifiutò il tono rispettoso per un morto, volle scrivere “il necrologio di una canaglia”; “traditore volgarissimo”, “camorrista”, “corruttore di tutta l’intellettualità italiana” (compreso quella che poi passò armi e bagagli al Pci); “intellettualmente disonesto”, “moralmente un aborto”, “un gerarca corrotto”. Dopo di lui infierirono sul cadavere, con odio, Eugenio Curiel e altri intellettuali: “raccattato nell’immondezzaio”, “lenone”, “mediocre vacuo”…

Gentile non aveva nulla da guadagnare nell’esporsi con l’ultimo fascismo di Salò, da cui era rimasto fino allora appartato: aveva tanti contro, non aveva mai amato l’alleanza con Hitler, detestava il razzismo; ma per coerenza e carattere non si tirò indietro, come scriverà in Genesi e struttura della società (un libro che ripubblicai con Vallecchi, ora uscito da Oaks a cura di Gennaro Sangiuliano). Si espose, accettò di presiedere l’Accademia e fu ucciso. Era stato fascista e mussoliniano, aveva avuto onori e onorari dal regime, e grande potere; ma era stato anche attaccato da molti fascisti e intellettuali, fu emarginato dal regime dopo i Patti Lateranensi.

Per Gentile il fascismo passa ma l’Italia resta, lo Stato viene prima del Partito e la Nazione prima del regime. Aveva difeso e riformato la scuola e l’università italiana, la Normale di Pisa, aveva fondato l’Istituto di studi orientali, l’Ismeo, aveva creato quel monumento alla cultura che è l’Istituto dell’Enciclopedia, la Treccani. E aveva difeso tanti intellettuali antifascisti, dissidenti ed ebrei, ne aveva portati ben 85 – contarono i suoi detrattori in camicia nera – a collaborare all’Enciclopedia; protesse antifascisti militanti come Piero Gobetti che pure lo aveva attaccato e giovani docenti oscillanti tra l’ossequio al fascismo e il larvato antifascismo, come Norberto Bobbio. Era stato, si, paternalista, autoritario, passionale; ma anche generoso, educò ai doveri e al coraggio, difese e diffuse cultura e intelligenza. Il filosofo Antonio Banfi, diventato comunista, commentò sul giornale comunista La nostra lotta l’assassinio di Gentile; dopo una caterva d’insulti, ammetteva trincerandosi dietro un si dice: “Era, si dice, un onesto uomo, affabile, generoso di aiuto, molti protesse e difese in anni tempestosi… Era uno studioso, un filosofo”; ma i tempi erano quelli che erano, richiedevano atti drastici e spietati.

E dire che Togliatti, come Gramsci, era stato gentiliano all’epoca di Ordine nuovo, come ammise il cofondatore Angelo Tasca. Dopo la guerra, quando curò per le edizioni di Rinascita il profilo di Marx scritto da Lenin, Togliatti cancellò il riferimento a Gentile, unico citato da Lenin tra i filosofi viventi. La censura ideologica cominciò allora…

Uccidere Gentile fu una bestialità coerente al clima generale. Peggio che sparargli fu però infangarlo e diffamarlo dopo morto, usare il suo assassinio come uno spauracchio, volere la sua eliminazione come premessa per instaurare l’egemonia culturale e liberare gli stessi intellettuali all’ombra del Pci dal debito imbarazzante verso di lui. Condannavano il filosofo della dittatura e poi si piegavano al partito di Stalin e al totalitarismo comunista.

L’uccisione di Gentile fu un parricidio culturale e insieme un avvertimento e un esempio, da seguire seppure in forme incruente in tempo di pace: eliminare chi dissente, cancellare i non allineati; morte civile e infamia. I meriti, i valori, le verità non contano se sei dalla parte sbagliata. Cominciò così l’egemonia culturale…

MV, La Verità 15 aprile 2021

 


 

lunedì 14 febbraio 2022

I 120 GIORNI DELLA SOCIALIZZAZIONE.

