lunedì 26 aprile 2021

RICONOSCIMENTI E MERITI DELLA DECIMA MAS


 
RICONOSCIMENTI E MERITI DELLA DECIMA MAS                 


DALL’OTTOBRE 1944 ALLA FINE DELLA GUERRA
Sole De Felice (dal libro "La Decima Flottiglia MAS e la Venezia Giulia, 1943-1945)
Per gentile concessione delle Edizioni Settimo Sigillo Via Sebastiano Veniero 74/76 00192 Roma
Tel. 06/39722155 - Fax 06/39722166
184 Pagine – L. 30.000
Trascritto dal cyberamanuense Taddei
 
 

1. Ad est

Dopo lo sbarco nel Sud della Francia (15 agosto 1944), le armate italo-tedesche costituirono il "fronte occidentale" per proteggere il fianco destro delle forze impegnate sulla Linea Gotica.

La situazione militare generale andava sempre più peggiorando ed i Comandi superiori italiani e germanici erano indecisi nello scegliere dove organizzare l’ultima resistenza tra le tre zone più importanti sul piano militare del Nord Italia, vale a dire le regioni occidentali a nord di Como, i passi centrali alpini che portavano al Tirolo e la frontiera orientale italiana verso l’Europa centrale e i Balcani. La scelta implicava conseguenze politiche fondamentali (1).

Il 12 ottobre 1944, Borghese convocò a Milano un consiglio di guerra con tutti i comandanti della Decima, con lo scopo di decidere come affrontare l’imminente crollo militare. Si arrivò alle seguenti conclusioni, che vale la pena di riportare per intero così come sono state elaborate dallo stesso Borghese:

1. L’ideale della X Flottiglia Mas, di difendere l’onore delle armi italiane, non deve spegnersi, ma, all’infuori di qualsiasi partito politico, regime od occupazione militare, deve sopravvivere quale insegnamento al popolo italiano: la Patria non si discute né si rinnega, per essa si combatte e si muore.

2. La Decima deve affrontare la sfavorevole situazione militare stringendo le fila e scagliandosi nella battaglia.

3. A questo scopo debbono essere eliminate o ridotte quelle organizzazioni della X Mas che non hanno un’immediata utilità bellica.

4. Reparti Navali. Costituzione di due gruppi di combattimento, uno tirrenico e uno adriatico. Continuare l’attività bellica con i mezzi d’assalto e con quelli insidiosi. Disposizione di massima: in caso di crollo del fronte, i reparti imbarcati non devono né arrendersi né distruggere le unità in porto, ma uscire in mare e ingaggiare col nemico l’ultimo combattimento. Questo è l’ordine che corrisponde allo spirito della X Flottiglia Mas.

5. Fanteria di marina. Riunione di tutti i battaglioni ancora autonomi ("Sciré", "Castagnacci", "NP") alla divisione "X".

6. Divisione "X". Considerato che la zona d’Italia più minacciata è quella del fronte Est, perché l’italianità di Roma, Firenze, Milano, Torino, Venezia ecc. non sarà mai messa in discussione, ma quella di Trieste, Pola, Fiume, Zara, certamente sì, e perché le truppe di Tito nella loro avanzata compiranno ancora degli scempi contro gli italiani colpevoli d’essere italiani, la divisione "X", rinforzata di tutti i complementi possibili, sarà inviata in Venezia Giulia dove si terrà pronta, in caso del crollo militare e conseguente ritirata delle forze germaniche, a difendere quelle popolazioni e quelle terre italiane contro gli slavi di Tito. All’arrivo degli anglo-americani, gli uomini della Decima deporranno le armi essendo assurdo combattere da soli contro nemici di fronte e nemici alle spalle.

7. Pur salvando il principio della lealtà verso il nostro alleato avremmo dovuto svincolare la nostra azione da quella tedesca ogni qualvolta gli interessi italiani (gli unici per i quali combattevamo) fossero stati in contrasto con quelli germanici. Al Comandante della X Mas era devoluta l’azione diplomatica necessaria a questo fine (2).

Questo programma fu sottoscritto da tutti gli ufficiali presenti al consiglio di guerra. La priorità assoluta diveniva dunque quella della difesa della Venezia Giulia, naturale conseguenza del "radicale nazionalismo" di Borghese, che quindi "fino all’ultimo cercò di spostare la X Mas a est per far fronte a Tito fino a quando non fossero arrivati gli anglo-americani" (3).

L’annuncio dell’armistizio e il crollo delle forze armate italiane avevano avuto in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, delle conseguenze particolarmente drammatiche. Le formazioni partigiane, approfittando della situazione di caos, cercarono di assumere il controllo del maggior numero possibile di località, dilagando in particolar modo in Istria. Ad Albona, Pisino, Parenzo, Rovigno, Gimino e in numerosi altri centri, soprattutto nell’entroterra, si consumarono violente persecuzioni contro l’elemento italiano. Solo le città immediatamente occupate dai tedeschi furono risparmiate: il 9 settembre Trieste fu raggiunta dalle truppe del colonnello Barnbeck ed il giorno seguente il generale Alberto Ferrero, comandante del XXIII Corpo d’Armata (alla cui giurisdizione era affidata l’Istria e il territorio di Trieste), lasciò la città dove, al comando del presidio, rimaneva, unico ufficiale superiore, il generale Giovanni Esposito (4); a Fiume il generale Gastone Gambara, comandante del XI Corpo d’Armata di Lubiana, arrivato in città da Roma la sera dell’8 settembre, dopo aver cercato di allestire una qualche difesa contro le truppe titine, consegnò la città ai tedeschi il 14 settembre; Pola venne occupata dalle truppe germaniche 1’11 settembre; Gorizia il 12 settembre (5). Mentre i tedeschi consolidavano il controllo di queste città, l’Istria restò in mano ai partigiani per poco meno di un mese, ed è in questo periodo che si registrarono una serie di processi informali da parte di improvvisati tribunali popolari, confische di beni, rappresaglie, violenze carnali, e soprattutto uccisioni di massa, molte delle quali avvennero legando i condannati a due a due con del filo di ferro e gettandoli, spesso sparando a uno solo dei due, nelle profonde cavità del sottosuolo carsico, le tristemente note foibe.

A parte gli isolati casi di vendette personali, si eseguì un preciso disegno di pulizia etnica, colpendo soprattutto coloro i quali erano stati fino allora i punti di riferimento della popolazione italiana: funzionari governativi, militari, sacerdoti, insegnanti (6). Il centro insurrezionale era Pisino, dichiarata da Tito città capoluogo dell’Istria. Qui il 12 e il 13 settembre 1943 i delegati del Partito comunista croato stabilirono che l’Istria doveva far parte della Croazia in una Jugoslavia libera e democratica, primo passo verso l’annessione di tutta la Venezia Giulia, ovvero la cosiddetta "Slovenia Veneta". Come prima conseguenza di tali decisioni, successivamente avallate dall’A.V.N.O.J., si ebbe il passaggio di tutto il movimento partigiano dell’Istria sotto il controllo del Partito Comunista Croato e del Movimento Popolare di Liberazione Croato (7). Negli stessi giorni Ante Pavelic, capo degli ultranazionalisti croati ustascia, rivendicava l’intera Croazia e la costa adriatica dalmata.

Ai primi di ottobre del 1943 i tedeschi terminarono la loro sistematica opera di rastrellamento, ottenendo il controllo della zona. Il 15 ottobre venne proclamata la costituzione del "Supremo Commissariato per il Litorale Adriatico" che, come si è detto, comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, inclusi i territori di Lubiana, Susak, Buccari e Veglia. Il Gauleiter Rainer vi assunse il potere politico, civile, militare e giudiziario (8). Ad una provvisoria amministrazione militare subentrava un’amministrazione più propriamente politica: nei piani di Rainer la contingenza militare era accompagnata da una forte aspirazione di "austriacizzazione" del territorio. Il ritorno nel Litorale Adriatico di funzionari austriaci (lo stesso Rainer e il suo vicecommissario Wolsegger), l’utilizzazione dell’antica denominazione di Adriatisches Kustenland che l’Austria aveva dato alla regione già nel 1815 dopo la restaurazione post-napoleonica; tutta una serie di misure repressive anti-italiane insieme ad una politica di "rievocazioni nostalgiche della belle epoque asburgica" (9); l’insediamento degli uffici governativi nel Palazzo di Giustizia di Trieste; ed infine una politica panslavista (ad esempio l’introduzione della lingua slava negli uffici) che per certi versi riprendeva la politica austriaca del "divide et impera", non furono altro che espressioni della politica del "doppio binario" seguita dai tedeschi. Questa risulta chiara da una relazione inviata a Mussolini nel maggio del 1944 nella quale si legge che Hitler intendeva arrivare "al tavolo della pace, in caso di vittoria della Germania, in una situazione tale da poter rivendicare dei diritti sui territori italiani" e, in caso di sconfitta, "avere già una organizzazione politico-militare nella Venezia Giulia tale da imporre o l’incorporazione di quelle regioni nella ricostituita Austria o quantomeno ottenere una completa autonomia di esse" (10).

La Repubblica Sociale Italiana era ufficialmente estromessa dalla zona di operazioni, ma in realtà poté mandarvi e mantenervi truppe, come poté arruolarvi dei volontari, anche se naturalmente sotto il comando operativo tedesco. Il loro grande svantaggio era di non avere un vero centro coordinatore. Vi operarono soprattutto tre battaglioni del reggimento alpini "Tagliamento", il battaglione "Mussolini" dell’8° bersaglieri di Verona, il XIV, il XVI e il XVII battaglioni di Difesa costiera, il battaglione "San Giusto", tutti per lo più adibiti alla difesa dei centri abitati, strade, ferrovie e ponti. Il "Mussolini" rimase a Gorizia fino alla resa (30 aprile 1945) e contò tra le sue fila un numero molto alto di perdite (11). Nel marzo del 1944, per volontà dei tedeschi, in Venezia Giulia la G.N.R. venne denominata "Milizia Difesa Territoriale" (M.D.T.) dando vita a cinque reggimenti (1° San Giusto, 2° Istria, 3° Gabriele D’Annunzio, 4° Isonzo e 5° Tagliamento) con compiti di difesa del territorio italiano e, insieme con l’Arma dei Carabinieri, di tutela dell’ordine interno (12). L’azione della X Mas in questa zona fu coordinata con il 2° Reggimento della M.D.T., comandato da Libero Sauro e con sede a Pola. Nel complesso le forze della R.S.I. presenti nel "Litorale Adriatico" superarono probabilmente i 15.000 uomini (13).

In questo quadro s’inserisce una lotta partigiana al cui interno vi erano antagonismi di notevole importanza. Tra le maggiori formazioni partigiane vi era infatti la divisione "Garibaldi", sorta dal disfacimento dell’Esercito italiano, di tendenza comunista. A partire dall’autunno 1944 gli accordi di assistenza e talvolta di integrazione, da tempo esistenti tra le Brigate Garibaldi e i reparti del IX Korpus dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo cedettero il passo ad un sempre più deciso assorbimento delle prime nel secondo. Per il loro impiego militare e per ogni altro aspetto esse dipenderanno dal Comando titino; il quale non a caso tenderà a ritirarle dalle zone mistilingue per concentrarle in Slovenia (14). Vi era inoltre la brigata d’ispirazione cattolica "Osoppo", sorta da un preesistente reparto di alpini, che, oltre a combattere i "nazi-fascisti", si proponeva di difendere il territorio nazionale dalle mire di Tito e che di conseguenza assunse un atteggiamento anti-slavo. I suoi componenti si dichiaravano "antifascisti, antitedeschi ed antibolscevichi" (15). La decisione presa dal Pci di appoggiare le rivendicazioni titine nei confronti dell’Istria e della Venezia Giulia, Trieste inclusa (16), che nel corso del 1944 portò i rappresentanti del Pci ad abbandonare sia il Cln di Trieste sia quello della Venezia Giulia, produsse una tensione fortissima con la Resistenza non comunista locale e soprattutto con la Brigata "Osoppo", che ebbe un drammatico epilogo con l’eccidio, il 7 febbraio 1945, di "Malga Porzus" (l7).

Il 31 ottobre 1944 i partigiani titini occuparono Zara. La città dalmata aveva subito, dopo l’occupazione tedesca successiva all’8 settembre 1943, ben 54 bombardamenti alleati che l’avevano rasa praticamente al suolo e che causarono circa 4.000 vittime.

Ai superstiti non rimase altra scelta che l’esodo. La sua importanza strategica era quasi nulla, ma Tito convinse gli Alleati del fatto che Zara fosse un centro logistico di primaria importanza per i tedeschi, anche se ciò non corrispondeva affatto alla realtà (l8).

Il sottotenente di vascello della X Mas Ezzo Chicca, comandante del battaglione "San Giusto" di Trieste, in una sua relazione ben sintetizza la situazione militare della Venezia Giulia: "si può dire che nel Litorale esiste oggi un Comando Germanico, una forza che preme sempre di più, ed una forza italiana che sente la pressione che le viene dall’oriente, la teme, ma non ha l’energia di difendersi e di imporsi" (l9).

