sabato 31 luglio 2021

IL PROCESSO DEGLI 88 FASCISTI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO

 
MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F. Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755

IL PROCESSO DEGLI 88 FASCISTI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo X-
Francesco Fatica
 
 
    L'organizzazione clandestina fascista in Calabria merita una particolare menzione, sia per il numero degli imputati nel processo che si tenne a Catanzaro nell'aprile 1945, che per l'importanza delle strutture finalizzate al sabotaggio ed alla guerriglia che vennero scoperte dagli inquirenti.
    Dalle indagini dei CC.RR. (Carabinieri Reali) vennero portati in luce quattro centri operativi clandestini: a Catanzaro, a Nicastro - Sambiase (oggi Lamezia Terme), a Crotone ed a Cosenza. Ma, come si può ben capire, fu adottata ogni tipo di precauzione per sminuire agli occhi degli inquirenti la vastità e l'efficienza dell'organizzazione che operava clandestinamente anche in molte altre zone.
    I CC.RR. di Nicastro fin dal settembre '43 avevano dovuto notare le manifestazioni di un'attività clandestina fascista nel Nicastrese che andò man mano intensificandosi fino ad arrivare ad attentati dinamitardi intimidatori contro strutture del partito comunista e abitazioni di personalità antifasciste.
    Furono arrestati alcuni giovanissimi, già iscritti alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio), comandati dallo studente liceale Lionello Fiore Melacrinis: un biondino amato da tutti, bello, bravo, studioso, ardito e trascinatore.
    Era una squadra agguerrita di adolescenti delle scuole superiori, avevano raccolto un notevole armamentario bellico e si preparavano a ritirarsi sulle montaghe delle Pre Sila, che sovrastano Nicastro, per passare a vere e proprie operazioni di guerriglia.
    Nel frattempo tentativi andati però a vuoto, di sabotaggi di ponti a Sambiase ed a Soverato, portarono alla scoperta di altri clandestini e di notevole quantità di materiale esplodente.
    Ancora una scoperta dei CC.RR. questa volta nei pressi di Cosenza: il sottotenente Vittorio Bruni aveva consegnato armi del Regio Esercito ai clandestini fascisti.
    Intanto, per una fortuita coincidenza, quasi contemporaneamente veniva segnalato nei pressi di Crotone un trasporto clandestino di bombe a mano che portò, dopo varie vicissitudini, al rinvenimento di un notevole deposito di armi da guerra  in un casolare di proprietà del marchese Gaetano Morelli, maggiore dell'esercito in congedo.
    Morelli aveva sacrificato beni personali per finanziare l'organizzazione di una squadra che era ormai pronta a prendere la via della Sila per operare con sufficiente armamento, vettovaglie ed attrezzature. Tutto questo non fu ovviamente rivelato al processo ma l'entità del materiale bellico ritrovato era un indizio abbastanza eloquente. Le vettovaglie invece furono del tutto trascurate. 
    Le indagini furono spinte in tutte le direzioni e fu relativamente facile trovare indizi che incriminarono a Catanzaro alcuni dei promotori dell'organizzazione e portarono alla scoperta di altri depositi di armi e munizioni.
    Il tenente Pietro Capocasale era stato prima dell'arresto, un attivo coordinatore dell'organizzazione clandestina. Aveva tessuto una fitta rete di collegamenti per conto del principe Valerio Pignatelli con i gruppi citati e con molti altri rimasti clandestini, disseminati in tutta la Calabria.
    Dopo breve latitanza fu arrestato a Bari l'avv. Luigi Filosa che aveva raccolto attorno a sè in Cosenza un gruppo di professionisti, studenti universitari e fascisti di ogni estrazione sociale, giovani ed anziani, di Cosenza e della provincia, ed era in collegamento anche col resto della Calabria, con la Puglia e con Napoli. 
    Essi si preparavano alla guerriglia raccogliendo armi e vettovaglie, ma si preparavano anche ad effettuare sabotaggi in grande stile, prendendo di mira i tralicci dell'alta tensione che portavano l'elettricità prodotta dalle centrali idroelettriche della Sila.
    Le centrali erano sorvegliate da reparti "alleati", ma le linee elettriche restavano vulnerabilissime1.
    Il tenente Capocasale, nei suoi giri di ispezione e coordinamento, aveva raccomandato in particolare ai ragazzi di Nicastro di mantenersi calmi per poter meglio prepararsi ad intervenire non appena le circostanze si fossero mostrate favorevoli, evitando così di compromettere la clandestinità con azioni troppo scoperte in un piccolo centro, dove , le indagini potevano essere mirate più facilmente. Ma le sue raccomandazioni furono spesso trasgredite, sia per la linea dura che il notaio Ugo Notaro, anziano fascista intransigente, capitano di fanteria in congedo, voleva imporre, sia per la naturale irruenza di molti giovanissimi clandestini che, autonomamente e spavaldamente, continuarono ad usare esplosivi anche dopo l'arresto dei loro coetanei più sfortunati.
    Gli "Alleati", secondo un clichet ormai abitudinario, lasciarono il processo agli italiani di Badoglio. Il Tribunale Militare Territoriale della Calabria, con sede a Catanzaro, fu investito della responsabilità di istruirlo. Ma gli ufficiali del Regio Esercito non dimostrarono affatto entusiasmo e tanto meno zelo per l'incarico ricevuto, anzi adoperarono ogni possibile solerzia per limitarne la portata2.
    Può apparire strano che un tribunale militare in tempo di guerra non operi nell'ambito del codice penale militare di guerra.
    Bande armate, fucilazioni, invece, furono argomenti immediatamente scartati. Così essi passarono disinvoltamente all'art. 270 del codice penale: associazione sovversiva. Ma anche questa imputazione venne successivamente derubricata, con l'aiuto degli avvocati della difesa, in associazione a delinquere 
    Francesco Tigani Sava, nel suo documentato studio sul "processo degli 88", afferma che i giudici fecero una sentenza destinata ad essere facilmente annullata per mettersi al sicuro contro eventuali capovolgimenti di fronte, ma non si può escludere che essi sentissero, sia pure sotto la divisa dell'esercito regio, battere ancora un cuore che non riusciva a dimenticare del tutto l'amore per l'Italia e per i suoi figli. 
    Analogamente il magg. Oreste Pecorella capo di stato maggiore del SIM (Servizio informazioni militari), che aveva redatto il rapporto sull'argomento con oggetto: movimento fascista nell'Italia meridionale, sfumò molto le responsabilità degli aderenti alla cospirazione, negò che fra i vari gruppi clandestini scoperti esistessero collegamenti. Addirittura poi, venuto a conoscenza delle notizie sulle armi segrete tedesche (bomba atomica, la nube misteriosa sul nord Europa, l'offensiva di Von Rustedt), andò a trovare Nando Di Nardo, detenuto nella certosa di Padula, trasformata in campo di concentramento per duemila fascisti, e gli dichiarò di aver evitato di citare nel suo rapporto tanti particolari a sua conoscenza, che avrebbero indubbiamente aggravato la posizione degli imputati e che avrebbero consentito il collegamento del processo degli 88 fascisti di Calabria con quello del principe Valerio Pignatelli e altri fascisti napoletani e calabresi3.
    In quell'occasione Pecorella, dopo aver usato parole di stima e di solidarietà, quasi di complicità, si raccomandò apertamente affinchè Di Nardo convincesse Pignatelli a non infierire su di lui nel caso che le parti dovessero invertirsi. Il 6 aprile del '45, dopo circa un anno di istruttoria, i giudici, finito il dibattimento, si riunirono in camera di consiglio4.
    Le strade di Catanzaro brulicavano di folla; fascisti e simpatizzanti si agitavano minacciosamente sotto il naso di carabinieri e poliziotti radunati in tutta fretta.
    L'aula magna del tribunale, affollatissima di pubblico, era vigilata dall'alto attraverso i finestroni, da carabinieri armati di mitra ostentatamente rivolti in basso verso il pubblico.
    La Corte temporeggiava. Finalmente, appena poco prima dell'alba, le strade si sfollarono; dopo ben 19 ore di camera di consiglio, i giudici si decisero a leggere la sentenza: 10 anni di reclusione per Pietro Capocasale, 9 anni per Gaetano Morelli, 8 anni per Luigi Filosa e per Attilio e Giuseppe Scola (di Crotone) ancora 8 anni per Antonio Colosimo, Nino Gimigliano e Aldo Paparo (di Catanzaro) nonchè Ugo Notaro (di Nicastro), 6 anni per chi fu ritenuto partecipante più attivo, mentre 4 anni per i semplici partecipanti. Infine ai minorenni 24 mesi di reclusione. Altri imputati per cui non era stato possibile raggiungere la prova di colpevolezza, vennero assolti.
    Era l'alba del 7 aprile.
    Appena letta la sentenza, una sorta di ruggito di rabbia sgorgò dalla folla e gli imputati in piedi di fronte ai giudici allibiti esplosero nel canto di "Giovinezza"; era un raptus generale, i carabinieri sui finestroni, confusi, non sapevano cosa fare.
    Più tardi, nel chiuso del furgone cellulare che li riportava in carcere, il mastodontico brigadiere Putortì e i carabinieri di scorta, con gli occhi rossi dalle lacrime trattenute, si unirono ai condannati nel canto di "Giovinezza".
 

 
NOTE
 
Il testo è stato emendato dalle numerose note (vedi numeri di riferimento da 1 a 3) presenti sull'originale cartaceo.
 
 
MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F. Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755

INTERVISTA A DE PASCALE da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo  XVI-
Francesco Fatica
 
 
    Sappiamo già che trascorse le vicende descritte nei precedenti capitoli, avvenne, come s'è visto, l'arresto di Pignatelli e di Guarino e subito dopo anche quello di Di Nardo, compromesso da una lettera inviata al barone Filippo Marincola di S. Floro.
    Restò quindi unicamente a De Pascale la responsabilità della dirigenza del movimento clandestino fascista in Campania.
    Oggi egli è rimasto l'unico vivente dei responsabili del vertice clandestino fascista dal '43 al '45. A lui quindi mi sono rivolto per attingere direttamente alla fonte - dopo oltre 50 anni di riserbo - le notizie ed i chiarimenti che meglio possono concludere questa ricerca storica.
 
— Caro De Pascale, per cominciare, ti prego di descrivermi i sentimenti che animavano, oltre te, anche i gregari della lotta clandestina.
— De Pascale: - Eravamo ispirati dagli stessi ideali che ci avevano animati sui campi di battaglia, con in più la rabbia disperata di vedere calpestato il suolo della Patria da orde straniere, che gozzovigliavano nelle nostre città, umiliandoci ogni giorno con la loro arroganza e poi soprattutto sentivamo il bisogno supremo di riscattare ad ogni costo l'Italia dalla vergogna dell'armistizio e del tradimento. Anche noi, come i camerati del Nord, ci preparavano a batterci per l'onore d'Italia.
 