I 120 GIORNI DELLA SOCIALIZZAZIONE. SPINELLI E MANUNTA AL MINISTERO CORPORATIVO Archivi del sindacalismo
Nunziante Santarosa 
 
 
    Ci è capitato fra le mani un volume non vecchio, bensì antico, un vero e proprio incunabolo, dovuto alla penna di un importante teorico del sindacalismo fascista espressivo dell’avanguardia sociale più intransigente, nonché giornalista autorevole e raffinato saggista. Di più: protagonista, nell’ambito della Repubblica Sociale Italiana, di battaglie sulle pagine di testate storiche come Il Corriere della sera ( di cui fu vice direttore con la gestione Amicucci ) e Il Secolo - La Sera ( del quale fu direttore ) volte a spostare il regime di Salò su posizioni sempre più rivoluzionarie.
    Su questo personaggio abbiamo già avuto occasione di intrattenerci in Pagine ricordandolo per le elaborazioni e, in più generale, per il lavoro sindacale svolto durante il Ventennio littorio. Si tratta di Ugo Manunta e il suo libro reca il titolo La caduta degli angeli - Storia intima della Repubblica Sociale Italiana, nei cui capitoli, ricchi di documentazione, dà anche ampiamente conto delle esperienze delle organizzazioni dei lavoratori del tormentato periodo nonché di quelli che presenta come i 120 giorni - gli ultimi dei 600 della RSI - maggiormente caratterizzati dalle iniziative riformatrici promosse con straordinaria energia dal ministero del Lavoro retto dall’operaio tipografo Giuseppe Spinelli, proveniente dai ranghi del sindacalismo rivoluzionario e, dopo la costituzione della repubblica, dirigente dei metalmeccanici e podestà di Milano.
    Orbene, accanto a Spinelli, Mussolini collocò, in qualità di Direttore Generale per la socializzazione, proprio Ugo Manunta. La RSI poté così affidarsi, onde vivere appieno la sua vicenda trasformatrice, su di un tandem che produsse una spinta propulsiva destinata a mettere in crisi orientamenti conservatori ed equilibri moderati collocati anche all’interno del fascismo repubblicano. Da notare che l’abbinamento Spinelli - Manunta fu voluto dal Duce, insofferente del moderatismo del ministero della Economia Corporativa Angelo Tarchi che “applicava la socializzazione col contagocce”, secondo la denuncia del Manunta medesimo. Il Tarchi venne spostato al ministero per il Commercio con l’Estero.
    La socializzazione era pura illusione, una sorta di Fata Morgana, un sogno fiorito in spiriti illuminati frammezzo alle macerie di una Italia messa a ferro e fuoco da due eserciti stranieri che se ne contendevano i brani ? E Mussolini era ormai solo un visionario isolato e disoccupato che trascorreva oziosamente le sue giornate giocando a fare il rivoluzionario?
    Dice in proposito il Manunta: “Illuso è colui che ipotizza, per errore o per suggestione operata da altri su di lui, uno stato di cose che non esiste, e che pertanto agisce fuori dalla realtà: il che contrasta con gli atteggiamenti nettamente realistici assunti, invece dagli uomini che nel fascismo repubblicano si schierarono decisamente a sinistra”. E soggiunge: “essi pensavano che (...), indipendentemente dal risultato delle armi ci fossero attività degne di essere sviluppate pure in quelle drammatiche circostanze, e forse più facilmente portate alle loro estreme conclusioni che non in tempi normali. Era illusione non lasciarsi fuorviare dalla contingenza e continuare a credere che meritasse la pena di restare sulla breccia ad occuparsi di salari, di cottimi, di socializzazione?”
    Ancora: “Il fatto che la tutela del lavoro non sia mai venuta meno per tutto il tempo della guerra ha permesso di mitigare il disagio delle categorie lavoratrici in un periodo particolarmente difficile, ma si sono avute e si hanno di tale attività conseguenze visibili anche nella vita presente”. Il saggio manuntiano di cui veniamo trattando è venuto alla luce nell’anno 1946 da una certa romana Azienda Editoriale Italiana non meglio identificata. C’è quindi da credere all’autore quando afferma che dell’operato dei suoi colleghi sindacalisti nei mesi dell’ira restano tracce concrete e accertabili nel dopoguerra. E, aggiungiamo noi, non solo di quello immediatamente successivo allo scatenamento dei furori fratricidi. Osiamo osservare, senza tema di smentita, che frutti niente affatto irrilevanti del remoto impegno non solo tecnico ma pure rivoluzionario di quei paladini del lavoro ancora vivono, ancorché irriconosciuti, nel sistema sindacale attuale.