Presa la decisione di inviare la divisione X in Venezia Giulia, il 26 ottobre 1944 Borghese incontrò Mussolini, il quale, oltre ad appoggiarlo completamente, gli consigliò di attuare una tattica a "macchia d’olio", vale a dire penetrare nella Venezia Giulia con un’azione lenta, non clamorosa, in modo che i tedeschi non si rendessero conto esattamente delle forze chiamate in causa (20). Dopo successivi incontri con Rahn e con Wolff, la divisione X lasciò a scaglioni il Piemonte per trasferirsi nel Veneto Orientale: il comando generale si stabilì a Conegliano, quello operativo a Maniago; il "Barbarigo" (tenente di vascello Cencetti), ricostituito e rinforzato, arrivò i primi di novembre a Vittorio Veneto; il battaglione "NP" si stanziò a Valdobbiadene e Vidor; il "Fulmine" (tenente di vascello Orrù) a Conegliano; il "Sagittario" (tenente di vascello Franchi) a Pieve e Farra di Soligo; i guastatori alpini del "Valanga" (capitano Morelli), rinforzati da una compagnia proveniente dal battaglione "Serenissima", a Vittorio Veneto; quindi arrivarono gli artiglieri del gruppo "Colleoni", quelli del "Lupo", e via via gli altri reparti.

Le prime operazioni compiute in questa zona ebbero un carattere di lotta antipartigiana. Infatti i partigiani della Carnia, appartenenti essenzialmente alla "Garibaldi" e alla "Osoppo", controllavano un’ampia zona che andava dalla Val Cellina alle Valli della Meduna. I battaglioni "Valanga" e "Fulmine" furono trasferiti a Meduno e da lì attuarono numerose operazioni di polizia, fiancheggiati da reparti tedeschi (22). In una di queste azioni, che scompaginarono la presenza partigiana nella zona, il "Valanga" catturò, il 14 dicembre 1944, Cino Boccazzi (detto Piave), un ufficiale medico della divisione paracadutisti "Nembo" che in quel periodo faceva parte di una missione inglese presso i partigiani della Carnia capeggiata dall’ufficiale del genio Thomas John Roworth, chiamato maggiore "Nicholson" (23). Date le caratteristiche della brigata "Osoppo" a cui si è precedentemente accennato, Borghese volle sondare la possibilità di "portare dalla nostra parte tutte quelle forze partigiane che ancora manifestavano sentimenti di italianità e si dimostravano refrattarie a false suggestioni di ordine ideologico" (24). Prima della cattura di Boccazzi la giovane insegnante Maria Pasquinelli aveva riferito a Borghese che la "Osoppo" era disposta ad incontrarsi con lui per discutere della difesa dell’italianità della regione (25). Inoltre, in una precedente azione, il "Valanga" aveva bloccato un piccolo aereo pronto a decollare per il Sud, nel quale erano stati trovati dei documenti che illustravano la gravità della situazione in Venezia Giulia, firmati colonnello Scarpa.

Erano tentativi che non si esaurivano nei fatti contingenti, ma che si proiettavano nello scenario dell’immediato dopoguerra, in vista del crollo tedesco e delle pressanti mire annessionistiche slave. Fu quindi nella prospettiva di coordinare un’azione comune in funzione antislava, che nacquero le trattative tra Borghese e la "Osoppo", il cui tramite fu appunto Boccazzi. Dopo vari giorni di prigionia, egli fu lasciato libero sulla parola per dieci giorni, nei quali si incontrò a Udine con il suo superiore "Nicholson" che per radio trasmise agli inglesi le notizie dei contatti e delle proposte.

La risposta dal Sud fu, così come la riporta Boccazzi, la seguente: Quale immediata prova di buona volontà da parte nemica si esige il passaggio delle formazioni fasciste in montagna per unirsi con i partigiani, cessazione quindi di ogni attività di rastrellarnento e di sevizie sui prigionieri. Alternativa: spostamento delle truppe al fronte con totale abbandono delle attività repressive sulla popolazione e sulla resistenza26.

Secondo Boccazzi, Borghese reagì a queste disposizioni in modo ambiguo, affermando di non poter far niente "finché l’ultimo tedesco non ripasserà il Brennero. Allora solo potremo trattare su questi punti" (27). Per Guido Bonvicini la questione viene però posta da Boccazzi in modo troppo semplicistico, in quanto agire secondo i termini della proposta inglese sarebbe stato per la Decima praticamente impossibile, basti pensare alla difficoltà di spostare tutti i reparti della Decima senza che i tedeschi si insospettissero. Sempre secondo Bonvicini la realtà delle trattative sarebbe stata invece molto più complessa. I contatti infatti non rimasero circoscritti all’intervento di Boccazzi presso la missione inglese ma si estesero anche agli stessi capi della "Osoppo" (28). Il 1° gennaio 1945 il tenente "Piave" fece da intermediario tra il capitano della X Manlio Morelli e il comandante del Raggruppamento delle Divisioni "Osoppo-Friuli" Candido Grassi, nome in codice "Verdi". Quest’ultimo propose la formazione di un gruppo al comando di un ufficiale della Decima, che avrebbe fornito le armi, mentre il vicecomandante sarebbe stato un osovano, allo scopo di impedire qualsiasi ingerenza straniera sul territorio italiano (29). Sergio Nesi afferma che ebbe personalmente ordine da Borghese di fornire armi e vestiario alla "Osoppo", se gli fosse stato richiesto (30). Allo stesso tempo il maggiore "Nicholson" spediva un lungo rapporto sulle posizioni della "Decima" riportato integralmente da Ricciotti Lazzero, dove tra l’altro si afferma: La formazione non è filo-tedesca o fascista, ma crede in un forte Stato nazionale e combatte solo per arrivare a questo obiettivo. Ogni futura attività contro i partigiani italiani patriottici verrebbe cessata e da parte dei capi della X Flottiglia Mas verrebbe fatto uno sforzo per unirsi ai patrioti ed aiutarli contro le distruzioni da parte tedesca delle proprietà italiane e per salvaguardare il territorio italiano. Ogni sforzo verrebbe fatto per distruggere gli attentati totalitari al governo italiano da parte di forze comuniste, siano esse italiane o slovene… La X Flottiglia Mas ha proposto di inviare due rappresentanti assieme a "Verdi" e a me al Quartier Generale alleato, per mezzo di una MTB, per discutere le possibilità di un’azione congiunta. Su mia disposizione nessun atto di conciliazione fra le formazioni "Osoppo" e la X Flottiglia Mas è stato sviluppato, ma tutta la materia è stata posta all’esame del quartier Generale alleato (31).

Inoltre il maggiore "Nicholson", per evitare che gli angloamericani si arroccassero su posizioni improponibili per la X Mas, inviò anche una serie di messaggi via radio al Quartier Generale della VIII Armata. Il 27 gennaio 1945:

Sono in contatto con il principe Borghese, comandante della X Mas, che sembra pronto a rivoltarsi contro i tedeschi… Assicura di non essere né un fascista né filotedesco, ma patriota, e non vuole inviare le sue truppe contro i partigiani.

Il 6 febbraio 1945:

Willie (cioè Borghese) formula precise promesse alla "Osoppo" di fornire le armi agli ex partigiani che dovessero entrare nella sua formazione. Intermediario è Piave, che comprendo e stimo. Borghese domanda colloqui diretti con me, giacché la "Osoppo" non fa niente senza il mio assenso, e in ogni caso desidera far proposte dirette agli Alleati. Il mio parere è di aprire colloqui preliminari a Roma, visto che non abbiamo nulla da perdere.

Il 10 febbraio 1945, intuendo che ormai l’Est sta crollando e che l’avanzata di Tito sarà molto più rapida del previsto:

... i ragazzi di Willie hanno già proposto azione congiunta anti-slovena con "Osoppo" e attualmente hanno preparato una linea di resistenza fortificata contro possibili attacchi sloveni. Inoltre tutti ben disciplinati possono assorbire "Osoppo" in una buona formazione militare (32).

Ma visto che tutti i tentativi di accordo finirono in un nulla di fatto, è facile intuire che al maggiore "Nicholson" non arrivarono da parte alleata direttive per procedere in tal senso. Per Borghese questo avvenne "per colpa degli inglesi che, da parte loro, paventavano collusioni di carattere patriottico tra italiani, dato che era molto più facile mettere in ginocchio un’Italia divisa che un’Italia unita" (33).

Intanto a Valdobbiadene accadeva un fatto di estrema gravità. Qui vi erano accasermati gli "NP", addestrati per le azioni di sabotaggio, tra i quali da tempo serpeggiava del malcontento a causa della prolungata inattività, interrotta solo da qualche azione di polizia nei confronti delle bande partigiane. Essi desideravano, se proprio non era possibile impiegarli in azioni al di là delle linee, almeno andare a combattere al fronte. Quando alla fine del dicembre 1944 giunse la notizia che il reparto doveva procedere ad altre azioni antipartigiane, questa volta nei dintorni di Gorizia, la tensione salì di colpo. Non si comprese infatti che si trattava di azioni di guerra contro il IX Korpus sloveno. Gli ufficiali redassero una relazione che fu mandata direttamente a Borghese, il quale fece sapere che dopo l’operazione, definita "indispensabile", di Selva di Tarnova, il battaglione sarebbe partito per il fronte del Senio. Tutti accolsero la promessa con sollievo. Il vicecomandante Vercesi, poiché due sole compagnie dovevano trasferirsi nel Goriziano, cercò di creare emulazione fra le altre compagnie, invitandole ad offrirsi tutte volontarie per la partenza. La 5a compagnia, sempre nella convinzione che si volesse loro imporre un rastrellamento antipartigiano, fece sapere che non solo non si offriva volontaria, ma che non sarebbe partita neanche su ordine specifico. Il comandante Nino Buttazzoni convocò allora un’assemblea nel cortile della caserma durante la quale il marò Giannola uscì dalle file per spiegare impetuosamente il loro stato d’animo. Buttazzoni tentò di farlo tacere ma non ci riuscì, quindi estrasse la pistola ammonendolo che il suo era considerato un atto d’insubordinazione, ma Giannola continuò a parlare. Partì un colpo che gli attraversò lateralmente la guancia destra uscendo sotto l’orecchio. Il grave episodio ebbe come conseguenza il rinvio al consiglio di disciplina degli uomini coinvolti, che furono posti agli arresti nel castello di Conegliano, anche se a causa dei frequenti bombardamenti sulla zona, potevano tranquillamente girare per la cittadina. Il 12 gennaio 1945 il Tribunale di Guerra giudicò i 42 elementi accusati di ammutinamento: la maggioranza fu assolta, alcuni ebbero una lieve condanna, previa rimozione dal grado, ma con il beneficio della sospensione condizionale, mentre altri furono trasferiti al battaglione "Lupo", che in quel periodo si trovava sul fronte in Romagna (34).

Il "Lupo" infatti, comandato dal capitano di corvetta De Martino, dopo essere stato impiegato nelle operazioni di controguerriglia nel Monferrato e nella repubblica partigiana di Alba, era stato aggregato, su richiesta del Comando germanico, alla 16° divisione granatieri corazzata Reichsfiihrer delle Waffen-SS. Dal 12 al 23 dicembre l’unità (25 ufficiali, 65 sottufficiali, 10 ausiliarie, 600 marò) si posizionò tra le Valli del Reno e del Setta, di fronte alla 34a divisione americana; poi fu trasferita sul fronte del Senio, dove fronteggiò una Brigata canadese. Anche qui, come negli altri settori della Linea Gotica, il rigido invemo obbligò entrambi i contendenti ad una dura guerra di posizione, resa ancor più grave, in pianura, dalla nebbia stagnante degli acquitrini. Borghese trascorse la vigilia ed il Natale del 1944 con il "Lupo". Questo fu avvicendato il 26 febbraio 1945, dopo che i suoi effettivi si erano ridotti a 200 uomini (35).

Il 18 dicembre 1944, la divisione X si spostò a Gorizia, nel vero e proprio territorio dell’Adriatisches Kustenland, stanziando i suoi reparti in città e nei dintorni, particolarmente a Salcano. Vi pervennero i battaglioni "Sagittario", "Fulmine", "Barbarigo", "NP", "Freccia", i gruppi d’artiglieria "San Giorgio" e "Alberto da Giussano". Mancavano il "Lupo", che come si è detto era sulla Linea Gotica, il "Valanga" e il "Colleoni", rimasti nel Veneto Orientale. La divisione, il cui comando operativo era tenuto dal capitano di fregata Luigi Carallo, comprendeva in tutto 4.000 uomini (36). L’intervento della Decima dal punto strettamente militare è facilmente spiegabile con la necessità di contrastare l’imminente offensiva del IX Korpus titino. Dopo le impegnative azioni contro le forze slave, che non si era riusciti ad annientare ma solo a contenere, i tedeschi si trovavano in una situazione di estrema debolezza, in quanto la 188a divisione di montagna tedesca, che costituiva il nerbo delle forze germaniche, era stata trasferita altrove. Nonostante ciò fu solo dopo difficili trattative che il generale Wolff, a sua volta su pressione di Borghese e dello stesso Mussolini, riusci a vincere le resistenze di Rainer e di Globocnik, capo delle forze di polizia, e a far accettare l’ingresso della Decima nella "zona di operazione", un territorio che ormai sfuggiva al controllo tanto della R.S.I. quanto delle autorità politiche e militari tedesche in Italia (37).

Il questore di Gorizia Genchi, nel suo rapporto del dicembre 1944, racconta come abbia "suscitato un incontenibile entusiasmo nella cittadinanza l’arrivo a Gorizia della X divisione Mas" (33). Per gli italiani di Gorizia, dove da più di un anno si vedevano quasi solo esclusivamente divise tedesche o di fazioni slave favorevoli ai tedeschi, vale a dire ustascia croati, cetnici serbi e domobranci sloveni (39), la presenza della Decima assumeva un aspetto dichiaratamente nazionale e accendeva grandi speranze.