— Ti prego ancora di ricordare qualche nome di camerati impegnati nella lotta clandestina.
— Oltre Di Nardo e il col. Guarino, che teneva i contatti con le bande armate calabresi, ricordo Nicola Galdo, che stampava un giornale clandestino con il ciclostile che avevamo recuperato dal G.U.F., il prof. Calogero, il libraio Bolognesi, il marchese capitano di vascello Marino de Lieto, super decorato, eroe della prima guerra mondiale, che conduceva una sua guerra personale segretissima e solitaria contro gli anglo-americani, sabotando ponti ed apprestamenti militari, finendo coinvolto talora addirittura in corpo a corpo come un giovane sabotatore di commando. Di lui e di qualche altro, che agiva come lui, dicevo che facevano una loro guerra privata.
    Ma, naturalmente, debbo citare ancora l'attivissima ed entusiasta Elena Rega, che poi divenne mia moglie, Pasquale Purificato, Picenna, il tenente della Decima MAS Bartolo Gallitto, che attraversò le linee con altri marò. Mi spiace tralasciare tanti altri nomi di elementi di secondo piano, però tutti validi, pieni di entusiasmo, disciplinati e pronti ad ogni sacrificio.
    Ma voglio ricordare ancora, con venerazione, il tenente di vascello Paolo Poletti, agente dei Servizi Speciali della RSI, infiltrato nell'OSS americano, che finì torturato atrocemente, fino ad impazzirne e fu poi assassinato cinicamente dal sergente americano di guardia. Non si lasciò sfuggire un nome, un accenno, un indizio.
    Quando poi anch'io fui arrestato e detenuto a disposizione del C.S., capeggiato dal famigerato maggiore Pecorella dei CC.RR., fui ristretto in quei locali a Napoli, in via Fiorelli, da dove altri giovani dei Servizi Speciali furono prelevati per essere fucilati a Nisida.
    Un giorno poi conclusero che gli interrogatori non avrebbero approdato a nulla e allora tentarono di eliminarmi con la messa in scena della tentata fuga;ma io ebbi nervi saldi e non cascai nel tranello.
 
— Inscenare un tentativo di fuga è l'espediente banalmente, ma cinicamente, usato per coprire un assassinio. Così fecero con Ettore Muti, così con Paolo Poletti. Possiamo dire che gli antifascisti non esitavano di fronte agli assassinii.
— E' proprio così. In Repubblica Sociale una serie di feroci, premeditati assassinii innescò la guerra civile.
    Da Radio Bari prima e Radio Napoli poi, si incitavano i partigiani all'assassinio sistematico come metodo di lotta. Noi invece abbiamo sempre evitato attentati sanguinosi e soprattutto spargimento di sangue fraterno. Eravamo ben informati delle abitudini e delle abitazioni degli avversari, qui al Sud, ma abbiamo deliberatamente evitato di innescare rappresaglie che avrebbero lasciato un solco profondo di odio tra gli italiani.
    Se pure fossimo stati tentati di agire in questo senso, avevamo avuto continue, categorie disposizioni da Mussolini, sia per via radio, ma anche, più esplicitamente, attraverso il rapporto della principessa Pignatelli.
    Avremmo potuto facilmente ripetere a Napoli un attentato simile a quello di via Rasella per ottenere una strage di rappresaglia simile, se non peggiore di quella delle Fosse Ardeatine; ma a noi è sempre ripugnata la strategia stragista.
    Avevamo invece previsto tassativamente che, in caso di attentati, uno di noi avrebbe dovuto costituirsi per addossarsene la responsabilità, onde evitare rappresaglie con vittime civili.
    La tecnica del "sangue chiama sangue", come tutti sanno, fu invece largamente attuata dai comunisti e dai loro accoliti, utili e feroci idioti.
    Noi no. Al Sud non c'è stata guerra civile.
 
— Bene; tu sai che anch'io, pur giovane ed impaziente gregario, oltre tutto lontano dal centro organizzativo e direttivo di Napoli, avevo lo stesso orientamento tattico,  per costituzione morale derivata dall'educazione fascista avuta nella GIL e nel clima in cui ero vissuto, ma dobbiamo spiegare adesso: questa organizzazione clandestina che c'era a fare se non poteva, nè doveva lottare liberamente, senza esclusione di colpi?
— Come già ti ho detto altre volte, Mussolini voleva assolutamente che, almeno al Sud, fossero evitate le feroci nefandezze della guerra civile.
    Noi clandestini avremmo dovuto entrare in azione alla grande solo nel caso, non improbabile, di un capovolgimento della situazione militare, cosa che sembrò più volte imminente, sia per le tanto propagandate armi segrete tedesche (vedasi bomba atomica) sia per le controffensive, in particolare quella di Von Rustedt nelle Fiandre che sembrò aver sgominato gli eserciti alleati.
    Lo stesso maggiore Pecorella, a contatto con il Servizio Informazioni Militari, quando subodorò possibile una certa concretezza nelle nostre speranze, si recò alla Certosa di Padula a perorare presso Di Nardo, colà detenuto, la sua causa personale, scoprendo sue benemerenze di doppiogiochista, chè non aveva rivelato tutto quello che aveva scoperto, cercando di non aggravare la nostra posizione processuale.
    Concludendo, Mussolini volle evitare ogni sia pur minimo spargimento di sangue fraterno. Per esempio, i comunisti di vertice a Napoli, a cominciare da Togliatti, alias Ercole Ercoli, avrebbero potuto agevolmente essere eliminati. Non fu così.
    Se oggi nel Meridione non si è scavato un profondo solco di sangue fra italiani, il merito è soltanto di noi fascisti e soprattutto di Mussolini.
 
 
MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F. Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755

ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO NELL'ITALIA OCCUPATA
Francesco Fatica
 

