martedì 27 ottobre 2020

AVEVA RAGIONE IL DUCE

AVEVA RAGIONE IL DUCE


Nel 1945 la Russia del comunismo internazionale e gli USA del capitalismo mondialista, con l’aiuto di “ servi sciocchi” a loro alleati, vinsero la guerra intrapresa contro il Fascismo mondiale rappresentato dalle forze dell’Asse per cercare di annullare quella idea sociale e politica che si opponeva alle loro e che stava cambiando il mondo intero togliendo loro lo spazio vitale per svilupparsi o solamente esistere!

Il Fascismo,. con una geniale intuizione, aveva inventato ed interpretato socialmente la “terza via” che risolveva la quadratura del cerchio delle proposizioni socio politiche in atto.

Tra una visione marxista che proponendo una società egualitaria e che, operando forzosamente e contro natura, annichiliva l’individuo per totalizzare nello stato e nella collettività ogni attività, ogni pulsione ed ogni iniziativa avrebbe fallito miseramente il suo obiettivo ed una visione capitalista che impostava la società sull’unico obiettivo del profitto individuale senza badare alle tendenze naturali ed istintive dell’Uomo a sviluppare la propria individualità e ponendo il denaro come fine invece che come mezzo invertendo così le priorità esistenziali, il Fascismo trovò il giusto compromesso che trasformava un secolare contrasto tra capitale e lavoro in una sinergica collaborazione spegnendo così ogni motivo di lotta

La nuova idea era così rivoluzionaria, dirompente e grande nella sua semplicità da mettere in pericolo quei due ideali che stavano dominando le vite del mondo intero e la seconda guerra mondiale fu, al di là dei pretesti ufficiali, la loro risposta per tentare la propria sopravvivenza.

Dopo la vittoria delle armi, sorretta dallo strapotere del denaro, sembrava che tutto dovesse potere proseguire come prima, ma così non fu.

Il comunismo marxista con il prosieguo degli anni ed entro pochi decenni, e nonostante la vittoria in guerra, franò miseramente su se stesso senza bisogno dell’aiuto di forze esterne, dimostrando nella pratica la sua intrinseca incapacità a realizzare una utopia contro natura e contro lo spirito stesso dell’Uomo e smentendo nella pratica le proprie teorie socio politiche!

Restava in piedi il capitalismo che però non gode più di buona salute e sta, anche lui, evidenziando i segni della sua incongruenza e mostra le prime crepe e le prime frane.

Le ricorrenti crisi economiche e gli squilibri sempre più evidenti tra le varie zone del mondo e persino tra le varie fasce sociali degli stessi Paesi sono i sintomi di un malessere che si sta sempre di più aggravando e si trasforma via, via in una malattia che sarà mortale.

La pratica sta dimostrando che i concetti di continuo sviluppo della produzione e del profitto hanno il loro limite naturale nella saturazione dei mercati.

La pratica sta dimostrando che il mondo capitalista sta creando sempre più ricchezza per pochi e miseria per tanti togliendo così al mercato quella componente essenziale del consumismo che è il ceto dei consumatori fenomeno questo accentuato dal fatto che il vantaggio del progresso tecnologico, non distribuito equamente tra impresa e lavoratori con meno lavoro a parità di salari,  porta all’aumento della disoccupazione ed alla diminuzione della domanda.

La pratica sta dimostrando che l’iperproduzione, oltre che a saturare i mercati, riduce sempre di più le riserve di materie prime e di fonti energetiche inquinando il pianeta e ponendo un limite naturale allo sviluppo infinito preconizzato dal capitalismo.

La pratica sta dimostrando che l’esasperazione dei concetti del marxismo e del capitalismo, senza un fattore di mediazione e di controllo svolto dallo Stato, porta al fallimento ed alla rovina.

Il Fascismo che proponeva e propone lo sviluppo dell’individuo come soggetto di uno stato etico, nell’ambito di una libertà di intrapresa che trova il suo limite nell’interesse comune, aveva visto giusto ed i fatti e la storia lo stanno dimostrando!

Quello che non è stato possibile realizzare a causa della sfortuna delle armi lo realizzerà  inevitabilmente ed automaticamente la logica dello sviluppo della società.

Dal fallimento del sistema capitalista risorgerà quell’idea, forse modificata, forse migliorata, forse con un altro nome, che il DUCE aveva previsto!

Con buona pace dei detrattori, dei mentitori, dei mestatori e dei coglioni che quella idea hanno combattuto ..!!

 Alessandro Mezzano

                                                                                                                                  

mercoledì 21 ottobre 2020

FRA' GINEPRO 1903 - 1962

 

Fra' Ginepro
Fra' Ginepro (1903-1962)


Introduzion

L'amore per Dio e l'amore per la Patria erano mirabilmente fusi nel padre cappuccino Fra' Ginepro, al secolo Antonio Conio, nato a Pompejana (IM) nel 1903 e morto a Loano (SV) nel 1962.
Per quanto riguarda la sua spiritualità basteranno due citazioni da sue opere per farla comprendere: "La poesia del combattimento prima che dannunziana è francescana e cristiana. E' poesia del volo e dell'ascesi, della conquista e dell'ardimento, della dedizione e del sacrificio, della luce scaturita dalla sofferenza, dell'alloro meritato attraverso la prova dura del calvario"; e ancora: "Io considero come il gesto più bello e più religioso della vita sacerdotale, di essermi schierato con i percossi e con i reietti".

Questo emulo di San Francesco, che svolse opera di apostolato anche tra le forze armate sia nella guerra d'Etiopia che nella seconda guerra mondiale, come pure nella R.S.I. e che per la propria fede di patriota e di cristiano dovette subire tremende persecuzioni, nel dopoguerra si dedicò alla pietosa opera di continuare a ricordare i Caduti della R.S.I., soprattutto quelli uccisi, innocenti, dal piombo fratricida. E, nel contempo, si dedicò anche all'opera di pacificazione tra Italiani, affinché il ricordo dei Caduti non fosse fomite d'odio, ma incentivo al perdono e alla riconciliazione.