E difatti gli ufficiali e i marò non si limitarono a compiti unicamente militari: chiesero ai negozi di togliere i cartelli in lingua straniera, organizzarono un servizio pullman tra Gorizia e Milano e tentarono, senza riuscirvi, di sottrarre i lavoratori italiani all’Organizzazione Todt (40). Inoltre la Decima organizzò in Venezia Giulia un servizio d’informazioni segreto che forniva notizie sull’attività dei tedeschi, degli austriaci, dei croati, degli sloveni, dei serbi e dei russi. Tale servizio, che poi assorbì anche il "Movimento Giuliano" presieduto da Italo Sauro, stampava giornali clandestini a carattere nazionalista italiano. A Venezia venne inoltre fondato l’Istituto per gli Studi sulla Venezia Giulia, che attraverso le informazioni e la propaganda, teneva alto in Italia l’interesse per l’italianità della regione (4l). Naturalmente ciò avveniva tra la fredda ostilità delle autorità germaniche. E sintomatico fra tutti l’episodio di cui fu protagonista il comandante Carallo. In un’esposizione pubblica di quadri di artisti italo-germanici alcuni marò, dato che alla parete era appesa la sola bandiera tedesca, chiesero al gestore della sala di esporre anche quella italiana, ma quest’ultimo si rifiutò. Allora Carallo ordinò di mettere ugualmente il tricolore nella sala. Ne derivò un attrito con le autorità civili tedesche, vista la proibizione di esporre in città sia la bandiera italiana che quella slovena. L’aiutante del comandante della piazza tolse di propria iniziativa la bandiera, venendo di conseguenza arrestato dagli uomini della X Mas. Alla fine Carallo, per non pregiudicare le operazioni militari congiunte appena iniziate, accettò di far togliere il tricolore, ma inviò al comando tedesco una richiesta di riparazioni "per l’offesa all’onore della nostra bandiera". Inoltre, come scrive Carallo a Borghese, in risposta alla proibizione:

un’immensa bandiera italiana sventola dal balcone del mio comando, molte vetrine, hanno già esposto le bandiere italiane e questa notte inonderò Gorizia di manifestini tricolori con un saluto della Decima alla popolazione della città santa. Avevi perfettamente ragione: la nostra presenza non è solo necessaria, ma indispensabile per non far perdere il sentimento di italianità a quei pochi restati immuni dalla passiva rassegnazione della politica austriacante, poggiata sul dissidio italo-sloveno-slavo e dagli intrighi che vogliono creare tra noi e i tedeschi. In tutta la mia azione mi sorreggono gli ufficiali di collegamento della SS (42).

Successivamente un reparto tedesco giunse alla sede del comando della Decima di Gorizia con 1’ordine di togliere con la forza la bandiera italiana che sventolava sul pennone. Per tutta risposta il reparto fu a sua volta circondato dai marò armati del "Fulmine". I tedeschi desistettero da ogni ulteriore tentativo. Secondo Nino Arena i giovani marò della Decima, sensibilizzati sulla situazione che avrebbero trovato a Gorizia e di conseguenza prevenuti nei confronti dei tedeschi, assunsero spesso un atteggiamento eccessivamente provocatorio nei confronti di quest’ultimi, causando numerosi attriti e allarmando anche gli stessi enti locali italiani militari e civili. Quest’ultimi erano tra l’altro fortemente risentiti per il fatto che la Decima arrivando nel goriziano non aveva preso i dovuti contatti di servizio, fatta eccezione che con la Federazione del PFR.43. Un certo nervosismo fu causato anche dal fatto che la Decima spesso accoglieva tra le proprie fila militari di altri reparti della R.S.I. presenti nella zona, a volte addirittura sollecitandone la diserzione (44).

Sempre nel dicembre, Borghese effettuò un’ispezione di tutti i reparti dislocati nella Venezia Giulia per costatare di persona la situazione sia dal punto di vista militare, sia da quello dei rapporti con la popolazione e con le autorità germaniche: il 10 dicembre si recò a Trieste, ed il giorno seguente visitò il comando del battaglione "San Giusto"; quindi proseguì per Pola, nonostante la proibizione di Rainer di muoversi da Trieste, dove visitò la compagnia "Sauro", comandata dal tenente di vascello Baccarini, e la locale base dei sommergibili CB; il 13 dicembre arrivò a Fiume. Qui fu raggiunto dall’ordine di arresto da parte della Marina germanica, al quale si doveva procedere, se necessario, anche con l’uso della forza. Il tentativo di arresto di Borghese, che viene definito da Sergio Nesi, testimone oculare della scena, come "patetico e umoristico insieme", non ebbe luogo per il duro atteggiamento del comandante e per il buon senso degli ufficiali germanici locali. Nesi racconta che dopo aver passato in rassegna la compagnia "D’Annunzio" al comando del tenente Vigjak, Borghese fu avvicinato da un gruppo di tre ufficiali della Marina tedesca, il più anziano dei quali, salutandolo militarmente, gli comunicò l’ordine di arresto. Borghese lo guardò, lo ignorò, continuò l’ispezione ai marinai, quindi tenne un discorso. Alla fine, l’ufficiale tedesco ripeté l’ordine, ma Borghese gli rispose che quel pezzo di terra su cui stavano si chiamava ancora Italia, che quei marinai erano italiani, che quella bandiera che sventolava al vento del Quamaro era il tricolore d’Italia e che a lui, ufficiale della Marina Italiana, degli ordini di arresto da parte di sconosciuti stranieri non importava nulla. Al che i tre ufficiali scattarono sull’attenti, salutarono ed il più anziano, sorridendo disse: "Noi avevamo un ordine... ci abbiamo provato... meglio così Comandante" (45). Il 14 dicembre Borghese, tornato a Trieste, consegnò le insegne di combattimento al battaglione "San Giusto" durante una solenne cerimonia nel piazzale della chiesa di San Giusto. Il Gauleiter Rainer, per rappresaglia, ordinò alla stampa di ignorare l’avvenimento (46).

2. I contatti con le autorità del Sud ed il cosiddetto "piano De Courten"

Fin dalla fine del 1944 il futuro assetto di Trieste era divenuto una questione internazionale nel quadro del più vasto problema delle sfere d’influenza tra Alleati e Sovietici. Nel luglio 1944, a Bolsena, il generale Alexander, comandante dell’8a Armata britannica, e il maresciallo Tito avevano concordato per l’Istria una linea di demarcazione: a Tito sarebbe spettato il controllo di Fiume e ad Alexander quello di tutta la Venezia Giulia. Questi accordi vennero confermati il 1° febbraio 1945 in un nuovo incontro a Belgrado tra i due comandanti, in cui Tito concordò anche sulla necessità di un Governo Militare Alleato sulla zona, a condizione che le autorità jugoslave ne assumessero l’autorità civile.

Naturalmente questa sarebbe stata una soluzione provvisoria in vista della Conferenza della Pace (47). Se all’inizio del 1945 l’Inghilterra era propensa ad una suddivisione della Venezia Giulia, la grande preponderanza che l’Unione Sovietica stava conquistando in Europa convinse Churchill della necessità di occupare questa zona il più presto possibile allo scopo di arrestare l’avanzata del blocco comunista orientale (48). Al contrario, il nuovo Presidente americano, Truman, non voleva correre il rischio di trovarsi in guerra con gli jugoslavi ed osteggiava la politica del fatto compiuto. Negli ultimi mesi tutto ciò si ripercosse nelle sempre meno chiare istruzioni date in merito ad Alexander, divenuto Comandante Supremo alleato nel Mediterraneo (49).

Già nell’estate del 1944 il Governo del Sud era fortemente preoccupato per il destino del confine orientale e per i rischi corsi dalla popolazione italiana in caso di occupazione titina, essendo venuto a conoscenza delle violenze consumate nel settembre-ottobre 1943 nel Goriziano, in Istria e in Dalmazia, anche attraverso le testimonianze dei primi profughi raccoltisi in Puglia. Al Ministero degli Esteri l’allarme cresceva con il diffondersi delle notizie sulle rivendicazioni territoriali slave. Si cercava quindi di giungere ad un’intesa con gli Alleati affinché, al momento del crollo della Germania e della R.S.I., fossero questi i primi ad occupare i territori giuliani. Questo anche per evitare che un’occupazione slava pregiudicasse a priori la possibile soluzione politica della questione alla Conferenza di Pace. La diplomazia italiana, espressione di un governo privo di ogni sovranità, si trovava però nella posizione di poter solo chiedere (50). Perciò, come dimostrano gli scambi di lettere tra il Sottosegretario agli Esteri Giovanni Visconti Venosta e l’ammiraglio statunitense Ellery Stone, Vice Presidente della Commissione di Controllo Alleata (A.C.C.), venne fatta un’esplicita inchiesta per un intervento alleato in Venezia Giulia, che fu più volte assicurato (5l). Anche se occorre sottolineare che si rinunciò a insistere per più precise garanzie sui tempi e sulle modalità di esecuzione dell’occupazione alleata.

Ma la soluzione di lasciare integralmente agli Alleati il compito di precedere Tito non tranquillizzava le autorità del Sud. Si fece perciò strada l’ipotesi di prendere dei contatti con quelle autorità del Nord disposte a formare un fronte comune contro gli slavi (52).

La guerra era persa e le decisioni dei vincitori avrebbero potuto essere mitigate solo dalla situazione di fatto venutasi a creare negli ultimi mesi di guerra. Di questo ne erano sicuramente consapevoli le due Marine, quella monarchica e quella repubblicana. Inoltre, rispetto alle altre forze armate, la Marina si era sempre distinta, fin dai movimenti irredentistici che avevano preceduto la prima Guerra mondiale, per una non comune sensibilità sulla questione adriatica. L’ammiraglio Raffaele De Courten, Ministro e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, ricevette delle segnalazioni sul fatto che, come scrive nelle sue memorie, gli Alleati "non avrebbero visto di malocchio un’azione militare italiana che, al momento del crollo tedesco, precedesse quella jugoslava nell’occupazione della Venezia Giulia" (53). Nel luglio-agosto del 1944, il ricostituito Reparto Informazioni dello Stato Maggiore della Regia Marina, retto dal capitano di vascello Agostino Calosi, ebbe l’incarico di verificare la fondatezza di queste informazioni. Tale indagine, in cui Calosi fu coadiuvato dal tenente commissario di complemento Diego De Castro, diede esito positivo. Il comandante Calosi presentò quindi un progetto che prevedeva lo sbarco di reparti della Marina e dell’Aeronautica, vale a dire il Reggimento "San Marco" e il Battaglione "Azzurro A.A.", nelle vicinanze di Trieste. Queste truppe sarebbero state trasportate da mezzi navali italiani, dato che l’intera operazione avrebbe dovuto essere di esclusiva esecuzione italiana, e gli Alleati, per non compromettersi con gli jugoslavi, avrebbero finto di non saperne nulla (54). Divenne quindi necessario predisporre un’organizzazione militare clandestina composta di uomini affidabili e di sicura fede italiana e anticomunista. Furono incaricati del reclutamento il comandante del Battaglione "San Marco" Cigala Fulgosi e il professor Demetrio di Demetrio, Presidente della "Lega degli Adriatici", un’organizzazione civile segretamente sostenuta dagli Alleati. Il professor di Demetrio, il capitano Alex Perkins e il tenente di vascello Francis Zamber Marschall contattarono il tenente colonnello Angelo Mastragostino, e gli affidarono l’incarico di reclutare, nei vari aeroporti, "circa milletrecento/millecinquecento uomini disposti ad un’azione di sorpresa non meglio definita e segreta" (55). La segretezza era un elemento fondamentale per la riuscita del piano. Gli ufficiali alleati dissero a Mastragostino che:

Il Governo italiano non deve sapere assolutamente nulla. Non ci fidiamo di loro. Troppi comunisti, amici di Stalin ed in particolare di Tito. Anche elementi dei governi americano ed inglese non debbono sapere nulla. Il Comando Alleato sa ed appoggerà l’azione, ma non vuole, perché non può, apparire in prima persona. Perciò, in caso di fallimento, ignorerà tutto e vi lascerà in balia di voi stessi (56).

Un altro ufficiale avrebbe provveduto al reclutamento tra i militari dell’Esercito e un terzo avrebbe fatto altrettanto tra il personale della Real Marina. Mastragostino avrebbe preso, al momento opportuno, il comando dei diversi gruppi. Il comandante Cigala Fulgosi, in diversi colloqui con uomini dell’Intelligence Service britannico per precisare i caratteri dello sbarco, mise in evidenza che la Marina Italiana, pur disposta ad agire senza riserve, non voleva che la propria azione apparisse come una violazione delle norme armistiziali dell’anno precedente. Era quindi necessario che il Comando alleato desse una formale, benché segreta, autorizzazione all’azione. Inoltre questo avrebbe dovuto favorire il distaccamento degli uomini e dei mezzi necessari, mettere a disposizione una scorta aerea e infine coordinare le operazioni di sbarco con quelle di un eventuale bombardamento. Il 7 settembre De Courten discusse direttamente della cosa a Taranto con l’ammiraglio inglese C.E. Morgan, Capo della Missione Navale alleata in Italia. De Courten constatò che il progetto, pur incontrando le simpatie degli ufficiali subalterni, veniva accolto freddamente dalle sfere più elevate. Non si ebbero quindi sviluppi (57).