 
Elena Rega, figlia del colonnello Cosimo, superdecorato della 1° guerra mondiale, comandante del 39° rgt. Fanteria, caduto eroicamente in combattimento nel 1918, proprio negli ultimi giorni di guerra, crebbe nella venerazione, nel vago ricordo del Padre e nella religione della Patria. La Patria, come l’abbiamo sentita noi e la gran parte del popolo italiano, sempre più profondamente legata all’Idea fascista, di cui Elena divenne una fervente, entusiasta e fedele credente.
S’impegnò negli studi e negli sport, com’era nello stile di vita fascista; fu appassionata particolarmente di atletica leggera fino a divenire nel 1939 campionessa nazionale di ginnastica artistica. Il relativo brevetto le fu consegnato a Palazzo Venezia e poi furono introdotti, Lei e gli altri campioni, dal Duce. E di ciò fu sempre orgogliosa.
S’era iscritta alla facoltà di Chimica ed ovviamente aderì al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di cui divenne ben presto Fiduciaria Femminile (dal 1938 fino al 1943, data in cui Badoglio fece sciogliere il PNF, Partito Nazionale Fascista, e le sue organizzazioni).
Laureatasi a pieni voti, è stata l’unica analista del Laboratorio dell’Istituto d’Igiene e Profilassi della provincia di Napoli, di cui divenne vice direttrice.
Mobilitata civile, usava la sua potente motocicletta "Bianchi freccia d’oro" per gli spostamenti, in città e in provincia, inerenti ai Suoi compiti d’ufficio. Per poter più agevolmente cavalcare il suo "cavallo d’acciaio", vestiva eleganti abiti sportivi di foggia maschile, da Lei stessa ideati, che precorsero i tempi di cinquant’anni, ma che all’epoca costituivano un abbigliamento rivoluzionario, poco accettabile per il volgo e per i borghesi bigottamente conformisti e conservatori. Ma dei commenti di costoro la nostra irruente Camerata s’infischiava, mostrando così un aspetto esplosivo del suo carattere forte e ribelle ad ogni pecorile conformismo.
La guerra Erano i tempi difficili ed eroici della guerra. Napoli presa di mira quotidianamente, notte e giorno, dai bombardieri "alleati", era stata danneggiata gravemente in tutte le sue strutture; erano i tempi eroici in cui Riccardo Monaco e pochissimi altri piloti, votati alla morte, si alzavano in volo con i loro minuscoli aerei da caccia per attaccare le cosiddette "fortezze volanti"; erano i tempi in cui era difficile sopravvivere a Napoli; si viveva praticamente rintanati, notte e giorno, nei rifugi antiaerei, nelle gallerie della metropolitana, nei mille cunicoli e vani sotterranei dell’antico acquedotto romano.
Ma la nostra Elena Rega, mobilitata civile ligia al dovere fino all’eccesso, più e più volte sfidò la sorte avversa e gli odiati bombardieri, a bordo della sua veloce motocicletta; moderna amazzone, combatteva la sua battaglia: correva a svolgere il suo dovere con ardore di vestale, e con cuore di guerriero, incurante del pericolo.
Ma ciò non la distoglieva tuttavia dal soccorrere la povera gente che aveva bisogno d’aiuto; più di una volta portò a casa sua povere donne e bambini che avevano fame, che avevano bisogno di fare una doccia.
Allora a Napoli mancava tutto e molto spesso anche l’acqua e poi, tanti erano coloro che erano rimasti senza casa. La solidarietà patriottica, cristiana e fascista di Elena Rega ebbe molte occasioni di manifestarsi allora, ma pure in seguito uniformò appassionatamente sempre la sua condotta di vita a questa sua connaturata solidarietà, ed ebbe perciò tanta carità anche nei riguardi degli altri esseri viventi.
Per ragioni del suo ufficio fu inviata a far le analisi delle acque delle Terme di Castellammare di Stabia, inquinate, ma che si raccomandava dai superiori di far apparire potabili.
La dottoressa Rega, rigorosamente ligia al dovere, non si piegò alle disposizioni avute ed ovviamente i "superiori" se la legarono al dito.
I 45 giorni Ma vennero i giorni del tradimento, i giorni in cui le oscure manovre del re e dei massoni del suo entourage esplosero apertamente nella "seduta del Gran Consiglio del 25 luglio".
Elena reagì con tutta la vitale irruenza del suo carattere forte e spontaneo: incitava tutti i camerati del GUF a reagire, a mantenersi uniti, a prepararsi alla riscossa. Insieme a Lucia Vastadore e altri camerati, ebbe violente discussioni con Nicola Foschini, Fiduciario Provinciale del GUF di Napoli, il quale invece era fermo nel suo proposito di "dare le consegne" alla nuova burocrazia, autonominatasi "democratica".
Con Lucia Vastadore e con altri camerati del GUF e della Legione della Milizia Fascista Universitaria "Goffredo Mameli", Elena si prodigava a svolgere propaganda, a rincuorare gli sfiduciati, a raccogliere gli sbandati. Non era facile, oltre tutto i bombardamenti avevano distrutto mezza Napoli, molti erano dovuti sfollare nei paesi, in campagna o farsi ospitare da parenti. I mezzi di comunicazione erano stati colpiti gravemente e venivano ripristinati faticosamente dovendo superare enormi difficoltà, sicché si erano persi i collegamenti.
Dobbiamo considerare però che il re e Badoglio si erano affrettati a dichiarare solennemente: «La guerra continua».
E la guerra continuava sul serio, al fronte anche se con sfortunate vicende, non prive di atti di eroismo da parte di singoli o di piccoli repar ti. E la guerra continuava, sempre più terroristicamente, anche sul fronte interno.
Questa strategia di continuità, quanto mai opportuna per i "badogliardi", questo insistente richiamo alla realtà della guerra che continuava, ebbe la prevista e voluta conseguenza di mantenere fermi e disciplinati i fascisti, che, educati a tenere il culto e l’interesse della Patria al di sopra di ogni altro interesse, non potevano prendere in considerazione l’ipotesi di una ribellione o di sommosse e neanche di chiassate di piazza, che potessero in qualche modo ledere il fronte interno, mentre gli altri camerati si battevano eroicamente al fronte contro forze nemiche preponderanti.
Quindi i fascisti si incontravano, quasi clandestinamente, in case private, in piccoli gruppi spontanei e disorganizzati.
Intanto i gerarchi del fascismo più autorevoli erano stati mobilitati e spediti lontano. Ettore Muti fu ucciso a tradimento; i reparti della Milizia erano stati incorporati nel Regio Esercito, cambiati i comandanti con uomini di fiducia sabauda, così i badogliani avevano fraudolentemente disgregato le forze sane della Nazione, approfittando della forzata inerzia dei fascisti.
Nel frattempo in città, come avveniva anche altrove, bande di giovinastri e di perditempo, guidati e assoldati da agitatori comunisti, si dedicavano a gesti vandalici nei riguardi di targhe, lapidi e simboli fascisti, spesso anche di un certo valore artistico. I giovani del GUF, con alla testa l’architetto Antonio de Pascale, invalido della guerra di Grecia, Vito Videtta, Natale Cinquegrani e Lello Balestrieri, andavano a caccia di queste squadre di teppisti e attaccavano briga per impedire i loro vandalismi; ebbene Elena Rega e Lucia Vastadore pretendevano di prender parte anche a questa specie di "spedizioni punitive", nonostante che i maschi facessero di tutto per dissuaderle. Queste imprese si concludevano spesso in violenti pestaggi e tafferugli.
La resa Ma quando venne reso noto il cosiddetto "armistizio", che invece, come ormai sappiamo, era una vera e propria resa senza condizioni, allora i fascisti si sentirono finalmente liberi di affrontare gli avversari; lo stratagemma che li aveva inchiodati ad una disciplinata attesa, la frase: «La guerra continua» che li aveva mantenuti fermi e subordinati, non valeva più.
Elena, invasa dallo sdegno e dalla rabbia, moltiplicò i suoi sforzi per riannodare le spezzate relazioni con i camerati dispersi in tanti nuovi domicili; finalmente erano finiti i bombardamenti, ma la città purtroppo era caduta in preda ai disordini che si incrementavano sempre peggio: prima i saccheggi dei depositi e dei magazzini militari abbandonati, quindi uomini irresponsabili svuotarono le carceri, poi cominciarono le sparatorie, i posti di blocco; mancava tutto, mentre l’esercito s’era completamente dissolto, pochi partigiani disturbavano la ritirata in atto dei tedeschi e provocavano rappre saglie, delinquenti di ogni risma, armati, a guisa di partigiani, delle armi abbandonate dal Regio Esercito, ne approfittavano per razziare e poi devastare tutto quel che non potevano rubare nelle case dei fascisti; ma chi all’epoca poteva dire di non essere stato fascista? Quindi furono prese di mira molte case di benestanti dovunque vi fosse la possibilità di fare un ricco bottino.
Le cose precipitarono. Qualche fascista perse ogni fiducia in una possibile riscossa. Ci fu chi prese le armi che riuscì a trovare e sparò disperatamente.
Aveva visto crollare, con la sconfitta del fascismo, il mondo intero; i partigiani sparavano e per reazione, anche tanti fascisti spararono: isolatamente, spontaneamente, disorganizzatamente, ma disperatamente cercando la morte, tuttavia trascinando con loro quanti più nemici potessero colpire.
Molti altri partirono per continuare a combattere con l’alleato tedesco, per l’onore d’Italia.
Altri ancora, feriti, invalidi, costretti a restare a Napoli, decisero di continuare la lotta per l’affermazione dell’Idea, per reagire allo sfacelo morale e mostrare al mondo intero e agli stessi occupanti , mascherati da "liberatori", in un grottesco carnevale con lenoni, "segnorine", ladri e borsari neri, che non tutti gli italiani si potevano comprare con le amlire o con le PallMall.
Si ritrovarono in pochi: i migliori.
Solevano riunirsi a casa del camerata Carlo e del figlio Antonio Picenna. Elena era con loro, sempre presente, sempre piena di fede, sempre generosamente pronta a dare la sua opera, sempre sollecita e valida nel portare il suo rigoroso contributo progettuale.
Più tardi su invito di Francesco Barracu, a mezzo radio della RSI arrivarono a Napoli dalla Calabria i principi Pignatelli per prendere contatti con i camerati di Napoli e dare un impulso unitario al movimento clandestino fascista.
I principi si sistemarono in una villetta al Calascione; Elena e la principessa Maria simpatizzarono subito e s’intesero perfettamente di primo acchito. Ma anche il principe seppe apprezzare immediatamente la viva intelligenza e le altre qualità positive di Elena, di cui, spesso, voleva ascoltare il parere assieme a quello della principessa.
Si ritrovarono al Calascione diverse volte, Elena Rega, Antonio de Pascale, Nando di Nardo, il colonnello Guarino, il ten. di vascello Paolo Poletti, ma poi ritennero prudente cambiare spesso il luogo d’incontro.
Nella villetta del Calascione i Pignatelli invitavano frequentemente a cena generali "alleati", il capo del SIM badogliano e altre personalità che potevano, conversando "liberamente", magari un po’ troppo, dopo una lauta libagione, rivelare notizie militari o politiche, che sarebbe stato opportuno tenere riservate, e che riuscivano invece di grande utilità per la RSI e gli alleati tedeschi, una volta ricevute le relative comunicazioni radio.
Ad una di queste cene furono invitati anche Elena Rega, Antonio de Pascale e Nando Di Nardo, in quanto, essendo stato invitato il gen.
Wilson, Pignatelli prevedeva una più larga messe di notizie, che tutti avrebbero dovuto sforzarsi di memorizzare.
Fu necessario fornirsi di adeguati abiti scuri, e l’inesauribile Elena Rega provvide a reperire da uno zio scapolo, che era stato fanatico della cosiddetta "buona società", gli abiti più convenienti, che però dovette correre a prendere in moto nel casi no di campagna dello zio. Furono poi mobilitate le sorelle dell’architetto per adattare e sistemare questi abiti.
La sera si presentarono tutti e tre, elegantissimi, ma pure seccati di dover fare le comparse mondane e per di più, poi, proprio con gli "Alleati", che, oltre tutto, ancora una volta sfoggiarono la loro maleducazione (american life). Wilson e gli altri, semi sdraiati sulle poltrone, con le gambe poggiate in alto, bevevano, anzi tracannavano e parlavano "a ruota libera", i nostri tre, assieme ai principi, ascoltavano attentamente, rispondevano a monosillabi o provocavano chiarimenti e …memorizzavano.
Elena Rega aveva l’abitudine di sfogarsi tracciando in un suo diario, sui generis, pungenti ritratti delle persone conosciute, pur facendo bene attenzione a non scrivere nulla che dovesse rimanere segreto. Così tornò dai Pignatelli col suo "lavoro", che fece molto divertire i principi, ma poi, più concretamente, passarono tutti a mettere insieme e riordinare le informazioni raccolte nella serata precedente in modo da avere un quadro il più possibile completo della situazione politica e militare. Queste preziose notizie venivano poi trasmesse in codice a mezzo radio al Nord.