Tra le doti che Fra' Ginepro ricevette da Dio vi fu anche quella di saper scrivere assai bene, ed egli sfruttò appieno questa dote lasciandoci oltre quaranta libri, e forse, la strada migliore per seguirne la vicenda biografica è quella tracciata da essi, alcuni dei quali, quelli pubblicati nell'immediato dopoguerra, sono firmati "Pio Cappuccino" (per evitare ulteriori noie con le autorità, i suoi superiori gli avevano imposto di usare questo pseudonimo).


Breve biografia
1903 Fra' Ginepro al fonte battesimale fu chiamato Antonio, e tutti lo chiamarono Tugnolo. La famiglia era Conio. L'anno di nascita in Pompejana 1903. I genitori e i fratelli si occupavano di agricoltura, mentre Tugnolo si era dato allo studio universitario, ramo legge. Ma invece di un avvocato, la famiglia Conio si arricchì di un bel frate con molta delusione di tante belle fanciulle!
Temprato fisicamente, in gioventù, da una intensa attività sportiva, dopo i vent'anni si fece Religioso per prepotente vocazione. Fu professore di lettere e filosofia, conferenziere, amico di scrittori ed artisti. Egli però ingigantisce sotto le spoglie di ardente, valoroso Cappellano militare e come tale resterà certamente un grande esempio dell'apostolato militare!
1935 Nel 1935 il frate partì, quale cappellano della Divisione Cosseria, per l'Africa Orientale, dove si distinse per il coraggio nell'assistenza spirituale ai suoi soldati e anche alla popolazione indigena, tanto da meritarsi gli elogi del vescovo dei cattolici di Rito Etiopico, Chidanè Marian Cassà.
1940 Quando scoppia la seconda guerra mondiale andò, senza che nessuno glielo chiedesse, in prima linea sul fronte francese ed il 4 luglio 1940 si trovò a dire Messa sulla piazza principale di Mentone, la cittadina redenta, tornata all'Italia dopo ottant'anni.
Sempre col suo saio (non indosserà mai l'uniforme e raramente si toglierà i sandali per indossare gli scarponi) fu sul fronte greco, dove venne ferito mentre amministrava i sacramenti ad un soldato ellenico morente.
Su questo fronte venne preso prigioniero e stette a lungo rinchiuso nei campi di concentramento dell'India.
Qui si diede da fare in ogni modo per consolare i suoi commilitoni prigionieri. Dall'India, gravemente ammalato, fu rimpatriato come invalido.
1943 Pur collocato ufficialmente a riposo per le sue condizioni di salute, fu pronto a scendere in campo non appena si costituì la Repubblica Sociale Italiana.
Fu un'ora tremenda per l'Italia, c'era bisogno delle forze di tutti per far sì che la nostra Patria non sprofondasse completamente nel baratro e c'era bisogno, anche, di una gran forza spirituale e morale per resistere in frangenti come quelli. E Fra' Ginepro si diede da fare proprio in questo senso: assisté militari e civili, si impegnò a limitare lo spargimento di sangue fraterno, riuscendo a salvare molte vite umane di prigionieri dei fascisti e dei tedeschi.
Riuscì a farsi inviare, dallo stesso Mussolini, in Germania, per portare una parola di consolazione ai prigionieri Italiani nei lager e alle famiglie dei prigionieri, che aiutò come poteva, recando notizie dei loro cari.
Ebbe lunghi colloqui privati con Mussolini, nel corso dei quali affrontò molti delicatissimi temi di natura anche religiosa.
1945 Dopo il 25 aprile fu arrestato per "collaborazionismo col nemico invasore", per avere affermato che "la Patria è là dove si salva il suo onore!" e si fece undici mesi di galera. Ne uscì assolto, ma lo spettacolo indegno a cui assistette con animo straziato, raddoppiò il suo zelo nel documentare in molti volumi, le tristi vicende del più torbido periodo della vita nazionale.
1946 Dopo una lunga detenzione a Marassi, la magistratura non avendo alcun elemento di accusa per il frate, voleva liberarlo, ma il sacerdote escogitava di volta in volta un pretesto per rimanere ancora. Veniva accontentato più che altro perché si dimostrava efficace elemento di buon ordine e la tranquillità dello stabilimento penale.
Ma ad un dato giorno non fu più possibile giustificare il suo stato detentivo, e si ricorse ad uno stratagemma.
Gli fu comunicato che veniva trasferito di carcere. Lo fecero salire su un autofurgone, ve lo chiusero dentro senza che potesse vedere dove lo trasferivano. Il tragitto fu breve: l'Ospedale Gaslini. Lo sportello venne aperto ed ebbe la... sgradevole sorpresa di essere ricevuto dai suoi superiori della Provincia Ligure.
    Probabilmente fu l'unica volta nella sua vita che Fra' Ginepro andò, come si dice, sulle furie: "Io dovevo rimanere là sino a che ci fosse stato un politico!" Poi si rassegnò, già pensando che poteva essere utile anche al di fuori delle sbarre.
Dopo la scarcerazione si dedicò anima e corpo (quest'ultimo pesantemente provato per le conseguenze della grave malattia contratta in prigionia) alla difesa dell'onore dei soldati d'Italia e a consolare le famiglie che piangono i troppi morti della guerra civile.
Per non dare nuova turpe esca alla stampa sovversiva anticlericale Fra' Ginepro venne trasferito a Siena, e dovette cambiare temporaneamente nome: Padre Pio. Con questo pseudonimo apparvero i suoi primi libri del dopoguerra. Nella città toscana trovò anche col nuovo nome, modo di rendersi simpatico a tutti, forse un po' meno ai nuovi Superiori, perché non nascondeva a nessuno le sue idee di Patria e le verità brucianti della nostra sconfitta.
Dopo Siena passò a Reggio Emilia, dove in pieno acuto rossismo, mantenne quotidiani contatti con gli ex combattenti e con le loro famiglie. La tema dei Superiori che la sua presenza potesse generare spiacevoli incidenti, fece sì che venisse deciso il suo ritorno in Liguria, riprendendo il nome francescano.
Il frate si dedicò a fissare sulla carta la memoria dei Caduti che facevano schifo a tutti i cosiddetti "democratici", ossia i Caduti della Repubblica Sociale Italiana, caduti spesso a tradimento, sotto il piombo di altri Italiani.
Con rinnovata lena tornò alla predicazione, però non più richiesta come una volta. L'esaltare il patriottismo, il valore sfortunato dei nostri combattenti, le basi morali d'un tempo già lontano in contrasto con la mentalità ed il costume trionfanti nel dopoguerra, non lo rendevano bene accetto in tante parrocchie. Ma Fra' Ginepro non si scoraggiò ed anche per mezzo di altre sue pubblicazioni, tutte pervase di altissimo amore patrio, accontentò le sue convinzioni ed il suo profondo fervore religioso. Ex combattenti, familiari dei Caduti, amici mantenevano quotidiani contatti col fraticello di Pompejana. Parlare con lui era un vero ristoro dell'anima.
1956 Nel 1956 ebbe inizio lo smantellamento della forte fibra di Fra' Ginepro. Una ipertensione gli procurava alcuni disturbi. Si fece visitare, ma non stette alle prescrizioni mediche. Certamente era ignaro - come lo saranno stati anche i medici - del grave male, il cui germe o "virus" che si voglia, proveniva dall'India.
1957 Purtroppo nel gennaio del 1957 lo dovettero trasportare di tutta urgenza all'Ospedale San Martino a Genova, dove fu ospitato nel Padiglione d'isolamento. Era stato colpito da encefalomacia con paralisi facciale destra e alla lingua, oltre a disturbi cardiaci e all'altissima pressione sanguigna. Fu curato bene e quando poté riparlare, disse fra il serio e il faceto: "Iddio mi ha punito nella lingua! Pazienza...".
Pur rimettendosi quasi completamente, egli non guarì più, ebbe delle ricadute, tornò negli ospedali con lunghe degenze. Ma non si perse mai d'animo, né mai la sua serenità scomparve dal suo viso. Era rassegnato, solo spiacente di non poter dare più tutto se stesso. Durante i cinque anni d'infermità continuò a scrivere o, quando non poteva di propria mano, a dettare a giovani frati che si sentivano molto onorati di fungere da segretari.
Riuscì a pubblicare ancora alcuni libri, le cui edizioni si sono pressoché esaurite. Poco prima di morire aveva posto la parola "Fine" al suo secondo volume sul "Martirologio" del periodo della lotta fratricida, e si dichiarava soddisfatto di aver compiuto questa opera, alla quale aveva lavorato per lungo tempo.
1962 Morì il 2 luglio 1962 all'età di 59 anni, assistito dalla madre ottantaseienne di cui era sempre stato tenerissimo figlio. L'unanime rimpianto della sua dipartita che lasciò un vuoto incolmabile giunse sino alla costernazione ed allo smarrimento. La sua vita era troppo preziosa e necessaria alla Chiesa e alla Patria!