Sergio Nesi critica, a nostro avviso giustamente, il comportamento tenuto nella vicenda dall’ammiraglio De Courten. Infatti la richiesta di una formale, anche se segreta, autorizzazione alleata, il suo colloquio con l’ammiraglio Morgan, che non ne avrebbe dovuto saper nulla, come anche il fatto che abbia portato il problema "nelle sfere più elevate ed aventi autorità determinante" (58), indicano una volontà di "sganciarsi da ogni responsabilità e rischio" (59), mentre era chiaro che gli stessi ambienti alleati dove era maturata l’iniziativa non ne dovevano saper "ufficialmente" nulla. Anche in questa occasione si ripeté la costante incapacità dei vertici militari italiani di assumere la responsabilità delle proprie azioni, già dimostrata nella prima fase del conflitto. Il timore di perdere una posizione acquisita e la conseguente ipocrita ricerca di una copertura burocratica, impossibile, date le circostanze, da ottenere, fece fallire quella che poteva essere l’ultima possibilità di conservare all’Italia le terre orientali. Nel frattempo Londra aveva compiuto, come si è accennato, la sua scelta militare a favore di Tito e probabilmente non avrebbe più permesso che un’operazione italiana, con avallo e copertura inglese, pregiudicasse i difficili equilibri balcanici che intendeva costruire. A ciò bisogna aggiungere la sempre maggiore affermazione più di una certa volontà punitiva inglese nei confronti dell’Italia. Comunque fosse, nel settembre del 1944 ogni progetto della Marina del Sud per un suo diretto intervento in difesa della Venezia Giulia, tramontò definitivamente (60).

Ma la notizia di quello che venne battezzato "piano De Courten" filtrò al Nord. Borghese inviò perciò a Trieste il capitano di corvetta Aldo Lenzi con il compito di predisporre un piano operativo per trasferire due gruppi di artiglieria della Decima sulle alture nei pressi di Trieste con lo scopo di proteggere l’avanzata e lo sbarco del "San Marco" dal Sud. Per agire più liberamente Lenzi fu messo a capo di una struttura di copertura: il Comando dei mezzi d’assalto dell’Alto Adriatico, dal quale avrebbero dovuto dipendere i tre reparti marittimi che la X aveva in Istria (il gruppo "Longobardo" dei sommergibili tascabili di Pola, la Base Est dei mezzi d’assalto di Brioni, la Scuola Sommozzatori di Portorose). Il comandante Lenzi fu per mesi impegnato nel delicato compito di sondare la reazione di varie personalità di Trieste e dell’Istria di fronte ad un possibile sbarco di forze italiane dal Regno del Sud, appoggiato in questo dal segretario federale Bruno Sambo e dal prefetto Coceani. Ma la maggior parte delle persone contattate preferì non prendere una chiara posizione in merito. Borghese inviò al Sud il tenente di vascello Rodolfo Ceccacci per informare De Courten dei provvedimenti presi (61).

Fino agli ultimi giorni i reparti della R.S.I. schierati in vari punti lungo le coste giuliane sperarono di intravedere l’arrivo delle navi della Regia Marina, anche se ciò non aveva più alcun riscontro effettivo.

Parallelamente a questa vicenda, e fino agli ultimi giorni della guerra, dal Sud furono inviati degli emissari a Borghese (62). Come si ricorderà, la X Mas fu sorpresa dall’8 settembre una parte al Sud e una parte al Nord. De Felice sottolinea come "lo spirito cameratesco, l’onore militare, l’identità patriottica facevano degli uomini di Borghese degli intermediari naturali fra Nord e Sud. Lo raccontano le testimonianze del tempo: quando la X del Nord beccava un marò del Sud si faceva festa a dispetto della guerra in corso. Facile stabilire perciò, molti contatti tra i due fronti sfruttando legami così forti" (63). A dispetto della guerra civile in corso, erano rimasti intatti i vecchi legami della fraternità d’armi, di amicizia personale, e soprattutto era avvertito un comune sentimento nazionale che prevaleva sulla stessa diversità di schieramenti. I due maggiori punti di convergenza erano appunto la difesa della Venezia Giulia e la salvaguardia degli impianti industriali dai tentativi di distruzione che i tedeschi avrebbero potuto attuare in caso di ritirata. I contatti di maggiore rilevanza furono la missione Zanardi del settembre-ottobre 1944, e le missioni Giorgis e Marceglia del marzo-aprile 1945.

L’8 settembre 1943 il tenente di vascello Giorgio Zanardi si trovava a Livorno. Prima di giungere nell’Italia controllata dagli angloamericani, incontrò varie volte l’ammiraglio Sparzani, suo vecchio comandante sulla Vittorio Veneto, e all’epoca Sottosegretario di Stato alla Marina, e da questi colloqui dedusse che l’ammiraglio sarebbe stato disposto a stabilire dei contatti con i vertici della Marina del Sud per una collaborazione a fini nazionali, senza mancare ai propri impegni con i tedeschi64. Raggiunto il Sud, Zanardi contattò il comandante Calosi ed insieme predisposero una missione al Nord all’insaputa sia degli Alleati che di De Courten. Lo scopo era di acquisire più precise informazioni sulla situazione della R.S.I. e di "prendere contatto con i capi della Marina Repubblichina per scandagliare i loro sentimenti e se possibile incitarli ad agire contro i tedeschi" (65). La missione durò dal 14 settembre 1944 al 15 ottobre 1944. Il 24 settembre Zanardi incontrò a Montecchio, presso Vicenza, l’ammiraglio Sparzani, il quale gli confermò la sua volontà di stabilire una collaborazione con il Sud, sottolineando però che "non avrebbe mai collaborato con gli inglesi" (66). Dopo aver tracciato un quadro della situazione della Marina Repubblicana e dei difficili rapporti con i tedeschi, si discusse anche della questione giuliana. Sparzani assicurò di aver già inviato a Trieste, Fiume e Pola un migliaio di uomini alla spicciolata, e di aver fatto in modo che al momento decisivo vi si trovassero in tutto 5.000 uomini, pronti a sparare sia contro gli slavi che contro i tedeschi, se questi avessero fatto fuoco per primi. Successivamente Zanardi, di sua iniziativa, incontrò Borghese, che non conosceva, presso il comando della X Mas a Piazzale Fiume a Milano. Nel colloquio non si parlò specificamente della Venezia Giulia, ma principalmente della difesa del patrimonio economico nazionale. Borghese disse inoltre che per continuare a combattere gli inglesi non sarebbe mai andato in Germania, ma piuttosto si sarebbe rifugiato sulle montagne. Zanardi riferì ai propri superiori che la Decima Mas era una delle poche organizzazioni militari autonome e indipendenti dai tedeschi e, a differenza delle altre unità repubblicane, di consistenza e solidità tale da poter fare assegnamento su di essa in determinate circostanze (67). Al suo rientro Zanardi stese numerosi rapporti sulla situazione politica, militare e sociale della R.S.I.. n comandante Calosi informò De Courten della missione solo a cose fatte, e quest’ultimo, che approvò l’iniziativa, ne mise al corrente il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi il quale a sua volta approvò interamente la linea di condotta seguita (68).

Ciò nonostante nell’inverno 1944-45 non si fecero apprezzabili progressi e si perse del tempo prezioso. Sorsero infatti vari ostacoli, soprattutto di politica interna. Il comandante Calosi fece propria la tesi del Comitato di Liberazione Nazionale della Venezia Giulia, il quale era contrario ad un intervento della X Mas, sia perché considerata invisa alla popolazione, sia perché i reparti erano ritenuti inefficienti. Calosi sosteneva che la difesa della Venezia Giulia andava affidata, innanzi tutto, all’iniziativa diplomatica e se dei contatti con esponenti repubblicani ci dovevano essere questi dovevano essere esclusivamente di natura antigermanica.

Sempre in linea con il Cln, Calosi si disse favorevole ad accordi solo "con persone con sicuro seguito o influenza che al momento opportuno, dopo aver assunto deciso e pubblico atteggiamento antigermanico, debbono clamorosamente passare dalla parte dei partigiani dandosi alla macchia e tenendosi pronti ad intervenire al momento opportuno con reparti con nome ed insegne cambiati" (69).

Un’ipotesi fantasiosa e macchinosa che corrisponde però, come si ricorderà, alle controproposte alleate, dichiarate da Cino Boccazzi, per pervenire ad un fronte unico "Decima Mas-Osoppo". Inoltre il Ministro dell’Aeronautica, Luigi Gasparotto, chiamato in causa, diede parere contrario al proseguimento di questi contatti, in quanto temeva delle ripercussioni politiche sfavorevoli da una tale iniziativa della R.S.I. (70).

Ma l’effettiva volontà di Borghese di trasferire, nei limiti del possibile, quante più truppe poteva ad est, non era passata inosservata al Sud, come dimostra una nota del 7 marzo 1945 del maresciallo Giovanni Messe, capo di Stato Maggiore generale delle forze armate del Regno del Sud (71).

Se quindi da un punto di vista militare il contributo offerto dalla Repubblica Sociale era visto positivamente, d’altro canto, da un punto di vista politico il fatto che un’azione così meritoria agli occhi degli italiani, come la difesa dei confini orientali, potesse aver luogo da parte di uomini combattenti sotto le insegne della R.S.I., non mancava di preoccupare le autorità del Sud. De Courten e Bonomi, nel momento in cui la situazione militare stava ormai precipitando, valutarono la cosa e decisero di proseguire, pur con molte incertezze, sulla via già intrapresa (72).

Nel marzo 1945 furono quindi inviati nella Repubblica Sociale l’ingegner Giulio Giorgis, con il compito di contattare Gemelli, ed il capitano del genio navale Antonio Marceglia, per incontrare Borghese.

All’ingegner Giorgis, maggiore dell’Aeronautica, fratello del capitano di vascello Giorgio Giorgis che era stato uno degli ideatori dei "barchini d’assalto" della X, poi perito a Capo Matapan e decorato con la Medaglia d’Oro al valore, venne affidato un messaggio personale di De Courten per Sparzani in cui, appellandosi al patriottismo e allo spirito d’italianità, si chiedeva esplicitamente la collaborazione della Marina Repubblicana per assicurare l’integrità del suolo nazionale e impedire con la forza l’occupazione di Trieste e provincia da parte delle bande titine.

Nel caso in cui le truppe angloamericane fossero arrivate per prime in città, i reparti della R.S.I. avrebbero dovuto portare una fascia bianca al braccio sinistro ed avrebbero evitato qualsiasi contrasto. Il Comando alleato avrebbe lasciato che tali reparti continuassero a presidiare la zona in piena libertà, con le loro bandiere e insegne inalberate (73). Ciò lascia intendere che gli Alleati avessero sostanzialmente accettato questo "passaggio di consegne". Dopo aver recato l’ambasciata a Sparzani, Giorgis incontrò Borghese a Milano, il 23 aprile 1945, e gli trasmise il medesimo messaggio. A sua volta Borghese ne informò, il 24 aprile, un Mussolini "solo, smagrito, con il volto scavato dall’angoscia" il quale si disse d’accordo in quanto "dobbiamo agire tutti uniti" (74). Il Duce nominò allora Borghese Comandante superiore di tutte le forze armate repubblicane oltre l’Isonzo, ordinandogli di portare in quella zona tutte le forze della X Mas. Ma era tardi e Borghese declinò: per incompetenza, come scrive lui stesso e perché la situazione militare non consentiva più alcun passo oltre a quelli recentemente compiuti. Borghese, tornato al suo comando a Piazzale Fiume, confermò via radio a tutti i reparti della "Decima" l’ordine di "resistere fino alla fine e tutelare la popolazione civile" (75).

Se Giorgis fu essenzialmente latore di una missiva, la missione del triestino Antonio Marceglia fu più complessa e, soprattutto, organizzata con il servizio informazioni americano. Il capitano del genio navale Marceglia, decorato con la Medaglia d’Oro, era stato uno dei protagonisti dell’epica impresa di Alessandria d’Egitto, quando, come si ricorderà, i mezzi d’assalto italiani avevano affondato le corazzate Valiant e Queen Elizabeth. Catturato dagli inglesi e mandato in India, aveva aderito al Governo del Sud e quindi era tornato in Italia nel febbraio 1944, dove fu posto al servizio della Regia Marina (76). La scelta cadde su Marceglia proprio in virtù della sua precedente collaborazione con Borghese, di cui aveva grande stima. Da questi rapporti personali si sperava di poter trarre vantaggio per "rendersi conto della reale consistenza della formazione repubblicana e degli intendimenti circa il suo impiego" (77). Si è detto che anche i servizi statunitensi appoggiarono l’iniziativa. Questo avvenne perché, come ha ricordato James Jesus Angleton, capitano dell’O.S.S. (Office of Strategic Services) e, nel dopoguerra, responsabile dell’Ufficio "Operazioni Speciali" della C.I.A.:

All’inizio del 1945 si seppe che il Governo nazista stava mettendo a punto un piano, che prevedeva la creazione di un’"isola di resistenza" in Austria, dopo la completa distruzione nell’Italia del Nord da parte delle truppe in ritirata. Decidemmo di fare il possibile per bloccare il piano e di servirci a questo scopo del principe Borghese... Se Borghese avesse accettato di cooperare con gli Alleati e di schierare i suoi reparti in modo da impedire ai tedeschi di far saltare i porti, sarebbe stato sottratto ai partigiani, che intendevano fucilarlo per le strade di Milano, e regolarmente processato dai suoi pari (78).

Inoltre gli americani erano interessati alla X Mas perché pensavano di utilizzare i suoi famosi "maiali" per la guerra contro i giapponesi (79). Marceglia attraversò il fronte apuano il 10 marzo, dopo aver raggiunto Firenze già da qualche tempo occupata dagli Alleati. Catturato a Carrara dai tedeschi, venne rinchiuso nel carcere di La Spezia da dove riuscì a far arrivare a Borghese un biglietto con due sole parole e la firma: "Sono prigioniero". Il comandante della X Mas intervenne immediatamente sostenendo con i tedeschi che Marceglia aveva passato le linee per raggiungere la sua formazione. Qualche giorno dopo Marceglia fu accompagnato, in divisa della X Mas, a Milano, dove il 30 marzo incontrò Borghese (80), il quale lo assicurò che avrebbe fatto il possibile per spostare i suoi reparti verso la Venezia Giulia e che avrebbe cercato di mettersi in contatto con i partigiani della "Osoppo", ma, come scrive Marceglia nella sua relazione, "mi resi conto che le truppe della X Mas erano un pò evanescenti, come del resto quelle partigiane; sparpagliate un pò dappertutto, con i reparti più efficienti sotto il diretto controllo dei tedeschi".