Fascismo clandestino Quando, più tardi, fu vigliaccamente assassinato a Firenze Giovanni Gentile, Elena ne fu particolarmente colpita, trovando nei camerati del vertice clandestino fascista lo stesso sdegno e la stessa volontà di reagire. Si ritrovarono tutti, in effervescente, solidale agitazione, a casa Pignatelli: i principi, Elena, de Pascale, Di Nardo e Guarino. Si progettava febbrilmente una reazione, ma non come avrebbero certamente pensato i nostri nemici: cioè spargendo sangue fraterno al Sud.
In diverse sedute prese corpo l’audace progetto di far commemorare Giovanni Gentile a Firenze dal filosofo Benedetto Croce, che, nobilmente memore dell’antica amicizia, aveva già acconsentito, tramite l’editore Casella, vicino di casa e frequentatore abituale dei Pignatelli, ma del tutto ignaro ed estraneo al movimento clandestino.
La difficoltà maggiore, ovviamente, era quella di trasferire Croce a Firenze e di riportarlo sano e salvo a Sorrento, dove abitava. Si fecero molte animate discussioni, si presero contatti con la RSI e con gli alle ati tedeschi, che misero a disposizione per la particolare operazione un sommergibile medio che avrebbe atteso l’illustre ospite avversario, ma gentiluomo nelle acque degli isolotti dei Galli, di fronte a Positano; i tedeschi avevano carte nautiche dettagliate di quella zona particolare, con tutte le quote degli scandagli del fondo marino. Era stato contattato anche il comando della X a MAS, che aveva messo a disposizione gli agenti speciali dislocati nei dintorni di Napoli, i quali avrebbero dovuto scortare con un rapido motoscafo il filosofo fino al trasbordo sul sommergibile.
Fu deciso che avrebbero scortato Croce anche Guarino e de Pascale, che avrebbero risposto di persona dell’incolumità del filosofo.
Furono tenute molte riunioni, in cui vennero studiati i più minuti dettagli.
Valerio Pignatelli, però, prese la precauzione di non tenere tutti al corrente di tutto, se non per i dettagli che li avrebbero interessati direttamente, o per cui era richiesta la loro particolare consulenza.
Anche nell’elaborazione di questo complesso piano, Pigna (così si faceva confidenzialmente chiamare il principe) non trascurò di consultare la principessa Maria ed Elena Rega, che, oltre ad essere particolarmente intelligente era ben allenata per la sua professione ad essere anche precisa e attenta a non trascurare ogni benché minimo particolare.
Ma per effettuare l’audace piano bisognava superare le titubanze di Mussolini, che temeva per l’incolumità dell’avversarioospite.
Per quanto fossero stati attentamente studiati i particolari esecutivi, pure non si poteva escludere una qualche imprevedibile circostanza avversa di guerra. Pertanto l’esecuzione doveva essere rimandata fino all’ottenimento dell’assenso del Duce.
Avendo programmato il famoso viaggio della principessa Maria in RSI, per incontrarsi col Duce, fu deciso che Maria Pignatelli avrebbe tentato di convincere Mussolini, durante il colloquio che era stato prestabilito.
Purtroppo, come sappiamo, al suo ritorno dal Nord, Maria Pignatelli fu arrestata, dopo breve latitanza, per cui fu ospitata anche in casa di Elena Rega, e seguì a breve l’arresto dello stesso principe e poi di Guarino e Di Nardo.
La prigionia Restò quindi de Pascale ad impartire le direttive del fascismo clandestino a Napoli ed in tutto il Sud. Il sospettoso e furbastro maggiore Pecorella, del CS, il controspionaggio badogliano, fece arrestare Elena Rega, ritenendola l’anello più debole della catena, ma aveva fatto male i suoi conti.
Per fiaccarne la resistenza la fece rinchiudere nel carcere di Poggioreale, ovviamente nel padiglione femminile, dove pure c’era una sezione politica. Tuttavia il nostro becero maggiore, sprezzando ogni regolamento riguardo ai detenuti politici, di prepotenza la fece espressamente rinchiudere in cella con prostitute, ladre, accattone e borsare nere, che dapprima tentarono, secondo quanto aveva previsto il plebeo maggiore, di offendere violentemente una persona così diversa dalla loro miseria morale. Ma avvenne un fatto straordinario: una di quelle disgraziate creature si erse a difesa della dottoressa, parandosi davanti alle compagne più aggressive, pronta ad artigliarle con le unghie protese in attacco. «Nooo!», urlò. E raccontò a tutte quelle megere ammansite come la "dottoressa" l’aveva accolta in casa sua e tenuta a pranzo con i suoi figlioletti, dopo che tutti loro, mamma e bambini, avevano potuto fare una doccia.
Da allora in poi tutte le portarono rispetto e perfino devozione, come sanno fare talvolta le persone colpite dalla disgrazia.
Ma nell’abietto cuore di Pecorella non potevano albergare ovviamente sentimenti simili.
Lo spietato maggiore si beava nel vedere la sua vittima sudare freddo sotto stringenti ed estenuanti interrogatori, sforzandosi di non rivelare in altro modo il suo tormento. L’accanito inquirente tentò tutte le sue consumate arti per convincere la sua "preda" a fare una sia pur piccola ammissione: tentò con la blandizie, che mal gli riusciva di fare, e tentò con le minacce che riuscivano naturalmente spontanee, più credibili ed efficaci. Aveva scoperto, l’aguzzino, che quella giovane donna, che teneva sotto i suoi metaforici artigli, non solo aveva una enorme stima di Tonino de Pascale, ma ne era proprio innamorata. Così tentò di terrorizzarla minacciando terribili ritorsioni sull’oggetto dei suoi sentimenti. Tuttavia, come sappiamo, Elena Rega, non solo aveva un carattere forte e coraggioso, ma era estremamente intelligente e non si lasciò giocare dal rozzo e vanesio maggiore, neanche quando questi le dichiarò, in tono suadente e quasi paterno, che da lei e soltanto da lei dipendeva la salvezza del suo amato. Naturalmente tali manovre laceravano l’animo di Elena, ma lei si sforzava di non darlo a vedere e probabilmente ci riusciva, perché vedeva benissimo, da quella attenta analizzatrice delle persone che era sempre stata, che il Pecorella si arrabbiava stizzosamente.
Il sadico torturatore aveva fatto arrestare già una volta de Pascale, rilasciandolo, poi, dopo una ramanzina, ma tenendolo d’occhio, sperando che si scoprisse con qualche mossa falsa.
Nel frattempo però il controspionaggio "alleato" ruppe gli indugi e procedette all’arresto di de Pascale con un tragicomico e scenografico copione da operetta, circondando tutto l’isolato dove abitava ed intimando con altoparlanti ai cittadini della zona di restare in casa. Arrivarono, nella cieca foga della loro arrogante irruenza poliziesca, ad arrestare qualche altro incauto, ma innocuo passante.
Gli abitanti del rione e la folla dei curiosi rapidamente radunatasi videro scendere l’architetto fortemente scortato e portato via su una jeep, che dovette aprirsi la strada tra due ali di folla.
La notizia fece il giro della città e per vie misteriose giunse al carcere di Poggioreale; fu riferita ad Elena con mille precauzioni per quell’intuito femminile che aveva fatto presagire qualcosa alle sue disgraziate, ma ormai solidali compagne.
Naturalmente Elena ne soffrì enormemente, pur non potendo conoscere i particolari spaventosi a cui fu sottoposto il suo Tonino, su cui Pecorella sfogava la sua impotenza di sbirro, facendolo addirittura biliosamente imprigionare in manicomio e pretendendo, contro ogni regola, che fosse rinchiuso nella stessa cella dove imperversava un pazzo furioso. Tonino de Pascale per difendersi era costretto a barricarsi addirittura sotto la branda. Ma c’è ancora di peggio; de Pascale aveva ancora una brutta ferita di guerra aperta sulla spalla, che secerneva pus e che aveva bisogno di continue medicazioni.
Una suora caritatevole lo soccorreva di tanto in tanto, approfittando dei momenti di stanca del pazzo furioso, portandogli garze sterili e disinfettanti.
Il badogliano maggiore Pecorella pensava di trovare de Pascale annichilito dopo un tale trattamento, ma dopo molte sedute di interrogatori dové convincersi che era tutto tempo sprecato.
Poi l’architetto de Pascale fu trasferito; doveva essere portato al carcere di Poggioreale, i carabinieri che dovevano scortarlo erano stranamente armati di mitra e portavano addirittura l’elmetto. Durante la traduzione improvvisamente il portellone del furgone si spalancò, producendo un assordante rumore, , il vecchio trabiccolo però, come se l’autista (che non poteva non aver sentito) fosse complice, continuò la corsa rallentando solo un poco. I carabinieri puntarono i mitra aspettando che l’architetto cogliesse l’occasione per sgattaiolare via, ma questi ebbe nervi saldi e non si mosse, guardando fissamente negli occhi i suoi malintenzionati custodi. Così fu bussato all’autista che questa volta sentì; il portellone fu chiuso dall’esterno e de Pascale fu portato ancora vivo a Poggioreale.
Elena Rega non conobbe i particolari della criminale persecuzione di Pecorella, se non molto più tardi; tuttavia la sua sensibilità femminile, il suo perspicace intuito, le facevano temere il peggio: temeva per Tonino, non temeva per sé. Era questo il maggior tormento della sua prigionia.
Intanto i segugi del CIC (Counter Intelligence Corp) e del FSS (Field Security Service), i servizi di controspionaggio americano ed inglese, avevano esaminato i diari di Elena Rega, dove Ella era solita schizzare sfoghi politici e saporose descrizioni denigratorie degli antifascisti più in vista, e vi avevano trovato anche il ritratto, ovviamente molto critico e pungente, del maggiore Pecorella; così, divertendosi un po’ malvagiamente, chiesero ad Elena di leggere il pezzo che riguardava Pecorella in presenza dello stesso. Ella non si fece pregare: coraggiosamente lesse all’allibito ed umiliato maggiore quanto aveva scritto già prima ancora di conoscere personalmente i suoi metodi, ma dovette sforzarsi, lucidamente, di non aggiungere considerazioni più attuali e ben più aggressive.
Francesco Fatica Elena aveva un carattere fortemente impulsivo, ma riusciva, con la sua intelligenza e forza morale, a dominarsi perfettamente quando lo richiedevano le circostanze.
Finalmente Pecorella si stancò di infierire contro una donna che sembrava invulnerabile, o forse, più probabilmente, furono gli "Alleati" che ritennero di porre fine ai vani sforzi di Pecorella.
A questo punto, per capire meglio lo svolgimento di vicende del fascismo clandestino, debbo riportare brevemente un aspetto dei retroscena di quel periodo storico.
Tra gli ufficiali dei servizi di controspionaggio "alleati" , in particolare nel CIC americano, c’erano alcuni anticomunisti, che combattevano, sì, la loro guerra senza esclusioni di colpi, ma si preoccupavano anche, intelligentemente, del dopo.
Le regioni dell’Italia occupata erano minacciate da un partito comuni sta, agli ordini di Mosca, sempre più virulento; al Nord, loro stessi erano costretti a servirsi dei partigiani comunisti, ma si rendevano conto che questi avrebbero minacciato ancora peggio l’indipendenza della nazione italiana, in quanto erano al servizio di Mosca. Degli uomini che si erano schierati con Badoglio e con il re non avevano alcuna stima: avevano tradito una volta, avrebbero "badogliato" ancora.
Dunque era necessario preservare per le prevedibili future lotte anticomuniste, quegli italiani che avevano dimostrato di avere una forza morale integerrima. E che si sperava, come poi avvenne, di poter schierare, a difesa anche (e purtroppo soprattutto) dei loro (americani) interessi, nella lotta anticomunista.
Capitava così che (paradossalmente, ma fino ad un certo punto) alcuni "Alleati" usassero preservare i fascisti più coraggiosi: quelli che si erano esposti nel dissenso e nella lotta clandestina, e perché no, appena fosse fattibile, tentassero preservare anche quegli agenti speciali della RSI che era possibile sottrarre ai plotoni di esecuzione. Un solo esempio: Carla Costa.
Per liberarli dalle feroci rappresaglie dei loro biliosi avversari connazionali: li tenevano in campo di concentramento per la durata della guerra. Ad altri toccò di restare in carcere, ma per quegli americani c’era lo stesso impegno: non dovevano essere abbandonati alla libidine di sterminio degli antifascisti.
Gli "Alleati" si illudevano anche di rieducare alla democrazia i fascisti reclusi in questi campi, ma usavano metodi controproducenti, anche perché i campi di concentramento e le carceri erano gestiti da personale rozzo e prepotente, non proprio scelto al meglio.
Dunque Elena Rega non fu fucilata, non fu neanche condannata a morte; non fu giudicata da un tribunale militare italiano, a cui pure era stata deferita e da cui fu incriminata per reati punibili con la pena di morte, assieme ai Pignatelli, a de Pascale e ad altri uomini di punta del fascismo clandestino e della X a MAS e allo stesso Junio Valerio Borghese.
Il processo fu bloccato; il relativo incartamento è tuttora "coperto dal segreto di Stato".
Per sottrarre Elena dalle grinfie dei vari "Pecorella" al soldo dell’invasore, fu inviata "in campo di concentramento per la durata della guerra".
 