Conclusione

    Il fatto che ancora oggi, a quasi quarant'anni dalla sua morte, vi sia una sorta di "culto" per questo indomito fraticello è un'eloquente testimonianza del suo carisma. Carisma che gli permise di fondere in una meravigliosa sintesi mazzinianesimo e cristianesimo, amore per il Tricolore e per la Vergine, patriottismo e devozione.
    Un grande esempio è stato Fra' Ginepro, un uomo il cui ricordo ci dà la forza di attraversare indenni anche le più cupe epoche di decadenza.


Monumento a Fra' Ginepro (Loano - SV)

"Quando il nostro popolo era nelle trincee, Iddio mi mandò nelle trincee; quando il nostro popolo era fra i reticolati Iddio mi mandò dentro i reticolati; quando il nostro popolo era in galera Iddio mi mandò in galera. Ti ringrazio, o Signore, per queste prove di cui mi hai ritenuto degno".

Fra' Ginepro

Le opere di Fra' Ginepro


1926 San Francesco d'Assisi il più italiano dei santi x
1927 Pompejana - borgo francescano x
1930 La benedizione di San Francesco nelle nozze della Regina di Bulgaria x
1931 La famiglia Ruffini - Un canto di religiosità nel Risorgimento x
1931 La reggia d'oro del Sacro Cuore di Gesù in Bussana x
1932 Riviera d'oro x
1932 Terra natìa x
1933 Il diadema stellato x
1935 La palma più alta della Riviera x
1935 La vasaia di Albisola x
1935 Santa Barbara x
1935 Le Suore Terziarie Cappuccine nel 1° cinquantesimo della fondazione (anche in spagnolo) x
1937 L'altare da campo in Africa Orientale x
1938 La strada delle Madonne in Africa Orientale x
1940 Cuore di soldato italiano x
1942 La croce sulle forche x
1943 La Madonna del Buon Ritorno x
1943 Adorazione nella tormenta x
1944 La fede dei nostri prigionieri x
1945 Il bambino della frontiera x
1946 Guerra e prigionia []
1947 Meglio essere la madre di un assassinato che di un assassino x
1948 Famiglie che piangono []
1949 Fame di Dio in "lager" x
1949 Convento e galera []
1950 La via crucis dei criminali []
1951 Fanciulli martiri []
1951 Parole ai vivi e ai morti x
1953 Ospitalità al sacrificio x
1954 L'innamorata silenziosa x
1954 Madre di eroi []
1956 Il mio saio: una bandiera []
1957 Alle soglie dell'aldilà []
1958 Non li possiamo dimenticare x
1961 La seconda prova []
1962 Martirologio italico (1° vol.) []
1963 Martirologio italico (2° vol.) []
1970 Ho confessato il Duce []
1973 Eroi d'Italia x

Martirologio italico (3° vol.) []

x = Esaurito
[] = Disponibile presso l'Associazione

 


 

 

mercoledì 14 ottobre 2020

CRIMINI AMERICANI: LA STRAGE DI GORLA!!