Marceglia poté infatti effettuare, ai primi di aprile, varie ricognizioni a Venezia, Trieste, Gorizia e nel Friuli, sempre con la divisa da ufficiale e lasciapassare della Decima Mas, durante le quali incontrò Sparzani, altri ufficiali della X, nonché, un paio di volte a Venezia, l’ammiraglio Franco Zannoni, uno dei responsabili del locale Cln. Probabilmente Marceglia si rese conto che la situazione era più drammatica di quanto potesse sembrare al Sud dove, evidentemente, si erano anche sopravvalutate le possibilità delle forze armate della R.S.I. e, in particolare, della X Mas. Marceglia aggiungeva che al 10 aprile 1945 la X Mas poteva contare in Venezia Giulia su 300-400 uomini, mentre un altro migliaio erano sotto il diretto controllo tedesco. Quanto ai partigiani "ebbi chiara la sensazione che desideravano evitare qualsiasi complicazione" e che erano "alieni da cercare nuove avventure con gli Slavi", mentre il Cln a Trieste era "fantomatico o inesistente".

Alla vigilia della fine, Marceglia, sempre grazie all’appoggio della Decima, rientrò a Venezia, prendendo parte alla liberazione della città e all’occupazione dell’Arsenale: "Questa fu l’ultima operazione alla quale partecipai" - scrive misteriosamente Marceglia alla fine del suo memoriale – "e sulla quale è meglio tacere" (81). Né Giorgis, né Marceglia fecero in tempo a riferire gli esiti delle loro missioni prima della fine delle ostilità.

Non c’è dubbio che questo via vai di emissari e di progetti, di speranze e tentativi più o meno velleitari, ebbe un indiscutibile valore morale. Davanti a un problema nazionale di tale importanza, come la salvaguardia di territori e di popolazioni italiane, gli uomini della Marina mostrarono di superare ogni divisione: monarchici e repubblicani, fascisti e non, cooperarono per il medesimo scopo. Ma alla fine, come si vedrà, furono soltanto i marò dei presidi di Fiume, Pola, Cherso e Brioni a resistere fino all’ultimo ed a essere massacrati sul posto. Si calcola che circa il 95% degli effettivi non fece ritorno. Appare pertanto quantomeno ingenerosa la conclusione di De Courten, in base alla quale "l’azione in difesa della Venezia Giulia fu praticamente nulla" (82). Sergio Nesi infatti, a commento di questa frase, aggiunge: "Ma da parte di Chi?"… (83).

Oltre alle missioni Zanardi, Giorgis e Marceglia, si possono ricordare quella del professor Paride Baccarini, a cui già si è accennato, e quella del maggiore medico della Regia Marina, Francesco Putzolu, i quali affermarono di essere inviati dal Cln per comunicare allo Stato Maggiore del Sud l’ubicazione degli stabilimenti militari e delle fabbriche che interessavano la Regia Marina, allo scopo di evitare bombardamenti aerei e distruzioni belliche in vista della ricostruzione del dopoguerra. Vennero date loro le informazioni richieste, anche se era difficile accertare la veridicità dei loro scopi (84).

3. Tarnova della Selva

Appena la X arrivò a Gorizia, il comando tedesco convocò una riunione per comunicare i piani dell’operazione "Aquila" (AdlerAktion), da attuare nei giorni immediatamente seguenti. La manovra si prospettava complessa e prevedeva l’intervento coordinato di dieci colonne che, partendo da Gorizia, Baccia, Idria, Gottedrasizza, Postumia, Sesana, Opacchiasella dovevano convergere a raggiera sul IX Korpus spingendolo nella zona di Aidussina, dove sarebbe stato accerchiato e distrutto. Si voleva infatti eliminare la presenza partigiana negli altipiani sopra Gorizia (Altopiano di Tarnova della Selva e Altopiano di Bainsizza), che costituivano un’ottima base di partenza per le operazioni nella pianura sottostante. I compiti assegnati ai reparti della Decima erano i più impegnativi: una prima colonna da Gorizia doveva puntare su Tarnova, arrivando poi fino a Loqua; contemporaneamente una seconda colonna, ancora da Gorizia, avrebbe occupato Chiapovano e Locavizza; quindi una terza colonna, che partiva da S. Lucia d’Isonzo e Baccia, avrebbe risalito la valle del fiume Idria fino a Tribussa Inferiore. Oltre alla X Mas, facevano parte dell’operazione alcuni reggimenti di polizia germanica, gruppi di ustascia e di domobranci. Secondo Bonvicini, alla luce dei fatti successivi, il piano aveva due difetti principali: mostrava di conoscere imperfettamente la localizzazione delle brigate partigiane e prevedeva l’impiego di forze del tutto inadeguate a controllare un territorio così vasto (85).

I reparti della Decima impegnati nell’azione erano i battaglioni "Sagittario", "Barbarigo", "Fulmine", "NP", oltre ad una parte del gruppo d’artiglieria "Alberto Da Giussano" e del battaglione del genio "Freccia". Per gli uomini della Decima si trattava di operare per la prima volta in un territorio sconosciuto e molto ostile, e inizialmente, spinti dall’entusiasmo, sottovalutarono la forza e l’efficienza dell’avversario, subendo spiacevoli sorprese. Le operazioni iniziarono il 19 dicembre 1944. Qualche giorno dopo, il comandante operativo della divisione X, Luigi Carallo, mentre transitava in macchina tra Locavizza e Chiapovano, senza scorta, cadde vittima di un’imboscata. Nel suo portacarte i partigiani trovarono una carta geografica indicante le direttrici dell’attacco italo-tedesco (86). L’offensiva si esaurì in una decina di giorni senza alcun risultato di rilievo, anche se costellata da aspri scontri: i1 Barbarigo a Chiapovano, gli "NP" sempre in quest’ultima località e a Casali Nemci, intervenuti in soccorso del "Sagittario", inflissero gravi perdite al IX Korpus, ma l’ambizioso obiettivo della sua distruzione fu rimandato a quando si fosse potuto disporre di forze più numerose (87).

La fanteria di marina rientrò quindi a Gorizia mantenendo un solo presidio esterno, quello più esposto e avanzato, vale a dire a Tarnova della Selva, un paesino dell’attuale Slovenia posto al centro dell’altopiano omonimo (88). In un primo tempo vi si posizionò la prima compagnia del "Valanga" insieme ad una batteria del "San Giorgio". Il 7 gennaio, in seguito alla segnalazione d’un possibile attacco, vi si aggiunse anche un reparto del "Barbarigo", ma dopo qualche giorno, non verificandosi alcun fatto di rilievo, quest’ultimo fece ritorno a Gorizia. Il 9 gennaio gli uomini del "Valanga" e del "San Giorgio" furono sostituiti da quelli del battaglione "Fulmine". Il battaglione era composto da tre compagnie per un totale di 214 uomini, compresi quattro marò del "Freccia", ed era agli ordini del tenente di vascello Elio Bini, dato che il suo effettivo comandante, il tenente di vascello Orrù, era ferito.

Il IX Korpus decise d’intraprendere un’operazione destinata ad annientare il presidio, circondandolo ed assalendolo dopo aver disposto delle sue unità ad ogni via d’accesso per i possibili rinforzi. All’attacco vero e proprio fu infatti destinata la brigata "Kossovel", rinforzata dalla compagnia d’assalto, da quella guastatori e dalla batteria della 30a divisione, in tutto circa mille uomini, mentre sulle direttrici che avrebbero dovuto percorrere i soccorritori si disposero la brigata "Buozzi" della "Garibaldi Natisone", la brigata "Gradnik", il 2° battaglione della "Preseren", la compagnia d’assalto della 31a divisione, la "Basovizza" e la "Gregorcìc" (89).

I combattimenti si protrassero per tre giorni e si articolarono in due episodi nettamente distinti: da una parte la tenace resistenza del "Fulmine" a Tarnova e dall’ altra parte gli scontri tra le forze slave e quelle italo-tedesche che tentavano di aprirsi un passaggio per prestare soccorso ai marò accerchiati. I rinforzi da Gorizia, partiti in ritardo poiché i comandi non si resero subito conto di quanto stava succedendo e dell’ampiezza del piano offensivo ideato dal IX Korpus, non riuscirono infatti a passare. Vennero impiegati i battaglioni "Barbarigo", "Sagittario", "Valanga" appoggiati dall’artiglieria italiana e tedesca e da una colonna motorizzata tedesca. Intervennero inoltre due compagnie della Milizia Difesa Territoriale, il III battaglione del 10° reggimento di polizia tedesco (SS Polizei) e il III battaglione del 15° reggimento di polizia tedesco (90).

L’attacco alla guarnigione di Tarnova iniziò alle sei del mattino del 19 gennaio 1945. Nella notte era caduta molta neve e la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero. Le comunicazioni radio con Gorizia furono rese difficili dalle condizioni atmosferiche e dalla scarsa efficienza delle apparecchiature a disposizione. I marò del "Fulmine", che avevano allestito nel paese varie opere difensive, resistettero ad oltranza, in condizioni di schiacciante inferiorità, dimostrando un indubbio coraggio, e in qualche caso riuscendo addirittura a contrattaccare. I combattimenti raggiunsero momenti di grande drammaticità, con numerosi episodi di scontro all’ arma bianca. La sera del 20 la situazione era divenuta del tutto insostenibile: il mancato arrivo dei rinforzi, l’esaurirsi delle munizioni, il progressivo avanzare degli slavi, la disgregazione delle linee difensive, ed infine l’autorizzazione a ritirarsi preventivamente trasmessa via radio dal Comando di Divisione, convinsero il comandante Bini ad ordinare la ritirata dal paese, cercando di individuare il punto di minore resistenza degli assedianti. La decisione comportava però l’abbandono dei feriti gravi. Nella notte la maggior parte dei superstiti riuscì ad aprirsi un varco, ma alcuni marò rimasti indietro per coprire il ripiegamento della colonna, rimasero isolati e furono circondati. Il guardiamarina Roberto Valbusa, quando capì di non avere più speranza, per non cadere in mano nemica, si uccise con la sua pistola. Gli uomini della "Kossovel" non tentarono d’inseguire la colonna in ritirata. Quest’ultima, ridotta a 83 uomini, alle 6.30 del mattino successivo, incontrò un reparto tedesco e fu condotta a Gorizia.

Nella stessa mattinata il "Valanga" e il III battaglione del 10° reggimento di polizia tedesco riuscirono a raggiungere Tarnova, da dove i partigiani si erano nel frattempo ritirati. I feriti lasciati nell’infermeria erano stati uccisi, solo qualcuno fra loro era riuscito a salvarsi perché aveva fatto in tempo a nascondersi o si era finto morto. Inoltre furono ritrovati vivi alcuni marò che, non essendo riusciti a ripiegare, si erano asserragliati in una casa. Su 214 presenti a Tarnova, il "Fulmine" ebbe 86 caduti e 56 feriti; le perdite slovene non sono note (9l). Nei giorni seguenti si effettuarono vari rastrellamenti ed in uno di questi, il 26 gennaio, il "Barbarigo" si scontrò sull’Altipiano di Bainsizza con il 1° battaglione del "Gradnik" (92).

A Gorizia i rapporti con i tedeschi, ma soprattutto con gli slavi alleati dei tedeschi, continuavano a peggiorare. Ai fatti della guerra si mescolavano infatti contrasti etnici e piani a lunga scadenza. Inoltre l’avanzata russa aveva provocato l’afflusso nella zona di truppe in ritirata dalla penisola balcanica, fra cui reparti spagnoli della Divisione "Azzurra" delle Waffen-SS e l’intero II Corpo dei cetnici, forte di sette-ottomila uomini, che si concentrò a Postumia. Queste nuove forze davano la possibilità ai tedeschi di sostituire la X Mas nelle azioni contro il IX Korpus sloveno (93).

Durante il periodo della permanenza della Decima in Venezia Giulia, le "autorità politiche austriacanti" non avevano mai smesso di fomentare una campagna diffamatoria nei confronti del corpo, servendosi di agenti provocatori che denunciarono i marò per una moltitudine di crimini, dal saccheggio allo stupro, dall’omicidio all’incendio doloso, arrivando "all’assurdo di denunciare un marinaio della Decima di essersi pubblicamente fatto vanto di aver già ucciso sei ufficiali germanici e di essere in agguato per raggiungere al più presto il record di dieci!" (94). Verso la fine del gennaio 1945 il Gauleiter Rainer chiedeva ufficialmente, con un telegramma al plenipotenziario germanico in Italia, generale Wolff, il ritiro della divisione X dalla Venezia Giulia. Il 9 febbraio 1945 tutti i reparti venivano trasferiti a ponente del Tagliamento, oltre il Piave, nella zona di Thiene - Bassano del Grappa.

Prima di lasciare Gorizia, il comandante in seconda della divisione, Rodolfo Scarelli, organizzò una grande manifestazione: con il pretesto di deporre una corona d’alloro sul monumento ai caduti della prima Guerra mondiale, fece sfilare per la città tutti gli effettivi che aveva in zona, al completo di armi ed equipaggiamento, tra la commozione della popolazione (95). In Venezia Giulia rimanevano i piccoli presidi di Trieste, Fiume, Pola, Cherso e Brioni.