 
Dapprima fu ristretta nel settore femminile del Campo di concentramento di Padula, il famigerato "371 PW Camp di Padula " gestito dagli inglesi nella allora fatiscente Certosa, dove trovò la compagnia della camerata Maria Pignatelli, anch’essa giudicata meritevole di essere "preservata in campo di concentra mento per la durata della guerra".
I sacrifici e le privazioni di ordine materiale oltre che morale che Elena fu costretta a sopportare nel campo di "Padula" furono gravi: basti pensare che gli inglesi, che gestivano il campo, nei primi tempi non si vergognarono di dare da mangiare ai prigionieri ghiande e niente altro. Tanta proterva perfidia era già stata corretta quando arrivò Elena, ma la fame era sempre tanta, perché gli inglesi non erano affatto rispettosi di tabelle dietologiche né della convenzione di Ginevra. Bisognava poi sopportare le angherie delle guardie del campo, indiani, che erano sempre pronti ad infierire sui prigionieri, forse per una malcelata forma di razzismo alla rovescia, ovviamente con il beneplacito degli inglesi.
Ma per sua fortuna Elena aveva la compagnia ed il cameratismo della principessa Pignatelli e di altre camerate italiane e tedesche. E, di tanto in tanto, Le veniva concesso di partecipare, insieme alla principessa a qualche raro colloquio con il principe Pignatelli, con Di Nardo o con Picenna, reclusi nel settore maschile del campo. Tuttavia non si deve pensare che nel campo ci fossero soltanto fascisti; a Padula erano state recluse anche persone che non avevano commesso "crimini fascisti"; erano persone che, per loro sfortuna, si erano trovate a dar fastidio, o non avevano voluto inchinarsi ad un qualche altezzoso, rapace e tracotante ufficiale "alleato".
Il 25 maggio 1945 il campo di "Padula" fu chiuso; molti civili, giudicati innocui e ravveduti dagli ufficiali del campo, furono rimessi in libertà; ormai la guerra era finita.
Tanti altri invece furono trasferiti nel "R civilian internee camp di Collescipoli" (Terni), dove "R" sta per "Recalcitrants". Il campo era tenuto dagli inglesi. .Ritenevano, gli "Alleati", che i recalcitrants dovessero essere ulteriormente rieducati, o che fossero addirittura incorreggibili.
In questo campo fu selezionata quindi l’aristocrazia spirituale del Fascismo.
Elena Rega e Maria Pignatelli furono, giustamente, trasferite a Collescipoli, onoratissime del titolo di "recalcitrants".
Ma la perfidia inglese giunse ad immaginare un sistema per dividere italiane da tedesche: furono scelte alcune tra le più altezzose, rozze e presuntuose prigioniere tedesche perché imponessero alle italiane i lavori più avvilenti. Queste umiliazioni ferirono profondamente tanto Elena Rega che la principessa Pignatelli. Ma il loro morale non ne riuscì fiaccato, anzi dobbiamo pensare che le due gentildonne, più che mai legate dal cameratismo consolidato in anni di comuni sofferenze fisiche e morali, avessero elevato il loro morale e la grinta al massimo, se dobbiamo credere a quanto scrive uno storico comunista: «La principessa Maria Pignatelli organizza cerimonie celebrative del fascismo e perfino sfilate».1 Ma le angherie degli inglesi non per questo erano meno dispotiche: si pensi che un soldato inglese arrivò a freddare cinicamente sul fatto la giovane camerata Nicoletta de Terlizzi, sotto gli occhi delle sue esterrefatte compagne di reclusione, perché si era sdegnosamente rifiutata di andare a ballare con lui.2 *** Elena Rega tornò alla vita civile dopo l’amnistia del giugno 1946.
La vita civile! Era stata licenziata per…. "abbandono di posto" ! No, non era una barzelletta; soltanto i "superiori" non avevano saputo trovare nella sua carriera burocratica una qualsiasi piccola ombra a cui appigliarsi per licenziarla, per liberarsi di una così ingombrante vestale del dovere, della legalità e della dirittura morale; e per giunta fascista.
Gli avvocati Nando Di Nardo e Francesco Saverio Siniscalchi (da poco quest’ultimo tornato dalla RSI, Di Nardo aveva anche lui recuperato la libertà in seguito all’amnistia) la difesero nella causa che fu intentata ed ottennero la riassunzione della camerata.
Ma non era finita; la fedele seguace dell’Idea cadde sotto la scure dell’epurazione.
Anche Tonino de Pascale aveva ripreso la vita civile e, com’era nell’ordine delle cose, si sposarono.
Elena poté dispiegare le sue doti affettive e pratiche nella creazione di una nuova famiglia, una nuova cellula della Società. E nell’allevamento e nell’educazione di due splendide figlie, ma anche di moltissimi affezionatissimi cani e gatti.
Un romanziere fantasioso e attento agli effetti emozionali sui lettori, chiuderebbe qui la storia a lieto fine di Elena.
Ma questa è una storia vera; Elena Rega de Pascale l’ha scritta con la Sua vita intensamente e rigorosamente vissuta. La famiglia, fulcro dei suoi interessi vitali, non l’ha distratta dai suoi doveri sociali, anzi, anche nel nome della famiglia, per l’avvenire della Sua famiglia e per l’avvenire di tutte le altre famiglie, Elena Rega de Pascale ha continuato la sua battaglia rigorosa e attenta per il Fascismo, marciando idealmente a fianco al marito, nel Fronte dell’Italiano, nei primi fervidi anni del MSI e nel MIF di nuovo con la principessa Maria Pignatelli .
E continuò a partecipare alle cerimonie celebrative del fascismo con lo stesso fervente animo e con la stessa incorruttibile fede della giovane Elena Rega, quella irriducibile "recalcitrant", reclusa nell’"R internee civilian camp di Collescipoli".
 