 

 
Documentazione raccolta dal : Centro studi Giuseppe Federici

La strage di Gorla raccontata attraverso le pagine del Liber Chronicus della Parrocchia di S. Teresa del Bambin Gesù.

20 Ottobre 1944
I bambini della Scuola Elementare “Francesco Crispi”, colti di sorpresa sulla rampa delle scale da una bomba sganciata dai bombardieri alleati mentre cercavano di scendere nei rifugi, furono orrendamente straziati. Quell’episodio - Anno Domini 1944 - scrisse delle pagine tragiche che ancora oggi feriscono il borgo intero colpito nella sua intimità più esposta e innocente. Furono sette giorni di una lunga, interminabile Via Crucis recitata accanto ai corpi straziati delle vittime innocenti, scanditi dai singhiozzi e dal silenzio rispettoso di un borgo, incredulo e sconsolato.

“Una pagina dolorosissima”
“Scrivo una pagina dolorosissima nella storia della parrocchia. Giornata limpidissima serena, d’autunno in brevi istanti fu tramutata in una giornata di lutto e di pianto e di desolazione. Alle 11.15 suonò il piccolo allarme, non se ne fa caso, e pochi minuti dopo il grande allarme. Squadriglie di numerosi quadrimotori inglesi e americani vengono rapidamente da Sesto S. Giovanni, lanciando sul rione bombe a tappeto innumerevoli. In pochi minuti, molti fabbricati della parrocchia son ridotti ad un cumulo di rovine. Davanti alla gradinata della chiesa è caduta una bomba che fortunatamente ha fatto cadere solo i vetri della parte Ovest e squassata la bussola della porta d’entrata nonché i vetri della casa parrocchiale e dell’oratorio maschile. Esco dal recinto dell’oratorio, spettacolo più raccapricciante si presenta al mio sguardo. Mamme che disperate corrono alla vicina scuola dove una bomba caduta sul fabbricato e precisamente nella tromba delle scale seppellisce più di 200 tra bambini ed insegnanti sotto le macerie. Si inizia l’opera di salvataggio ma tranne i primi e non più d’una decina che vengono estratti ancor vivi, tutti escono deformi cadaveri maciullati a cui si amministra dai Sacerdoti della parrocchia e da quelle limitrofe l’Estrema Unzione e l’assoluzione sotto condizione. Alle 15 giunge sua Eminenza l’’Arcivescovo a consolare le mamme e rendersi edotto dell’orribile catastrofe. Il Parroco in quel momento è assente per un funerale in parrocchia. Si rimane sulle macerie fino a tarda ora della sera, mentre i vigili del fuoco lavorano tutta notte ad estrarre i corpi delle vittime.”



L’incursione aerea del 20 ottobre 1944
L’incursione aerea del 20 ottobre 1944 era già stata programmata dal febbraio del 1944 dal Comando della 15° Air Force degli Stati Uniti d’America che individuava negli stabilimenti milanesi del nord est un obiettivo strategico da colpire. “Due gruppi arrivarono sui bersagli assegnati ed eseguirono regolarmente il bombardamento; il gruppo che doveva attaccare la Breda era composto da 35 aerei. Gli aerei procedevano in due ondate, la prima di 18 aerei la seconda di 17. Gli aerei procedevano senza scorta di caccia e, del resto, non ce n'era bisogno: la reazione contraerei era prevista nulla, come in effetti fu; non apparvero aerei nemici. I bombardieri, che procedevano a 160 miglia orarie, portavano ciascuno 10 bombe da 500 libbre”.

L'operato del 451° Group
“Gli aerei si presentarono dopo una navigazione regolare e in formazione stretta e assunsero rotta verso la Breda ma a questo punto tutto cominciò ad andare storto. Le bombe del "group leader", aereo di testa della prima ondata, vennero sganciate prima per un corto circuito dell'interruttore di lancio. Il "deputy leader" sull'aereo a fianco non sganciò, ma tutti gli altri aerei lo fecero e le bombe caddero sparpagliate sulle campagne circostanti: solo alcuni arrivarono a sganciare le bombe sul bersaglio, o vicino, perché molte caddero sullo stabilimento Pirelli, contiguo a quello della Breda, provocando decine di morti. La seconda ondata d'attacco era rimasta distanziata: assunta la rotta d'attacco, questa risultò soggetta ad una deriva di 15° sulla destra. Quando il "leader" della formazione s'accorse dell'errore era troppo tardi e tutti gli aerei della seconda ondata, vista la situazione e per liberarsi subito del carico, sganciarono le bombe immediatamente a sud est del bersaglio e presero la rotta del ritorno. Il comando criticò ampiamente l'operato del 451° Group, dichiarando che la missione fu un fallimento totale per scarsa capacità di giudizio e scadente lavoro di squadra. Non risulta però nessuna eco da parte degli statunitensi di quanto era successo a terra dove erano avvenute tragedie inimmaginabili.”

“Quella mattina”
“Quella mattina il piccolo allarme, come risulta dai documenti della Prefettura, suonò alle 11.14, quando i bombardieri erano arrivati da poco nel cielo della Lombardia, e quello grande alle 11.24; le bombe vennero sganciate alle 11.27 e cominciarono a cadere al suolo alle 11.29. Già da questi tempi risulta, in ogni caso, una certa ristrettezza per porsi in salvo: solo 15 minuti quando avrebbero dovuto essere circa il doppio; sono pochi per lasciare tutto quello che si sta facendo e correre in rifugio, soprattutto se ci sono difficoltà logistiche, per una scuola con centinaia di alunni, poi, è un'impresa praticamente impossibile.”