4. Gli ultimi giorni

Nel febbraio 1945 la divisione X fu riorganizzata e divisa in due gruppi di combattimento: il I gruppo, comandato dal capitano di corvetta Antonio Di Giacomo, comprendeva i battaglioni "Lupo", "Barbarigo", "NP", il gruppo artiglieria "Colleoni" e una parte del battaglione genio collegamenti "Freccia"; il II gruppo, comandato dal capitano di corvetta Corrado De Martino, era formato dai battaglioni "Fulmine", "Sagittario", "Valanga", dai gruppi di artiglieria "San Giorgio" e "Da Giussano" e dalla rimanente parte del battaglione "Freccia". La divisione era ora al comando del generale di brigata Giuseppe Corrado, nominato dal ministero delle FF.AA. (96). Borghese stabilì con Wolff che una parte della divisione sarebbe andata a combattere sul fronte meridionale, mentre l’altra metà sarebbe rimasta nel Veneto per l’addestramento e il riordinamento, in modo da poter affluire in Venezia Giulia al momento del ripiegamento tedesco. Il I gruppo di combattimento fu dunque destinato al fronte in Romagna - a fine febbraio i battaglioni "Barbarigo", "NP", "Freccia", "Colleoni" diedero il cambio sul Senio al "Lupo" - mentre il II gruppo si radunò a Thiene, a nord di Vicenza (97).

Nel marzo del 1945, dopo diciotto mesi di combattimento, il bilancio della campagna d’Italia era per gli Alleati tutt’altro che positivo: erano riusciti a conquistare soltanto circa metà del territorio italiano, ed erano da molti mesi bloccati sulla Linea Gotica (98).

Il maresciallo Alexander stava perciò riorganizzando un forza offensiva per operare un’avanzata nella tarda primavera. Sin dai primi di febbraio il generale Wolff, ormai consapevole dell’imminente sconfitta, aveva avviato, tramite suoi emissari in Svizzera, le prime trattative per porre fine alle ostilità in Italia. Questo negoziato era indicato dagli Alleati con il termine di "Operazione Sunrise" (99).

L’offensiva alleata, iniziata il 9 aprile, e la conseguente rottura della Linea Gotica, impose ai tedeschi la ritirata sulla linea Po-Ticino. Virgilio Nari rileva come dopo il 15 aprile nessuna delle unità di combattimento repubblicane si sbandò. Tutte cercarono di ripiegare secondo i piani: spesso abbandonate per strada dai tedeschi in fuga, ove possibile concordando il passo con i comandi partigiani, in qualche caso aprendosi la strada con le armi o attuando manovre ritardatrici (100). Il I gruppo di combattimento della Decima, dopo aver operato in funzione di retroguardia alle forze germaniche ripieganti sull’Adige, puntò su Padova, per dirigere verso la Venezia Giulia, indicata nel piano operativo come zona della resistenza finale. Infatti in una lettera sigillata affidata da Borghese al comandante Di Giacomo, con l’istruzione di leggerla solo quando la situazione fosse giudicata irrimediabile, c’era scritto che da quel momento si doveva troncare qualsiasi rapporto con i comandi germanici - ma a quel punto ormai non c’era più alcun comando tedesco in grado di dare disposizioni - e dirigersi a Thiene per unirsi al II gruppo e di qui puntare su Trieste. Tuttavia il gruppo, che marciava a piedi, tallonato dalle forze dell’8a Armata, sotto gli incessanti bombardamenti alleati ed ostacolato da alcuni scontri con i partigiani, fu costretto a fermarsi a Padova dove, il 29 aprile, si arrese alle truppe alleate, ricevendo l’onore delle armi da un picchetto di fanteria (l0l). Il battaglione "NP" riuscì invece a raggiungere Venezia, e lì si asserragliò nel Collegio Navale di San’Elena. Il 2 maggio i "nuotatori-paracadutisti" accettarono la resa con "l’onore delle armi" offerta loro dagli inglesi (l02).

Anche il II gruppo di combattimento aveva ricevuto l’ordine di concentrarsi a Thiene, per poi muovere verso la Venezia Giulia, ma i vari reparti, che per un insieme di circostanze si diressero su Thiene con un certo ritardo, furono sorpresi dal precipitare degli eventi e si arresero, il 30 aprile, in questa cittadina o nelle sue immediate vicinanze (il "Fulmine" a Schio, il "Valanga", il "Sagittario", il "Da Giussano", il "San Giorgio" e il "Freccia" a Marostica) (l03). Per tutti iniziava la dura fase della prigionia (l04).

A Genova la resa dei reparti della X avvenne il 26 aprile. Qui il comandante Arillo, che dal novembre 1944 deteneva il comando operativo del Tirreno, aveva avuto, il 9 aprile 1945, la consegna da parte di Borghese d’impedire, anche con l’uso delle armi, che i tedeschi facessero saltare il porto. A tal fine già da tempo la Decima stava svolgendo un’ampia azione diplomatica nei confronti delle autorità germaniche. Inoltre Arillo contattò sia esponenti del Cln che della Curia e predispose un "piano di sicurezza" utilizzando i sommozzatori del gruppo "Gamma" (l05).

La fine più dura fu comunque quella dei presidi in Istria, anche perché le formazioni partigiane, che seguirono una precisa strategia, avevano come primo obiettivo l’annientamento della resistenza tedesca e dei reparti italiani "collaborazionisti" come la "Decima Mas" (l06). Per alcuni di questi non si sa nemmeno cosa sia esattamente avvenuto.

A Trieste e in Istria l’occupazione slava iniziò il 1° maggio 1945. Tito mise gli Alleati di fronte al fatto compiuto "liberando" Trieste prima delle truppe neozelandesi, che agli ordini del generale Freyberg entrarono nella città il 2 maggio, e soprattutto ancor prima della liberazione di Zagabria e Lubiana (l07). L’interesse primario di Tito era evidentemente quello di ottenere degli ingrandimenti territoriali più che la sconfitta del nemico comune. I poteri della città furono assunti dal comando militare jugoslavo e per Trieste iniziarono quarantacinque giorni di occupazione slava, con il ripetersi degli eccidi già perpetrati dopo 1’8 settembre 1943 in Istria. A Trieste però, dopo il fallimento dei tentativi per predisporre un fronte patriottico anti-slavo, non ci fu alcuna resistenza italiana (l08). Il 28 aprile il generale Esposito ordinò al battaglione della X "San Giusto", composto da circa 200 uomini e comandato dal capitano di corvetta Ezzo Chicca, di concentrarsi nella caserma di Montebello. Qui, il 30 aprile, il battaglione venne sciolto. Alcuni dei suoi marò ripiegarono su Venezia, altri tornarono nelle loro case ed altri ancora collaborarono con il locale Cln per mantenere l’ordine pubblico.

A Pola la X era presente con la compagnia "Nazario Sauro", composta da circa 300 effettivi, comandata dal capitano di corvetta Baccarini e la squadriglia "Longobardo" dei sommergibili CB/CM del tenente di vascello De Siervo. Il Comando Marina (Maricoser Pola) con un organico di quasi cento uomini era agli ordini del capitano di fregata Marchini. Nella vicina isola di Brioni c’era la Base Est dei mezzi d’assalto comandata, dopo che il tenente di vascello Nesi era stato fatto prigioniero nel corso dell’incursione su Ancona del 14 aprile, dal sottotenente di vascello Cavallo (l09). Con il precipitare degli eventi, gli effettivi della Base Est si trasferirono a Pola. Le altre forze italiane erano costituite da una compagnia della M.D.T. al comando del capitano Carlo Bacchetta, da un centinaio di genieri e da altri reparti minori. In tutto 1.200 uomini, mentre le forze tedesche ne contavano 6.000 (110).

Il comando germanico ordinò che il grosso delle sue forze fosse evacuato dalla città, ritenuta ormai indifendibile, lasciando solo dei presidi esterni. Una colonna mista italogermanica, tra cui il 6° battaglione Genio Artieri del maggiore Covatta, partì alla volta di Trieste scontrandosi presso Pisino con i reparti jugoslavi. A Pola l’ammiraglio Bauer diede l’ordine di smantellare le difese antiaeree, di minare il porto ed i principali edifici militari e pubblici. I comandanti Baccarini e Bacchetta lo convinsero a risparmiare la città ed a cedere loro il comando della piazza. Baccarini assunse formalmente il compito di far mantenere l’ordine pubblico ed i tedeschi disattivarono le minelll. A Pola rimanevano, oltre ai capisaldi germanici, gli esigui reparti della X ed il capitano Bacchetta con 12 suoi militi. Gli italiani cercarono anche di prendere contatti con i comandi slavi per concordare senza spargimento di sangue la cessione della città. La trattativa, intrapresa dal capitano di fregata Marchini, si protrasse con una certa lentezza nella speranza che da un momento all’altro gli Alleati occupassero la zona (ll2). Ma questo non avvenne e le unità della X rimasero praticamente annientate durante la disperata resistenza alle truppe titine durata fino al 6 maggio. I combattimenti tedeschi continuarono sino all’8 maggio, ultimo nucleo di resistenza germanica della Wehrmacht, assieme ai difensori di Berlino, a deporre le armi in Europa. L’ammiraglio tedesco che firmò la resa venne subito dopo fucilato insieme ad un gruppo di suoi ufficiali e a una decina di italiani della Decima Mas (ll3). I superstiti furono pochissimi, molti i deportati dei quali non si seppe più nulla, tra cui tutto il personale medico dell’Ospedale Marina di Pola. Della Base Est si salvarono solo tre marinai su cinquanta, che tornarono dalla prigionia nel 1947. Il comandante Baccarini fu tenuto per mesi legato dentro una cisterna, fin quando perse denti e capelli e arrivò sull’orlo della pazzia. Fu consegnato alla frontiera italiana il 1° novembre 1949. Alcuni elementi del Comando Marina riuscirono invece ad imbarcarsi su due sommergibili (il C.B.l9 e il C.M.l) che raggiunsero rispettivamente Venezia ed Ancona, così come una trentina di uomini della Scuola Sommozzatori di Portorose, comandata dal tenente Moscatelli, poterono riparare a Venezial (114).

A Fiume c’era la compagnia "D’Annunzio" comandata dal sottotenente di vascello Vigjak con una forza di circa 250 uomini. Un distaccamento del reparto, circa 130 marò, si trovava a Laurana. Qui, il 25 aprile sbarcarono, sotto la protezione di attacchi aerei ed artiglieria navale alleata, le truppe slave per costituirvi una testa di ponte in previsione degli attacchi finali verso Fiume. Il distaccamento della Decima, insieme a pochi militari germanici, opposero un’accanita resistenza. Costretti a ripiegare, giunsero a nord di Abbazia, dove continuarono i combattimenti che causarono alla compagnia 90 morti. Il 3 maggio 1945 a Fiume cessava la resistenza tedesca e gli slavi catturarono i superstiti della compagnia "D’Annunzio" che, fino all’ultimo, avevano partecipato alla battaglia intorno alla città (ll5).

Anche nelle isole del Carnaro vi era un piccolo contingente della Decima: a Cherso si trovava la compagnia "Adriatica", da poco ribattezzata col nome di "Bardelli", di poco più di cento uomini, al comando del tenente di vascello Enrico Giannelli, con distaccamenti a Lussino, Veglia e Neresine. Quando, nell’aprile 1945, le isole furono attaccate dai reparti della IV Armata popolare jugoslava, l’unità si sacrificò quasi interamente. E difficile stabilire le circostanze o quantificare i morti, poiché le autorità italiane non cercarono mai di recuperare le salme o di ricercare i dispersi (ll6). Luigi Papo calcola che dal 9 settembre 1943 alla fine della guerra le vittime della Decima in Venezia Giulia, compresi alcuni elementi della Marina della R.S.I., furono circa 176; a guerra finita, in particolare nel maggio del 1945, le perdite ammonterebbero a 133, compresi i deportati di cui non si seppe più nulla.

Tutti i vari presidi della Decima Mas avevano obbedito all’ultimo ordine di Borghese, diramato via radio la sera del 24 aprile: "Anche in caso di ritirata forze armate germaniche resterete sul posto per la difesa confini orientali e della popolazione italiana contro le bande di Tito". I loro compiti erano quelli, come spiega Borghese in una lunga intervista del 1953, di:

1) Assicurare la difesa dei nuclei etnici italiani contro gli slavi partigiani, che dopo 1’8 settembre avevano dimostrato un’incredibile barbarie e odio contro tutti gli Italiani.

2) Costituire all’atto dell’armistizio la prova armata dell’esistente sovranità italiana: dove il nemico avrebbe trovato divise militari e volontà di difesa, ovviamente là sarebbero rimasti i confini dell’Italia (118).

Nella regione giuliana si chiudeva così il capitolo della disperata resistenza italiana, del tutto inadeguata rispetto alla forza dell’avversario, e si apriva quello della dura occupazione titina, con gli infoibamenti e le persecuzioni di massa nei confronti degli italiani (1l9). Solo nel giugno del 1945, dopo contrastate trattative con gli jugoslavi, gli Alleati subentrarono in parte nella regione disputata occupando i territori ad ovest della Linea Morgan, cioè Gorizia, Trieste con Muggia, e Pola città. Ma restavano in mano jugoslava quasi tutta l’Istria, Fiume, le isole del Carnaro e Zara (l20).

In aprile a Milano la Repubblica Sociale aveva vissuto i suoi ultimi giorni fra trattative inconcludenti e speranze impossibili Il 18 aprile Mussolini si era trasferito nel capoluogo lombardo, dove aveva tentato di intavolare un’ultima serie di trattative con il Cln, che culminarono con un definitivo fallimento il 25 aprile (l21).