    Ma veniamo a quel quadrimestre rinnovatore e trasformatore cui prima si accennava. Annota lo scrittore sardo: “Abbiamo accennato al sacro furore di cui furono pervasi i dirigenti del neo ministero del Lavoro negli ultimi quattro mesi della Repubblica Sociale Italiana. Vi ritorniamo per aggiungere che in quei 120 giorni tutta la problematica sindacale fu riesaminata dalle basi, in vista di un profondo rinnovamento della vita sociale, e che da questa febbre rivoluzionaria scaturirono decisioni di reale importanza per le categorie lavoratrici. Tutta l’azione del Ministero tendeva a recuperare il tempo perduto in un ventennio di sterili compromessi (...). Mentre con l’applicazione della socializzazione a un intero settore produttivo - quello industriale - si metteva l’accento sulle nuove responsabilità del lavoro e sul declassamento del capitale, aprendo uno spiraglio ad un nuovo tipo di economia equidistante da quella individuale e da quella collettiva, si provvedeva infatti alla quasi contemporanea sistemazione delle categorie, con clausole non equivoche e di una larghezza veramente eccezionale, e si poneva allo studio il problema della casa dei lavoratori”.
    Ed eccoci al tema ristrutturativo delle federazioni e confederazioni dei lavoratori che Ugo Manunta così rievoca nei suoi dati di fondo: “Nello stesso tempo si affrontava un’altra ardua questione: quella del nuovo ordinamento sindacale in un’unica organizzazione comprendente tutti i produttori, che avrebbe dovuto costituire l’intelaiatura di quel nuovo Stato del Lavoro ch’era ormai la meta di tutti i sindacalisti, accomunati in quell’ultimo disperato tentativo di realizzare in una sola volta tutte le aspirazioni più profonde delle categorie lavoratrici”.
    Si tenga presente che alcuni mesi prima dell’affidamento del neo ministero del Lavoro all’asse Spinelli - Manunta, il ministro dell’Economia Corporativa si era fatto approvare in una riunione di governo un disegno di legge relativo al nuovo ordinamento sindacale. Il saggista fa ad esso riferimento, et pour cause, senza la benché minima benevolenza. Dice: “Ne trattarono sulla stampa alcuni competenti, per lo più disapprovando. E in realtà quel disegno di legge non era un capolavoro, soprattutto perché agli estensori era mancata quella visione profondamente innovatrice che era necessaria per affossare definitivamente il vecchio stato capitalistico”. Particolare niente affatto irrilevante: il “disegno“  era stato riprodotto sulla stampa corredato da inusitato avvertimento. E cioè: il governo ne sottoponeva contenuti e forma agli interessati acciocché lo monitorassero per quindi esternare eventuali perplessità o chiari dissensi prima dello sdoganamento.
    Appena insediato, Spinelli inserì nell’agenda di lavoro la nomina di una commissione incaricata di mettere mano alla suddetta “ visione profondamente innovatrice “. Alcuni nomi di suoi componenti: il Galanti, Amadio, l’ex direttore de Il Lavoro Fascista Luigi Fontanelli, il sindacalista Giuseppe Grossi, il dirigente dell’associazione per il Pubblico Impiego prefetto Mancuso, il capo della segreteria politica di Pavolini Olo Nunzi, Belletti, Rossano, Margara e altri. La Commissione approntò subito un altro decreto in cui afferma Manunta, “presupposta un’economia socializzata, si prescindeva in ogni punto dalla figura del capitalista e si gettavano le basi per un riordinamento degli enti locali e delle stesse assemblee rappresentative. Ne risultò un documento di notevole valore politico oltre che giuridico. E per averne un’idea basterà che i membri della commissione avevano dovuto decidere non solo su come intelaiare il nuovo tipo di organizzazione sindacale unitetica, ma anche in quali termini di legge tradurre tutte quelle conquiste del lavoro alla cui affermazione avevano invano lavorato per vent’anni. Scomparsi i contraddittori, cioè i rappresentanti delle confederazioni padronali, sciolte con una legge di due mesi prima, essi si trovavano ora a legiferare....”.
    Ma i commissari andarono oltre: “In quanto alla figura del capitalista essa fu sistematicamente ignorata, mentre fu delineata con estrema chiarezza quella del capo della impresa di cui parlava la legge sulla socializzazione, cioè l’animatore e il tecnico dell’azienda, lavoratore anche lui, e quindi a buon diritto socio di questo nuovo sindacato che avrebbe dovuto costituire il pilastro dello Stato del Lavoro, e in alcuni casi sostituirsi a molti enti locali le cui funzioni non potevano non essere assorbite da tale nuovo ente di diritto pubblico”.
    Infine: “Alle organizzazioni dei lavoratori si concedevano compiti di un’insolita ampiezza. Il cittadino diveniva elettore in quanto lavoratore, e il corpo legislativo era la risultante di elezioni di secondo grado fatte dai rappresentanti delle categorie lavoratrici, con la garanzia, dunque, di essere formato esclusivamente da produttori, tutti esprimenti interessi legittimi nello Stato”.
 