Una bomba s'infilò nella tromba delle scale
A Gorla la Scuola Elementare “Francesco Crispi” aveva due turni per la presenza di molti bambini del quartiere; in quella mattina tersa e luminosa erano presenti in poco più di 200. Gli alunni che abitavano nelle case del quartiere Crespi-Morbio andavano a scuola nel pomeriggio per cui all'ora dell'attacco non erano a scuola. Pochi gli assenti o perché malati o perché, vista la bella giornata, avevano deciso di marinare la scuola. Al momento del piccolo allarme quasi tutte le maestre cominciarono a preparare gli scolari perché scendessero nel rifugio; altre cercarono di informarsi prima per sapere se si trattava del grande o del piccolo allarme. Quando alle 11.24 suonò la sirena per la seconda volta i primi bambini avevano cominciato a raggiungere il rifugio, altri si trovavano ancora sulle scale; in quel momento gli aerei erano già in vista. A questo punto alcuni bambini più svelti di altri decisero di fuggire dalla scuola per raggiungere casa. Una quinta elementare, quella del maestro Modena, riuscì a scappare al completo perché si trovava al piano terreno. Per tutti gli altri il destino fu diverso: una bomba s'infilò nella tromba delle scale e scoppiò provocando il crollo dell'edificio, delle scale e anche del rifugio facendo precipitare tutti i bambini con le maestre nel cumulo di macerie. Anche parecchi genitori che al momento del piccolo allarme erano corsi alla scuola per riprendere i propri figli perirono nel crollo.

La dimensione della tragedia
Appena finito il bombardamento e sollevatosi il polverone grigio e soffocante provocato dagli scoppi, i cittadini che erano più vicini alla scuola si accorsero subito della tragedia e diedero l'allarme. Benché i danni in città riguardassero anche altre zone lo sforzo maggiore dei soccorsi fu concentrato sulla scuola elementare dove incominciarono ad accorrere i padri e le madri dei ragazzi. La Prefettura di Milano fu informata quasi subito dell'avvenimento e provvide a dare gli ordini necessari: arrivarono i militi dell'Unpa (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), quelli della Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana), i vigili del fuoco, gli operai delle fabbriche circostanti (molti erano i padri dei bambini), ma quasi subito fu chiara a tutti la dimensione della tragedia. Dalle macerie venivano estratti quasi soltanto dei morti; molto attivo in quei momenti fu un giovane sacerdote, Don Ferdinando Frattino che con il suo deciso intervento negli scavi contribuì a salvare molti bambini: gli scolari morti furono 194 più tutte le maestre, la direttrice e il personale ausiliario. Di quello che avvenne nella scuola nei suoi ultimi momenti restano le testimonianze spesso drammatiche e commoventi dei bambini, ora divenuti adulti, che a qualsiasi titolo riuscirono a sopravvivere.

Liber Chronicus della Parrocchia di S. Teresa del Bambin Gesù. 21 ottobre 1944
“Il Prevosto celebra alle ore 6 in Chiesa una S. Messa di suffragio tra le lacrime e i singhiozzi; raccomanda a tutti di pregare per le vittime dell’incursione. Si reca poi alla scuola dove allineati si trovano altri bambini estratti nelle prime ore del mattino. Alle ore 9 si reca in Episcopio a rendere edotto l’Arcivescovo del lavoro fatto dai vigili durante la notte del 20 e il mattino del 21. Chiede di celebrare un ufficio solenne alla domenica e ne ottiene il permesso. Intanto chiede l’aiuto dei muratori per riparare il tetto della casa, dell’oratorio e della chiesa perché dal mattino piove incessantemente. I cadaveri vengono portati per mancanza di locali nella vecchia chiesina in modo da poter essere riconosciuti. I militi dell’Unpa li portano poi ai diversi obitori. Si lavora così per tutta la giornata”.

Liber Chronicus della Parrocchia di S. Teresa del Bambin Gesù. 22 ottobre 1944
“Le campane a lenti rintocchi suonano l’Ave Maria annunciando alla popolazione l’Ufficio solenne che si celebrerà alla S. Messa delle 7.30. Alle 6 la 1° Mesa è celebrata dal Coadiutore. Il Prevosto sale sul pulpito ma incapace di parlare per la viva commozione che lo opprime si accontenta di dare solo alcuni avvisi che interessano la popolazione ed annuncia l’Ufficio solenne che si celebrerà alle ore 7.30 a suffragio delle vittime. Al Vangelo sale sul pulpito ma il pianto gli stronca la parola. La Chiesa è gremita di fedeli oppressi della più viva costernazione, non si sentono che singhiozzi e pianti. Il Prevosto intanto dispone per i primi funerali le cui salme devono arrivare in parrocchia alle ore 16. Dopo le esequie in Chiesa vengono accompagnate dal Clero fino al termine della Via Finzi ed il Coadiutore le accompagna al Cimitero di Greco. Di ritorno la casa parrocchiale è invasa di gente che chiedono i funerali delle vittime in parrocchia.”

Liber Chronicus della Parrocchia di S. Teresa del Bambin Gesù. 23 ottobre 1944
“Alle ore 9.30 una macchina del Podestà si reca a Gorla a prendere il Prevosto per recarsi in Podesteria. E’ presente anche il Vicario Generale Monsignor Bernareggi. Domenico, in rappresentanza di S. Eminenza. Dopo una lunga discussione si decide di trasportare dagli obitori le salme a scaglioni di 25 per turno in modo che per il mercoledì sera tutte le salme siano sepolte. Intanto continuano i funerali in forma privata delle salme di quelle famiglie che ne hanno ottenuto il permesso. Dalla domenica 22 fino alla domenica 5 novembre nei locali dell’oratorio maschile viene allestita una mensa comunale per la distribuzione dei cibi cotti a tutta la popolazione priva di acqua e luce.”