Anche Borghese verso la metà di aprile aveva stabilito il suo comando presso il distaccamento della X di Milano. Il segretario del partito Pavolini stava da qualche mese predisponendo l’ultima resistenza in Valtellina, ma Graziani e Borghese erano nettamente contrari a questo progetto ed insistevano per un’altra soluzione: pur mantenendo un’alleanza con i tedeschi, un triumvirato militare avrebbe negoziato una resa formale delle forze repubblicane con gli Alleati (l22). Borghese riteneva che ormai il loro unico compito era di "salvaguardare la vita dei reparti alle nostre dipendenze, tutelare i cittadini e attendere, in previsione della ritirata tedesca, l’arrivo degli anglo-americani ai quali avremmo consegnato da militari, le città e le terre da noi presidiate" (l23). A tal fine Borghese aveva dato l’incarico ai suoi più vicini collaboratori, il capitano Riccio e il capitano Del Giudice, di prendere contatto anche con il Cln milanese, in particolare con Sandro Faini della componente socialista. Questi contatti erano presumibilmente conosciuti nell’ambito della R.S.I. dal momento che furono intrapresi insieme alla Legione Muti e al generale Diamanti, comandante della piazza di Milano (l24). Nelle sue memorie Borghese scrive che in vari colloqui verificatesi tra il 13 e il 14 aprile spiegò il suo punto di vista a Mussolini, a Rahn e a Wolff. Quest’ultimo, oltre ad assicurarlo del fatto che gli impianti industriali non sarebbero stati distrutti, lo informò dell’imminente e non ancora ufficiale ritirata delle truppe tedesche dall’Italia, in modo da provvedere alla tutela dei reparti della Decima (l25). Borghese cercò di convincere il Duce a non partire per Como o, peggio, per l’inesistente "miraggio del Ridotto nazionale della Valtellina", e magari invece chiedere asilo politico in Spagna, ma "Mussolini era fermamente deciso a non abbandonare il suo posto, convinto che questo fosse il suo ultimo dovere. Di sé, della sua persona non si preoccupava affatto" (l26). Il 25 aprile, dopo aver sciolto i suoi uomini dal giuramento, Mussolini partì per Como; il 27 fu catturato vicino a Dongo ed il 28 venne ucciso, così come la maggioranza dei gerarchi che lo avevano seguito (l27).

Sempre il 25 aprile il CLNAI proclamò l’insurrezione generale in tutta l’Italia settentrionale. Dopo la partenza di Mussolini, a cui Borghese assistette insieme al suo ufficiale di ordinanza, Mario Bordogna, si conclusero le trattative per lo scioglimento della Decima a Milano. Borghese propose al Cln di utilizzare i marò - circa 700, poiché nel frattempo erano giunti dei reparti da Genova e da Sesto Calende - per presidiare la città, ma l’offerta venne respinta. Nel primo pomeriggio del 26 aprile a Piazzale Fiume si riunirono gli uomini del gruppo "Todaro" e i "Risoluti".

I rappresentanti del Cln erano il maggiore Mario Argenton, inviato dal generale Raffaele Cadorna, comandante militare del Corpo Volontari della Libertà del Cln, ed il capitano Serego degli Alighieri. Racconta Bruno Spampanato, testimone della scena:

Il colloquio tra il comandante Borghese e i plenipotenziari del Corpo Volontari della Libertà è brevissimo. Alle 14,55, il trombettiere batte l’assemblea generale. Scende Borghese per parlare agli uomini. Salutato da tre squilli di tromba, arriva il gagliardetto del gruppo di combattimento "Todaro". Il comandante sta di fronte ai marinai. Li ha salutati: "Decima marinai!". Ha risposto un grido fermo: "Decima, comandante!". Borghese dice che la Repubblica Sociale finisce con la guerra, ma restano i suoi principi, la difesa dell’onore fino all’ultimo, l’impegno a rispondere a qualsiasi richiamo del paese. Dice che le armi saranno consegnate a lui perché la "Decima" non si arrende ma smobilita: e idealmente la "Decima" è tutta qui. Poi fa l’appello dei marinai morti... Gli uomini si riscossero dal silenzio. "Trieste, comandante!". Il grido restò nella piazza, tutt’intorno chiusa dai reticolati. Tre squilli di tromba e la bandiera di combattimento repubblicana fu ammainata... Gli ufficiali partigiani e la loro scorta erano sull’attenti. Eravamo tutti soldati, tutti italiani. A quel momento fu dato il saluto al duce. I marinai gridarono: "A Noi!". E così Mussolini fu salutato da un reparto regolare in armi della R.S.I. a Milano, ore 17 del 26 aprile 1945 (128).

Il 26 aprile Graziani, rimasto a Como insieme ai generali Sorrentino e Bonomi, incontrò Wolff e gli consegnò un’autorizzazione a trattare in suo nome (l29). Il 27 fu catturato e, insieme ai due generali, trasferito a Milano, dove venne preso in consegna dal generale Cadorna.

Il 29 aprile i rappresentanti dei comandi germanici firmarono la resa delle forze tedesche in Italia, che divenne esecutiva a partire dal 2 maggio. Nel documento le forze armate della R.S.I. erano esplicitamente comprese nella dizione di "forze terrestri tedesche" (130). Il numero esatto delle perdite subite dai vari organismi militari della R.S.I. è incerto, principalmente a causa della loro dispersione e della loro dipendenza dai comandi tedeschi. Pisanò indica per la Marina un totale di 1.608 morti, di cui 1.526 della X MAS. Questo dato risulta a tutt’oggi il più attendibile e viene ripreso anche da Ilari (l31).

Borghese trascorse due settimane in un appartamento di Viale Beatrice d’Este a Milano, tenuto in custodia dal tenente della polizia partigiana Nino Pulejo. Il 9 maggio vennero a trovarlo il maggiore James Angleton dell’OSS e il capitano di fregata Carlo Resio del Servizio Informazioni Segrete della Marina. L’11 maggio quest’ultimi lo condussero con una jeep a Roma. Nelle sue memorie Borghese scrive che i due gli riferirono un messaggio verbale di De Courten che chiedeva di parlargli con urgenza "di alcune situazioni provocate dalla cessazione delle ostilità, sulle quali riteneva utile conoscere il mio parere" (132). Per vincere le sue perplessità gli comunicarono che i partigiani erano in procinto di catturarlo. Ma una volta giunto a Roma non riuscì ad avere alcun contatto con De Courten (133).

Diversa è la versione dei fatti dell’ammiraglio De Courten, nella quale sembra quasi che egli tenga a precisare che ignorava perfino la presenza di Borghese a Roma. Afferma infatti che una sera di fine aprile - ma 1’11 maggio Borghese era ancora a Milano - Angleton e Resio lo informarono che sotto casa, in un’automobile, c’era il comandante Borghese:

Essi mi chiesero disposizioni circa la sorte del Borghese. Consigliai loro la soluzione più opportuna per evitare che il caso fosse sottoposto a immediate sanzioni, le quali, nell’atmosfera ardente e sovreccitata di quei giorni, non avrebbero potuto essere che di carattere estremamente grave, e per mettere Borghese in condizioni di essere giudicato in tempi di maggiore serenità e obiettività. E così infatti è avvenuto (134).

Resio dichiarò che l’ordine di recarsi al Nord per prelevare Borghese gli venne dato dal capitano di vascello Agostino Calosi che, come si ricorderà, era il comandante del servizio segreto del Sud (135).

La vicenda non è quindi del tutto chiara. Probabilmente la Marina italiana fu solamente l’esecutrice della volontà americana di salvare Borghese affinché fosse interrogato e processato. Infatti, a Roma egli fu inizialmente tenuto prigioniero e interrogato dai servizi segreti americani, nel campo di concentramento di Cinecittà, e solo successivamente, vale a dire nell’ottobre 1945, inviato nel bagno penale di Procida.

Processato e condannato, Borghese fu radiato dalla Marina, degradato e privato della Medaglia d’Oro. Divenne il "principe nero" delle cronache giudiziarie del secondo dopoguerra. Nel marzo 1971 fu accusato di aver tentato un colpo di stato. Morì a Cadice il 27 agosto 1974. Riposa oggi nella cripta della Cappella Borghese di Santa Maria Maggiore a Roma.

Conclusioni

Nel settembre 1945 a Londra, in occasione della Conferenza tra i ministri degli Esteri di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti ed Unione Sovietica per impostare il Trattato di Pace con l’Italia, De Gasperi, allora ministro degli Esteri del governo Parri, si fece preparare un "Appunto" dal suo ufficio di gabinetto nel quale veniva riconosciuta alla R.S.I. ed in particolare alla Decima Mas un’azione positiva in difesa dell’italianità della Venezia Giulia e dell’Istria. La strategia di De Gasperi era di dimostrare che gli stessi tedeschi, accettandovi a suo tempo la dislocazione delle truppe repubblicane, avevano implicitamente riconosciuto l’appartenenza della zona all’Italia. L’argomento avrebbe potuto essere decisivo, nel caso in cui gli Alleati avessero sostenuto che,

dopo un’eventuale vittoria italo-tedesca, il Reich avrebbe comunque sottratto a Roma la sovranità di quelle terre. L’"Appunto", datato 15 settembre 1945, era stato perciò ideato proprio per prevenire una simile obiezione. In esso si faceva riferimento, oltre che alla "corrispondenza personale" sull’argomento tra Mussolini ed Hitler, all’azione militare della Decima per la difesa dei confini orientali. L’esistenza di tale documento è stata rivelata da Paolo Simoncelli che constata come, riferendosi anche ai citati contatti Nord-Sud:

Una generazione formata dalla persistente cultura risorgimentale e quindi, nel caso in merito, dall’emotività elettrica per Trieste, aveva dunque pensato un ultimo progetto, più ideale che politico-militare, capace di superare le tragiche contrapposizioni ideologiche. Da qui, dall’impossibilità di applicare per l’Istria e la Venezia Giulia la stessa rigida demarcazione tra bene e male, la necessità di silenziare fatti, segretare documenti, far rimuovere il problema dalla coscienza democratica italiana. A 50 anni di distanza, il rigagnolo è diventato un torrente capace di travolgere l diga del silenzio (136).

L’obiettivo principale di Borghese divenne la difesa della Venezia Giulia e dell’Istria nella consapevolezza che, in una guerra ormai perduta, "l’italianità di Roma o Firenze, non verrà mai messa in discussione, ma quella di Trieste, Pola, Fiume e Zara, certamente sì", e ciò fu fatto contestando anche, per quanto possibile, la strisciante politica annessionistica tedesca nel Litorale Adriatico.

Il peculiare significato delle vicende della Venezia Giulia sta nel fatto che queste resero palese come la sostanziale subalternità del nostro paese allo straniero, "a molti stranieri", valeva non solo per Mussolini e la R.S.I., ma anche per la Monarchia e per Badoglio, per il Cln e in misura di gran lunga superiore a qualsiasi altra per il Partito comunista. Si evidenziò come nel campo del vincitore esistessero due progetti, diversi e contrapposti, riguardo all’Italia e ciò fu la causa sia della posizione dal

contenuto "antitaliano" del Pci, che di quella di sostanziale indifferenza a riguardo del Clnai (137). In una situazione in cui le maggiori componenti politiche italiane erano già proiettate nelle lotta di potere dell’Italia post-bellica, alle autorità del Sud, dopo il fallimento del progettato sbarco comune a Trieste, non era rimasta altra scelta, per tentare di impedire l’annessione slava, che quella di cercare un ultimo, disperato accordo militare con la Decima Mas.

Quanto alla Conferenza di Londra le speranze di De Gasperi risultarono vane. Tutto preludeva all’amputazione di quei territori rimasti sotto il controllo militare titino, e Londra finì col favorire il colpo di mano slavo sull’Istria.

Junio Valerio Borghese venne spesso in seguito definito un capitano di ventura, e la X Mas l’ultima compagnia di ventura. E Borghese aveva le origini, l’audacia e il carisma per rivestire un ruolo di questo genere. Era "un comandante dal grande ascendente sui suoi marinai, un Principe romano che sapeva vivere da marinaio fra marinai, un uomo dalla grande disponibilità verso tutti, un signore che non alzava mai la voce" (l33). Ma questa comoda semplificazione, come sottolinea Guido Bonvicini, non rende giustizia ad un personaggio che, dopo il crollo dell’8 settembre, fece dell’autonomia la sua bandiera. Il suo ruolo storico, sostiene De Felice, il quale, fedele alla sua convinzione che la storiografia debba prescindere da condizionamenti politici, ideologici e moralistici, nel suo ultimo incompiuto volume della biografia mussoliniana dedica numerose e approfondite pagine alla figura del Comandante, fu essenzialmente quello di un "nazionalista che pensava di combattere apoliticamente una guerra, quasi personale, per l’onore della patria" (l39).

All’interno della Repubblica Sociale Italiana la Decima Mas visse una sua particolare realtà, spesso esaltante per i suoi uomini, e talvolta non compresa nelle sue componenti ideali e pratiche. Il suo forte spirito di corpo, la sua capacità di aggregazione, anche grazie all’eco delle eroiche gesta dei "maiali", ed il suo carattere prevalentemente nazional-patriottico, vennero a volte interpretati come l’intenzione di creare un potere alternativo. Ma fu un’interpretazione sbagliata e sicuramente smentita da una sostanziale e costante lealtà di fondo.