 
PAGINE LIBERE 

lunedì 7 febbraio 2022

Nicola Bombacci IL COMUNISTA DELLA R.S.I.

Nicola Bombacci


Nicola Bombacci nacque a Civitella, in provincia di Forlì, il 24 ottobre 1879. Da sempre agitatore socialista, nel 1910 lo troviamo a dirigere la sezione del Partito Socialista a Cesena ove dirige anche la pubblicazione del giornale “Il Cuneo”. Successivamente sarà chiamato a dirigere la Camera del Lavoro di Modena e, ancora dopo, avrà funzione di dirigente nazionale del Partito Socialista Italiano.

 Nel 1921 con la scissione dei socialisti avvenuta al congresso di Livorno, parteciperà alla fondazione del Partito Comunista Italiano. Conobbe e collaborò con Vladimir Illjc Uljanov, ossia Lenin. L’11 novembre 1922 guidò una delegazione del Partito Comunista Italiano in visita al Kremlino e incontrò Lenin. Fu in quell’occasione che Lenin rimproverò ai socialisti italiani di essersi fatti scappare Mussolini ,  il “solo socialista capace di fare la rivoluzione”.

 Nel 1923, con l’adozione da parte di Lenin della NEP (Nuova Politica Economica) ci fu una ripresa degli scambi commerciali fra la Russia di Lenin e l’Italia Fascista e Bombacci, il 30 novembre 1923 a Montecitorio auspicò, in contrasto con l’atteggiamento dei comunisti italiani, l’intensificarsi dei rapporti economici e commerciali con l’Unione Sovietica, dichiarandosi favorevole all’incontro “delle due rivoluzioni”.

 Con l’avvento in URSS di Stalin (Joseph V. Dzugasvili) nel 1927 e l’allontanamento di Trotshij, Zinoviev e Kamenev, anche Bombacci si allontanò dal Comunismo e si avvicinò a Mussolini che, il 6 aprile 1936, gli permise di pubblicare “La Verità”, un periodico comunista. Egli fu anche sostenitore dell’autarchia , contro lo strapotere del capitalismo internazionale.

 Dopo l’8 settembre 1943 e il radio discorso da Monaco di Mussolini appena liberato, Bombacci, con altri comunisti come Walter Mocchi e Fulvio Zocchi, col socialista Carlo Silvestri e altri non fascisti, corse al Nord a combattere l’ultima battaglia con quella Repubblica Sociale nella quale, con Mussolini, sperava di poter realizzare il suo socialismo.

 Collaborò alla stesura del Manifesto di Verona (i famosi 18 PUNTI) ed anche alla formazione e, soprattutto, alla appassionata diffusione fra gli operai della conoscenza della Legge sulla socializzazione delle imprese, approvata il 12 febbraio 1944. E’ famoso il suo vibrante e appassionato discorso tenuto a Genova il 15 marzo 1945. Disse, fra l’altro : “Compagni ! Guardatemi in faccia, compagni ! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito Comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso ! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre…” E ancora: “Il socialismo non lo realizzerà Stalin ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito…ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario…



  Nelle ultime drammatiche fasi della guerra non abbandonò Mussolini e lo seguì fino a Dongo. Qui, il 28 aprile 1945, fu ucciso con altri quattordici uomini della R.S.I. che avevano seguito il Duce fino all’ultimo.

mercoledì 2 febbraio 2022

DELENDA CARTAGO..!!

 

DELENDA CARTAGO..!!

 

Mentre il senato discute, Sagunto brucia!

Tito Livio narra che quando, circa duemila e duecento anni fa Roma correva il più grave dei pericoli della sua storia millenaria, premuta dalla potenza degli eserciti Cartaginesi di Annibale che, terminata la conquista della Spagna al di qua dell’Ebro, sfidavano l’Urbe assediando appunto la città di Sagunto, alleata dei Romani, al senato di Roma si discuteva se intervenire o no in aiuto dell’alleata cinta d’assedio.

La discussione si stava protraendo all’infinito sui pro e sui contro, tra decisionisti e prudenti, quando intervenne un senatore (Publio Cornelio Scipione..?) che disse appunto: “..mentre il senato discute, Sagunto brucia!..” riuscendo così a spostare l’attenzione del senato, dalla discussione teorica alla pragmaticità delle decisioni operative.