Liber Chronicus della Parrocchia di S. Teresa del Bambin Gesù. 24 ottobre 1944
“Martedì tra la commozione generale arrivano sopra tre camions con rimorchio addobbati a lutto e con mazzi di fiori del Comune di Milano le prime trenta salme di bambini e di adulti. Vengono collocate in chiesa sopra le panche allineate attorno alle quali si stringono addolorati i parenti delle vittime. Il Prevosto circondato dal Clero inizia la funzione liturgica e ad una ad una benedice le salme. Terminata la cerimonia nel cortile dell’oratorio si ordina il corteo preceduto da un picchetto armato. Il Prevosto accompagnato dal vice Podestà recitando preghiere percorre il tratto di strada da Gorla al cimitero di Greco e benedice le salme mentre scendono nella fossa. E così per tutti i turni, l’ultimo turno è al mercoledì alle ore 14 continuano poi i funerali in forma privata fino al sabato delle ultime estratte dalle macerie. Si da sepoltura a circa 300 vittime.”


Liber Chronicus della Parrocchia di S. Teresa del Bambin Gesù. 26 ottobre 1944

Liber Chronicus della Parrocchia di S. Teresa del Bambin Gesù. 27 ottobre1944
“Alle ore 8 incominciano a giungere corone di fiori mandati dal comune che vengono collocate ai piedi della balaustra. Arrivano le autorità civili. Il Podestà Signor Giuseppe Spinelli ed il vice Podestà Marzetti e Gamba. Il Commissario Federale Sig. Costa. Il Vice Prefetto ed altre autorità. Celebra Monsignor Dotta della Metropolitana rappresenta S. Eminenza Monsignor Giuseppe Pecore. La chiesa è gremita di fedeli che assistono e seguono il rito con profondo raccoglimento e colla viva commozione. Terminata la cerimonia si raccolgono in casa parrocchiale ed il Podestà ed il Federale consegnano al Prevosto lire 10.000 ciascuno per i primi bisognosi sinistrati.”

                                                                                                                                            

martedì 6 ottobre 2020

ITALO BALBO

 

Italo Balbo. La crociera aerea nel Mediterraneo


La crociera aerea nel Mediterraneo del Generale Italo Balbo, Sottosegretario di Stato per l’Aeronautica, fu utile ad ispezionare tutte le base aviatorie e i reparti dipendenti del Regno d’Italia.

I velivoli impiegati furono un Savoia Marchetti S55 e un Marina, idrovolante metallico costruito nei cantieri di Marina di Pisa.La crociera iniziò all’alba del 24 aprile 1927 e terminò nel pomeriggio del 7 maggio. In quei 14 giorni di volo vennero percorsi 7000 km di cielo con un totale di 48 ore di volo.

Italo Balbo visitò le basi di Lero, Rodi e Tobruk. Da qui si spinse, con un velivolo terrestre, fino all’oasi di Giarabub, lontana 400 km ritornando nella stessa giornata. Da qui all’aeroporto di Bengasi, poi Agedabia e Tripoli. Seguì un volo di 500 km per Gadames. Il volo di rientro, da Tripoli su Roma, lungo 1100 km fu compiuto in una sola tappa in 6 ore.

Bengasi. L’idrovolante S55 di Italo Balbo durante il decollo

“L’on. Balbo riportò dal volo delle impressioni di viva soddisfazione per la valentia e lo Spirito elevatissimo dei nostri aviatori, per l’entusiasmo fascista delle popolazioni italiane e la devozione delle popolazioni indigene, e infine per aver avuto la riprova che la perfezione dei velivoli e dei motori italiani, la sufficienza delle basi e relativi impianti a terra, permetteranno fra breve altre regolari comunicazioni aeree pacifiche fra la penisola ed i paesi levantini ed africani, e in caso di necessità bellica renderebbero agevole la sorveglianza e il dominio su tutto il Mediterraneo centro orientale” (1)

Le tappe della crociera aerea

NOTA 1: La crociera aerea nel Mediterraneo, pag. 94 de L’Italia Coloniale, maggio 1927

                                                                                                                                                                             

giovedì 1 ottobre 2020

I FRATELLI GOVONI

 

LO STATO ITALIANO, DOPO LUNGHE ESITAZIONI, CONCESSE AI GENITORI DEI SETTE FRATELLI GOVONI, UNA PENSIONE DI SETTEMILA LIRE AL MESE, PARI A MILLE LIRE PER OGNI FIGLIO AMMAZZATO!!


COME FURONO RITROVATI I CORPI DEI SETTE FRATELLI GOVONI

Oltre il silenzio ... 
per non dimenticare, mai !
" E' destino che gli uomini di coraggio
siano uccisi dai vili.
Quando godete della libertà
che i coraggiosi vi hanno regalato,
pensate a coloro che sono passati
come passa una carezza nel vento"







Le pagine dei libri di storia della resistenza sono piene dei fatti relativi ai fratelli Cervi; ogni anno, in occasione delle date storiche i giornali pubblicano articoli su articoli che fanno rivivere quel tragico avvenimento, rinfrescando la memoria degli italiani che, in genere, sono "facili a dimenticare", e per riproporre, con la solita monotona formula le aberranti "atrocità nazifasciste".

La casa dei fratelli Cervi, in quel di Campegine, trasformata in "museo della resistenza", il pellegrinaggio continuo di cittadini e di scolaresche colà convogliate dalle organizzazioni di partito predisposte, l'onore della visita di capi di stato, innumerevoli volumi pubblicati sulla vicenda, sono testimonianze che, come ha scritto l'ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, dimostrano come:

"nella storia dei Cervi si possa diventare antifascisti partendo dai valori più elementari ed essenziali: l'amore per l'uomo, il culto della famiglia, la passione per il lavoro dei campi."