 
NOTE
1 Pier Giuseppe Murgia, Il vento del Nord, SugarCo Edizioni, Milano, 1975, p. 123.
2 Lettera che la principessa scrisse a David Rousset (fine 1949). Archivio di Stato di Cosenza, b. 32, f. 43, Sf. 5.
NUOVO FRONTE N. 228 Maggio 2003 e N. 229 Giugno 2003.

MARIA PIGNATELLI E IL FASCISMO CLANDESTINO AL SUD
Francesco Fatica
 
 

Maria era la figlia prediletta dell’Ammiraglio conte Giovanni Emanuele Elia, nacque a Firenze nel 1894, crebbe nella piena adesione alla massima "Vivere pericolosamente’’, poi adottata anche dai fascisti, praticò sport audaci e amò rischiare in lunghe e temerarie navigazioni a vela.
Sposò, molto giovane, il marchese De Seta, ma dopo due anni si separarono.
Maria e Valerio Pignatelli si incontrarono una prima volta, ma presero vie diverse. Molto più tardi, nel 1942, quando di sposarono, pur essendo già maturi, unirono due caratteri avventurosi ed impetuosi, entrambi prorompenti nel più appassionato amor di patria, spinto fino ad osare l’estremo sacrificio. Va aggiunto, comunque, che non era impossibile trovare tali valori in uomini, donne, giovani ed anche giovanissimi cresciuti nel clima fascista.
Due caratteri molto simili dunque, con interessi e forti sentimenti comuni, si incontrarono e tavolta si scontrarono, giungendo però ad ottenere, in un comune afflato, la conquista delle mete agognate, essendo fervidi esponenti di una certa nobiltà che ancora conservava gelosamente il culto del coraggio, dell’onore e della dedizione quasi fanatica alla Patria.
A Napoli, a partire dal dicembre del ’43, i Pignatelli riuscirono a intraprendere rapporti "amichevoli e cordiali’’ con il mondo dell’antifascismo e con le massime autorità del governo badogliano nonché degli eserciti di occupazione, al solo scopo di ricavarne informazioni preziose di carattere politico e militare.
I Pignatelli, come ho scritto in un precedente articolo, ebbero stretti rapporti con i fascisti clandestini di Napoli e dintorni, di cui diressero l’attività, collegandola a quella delle altre province occupate dall’invasore.
Intanto aveva preso contatto con Pignatelli anche il Tenente di Vascello Paolo Poletti, agente speciale della RSI, nome in codice Paolo Masi, che era riuscito ad infiltrarsi nell’OSS (Office of Strategic Service, il servizio segreto americano, che nel dopoguerra diventò la CIA).
Giovanni Artieri, nella sua Cronaca della Repubblica Italiana racconta come il principe e la principessa si sistemarono strategicamente in una villetta sulla centrale collina di Monte di Dio, nella piazzetta del Calascione, villetta che fu frequentata da intellettuali antifascisti e dal più qualificato mondo militare inglese e americano presente a Napoli, dalle massime autorità del governo del "Re’’, dal generale Wilson - con cui Pignatelli si era stretto d’amicizia in circostanze tragiche in Russia, durante la rivoluzione – dai capi dei servizi segreti militari (l’Intelligence Service, inglese – l’OSS, americano – il SIM, italiano), dai capi dell’amministrazione di occupazione (AMGOT, Allied Military Government of Occupied Territory), dal prefetto badogliano, dai generali "alleati’’ di passaggio per la città.
A tutti questi nemici i principi Pignatelli, soffocando ogni repulsione, offrivano ricevimenti e lauti pranzi, in una cornice aristocratica abbagliante e… "con roba calabrese’’ allora irreperibile a Napoli, ottenendone preziose informazioni militari e politiche1.
Scrisse Giovanni Artieri del principe e della principessa2: "Lavoravano, insomma nel rosso dell’uovo. Apparivano insospettabili agli occhi inglesi e americani; Valerio per le innumerevoli relazioni collegate con la sua vita negli Stati Uniti, per la sua amicizia con Alexander Kirk e innumerevoli diplomatici americani e inglesi; lei, per uguali relazioni, specialmente nell’establishment britannico e fin quasi ai gradini del trono; perfetti inoltre nelle lingue che parlavano con l’accento di Oxford, passaporto di efficacia insuperabile presso il mondo anglossassone. Così tra l’ottobre 19433 e l’aprile 1944, nel cuore stesso di Napoli e del mondo antifascista e anglo-americano, visse e operò una cellula binaria singolarissima, che animò gran parte della ‘resistenza’ nell’Italia meridionale’’.
Pignatelli e sua moglie raccoglievano larga messe di notizie preziose per la RSI, ma anche, ovviamente, per l’attività clandestina.
Intanto al principe fu trasmesso, per radio, l’ordine di recarsi nella RSI, lasciandosi però la possibilità di tornare al Sud. Pignatelli riuscì ad ottenere un lasciapassare, ma soltanto per sua moglie, attraverso i buoni uffici del T.V. Paolo Poletti (infiltrato, come si ricorderà, nell’OSS americano). Infatti la principessa, in quanto donna, avrebbe suscitato minori sospetti.
Maria Pignatelli, accompagnata dal dott. Avallo, genero del questore fascista Stracca, fece un primo tentativo di passaggio delle linee il 2 aprile, nella zona dell’8a Armata, tra Vasto e Lanciano (zona conosciuta abbastanza dettagliatamente da Nando Di Nardo, del direttivo clandestino fascista). Ma furono fermati dal FSS (Field Security Service, il controspionaggio inglese) e per quattro giorni di sospettosi controlli trattenuti in zona. Finalmente furono rilasciati per intervento del T.V. Poletti dell’OSS.
Tornata a Napoli, Maria ritentò il passaggio il 9 seguente, giorno di Pasqua, accompagnata da Paolo Poletti, ma anche, purtroppo, dal Ten. Nuvolari del SIM, (Servizio Informazioni Militari, badogliano) che però prendeva ordini direttamente dagli inglesi. Nuvolari, ovviamente nascondendo i suoi intenti, si era infiltrato nell’organizzazione di Pignatelli, avendone guadagnata la fiducia con fervorose e cordiali dichiarazioni di fede fascista e di strenua volontà di riscattare l’onore nazionale.
Questa volta il passaggio delle linee fu tentato nella zona di Cassino, dove operava la Va armata americana.
Poletti e Nuvolari accompagnarono la principessa fino al punto in cui Ella si avviò a passare le linee inoltrandosi poi, arditamente, nei campi minati della terra di nessuno.
A Roma Maria Pignatelli si recò dagli intimi amici Marincola di S. Floro, che la ospitarono, ma che soltanto più tardi scoprì impegnati nel doppio gioco; si incontrò quindi con Barracu, venuto apposta da Milano e fu portata prima da Kesserling e subito dopo in aereo da Mussolini, che voleva essere minutamente informato sull’attività clandestina fascista e voleva soprattutto essere sicuro che nessuna provocazione fosse attuata, facendo così evitare sanguinose rappresaglie in grado di accendere la miccia della guerra civile anche al Sud.
Fu stabilito un cifrario sulla base, in chiave nove, della poesiola satirica "La vispa Teresa’’, allora molto nota, ed un codice da adoperare nella trasmissione per i prigionieri di guerra (Pignatelli era "Il Cappellano’’, Barracu era "Ciccio’’, Mussolini "l’autocarro’’ e via di seguito). Prima di ripassare le linee per ritornare a Napoli la principessa lanciò per radio, nelle trasmissioni dalla radio nazionale, questo messaggio convenzionale al marito: "Bertuccia Maria, Vittoria Bertucci, Alba Mercoles’’4.
Maria Pignatelli tornava a Napoli accompagnata dall’affascinante attrice cinematografica russa Vittoria Odinzova, che era stata fidanzata del figlio e con la quale era rimasta in amicizia. Sulla misteriosa comparsa di questa avvenente donna sono state fatte mille illazioni; scartando le giustificazioni piuttosto banali portate poi al processo del principe, viene spontaneo collegare una bella e avventurosa attrice a vicende di spionaggio. Si disse che Poletti avrebbe chiesto di avere l’affascinante attrice a Napoli, e fu spiegato perché ne era l’amante, ma noi sappiamo che Poletti era un agente speciale della RSI. La Odinzova avrebbe potuto molto bene giocare il ruolo della "Mata Hari’’, allargando così la rete di informatori già esistente.
Ma l’Intelligence Service, che aveva infiltrato il suo agente Nuvolari, essendo al corrente della vera identità della principessa – che aveva inutilmente usato la precauzione di attraversare le linee sotto il cognome da ragazza (Maria Elia) – non appena questa ritornò al Sud, pretese dagli americani l’arresto dei principi, nonostante le disperate manovre del Tenente di Vascello Poletti, il quale per salvare i principi, finì per scoprire il proprio gioco.
Fu anch’egli arrestato e torturato ferocemente, fino a farlo impazzire in una villetta isolata alle falde del Vesuvio, nei pressi di Torre del Greco, dove gli "alleati’’ tenevano i loro "interrogatori’’.
Poletti non parlò. Ormai ridotto ad un povero essere urlante fu tradotto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (CE) ed ivi rinchiuso nella cella n. 8, la cella imbottita riservata ai pazzi furiosi. E siccome si dibatteva urlando ingiurie e strappandosi i vestiti di dosso, fu denudato del tutto e ammanettato. Ma lui continuò a sgolarsi rabbiosamente, lanciando ingiurie sempre più sanguinose agli angloamericani.
Il 19 maggio del ’44, il sergente americano di guardia, indispettito, con la prepotente arroganza degli invasori – un piccolo sergente, ma tracotante di proterva iattanza, un sergente precursore del grosso sergente Bush di oggi – lasciò aperta a bella posta la porta della cella e, non appena Poletti continuando ad urlare, nudo ed ammanettato, uscì nel corridoio, gli scaricò addosso la pistola di ordinanza.
Il principe e la principessa, probabilmente a causa delle loro amicizie importanti e forse anche per soffocare lo smacco delle compromissioni delle alte personalità che erano state loro ospiti, furono "interrogati’’ con metodi meno feroci, ma psicologicamente spossanti. La principessa, considerata più debole, fu messa al muro due volte, inscenando finte fucilazioni. Nei primi tempi furono detenuti nella villa De Falco sulle pendici del Vesuvio, nei pressi di Torre del Greco: forse la stessa villa dove era stato torturato il martire Poletti e, prima e dopo di lui, altri Agenti Speciali della RSI.
Intanto anche Di Nardo fu compromesso per una lettera inviata a Roma al barone Marincola di San Floro a mezzo del Tenente Sorrentino.
Avvenne la delazione del barone o di sua moglie, americana, che decise probabilmente di "servire gli interessi del suo Paese in guerra’’, come scrive ancora l’Artieri. Ne seguì l’arresto di Di Nardo, che era subentrato a capo dell’organizzazione clandestina fascista e, naturalmente, del Tenente Sorrentino. È da pensare che era stata segnalata in precedenza anche la principessa Pignatelli.
Risultati vani gli interrogatori fatti dagli "alleati’’, i Pignatelli furono passati al CS (che aveva sede a Napoli in Via Fiorelli n. 12) capeggiato dal maggiore Pecorella, dei CC.RR (Carabinieri Reali), che, tra le altre angherie, in stato d’ira – ma era finta e premeditata quest’ira – arrivò a colpire l’anziana principessa con il calcio della pistola sulla fronte, provocandole una ferita lacero-contusa che sanguinò abbondantemente. Era appunto questa una manovra meditatamente intimidatoria a doppio effetto, come vedremo meglio.
Per inviare i messaggi dal CS di Via Fiorelli, Pignatelli finì per servirsi degli stessi militari incaricati di sorvegliarlo, evidentemente ben disposti a lasciarsi convertire, ed ansiosi di riscattarsi dal servaggio agli "alleati’’. Quattro di essi furono scoperti e imprigionati, ma tennero sempre un contegno virile e dignitoso, alla pari degli altri detenuti politici.
Arrestato anche Di Nardo, al vertice dell’organizzazione restò de Pascale.
A dargli man forte nel ricollegare gli elementi dell’organizzazione clandestina scompaginati dai sopravvenuti arresti, attraversò le linee il Guardiamarina Bartolo Gallitto degli NP della Xa. Gallitto, agente speciale, richiese l’invio di un bravo radiotelegrafista, che fu paracadutato prontamente, ma si rivelò purtroppo un agente doppio che tradì; così furono arrestati gli agenti speciali operanti a Napoli e, con essi, anche de Pascale ed Elena Rega di cui ho parlato in un precedente articolo.
Dopo l’occupazione di Roma, il principe fu tradotto a Regina Coeli. Qui, a metà luglio, ricevette in modo del tutto insolito – dati i regolamenti carcerari – la visita di suo cognato, il principe Antonio Pignatelli di Terranova, che fu guidato direttamente nella sua cella, accompagnato dal procuratore generale del Tribunale americano di Roma, presentatogli come un caro amico. Il cognato si offrì di tirarlo fuori dal carcere con l’aiuto dell’amico americano, ma Pignatelli rifiutò recisamente, a meno che non fossero contemporaneamente liberati la principessa e gli altri imputati.
Dopo aver trascorso un paio di mesi a Regina Coeli, Pignatelli fu trasferito nel campo di concentramento di Padula, ricavato nella celebre Certosa, dove incontrò altri duemila camerati colà ristretti, polarizzando ogni attività politica e morale degli internati.
Il 19 marzo 1945 fu trasferito nel carcere di S. Giovanni a Catanzaro per essere processato da quel Tribunale Militare. Condannato a soli 12 anni di carcere per la buona disposizione dei giudici del Tribunale Militare – ma anche e soprattutto per la condiscendenza lungimirante di alcuni di quegli "alleati’’ che già da allora pensavano a preservare i fascisti in funzione anticomunista – fu scarcerato il 1° luglio 1946, usufruendo dell’amnistia Togliatti, che era stata concessa, invece, come tutti sappiamo, per salvare i criminali comunisti.
Maria Pignatelli, al contrario, non fu mai processata: fu tenuta in vari campi di concentramento, sottraendola, così, alla pervicace e persecutoria "giustizia democratica’’ del Regno di Vittorio Emanuele prima, e di Umberto poi. E quegli "alleati’’ anticomunisti che vollero preservarla, ebbero buon fiuto, perché, come vedremo, seppe essere un’efficace e strenua combattente anticomunista, ma fu anche antidemocratica, perché seppe sempre conservare i principî basilari dell’idea fascista, come purtroppo non è avvenuto per tanti presuntuosi "ducetti’’.
Maria Pignatelli aveva avuto modo di mostrare le sue altissime qualità quando svolse la sua missione in RSI, missione che iniziò affrontando tranquillamente le insidie dei campi minati durante l’attraversamento delle linee nella zona di Cassino e che portò a termine con perizia di diplomatico, facendosi apprezzare e stimare da italiani e da tedeschi. Fu ricevuta anche da Kesserling nel suo quartiere generale sul monte Soratte; durante una colazione con Barracu e Kesserling, questi ebbe a scrivere su di un cartoncino, che era sul tavolo: "Se l’Italia ha molte donne intrepide come lei è una nazione che non può morire’’.
Ed effettivamente Maria Pignatelli fu una donna intrepida anche quando fu "interrogata’’ dagli "alleati’’, che usarono mezzi di tortura morali, di estrema violenza psicologica ed intimidazioni scientificamente studiate, arrivando a metterla al muro per ben due volte per finte fucilazioni.
Passata poi al C.S. (controspionaggio badogliano), fu minacciata con la pistola in pugno dal Capitano dei CC.RR. del C.S. De Fortis, che la schiaffeggiò "come una qualsiasi ladruncola’’. Sempre nei locali del C.S., essendo stata percossa, come accennato, col calcio della pistola dal Maggiore Pecorella, fu vista con la fronte sanguinante dall’architetto de Pascale colà detenuto, che la incontrò – restandone desolatamente sgomento per lei – mentre usciva insanguinata dall’ufficio del Maggiore, intanto che l’architetto vi veniva introdotto. Non è da ritenere che l’incontro fosse stato un caso fortuito; appare chiaro invece che la coincidenza fu voluta per ottenere un doppio effetto depressivo, effetto devastante poi per de Pascale, il quale vedeva una camerata che venerava, ridotta a grondare copiosamente sangue dalla fronte restandone tutta imbrattata, sul viso, sul collo, sulla veste. Il feroce aguzzino sapeva bene che la fronte è una zona molto irrorata dal sangue e che quindi una ferita in quella zona produce un effetto clamoroso.
Anche la principessa fu portata a Roma e rinchiusa alle Mantellate (il carcere femminile), a disposizione degli inquirenti "alleati’’ e poi nel campo di concentramento di Padula, dove si ritrovò con la camerata Elena Rega, di cui ho avuto occasione di parlare su questa rivista.
È da ricordare che, secondo quanto testimoniò Antonio Bonino, vice-segretario del P.F.R., Mussolini, richiedendo la consegna del principe Valerio Pignatelli e Signora, offrì in cambio qualsiasi persona, non escluso lo stesso Ferruccio Parri.
Alla chiusura del famigerato campo di Padula, Maria fu trasferita in quello di Collescipoli (Terni) tenuto dagli inglesi e da qui in quello di Miramare (Rimini), anch’esso inglese, da dove riuscì ad evadere audacemente, conducendo poi vita clandestina, sotto i falsi nomi di Teresa Marchi e Teresa Manfredi, fino al 9 dicembre 1947 e cioè fino all’entrata in vigore del trattato di pace.
In tutte le carceri ed i campi dove fu rinchiusa, la principessa divenne guida morale e politica delle altre internate. Anche lo storico comunista Pier Giuseppe Murgia ha ammesso che la principessa svolgeva a Collescipoli intensa attività politica tra le recluse ed "organizzava perfino sfilate’’.
Tornata alla vita civile, si interessò sempre di aiutare i camerati perseguitati dalla sventura, impersonata dagli antifascisti più spietati.
Maria Pignatelli è quindi degna di essere iscritta nell’albo d’oro delle donne fasciste che tutto diedero alla Patria, quali furono le Ausiliarie, quali le giovanissime e meno giovani franche tiratrici di Firenze e di altre città.
Va aggiunto che, dopo la guerra, mentre ancora si nascondeva sotto nomi di copertura, fondò il MIF (Movimento Italiano Femminile, Fede e Famiglia) che si proponeva di mantenere alta la fiamma della fede fascista attraverso le sue pubblicazioni e la sua attività. Svolse anche una valida ed intensa attività assistenziale verso i fascisti perseguitati dall’antifascismo militante e dalle istituzioni "democratiche’’. Mi propongo di scriverne in un prossimo articolo.
Il MIF organizzò le donne in tutta Italia, naturalmente cercò di rintracciare e di ingaggiare tutte le Ausiliarie che riuscì a contattare. Ma non reclutò soltanto donne; molti uomini vi parteciparono attivamente, tra questi, naturalmente spiccava Valerio Pignatelli.
Maria raccontava che il MIF le era stato ispirato dallo stesso Mussolini, quando l’aveva ricevuta a Gargnano il 16 aprile 1944, durante la sua missione in RSI. Il 18 aprile fu fondato il SAF.
Ha scritto Roberto Guarasci: "La coincidenza del periodo, la sostanziale identità di intendimenti e di compiti, la esclusiva composizione femminile, fanno pensare che nelle intenzioni di Benito Mussolini i due movimenti dovevano essere quasi due facce della stessa medaglia, destinato l’uno alle terre occupate e l’altro ai territori della RSI5’’, rilevando ed evidenziando la singolare coincidenza che due soli giorni dopo si concretizzò nella nascita del SAF nella Repubblica Sociale Italiana.
Il MIF ebbe momenti di grande fervore e fu in relazione con molte organizzazioni politiche, anche all’estero, in Europa ed in America, come vedremo in seguito dettagliatamente.
La principessa fu la segreteria generale del MIF, e donna Rachele Mussolini ne fu la presidentessa.
Nel dopoguerra il principe e la principessa scrissero molti appunti per redigere un libro di memorie sull’attività clandestina. Ma il 6.2.1965 Valerio Pignatelli morì a Cerchiara (CZ) senza aver portato a termine la sua fatica.
Le sue carte furono consegnate, anni dopo, dalla principessa al giornalista Marcello Zanfagna, deputato del MSI-Dn, il quale, preso da mille impegni contingenti, non seppe trovare il tempo per portare a termine il libro che si era proposto di pubblicare.
Peggio ancora, i documenti di Pignatelli, insieme a tutte le carte di altro genere, andarono ineluttabilmente perduti in una disgraziata vicenda di alienazione di immobile, alla morte prematura di Marcello Zanfagna.
Ci restano oggi il rapporto che Pignatelli inviò il 7.6.1948 alla Corte Centrale di Disciplina del MSI, la memoria di Nando Di Nardo, le ripetute testimonianze dirette dello stesso Di Nardo e dell’arch. Antonio de Pascale, i quali ressero, dopo Pignatelli, il comando generale della lotta clandestina fascista nell’Italia meridionale, e l’intervento di Bartolo Gallitto al Convegno di Studi Storici organizzato dall’ISSES a Napoli nel novembre 1998.
Prima di morire, in un incidente stradale in Calabria, nei pressi di Nicastro (oggi Lamezia Terme) la sera del 10 marzo 1968, Maria Pignatelli aveva incaricato l’avv. Verrina di depositare l’archivio del MIF presso l’Archivio di Stato di Cosenza dove è possibile consultarlo ancora oggi. Attesta Guarasci che Maria Pignatelli "aveva scritto un lungo memoriale sul passaggio delle linee e sul colloquio avuto con il Duce, intitolato Ok, Storia della resistenza al Sud, memoriale che aveva intenzione di pubblicare e che sembra fosse inizialmente contenuto nel fondo da noi consultato e riordinato’’.
Purtroppo se ne è perduta ogni traccia; si può, a ragion veduta, ipotizzare che fosse contenuto tra le carte consegnate a Zanfagna.
 