Iniziava così la seconda guerra Punica che vide alla fine la sconfitta e l’esilio di Annibale e fu il preambolo della distruzione della stessa Cartagine nella terza guerra Punica da cui iniziò il definitivo decollo di Roma, ormai senza più nemici importanti, come potenza imperiale e padrona del mondo al quale portò le sue Leggi, le sue tradizioni, la sua Civiltà.

Mutando le situazioni, stiamo vivendo oggi, in Europa e nel mondo, una condizione analoga perché la nostra civiltà, le nostre tradizioni, i nostri millenari valori spirituali sono alla mercé del liberalcapitalismo e della socialdemocrazia ed a nessuno dei due interessa né promuoverli, né salvarli perché la loro unità di misura è solo il denaro e quanto ne discende, in un contesto generale di materialismo becero ed abbrutente.

Noi dell’area Nazionalpopolare, o meglio i nostri ideali ed il nostro progetto politico, siamo l’antitossina per guarire questa mortale malattia della nostra civiltà, per riportare i nostri popoli a “volare alto”, per ripristinare la priorità dell’Uomo sul denaro e ristabilire il controllo della politica sull’economia.

Il materialismo dei nani di Zurigo e di Wall Street e quello dei discendenti del marxismo internazionale sono la nostra Cartagine che deve essere distrutta e sulle cui ceneri si dovrà spargere il sale per renderla eternamente sterile!

Appunto: “Delenda Cartago”.

E’ vero, siamo in pochi, ma siamo coscienti sia della realtà che ci circonda che della potenzialità innovativa della nostra proposta politica che può contare sulla conquista di quei vasti strati di opinione pubblica che formano, per ora, il partito dello scontento, della sfiducia e del non voto e che raggiungono ormai in Italia più di un terzo della popolazione totale..!

Occorre però fare un primo indispensabile passo, senza il quale tutto sarà inutile e destinato al fallimento, occorre operare per la riunificazione dell’area nazionalpopolare!

Senza passare per questa fase, non saremo credibili né all’interno, né all’esterno del nostro movimento e pertanto qualsiasi azione politica risulterà inutile ed inefficace.

Per questo dobbiamo piantarla di discutere in eterne assemblee, comitati, tavole rotonde e collegi, ma dobbiamo, è imperativo, passare all’azione costruendo dalla base un’unità, che potrà essere federativa, consociativa o comunque si voglia, purché sia UNITA’ di persone, di idee e di azione politica.

Anche per noi è venuta l’ora di dire, come nel senato dell’antica Roma, : ”..mentre il senato discute, Sagunto brucia!..”

E’ giunto il momento di vedere il “bluff” di quei camerati (ma lo sono veramente??) che antepongono i loro protagonismi e le loro misere ambizioni di pennacchi e medaglie agli interessi dell’ideale!

E’ giunto il momento di avere il coraggio di giocarci il nostro futuro e la nostra stessa esistenza politica cercando così di forzare la mano agli eterni indecisi, ai “sor tentenna” in camicia nera, ai pantofolai ed ai rivoluzionari da salotto e da “bar dello sport”!

Se non ci riusciremo, vorrà dire che come realtà politica, credevamo solamente di esistere, ma in pratica siamo morti e sepolti senza saperlo…..ed allora.. De profundis..!!

Alessandro Mezzano

 

NOI SIAMO UOMINI D’OGGI.

NOI SIAMO SOLI.

NON ABBIAMO PIU’ DEI,

NON ABBIAMO PIU’ IDEE,

NON CREDIAMO NE’ A GESU’ CRISTO, NE’ A MARX!

BISOGNA CHE IMMEDIATAMENTE,

SUBITO,

IN QUESTO STESSO ATTIMO,

COSTRUIAMO LA TORRE

DELLA NOSTRA DISPERAZIONE E DEL NOSTRO ORGOGLIO.

CON IL SUDORE ED IL SANGUE DI TUTTE LE CLASSI,

DOBBIAMO COSTRUIRE UNA PATRIA

COME NON SI E’ MAI VISTA.

COMPATTA COME UN BLOCCO D’ACCIAIO,

COME UNA CALAMITA.

TUTTA LA LIMATURA D’EUROPA VI SI AGGREGHERA’

PER AMORE O PER FORZA

ED ALLORA,

DAVANTI AL BLOCCO DELLA NOSTRA EUROPA,

L’AMERICA, L’ASIA E L’AFRICA,

DIVENTERANNO POLVERE!

Henry Drieu La Rochelle