In questa terra padana, altri sette fratelli contadini questi valori elementari li conoscevano nello stesso identico modo, anche loro avevano il culto della famiglia, la grande passione per il lavoro e sapevano amare gli uomini ma, purtroppo, erano schierati dalla parte opposta, erano dei "fascisti", di conseguenza i pennivendoli del regime non hanno mai scritto, né mai scriveranno alcuna riga a ricordo di sette contadini che, stranamente secondo certe teorie addomesticate, vestivano in "camicia nera".

I Govoni vivevano a non molti chilometri di distanza da Campegine e precisamente a Pieve di Cento, in Provincia di Bologna ai confini con le Provincie di Modena e Ferrara, paese immerso nella medesima grande campagna; sono stati barbaramente uccisi a guerra ultimata solamente perché due di loro avevano aderito alla R.S.I..

Di conseguenza, in questo paese, non sono stati eretti monumenti o musei, né per loro sono stati scritti ponderosi libri apologetici, qui, probabilmente la terra che lavoravano aveva un "humus" diverso dal reggiano, poiché né folle di cittadini, né scolaresche "intruppate", né Capi di Stato vengono convogliati a visitare questi luoghi di martirio, nessun segnale turistico indica "casa Govoni" e nemmeno sulla casa di campagna è stata posta una scritta che dice "su questa terra, in questa casa i sette fratelli Govoni vissero il senso della loro vita, su quest'aia vennero presi e portati a morte".

Forse lo stesso papa' Govoni era tanto diverso nella sua dimensione di padre mutilato delle sue sette creature, da vedersi rifiutato, in morte, un necrologio in commemorazione del secondo anniversario della sua scomparsa.

Evidentemente tanto scomodo è questo ricordo alla Repubblica Italiana, nata dalla "resistenza".

E' forse stato meno coraggioso dell'altro disgraziato padre, nel portare avanti la sua esistenza con coraggio e con tenacia sino alla fine dei suoi giorni, senza riconoscimenti, o medaglie al valore, chiuso nel suo grande dolore?

11 Maggio 1945. La guerra è da poco finita, in una casa colonica tra Pieve di Cento ed Argelato vengono uccise, dopo orribili sevizie, 17 persone, tra queste, i sette fratelli Govoni. Come detto in questa località viveva una famiglia di contadini composta dal padre, Cesare Govoni, dalla madre, Caterina Gamberini e dai loro otto figli: il primogenito. Dino aveva 41 anni, sposato, due figli, artigiano falegname, era iscritto al Partito Fascista Repubblicano; il secondo, Marino, aveva 33 anni e anche lui aveva aderito alla RSI, nessuna accusa era mai stata portata nei loro confronti, terzogenita, Maria, che fu l'unica a salvarsi poiché, sposata si era trasferita ad Argelato con il marito e i partigiani non riuscirono a trovarla; seguivano: Emo, trentadue anni, viveva con i genitori e non si interessava di politica, così come Giuseppe, 30 anni sposato, anche lui faceva il contadino ed aveva un figlio di tre mesi, poi vi erano: Augusto, di 27 anni e Primo di 22 anni, celibi, lavoravano la terra con i genitori ed anche loro non si erano mai interessati di politica; l'ultimogenita si chiamava Ida, venti anni, appena sposata e madre di un bambino di due mesi, anche lei come il marito mai avevano svolto politica attiva.

I dati e le circostanze riportate, scaturirono dalla sentenza con la quale l'8 Febbraio 1953, la Corte d'Assise di Bologna, condannò gli autori di quei massacri.

La strage dell' 11 Maggio 1945, venne preceduta da altri orrendi delitti individuali e di massa compiuti da una "banda" di partigiani che scorrazzava nella zona, con piena licenza di uccidere i fascisti.

Difatti, qualche giorno prima, molte altre persone vennero prelevate dalle loro case e portate in un isolato casolare di Voltareno di Argelato. Uno dei protagonisti, che era sfuggito alla cattura ed al massacro, vide parecchie cose e dopo un periodo di omertà forzata, parlò, provocando in quel modo l'intervento delle autorità.

La sera del 9 Maggio vennero eliminate, dopo innumerevoli sevizie, dodici persone; si trattava della Professoressa Laura Emiliani di S. Pietro in Casale, dell'ex Podestà di San Pietro, Sisto Costa con la moglie Adelaide ed il figlio Vincenzo e dei cittadini di Pieve di Cento: Enrico Cavallini, Giuseppe Alberghetti, Dino Bonazzi, Guido Tartari, Ferdinando Melloni, Otello Moroni, Vanes Maccaferri e Augusto Zoccarato.

Il giorno seguente iniziò l'operazione di prelievo dei fratelli Govoni; il luogo del carcere e poi del supplizio fu una casa colonica di un contadino che, avendo avuto un figlio ucciso dai fascisti, doveva tenere la bocca chiusa per quello che sarebbe successo. Il primo ad essere prelevato fu Marino:

"In realtà i partigiani contavano di arrestare, quella sera, tutti i fratelli Govoni. In casa, però trovarono solo Marino, il terzogenito. Gli altri, fatta eccezione per le due figlie che abitavano ormai altrove, erano tutti in giro per il paese. I più giovani si erano recati a ballare. I Govoni, infatti, non sospettavano lontanamente di essere già tutti in "lista". Nei giorni successivi all'arrivo delle truppe angloamericane erano stati convocati dal comando partigiano, interrogati e quindi rilasciati perchè a carico loro, non era emersa alcuna accusa. Il mancato prelevamento degli altri fratelli indusse i partigiani ad accelerare i tempi dell'azione nel timore di vedersi sfuggire le prede dalle mani.

Riuscirono così, nella notte, a raccogliere tutti gli altri fratelli compresa la giovane Ida, che implorava di non staccarla dalla bambina che doveva allattare, anzi presero anche il marito che poi venne scaricato dal camion che li trasportava, cammin facendo.