 
NUOVO FRONTE N. 230 Settembre 2003. (

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domenica 25 luglio 2021

25 LUGLIO: IL SUD E' L'INVASIONE NEMICA ANGLO-AMERICANA!


 
25 LUGLIO: IL SUD E' L'INVASIONE NEMICA ANGLO-AMERICANA!        


ASPETTI SCONOSCIUTI DEL SUD
(Articolo ripreso da “La voce del sud”) Mario Varesi
 
 
    Si ricordano da 50 anni le azioni partigiane, con tanto di monumenti, lapidi, onorificenze militari, tuttora conferite.
    Nessuno, o quasi, ricorda invece l'ostilità della gente del Sud agli invasori alleati. Vero: non ci fu qui guerriglia armata, ma ostilità e propaganda patriottica. Ciò per volontà precisa di Mussolini, che volle escludere il fratricidio della lotta civile e il rischio di rappresaglie anglo-americane. Volontà espressa alla Principessa Maria Pignatelli di Cerchiara, che attraversò i fronti, prima per abboccarsi col Duce, poi per rientrare a Napoli e comunicare al marito Valerio le direttive ricevute. Furono perciò riannodati clandestinamente i gruppi delle “Guardie ai Labari”, costituiti dal P.N.F. dal 1943 in previsione di sbarchi nemici. Responsabili dei gruppi furono, in Sicilia, Santagati, Russo e d'Alì, l'avv. Luigi Filosa in Calabria, l'Avv. Nando di Nardo a Napoli.
    Buon gioco all'attività dei gruppi furono: - l'economia sempre più disastrata; - l'inflazione galoppante, con le amlire stampate dal governo militare alleato; - il ritomo della mafia al potere, compenso per l'aiuto all'invasione; - la cresta rialzata della dirigenza prefascista, spazzata dal fascismo; - il blocco dei salari; - la riduzione del pane da 300 a 200 grammi, favorendo il mercato nero.
    Così il 19 ottobre 1944 si scatenò la repressione dei soldati della Div. Sabaudia, che spararono contro la folla in dimostrazione alla prefettura di Palermo al grido: “Pane, lavoro”.
    Ulteriore scintilla la chiamata alle armi delle classi 1922-1923-1924, per combattere contro la Germania e la R.S.I., mobilitazione sostenuta dai comunisti, ancora una volta dimentichi delle istanze popolari.
    A pieno diritto la gente negava fiducia al regno del Sud, fatto da quegli stessi politici e militari che il 25 luglio proclamarono “La guerra continua”, l'8 settembre tradirono la Germania e il popolo italiano, che il 9 fuggirono a Brindisi in braccio agli angloamericani, abbandonando i soldati, il 13 ottobre dichiararono addirittura guerra alla Germania. Così a Chiaramonte Gulfi iniziarono quelle manifestazioni, esplose poi a Comiso con testarda gagliardia. Si scriveva sui muri e si ripeteva in improvvisati comizi: “Non presentatevi”, “Presentarsi significa servire i Savoia”, “Non vogliamo andare contro i fratelli del Nord”. E così a Noto, Naro, Piana degli Albanesi, Ramacca Giarratana, Modica, Scicli, ecc.
    Anche le forze di polizia inviate furono disarmate e respinte. Il 6 gennaio 1945 la rivolta di Ragusa si diffuse ai paesi limitrofi: Vittoria, Acate, Santa Croce Camerina, Chiaramonte. Ripresa Ragusa dai governativi dopo dura battaglia, Comiso restò per una settimana a vivere la sua indipendenza con la repubblica di Comiso, fondata il 6 gennaio 1945: comitato di salute pubblica, squadre per l'ordine interno, distribuzioni di viveri a prezzi di consorzio, impossibilità di lasciare la città, pena di morte per i ladri. Il 6 gennaio furono respinti 10 autocarri militari e una littorina da Palermo con 70 carabinieri. Respinta altra littorina l'8 gennaio. Occupato l'aeroporto.
    Da Roma Bonomi telegrafò ad Aldisio: “Azione per stroncare definitivamente sedizione deve essere condotta a fondo e senza alcuna incertezza”. L'11 gennaio il Gen. Brisotto circondò la città. I bombardieri inglesi sono pronti a Licata per bombardare. “Se Comiso non si arrenderà, sarà distrutta”. Intervenne allora la popolazione e, tramite il clero, si addivenne alla resa. Queste le condizioni: deporre le armi, nessuna rappresaglia. Fu illusione: più di 2000 comisani languirono a Ustica, amnistiati solo nel 1946 per la proclamazione della Repubblica Italiana.
    Peccato che nessuno ricordi questa fedeltà alla patria, una dalle Alpi a Linosa.
    Anche questa è storia, locale, sia pure in un quadro generale: soprattutto senza colpo alla nuca e pugno chiuso.
 
 
L’ULTIMA CROCIATA N. 3. 1995.

DALLE RIVOLTE DEI “NON SI PARTE” NACQUE LA REPUBBLICA FASCISTA A COMISO
Ma dopo una serie di sanguinosi scontri a fuoco con i reparti dell’esercito badogliano, che provocarono numerosi morti e feriti i fedelissimi di Mussolini furono costretti a capitolare l'11 gennaio del 1945 sotto la minaccia dei bombardamenti terroristici degli aerei britannici.
Emilio Cavaterra
 
 
    Cinquantadue anni fa, una cittadina siciliana si autoproclamò "Repubblicafascista" indipendente dalla Corona d'Italia e di conseguenza svincolata dal governo Badoglio allora insediato in quel di Brindisi. Era Comiso, in provincia di Ragusa, un abitato assai antico che si rifà alla remota Casmene, fondata dai greci nel 643 a.C. sulla direttrice Agrigento Siracusa, in quel quadrilatero dell'Isola, cioè, che diede del filo da torcere sia alle scarse truppe badogliane, sia a quelle ben più consistenti dei così detti “alleati”, per le sue turbolenze politiche di stampo fascista. Fu, comunque, una “Repubblica” ben più rilevante ai fini storici di quella, mitizzata oltre ogni limite malgrado la sua modesta rilevanza anche militare, messa in piedi per poco tempo dai partigiani nella Val d'Ossola durante i diciotto mesi della Repubblica Sociale Italiana.
 
L'insorgenza dei fascisti
    Ma vediamo, anzitutto, la cornice di questa per molti aspetti incredibile vicenda bellica. Ben pochi sanno, e le rievocazioni storiche solitamente di parte non hanno certo aiutato a diffonderne le cronache e nemmanco il ricordo, che l'”insorgenza” fascista nel Mezzogiorno d'Italia si manifestò all'indomani del 25 luglio 1943 che defenestrò Benito Mussolini dalla carica di Capo del Governo. Furono dapprima moti spontanei, spesso improvvisati, sempre volontaristici; in seguito, vennero incanalati e organizzati da personaggi che avevano ricoperto cariche di rilievo provinciale nelle strutture del Regime, ma anche da emissari del Partito fascista repubblicano di Alessandro Pavolini, giunti direttamente al Sud della Penisola dalla Repubblica Sociale Italiana. La Sicilia in particolare, dove più serpeggiavano velleità separatiste mentre la “mafia di campagna” sgominata dal “Prefetto diferro” Mori, rialzava la testa, in ciò aiutata dai “picciotti” italo-americani sbarcati al seguito delle truppe statunitensi, aveva cominciato a reagire al “nuovo corso” badogliano. Sulle prime si trattò di una resistenza al limite del velleitarismo con vistose punte di goliardia; e di fatti, coloro che si ribellarono in quei giorni all'arresto del Duce del Fascismo e la conseguente inevitabile implosione della complessa architettura del Regime, risultarono essere, almeno nelle fasi iniziali, studenti di liceo o tutt'al più di università, tutti dunque assai giovani. Cominciarono a diffondere volantini vergati a mano, poi a tracciare scritte sui muri, gli uni e le altre inneggianti al Duce e al Fascismo; infine ci fu una sorta di “salto di qualità”, ma sempre senza neanche un simulacro di organizzazione magari soltanto paramilitare, con alcuni episodi di sabotaggio alle linee elettriche, ai collegamenti telefonici, ai binari ferroviari e perfino agli autocarri militari “alleati”. Soltanto all'indomani dell'8 di settembre, quando automaticamente fu sciolto il vincolo fra il potere regio e il popolo, l'insorgenza» fascista acquistò sostanza e organicità, radicandosi anzitutto sul territorio e dunque sfruttando il malanimo, il risentimento e la collera della gente, contro i Savoia e gli alti Comandi militari. Furono organizzate manifestazioni di piazza per protestare contro la mancanza di viveri e la carenza di trasporti, ma la “svolta” si ebbe con le dimostrazioni contro la chiamata alle armi.
 