Vennero portati tutti in un grande camerone adibito a magazzino e subito:

"su di loro cominciò a sfogarsi la ferocia dei partigiani"

Alla mattina successiva, altre 10 persone di San Giorgio in Piano furono condotte in quella prigione per condividere la sorte dei fratelli Govoni; erano andati tranquilli, poiché i partigiani avevano detto loro che si trattava di "comunicazioni" che li riguardavano, presso la caserma dei carabinieri, erano: Alberto Bonora, Cesarino Bonora e Ivo Bonora di 19 anni, nonno, figlio e nipote; Guido Pancaldi, Alberto Bonvicini, Giovanni Caliceti, Vinicio Testoni, Ugo Bonora, Guido Mattioli e Giacomo Malaguti. Tutte persone rispettate in paese per la loro onestà, ma con un difetto, erano anticomunisti. L'ultimo, anzi, aveva combattuto contro i tedeschi con l'esercito del Sud, ed era appena rientrato al paese.

Erano le ultime ore per i diciassette rinchiusi nel casolare di campagna e i registi di quel drammatico dramma di sangue si incaricarono di far confluire sul posto un buon gruppo di "comparse", della loro stessa specie, per compiere collettivamente un rituale sanguinario degno delle più orripilanti celebrazioni sataniche.

"Si era sparsa, frattanto, tra i partigiani della 2° brigata Paolo e delle altre formazioni, la voce che stava per incominciare un "bella festa" nel podere di Emilio Grazia. Dapprima alla spicciolata, poi sempre più numerosi, i comunisti cominciarono a giungere alla casa colonica dove erano già prigionieri i sette Govoni. Non è possibile descrivere l'orrendo calvario degli sventurati fratelli. Tutti volevano vederli e, quel che è peggio, tutti volevano picchiarli: per ore e ore nello stanzone in cui i sette erano stati rinchiusi si svolse una bestiale sarabanda tra urla inumane, grida, imprecazioni. L'indagine condotta dalla Magistratura ha potuto aprire solo uno spiraglio sulla spaventosa verità di quelle ore. La ferrea legge dell'omertà instaurata dai comunisti nelle loro bande ha impedito che si potessero conoscere i nomi di quasi tutti coloro, e che furono decine, che quel pomeriggio seviziarono i sette fratelli Govoni.)

Vi fu poi, una specie di interrogatorio, a base di maltrattamenti e sevizie, così dice la sentenza del vero tribunale. Nessuna delle vittime morì per colpi di arma da fuoco e quando molti anni dopo furono scoperti i corpi si accertò che quasi tutte le ossa degli uccisi presentavano fratture e incrinature. Le urla strazianti degli sventurati risuonarono per molte ore. Alle ore 23 del 11 Maggio tutto era finito. Poi ci fu, tra gli assassini, la spartizione degli oggetti d'oro delle vittime, mentre gli oggetti di scarso o di nessun valore furono buttati in un pozzo dove vennero rinvenuti mentre si svolgeva l'indagine istruttoria. I corpi delle diciassette vittime furono sepolti subito dopo in una fossa anticarro, non molto distante dalla casa colonica.

Negli anni successivi silenzio assoluto. I genitori dei Govoni fecero una ricerca lunghissima e dolorosissima senza approdare a nulla. Nessuno parlava, tutti, in quelle zone vivevano nel terrore. La vecchia madre venne anche picchiata. Poi lentamente, si mosse la macchina della giustizia. Ma molti tra gli indiziati riuscirono ad espatriare con l'aiuto dell'organizzazione predisposta dal Partito Comunista, gli altri, pur essendo stati riconosciuti responsabili di quegli eccidi, di fronte alla giustizia che applicava le norme della amnistia Togliatti, furono sottoposti a giudizio esclusivamente per l'uccisione del militare che aveva combattuto con l'esercito del Sud e condannati; ma in seguito , il ricorso in Cassazione, le amnistie e i condoni giudiziari, rimisero in breve tempo, tutti i responsabili, in libertà. Ai due genitori, lo Stato Italiano, dopo molte perplessità, concesse una pensione di settemila lire:"mille lire per ogni figlio assassinato”




LA FOSSA COMUNE NELLA QUALE, DOPO OLTRE CINQUE ANNI DALLA STRAGE, IL 24 FEBBRAIO 1951, VENNERO RINVENUTI I CORPI DEI SETTE FRATELLI ASSASSINATI E DI ALTRI DIECI CITTADINI UCCISI CON LORO


I FUNERALI DEI SETTE FRATELLI GOVONI CELEBRATI 
A CENTO (FERRARA) IL 28 FEBBRAIO 1951





A TUTTI I CADUTI DELLA R.S.I.







I maggiori responsabili furono riconosciuti negli ex partigiani comunisti  Marcello Zanetti "Marco", comandante della "Paolo"; Luigi Borghi, "Ultimo", comandante della polizia partigiana; Vittorio Caffeo "Drago", commissario politico; Delmo Benini "Gino e Vitaliano Bertuzzi "Zampo". Lo Zanetti non giunse al processo: il destino lo volle ucciso nel novembre successivo in un incidente stradale ordito per ammazzare un rivale. Gli altri furono condannati all'ergastolo, ma non fecero un giorno di carcere perché il PCI li aveva fatti espatriare in Cecoslovacchia, ove rimasero fino all'ennesima amnistia degli anni '60. Risiedevano tutti a Bologna e il partito li aveva fatti assumere all'ATC, la municipalizzata dei trasporti, fino alla pensione.


Vittorio Caffeo, il "Drago". Condannato all'ergastolo, amnistiato, vigliaccamente fuggito in Cecoslovacchia per eludere la giustizia. Rientrato negli anni 60, l'Anpi lo eleva a eroe . Ha seviziato, torturato, massacrato , fra gli altri, Ida Govoni