“No” alle armi badogliane
    Qualcuno le definì le rivolte dei “non siparte” che né le Prefetture con le loro striminzite forze di polizia, né i ben più organizzati e funzionali Carabinieri, riuscirono a contenere; si limitarono, tutti, a inviare “segnalazioni” al governo di Badoglio per scaricarsi la coscienza e non soltanto quella. Per l'intero arco dell'anno 1944, in varie città della Sicilia centinaia di giovani scesero in piazza in segno di protesta e sui muri apparvero scritte inquietanti per i poteri malamente costituiti e sempre sorretti dagli invasori angloamericani. Esortavano i loro coetanei a non presentarsi alla chiamata di leva, invitavano a darsi alla macchia per non combattere "contro i fratelli del Nord" sollecitavano a non “servire i Savoia”. Ma quelle scintille accesero ben altrimenti incontrollabili incendi, come a Catania, il cui municipio venne dato alle fiamme da una folla inferocita; anche nella zona ragusana furono registrati duri moti di piazza con relativi assalti a uffici pubblici e perfino alle Stazioni dei reali Carabinieri. come accadde in quel di Giarratana, sempre nella provincia di Ragusa. In breve, i disordini di piazza dilagarono anche nell'Agrigentino, con scontri a fuoco tra le truppe dell'Esercito regio e i dimostranti che non erano peraltro soltanto fascisti, anche se questi ultimi prendevano spesso l'iniziativa e il comando delle manifestazioni di protesta; si contarono numerosi i morti ed i feriti, tutti fra i civili. Ormai era emergenza e da Siracusa come da Gela mossero reparti di fanteria in assetto di guerra che impegnarono gli insorti nelle varie località della provincia, riuscendo dopo aspri combattimenti a riprendere il controllo della situazione. Dovunque, fuorché a Comiso. Rinserrata nelle sue mura medievali, la cittadina respinse i militari e le profferte di tregua dai loro ufficiali avanzate; poi, essendo in prevalenza fra i rivoltosi quei giovani ch'erano stati ribattezzati “i non si parte”, fondarono una minirepubblica autonoma dal potere centrale, in ciò aiutati da un agente segreto giunto dall'Italia settentrionale, l'ingegnere Lorenzo Carrara, il cui pseudonimo era Renzo Renzi.
    Costui prese in mano la situazione e organizzò la resistenza che ebbe momenti di intensa drammaticità e costò decine di vittime, dal momento che i reparti dell'Esercito badogliano erano stati dotati di armi di tutto rispetto, come mitragliere, cannoni e addirittura carri armati, tutto materiale bellico fornito dal Comando britannico. Gli scontri si moltiplicarono durante l'assedio che si protrasse per qualche giorno di fuoco; e mentre gli altri paesi dell'interno cadevano uno dopo l'altro nelle mani dei reparti militari fatti affluire anche dalla Calabria, (fra questi anche Partanna, autoproclamatasi Repubblica autonoma), i “non siparte” continuavano a resistere. Poi, sotto il martellamento degli obici regi e in previsione dell'attuazione della minaccia di essere rasa al suolo dai bombardamenti a tappeto degli aerei inglesi, anche Comiso cedette e capitolò. Si contarono i morti e i feriti: ventisette i primi, ottantasette i secondi. Arrivò anche, puntuale, la vendetta badogliana: quasi trecento insorti, la maggioranza dei quali fascisti riconosciuti e schedati, furono incatenati e trasferiti nell'isola di Ustica, dov'era stato approntato un altro campo di concentramento. Erano coloro i quali avevano dotato la "Repubblica autonoma fascista di Comiso" di ordinamenti, norme, decreti e regolamenti ispirati alla legislazione della Repubblica Sociale Italiana. Era l'l1 gennaio del 1945. Dietro i reticolati del «gulag” savoiardo, i trecento insorti rimasero fino all'anno successivo quando, sul finire del conflitto mondiale, venne decretata l'amnistia. Ma prima dei provvedimenti di clemenza che chiusero la pagina dell'”insorgenza” fascista nel Mezzogiorno d'Italia, ci fu un ulteriore “giro di vite” contro i fedeli mussoliniani che, spesso a rischio della vita e sempre sfidando pericoli e persecuzioni, mantennero alta la bandiera della fedeltà.
 
 
STORIA VERITA' N. 1. Maggio-Giugno 1996.
PERCHE' NON CI FU GUERRA CIVILE AL SUD
Francesco Fatica
 
 
    Nella primavera del '43 Carlo Sforza, segretario del PNF, propose di preparare, fra gli organizzati del Partito, una forza clandestina di resistenza nella previsione di una imminente invasione. Mussolini aderì alla proposta e suggerì anche il nome dell'organizzazione: "Guardie ai Labari", ma impose di darle un carattere esclusivamente ideale, senza fornire armi.
    E' evidente che questa precauzione fu presa per evitare che nelle terre occupate avvenissero sanguinose rappresaglie. A capo dell'organizzazione fu posto il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, colonnello dei paracadutisti, pluridecorato, valoroso combattente di tutte le guerre, più volte ferito.
    Seguì il 25 luglio e, naturalmente, venne messa da parte l'idea di creare formazioni clandestine. Tuttavia Pignatelli ritenne di continuare la preparazione della futura attività clandestina.
    Intanto, già il 27 luglio nasceva spontaneamente - a Trapani - il primo gruppo clandestino fascista nella Sicilia invasa. Mentre i fascisti del resto d'Italia, e sui vari fronti, venivano frenati nei loro impulsi di ribellione dalle continue dichiarazioni ufficiali del governo Badoglio di voler continuare la guerra a fianco dell'alleato tedesco.
    Per chi non ha vissuto il clima dell'era fascista potrà essere opportuno chiarire che l'amore per la Patria era l'imperativo sovrano di ogni fascista, perciò in quel frangente nessuno osò pensare di arrivare a nuocere alla Patria in guerra con aperte lotte intestine. Ma, appena fu chiaro l'inganno con la rivelazione palese dell'armistizio, l'attività clandestina fascista ebbe un notevole impulso: gruppi clandestini fascisti sorsero spontaneamente un po' dappertutto e mentre al Nord, costituendosi la RSI, migliaia di volontari si presentarono alle armi, nelle terre invase la lotta clandestina fu avviata con lo stesso rabbioso stato d'animo, pur tra mille difficoltà e superando proibitivi ostacoli di comunicazioni, assoluta mancanza di mezzi, persecuzioni e deportazioni, sfidando bandi dell'invasore che comminavano la pena di morte per i sabotatori e per i detentori di armi.
    Da più parti si tentò e talvolta si riuscì a prendere contatto con la RSI, passando clandestinamente le linee. Furono scoperti imbarcazioni a motore MAS che stavano effettuando la traversata del Tirreno partendo dalla Sardegna per approdare sulle coste della RSI.
    Valerio Pignatelli aveva preso accordi con Barracu prima dell'invasione della Calabria e da lì teneva contatti radio col Nord.
    Le direttive che giungevano dalla RSI erano costantemente orientate ad evitare spargimento di sangue fraterno. Tuttavia, alcuni gruppi clandestini spontanei si spinsero a svolgere attività terroristica con l'uso di esplosivi.
    In Sicilia gli Alleati, avendo scoperto il primo gruppo clandestino fascista a Trapani, avevano processato quei giovani, fra cui una ragazza, condannandoli a pene varie. Salvatore Bramante, riconosciuto colpevole di sabotaggi e di detenzione di armi, fu condannato a morte. Analoghi processi gli Alleati svolsero contro gruppi organizzati di fascisti clandestini ad Agrigento e a Lecce, ma poi preferirono lasciare al governo Badoglio l'onere e l'impopolarità di perseguire i fascisti clandestini. I Tribunali militari territoriali di guerra furono investiti della responsabilità di processare le bande armate dei clandestini, ma gli italiani dei Tribunali militari non se la sentirono di infliggere pene capitali ed invece di applicare il codice militare di guerra usarono disinvoltamente il codice penale, molto meno drastico, così la costituzione di bande armate fu derubricata in associazione a delinquere. Tuttavia i processi portati a compimento furono pochi e tutti finirono per sgonfiarsi definitivamente nell'amnistia del 1946.
    Dai carabinieri reali, dai questori, dai prefetti giungevano al governo della "King's Italy" i rapporti sull'attività clandestina dei fascisti. I CC.RR. della Sardegna nel maggio '44 concludevano in un rapporto ufficiale che dagli elementi raccolti si aveva "la certezza dell'esistenza nell'isola di focolai fascisti che covano desideri di rivincita......"
    In effetti l'organizzazione clandestina fascista sia in Sardegna sia nelle altre regioni occupate, aveva coinvolto anche militari di ogni grado in servizio. Inoltre erano avvenuti tumulti, manifestazioni pubbliche, erano apparse scritte sui muri, circolavano giornaletti clandestini e volantini scritti a mano o a macchina, sicché‚ appena il governo Badoglio decise la chiamata alle armi, ci furono cortei di protesta, tumulti, assalti ai municipi ed alle caserme dei carabinieri. In particolare in Sicilia i fascisti, che in un primo tempo avevano avversato apertamente i separatisti, cambiarono radicalmente tattica e si inserirono in tutte le manifestazioni separatiste portando cartelli inneggianti al Duce e scritte di manifesta concezione fascista. In Sicilia, dunque, appoggiandosi ai separatisti e strumentalizzandoli non appena possibile, i fascisti furono protagonisti di rivolte armate che coinvolsero, oltre le forze locali, anche le truppe badogliane inviate in tutta fretta dal continente a sedare le sommosse che avevano già registrato parecchi morti e feriti.
    Continuò a resistere la "Repubblica di Comiso", dove gli insorti respinsero decisamente sia i carabinieri reali sia i reparti regolari dell'esercito badogliano appoggiati da carri armati. I fascisti, guidati dall'Ing. Carrara, dichiararono la repubblica indipendente dal governo regio con ordinamenti di chiara ispirazione fascista.
    Poi, il 13 gennaio 1945, circondata da ingenti forze corazzate e soprattutto per la minaccia esplicita e concreta di indiscriminati e devastanti bombardamenti aerei da parte degli inglesi, la "Repubblica di Comiso" capitolò. Bilancio delle perdite umane: tra i badogliani due ufficiali, un sottufficiale e quindici tra carabinieri e militari di truppa, ventiquattro soldati feriti; tra i rivoltosi diciannove morti e sessantatré‚ feriti; duecentonovantacinque furono arrestati e deportati nell'isola di Ustica. Mussolini non voleva spargimenti di sangue italiano perciò a Valerio Pignatelli furono date chiarissime istruzioni di "non spargere sangue fraterno sul sacro suolo della Patria". Sollecitato a recarsi in RSI, lasciandosi però la possibilità di tornare al Sud, Pignatelli riuscì ad ottenere un lasciapassare, ma soltanto per la moglie, attraverso i buoni uffici del tenente di vascello Paolo Poletti, inoltrato nell'OSS americano. La principessa Maria Pignatelli, donna di rarissime virtù, dotata di altrettanto ardimento, spirito di iniziativa e fede fascista quanto il marito, attraversò le linee, rischiando la vita sui campi minati, s'incontrò con Barracu e quindi fu portata in aereo da Mussolini, che voleva essere minutamente informato sull'attività clandestina fascista.
    Alla Principessa Mussolini diede ancora precise istruzioni di non provocare spargimento di sangue fraterno. Al ritorno la Principessa, che era stata spiata al Nord, fu arrestata e subito dopo lo fu anche il Principe. Paolo Paoletti fu torturato fino ad impazzire in una villetta alle pendici del Vesuvio dove gli anglo-americani tenevano i loro "interrogatori", fu poi rinchiuso nel carcere di S. Maria Capua Vetere e assassinato da un sergente americano, che aveva predisposto un fasullo tentativo di fuga per crearsi una giustificazione.
    La Principessa fu due volte messa al muro-inscenando finte non parlò. Nulla si ottenne dagli interrogatori del Principe, che fu processato e condannato dal Tribunale militare territoriale della Calabria.
    A capo dell'organizzazione clandestina fascista, dopo l'arresto di Pignatelli, si avvicendarono prima l'avv. Nando di Nardo e poi l'arch. Antonio de Pascale, in tempi successivi anche loro arrestati e deferiti al Tribunale militare.
    Tra le altre attività si era scoperto a Napoli, in via Broggia n. 3, l'alloggio di Palmiro Togliatti, che all'epoca si nascondeva sotto il nome di copertura Ercole Ercoli. 
 Sarebbe stato facile sopprimerlo, ma anche in questo caso Mussolini si oppose allo spargimento di sangue tra italiani. In effetti Mussolini volle sempre evitare spargimento di sangue fraterno e bloccò sul nascere lo scoppio della guerra civile nel Sud.
    Non fu certo così per gli antifascisti, che da radio Bari incitavano ferocemente ad uccidere alle spalle altri italiani in RSI per provocare deliberatamente le reazioni di fascisti e tedeschi coinvolgendo la popolazione civile nei massacri.
    Sangue chiama sangue.
 
 
VOLONTA' N. 1. Gennaio 1996.