NOTE

1 F.W. Deakin, La brutale amicizia, op. cit., pp. 966-967.

2 J.V. Borghese, Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, op. cit., pp. 135-136.

3 R. De Felice, Rosso e Nero, op. cit., p. 131. Nella lotta di resistenza jugoslava, caratterizzata dalla particolare asprezza degli scontri, frutto di una mentalità forgiata da secolari quanto crudeli lotte contro i Turchi, assunse un sempre maggiore peso la componente comunista, capeggiata da Josip Broz Tito. I partigiani titini diedero vita al Consiglio Antifascista per la Liberazione Nazionale della Jugoslavia (A.V.N.O.J.)

e deliberarono la trasforrnazione dei reparti partigiani in unità regolari con la fondazione dell’Esercito di Liberazione della Jugoslavia (N.O.V.J.). Fu durante la conferenza di Teheran del novembre 1943 che Churchill convinse gli Alleati a sacrificare i cetnici serbi e filo monarchici di Draza Mihailovic a favore di Tito, il quale ovviamente godeva anche del sostegno russo. Dopodiché Churchill fece pressione su re Pietro II, in esilio a Londra, affinché riconoscesse Tito come unico capo del movimento clandestino jugoslavo. Cfr. Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano, Mursia, 1973, pp. 95 e segg.; Christopher Cviic, Rifare i Balcani, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 34 e segg. ed infine Antonio Giulio M. de Robertis, Le grandi potenze e il confine giuliano 1941-1947, Bari, Ed. Fratelli Laterza, 1983, pp. 99 e segg.

4 Per un approfondimento degli avvenimenti di Trieste nei giorni successivi all’armistizio cfr. Giovanni Esposito, Trieste e la sua odissea. Contributo alla storia di Trieste e del "Litorale Adriatico" dal 25 luglio 1943 al maggio 1945, Roma, Superstampa, 1952, pp. 31 e segg.

5 Cfr. Luigi Papo, L’Istria e le sue foibe. Storia e tragedia senza la parola fine. Vol. I, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 1999, pp. 45 e segg. e Galliano Fogar, Sotto l’occupazione nazista nelle province orientali, Udine, Del Bianco Editore, 1968, pp. 17 e segg. Dalla Venezia Giulia furono deportati in Germania quasi trentamila soldati.

5 Per le terribili vicende di quei giorni cfr. Paolo de Francescani (pseudonimo di Luigi Pappo), Foibe, Roma, Centro Studi Adriatici, 1948; Luigi Pappo, L’ultima bandiera. Storia del Reggimento "Istria", Gorizia, L’Arena di Polla, 1986, e per un dettagliato elenco delle vittime cfr. dello stesso autore L’Istria e le sue foibe, op. cit., pp. 53 e segg.; Fulvio Molinari, Istria contesa. La guerra, le foibe, l’esodo, Milano, Mursia, 1996, pp. 24 e segg. L’autore calcola che il numero degli infoibati e fucilati del settembre-ottobre 1943 sia intorno alle 600-800 persone. Cfr. anche Paola Romano, La questione giuliana. 1943-1947. La guerra e la diplomazia. Le foibe e l’esodo, Trieste, Lint-Unione degli Istriani, 1997, pp. 48 e segg.

6 B. C. Novak, Trieste 1941-1954, op. cit., pp. 103-104. Molti autori, tra cui lo stesso Novak, sostengono che alla proclamazione dell’atto di annessione abbiano partecipato anche i delegati del Partito comunista italiano dell’Istria, ma nel proclama di annessione, dove sono elencati i nomi dei partecipanti alla riunione, non risulta alcun italiano, fatta eccezione per Josip Budicin (ma anche la sua effettiva presenza è dubbia). Nella traduzione italiana della copia autentica del manifesto del proclama (stampato in una tipografia di Parendo) si può leggere: "Le guarnigioni italiane sono nelle nostre mani, i soldati scappano dalla nostra terra natale. Per la prima volta nella nostra storia il popolo prende il timone nelle sue mani". In L. Papo, L’Istria e le sue foibe, op. cit., pp. 56-57.

8 Prefetto e podestà di Trieste furono nominati rispettivamente Bruno Coceani e Cesare Pagnini, mentre prefetto per l’Istria divenne Ludovico Artusi. Sull’insediamento del prefetto a Trieste cfr. Bruno Coceani, Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d’Italia, Bologna, Cappelli, 1948. pp. 31 e segg. Il comando militare venne assunto dal generale Kubler; quello delle forze di Polizia dal Comandante delle SS generale Globocnik.

9 G. Fogar, Sotto l’occupazione nazista nelle province orientali, op. cit., p. 47.

10 Paolo Simoncelli, Caro Hitler dacci Istria e Dalmazia, in "L’Avvenire" del 24-8-1995. Per la politica tedesca nei confronti degli slavi cfr. G. Esposito, Trieste e la sua odissea, op. cit., pp. 132 e segg.

11 V. Ilari, L’impiego delle forze armate della R.S.I. in territorio nazionale, op. cit., pp. 176-178. Sull’azione dei bersaglieri del "Mussolini" in Venezia Giulia cfr. Teodoro Francesconi, Bersaglieri in Venezia Giulia (1943-1945), Alessandria, Casa editrice del Baccia, 1969. Tra i caduti del battaglione anche Enrico Negri, fratello maggiore di Toni Negri. Per la storia dell’occupazione della Venezia Giulia dal punto di vista tedesco con l’apporto di diari, memorie e documenti di ufficiali che ebbero un ruolo di primo piano nell’opera di consolidamento della presenza militare e che assistettero al tracollo ed alla sconfitta cfr. Roland Kaltenegger, Zona d’operazione Litorale Adriatico. La battaglia per Trieste, l’Istria e Fiume, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 1996. I tedeschi mettevano in campo di volta in volta quello che avevano sottomano, in qualche occasione anche intere divisioni che per un certo tempo stazionavano nella zona, come la 162a divisione turcomanna formata da turkmeni, georgiani, azerbagiani e caucasici. Ma i grandi reparti tedeschi raramente si fermavano in questo territorio.

12 Nino Arena, Soli contro tutti. Friuli-Venezia Giulia 1941-1945 (guerra, guerriglia, controguerriglia), Rimini, Edizioni Ultima Crociata, 1993, pp. 189 e segg. Ma la denominazione di Guardia Nazionale Repubblicana poté essere mantenuta. Testimonianza di Luigi Papo.

13 V. Ilari, op.cit.,p. 178.

14 Dopo 1’8 settembre ci fu un’ampia azione di reclutamento slavo-comunista, sia nei campi di prigionia che in Italia, tra soldati italiani sbandati o tra coloro che in buona fede erano convinti di combattere in primo luogo i tedeschi ed il fascismo. Paola Romano, La questione giuliana, op. cit., pp. 41 e segg. Sull’apporto dato dall’Esercito italiano in dissoluzione alle formazioni partigiane di Tito cfr. Luigi Papo, Albo d’oro, la Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale, Trieste, Unione degli Istriani, 1995, p. 199.

15 A.C.S., R.S.I., Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., b. 30, fasc. 238, "Situazione bande partigiane". In un appunto del Ministro Bonomi al Ministro De Gasperi del 1943-45 si legge come la "Osoppo" fosse fortemente ostacolata nella sua azione dalle brigate comuniste "Ippolito Nievo" e "Garibaldi". A.C.S., Presidenza del Consiglio dei Ministri 1948-50, ctg. E6. 1., b. 25049, sottofasc. I-A, "Situazione Venezia Giulia".

16 Sono qui riportate parte delle direttive che Togliatti inviò il 19 ottobre 1944 a Vincenzo Bianco, rappresentante del Pci presso il Partito comunista jugoslavo: "Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito. Questo significa che in questa regione non vi sarà né un’occupazione inglese, né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera dell’Italia, si creerà una situazione democratica... Questo vuol dire che i comunisti devono prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono a favore dell’imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualche modo a creare discordia tra i due popoli. Questa direttiva vale anche e soprattutto per la città di Trieste... Il Partito è tenuto in tutta l’Italia settentrionale e in tutte le regioni già libere, a sviluppare un’ampia campagna di solidarietà e per la collaborazione più stretta coi popoli della Jugoslavia e col loro governo ed esercito nazionale". In Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Vol. V. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1982, pp. 437-438.

17 Come conseguenza degli accordi tra Togliatti e i dirigenti jugoslavi, nel novembre del ‘44 le formazioni garibaldine del Friuli passarono sotto i comandi del IX Korpus jugoslavo. La stessa richiesta fu fatta alla Osoppo, la quale però rifiutò. Il 7 febbraio 1945 venti osovani (tra cui Guido Pasolini, fratello di Pierpaolo) furono uccisi alle Malghe di Porzus da un folto gruppo di partigiani garibaldini. Il responsabile dell’eccidio, Mario Toffanin, comandante della brigata, dopo essere stato condannato per quei fatti fu poi graziato da Pertini. Non è ancora stato stabilito chi diede l’ordine effettivo di uccidere, ma non sembrano esserci molti dubbi sui responsabili. Cfr. ad esempio Dario Fertilio, L’ombra di Togliatti su Porzus, "Corriere della Sera", 23 agosto 1997. Molto interessante per comprendere il clima in cui maturò questa vicenda è la deposizione al processo per l’eccidio di Porzus del presidente del Clnai Alfredo Pizzoni: "Il maresciallo Tito fece il suo gioco, che fu il seguente: portare avanti la sua occupazione al massimo possibile, dare etichetta jugoslava, con ogni mezzo, ai territori conquistati, salvo poi negoziare con i governi che sarebbero sorti, comunista in Italia, come sognava, o meno… Per noi Italiani, viene la domanda: "Fino a che punto vale l’amor di Patria e quanto vale la disciplina di partito?". Domanda tristissima, e nella risposta sta il giudizio per l’eccidio di Porzus". La questione della frontiera orientale tra Cln e Alleati. Deposizione al processo per l’eccidio di Porzus di Alfredo Pizzoni, (a cura di Pietro Neglie), in "Nuova Storia Contemporanea", n. 1 novembre-dicembre 1997, pp. 104 e segg.

18 Oddone Talpo, Dalmazia una cronaca per la storia 1943-1945, Vol. III, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1994 pp. 1360 e segg., sugli effetti dei bombardamenti a Zara cfr. Padre Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350 mila giuliani, fiumani e dalmati, Roma, Ed. Difesa Adriatica, 1990, pp. 503 e segg.

19 A.U.S.S.M.M., Marina della R.S.I., b. F, fasc. 7, rel. cit.

20 J.V. Borghese, Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, op. cit., pp. 141-142.

21 G. Bonvicini, Decima marinai! Decima comandante!, op. cit., pp. 95-100.

22 IVi, pp. 105 e segg. Cfr. anche R. Lazzero, La Decima Mas, op. cit., pp. 131 e segg. G. Roberti, Il mio Comandante, op. cit., pp. 18-23.

23 Cfr. Cino Boccazzi, Missione Col di Luna. Cronaca partigiana del Friuli (1944-1945), Milano, Rusconi, 1977. Lo scopo della missione era di tentare di coordinare militarmente la "Osoppo" e la "Garibaldi". Come scrive Boccazzi nel citato volume, che è appunto il racconto della sua missione, "terremo i collegamenti con tutte le missioni delle montagne, della Slovenia e della pianura veneta. Dovremo vivere coi reparti partigiani, istruirli nell’uso di determinate armi ed esplosivi, formare e guidare dei commandos per determinate azioni". Ivi, p. 21.

24 J.V. Borghese, op. cit., p. 155.

25 Maria Pasquinelli, nata a Firenze ma domiciliata a Trieste, volontaria nella Croce Rossa, fu sorpresa dall’armistizio in Dalmazia e arrestata dai partigiani di Tito entrati nel frattempo a Spalato. Quando i tedeschi occuparono la città, venne scarcerata e ottenne il permesso di procedere all’esumazione delle vittime dei partigiani da una fossa comune di Spalato. Dopo un breve soggiorno a Milano, andò in Istria dove redasse una relazione sulla grave situazione della Venezia Giulia che successivamente inviò ai partigiani della Franchi, al Cln di Udine, ai partigiani della Osoppo, a Italo Sauro e a Borghese. Il suo progetto era di unire tutte le forze non comuniste operanti in Venezia Giulia per ostacolare la penetrazione slava. Il 10 febbraio 1947, il giorno della firma del Trattato di Pace a Parigi, Maria Pasquinelli uccise con tre colpi di pistola il generale inglese Robert W. de Winton, comandante della guarnigione alleata di Pola, per protesta contro l’atteggiamento dei vincitori che avevano "deciso di strappare al grembo materno le terre più sacre dell’Italia". Processata, condannata a morte dal tribunale alleato, la pena fu commutata poi in ergastolo. Dopo 18 anni uscirà dal carcere per ritirarsi in convento dove vive tuttora. La documentazione da lei raccolta

in Istria e consegnata a Borghese si trova ora all’Archivio Papo: Carteggio X MAS - Maria Pasquinelli. Per le deposizioni di Maria Pasquinelli al processo da lei subito nel 1947 cfr. L’Arena di Pola, numeri 2656-2657-2658, rispettivamente 22 settembre, 29 settembre e 6 ottobre 1990.

26 C. Boccazzi, op. cit., pp. 216-217.

27 Ibidem.

28 G. Bonvicini, op cit., pp. 110-111.

29 Cfr. J.V. Borghese, op. cit., pp. 156-157. Nella deposizione al processo di Lucca sulla strage di Porzus Candido Grassi dichiarò che non si trattò di un incontro ma che egli inviò a Morelli un memoriale. R. Lazzero, La Decima Mas, op. cit., pp. 145-146.

30 Testimonianza di Sergio Nesi, allegato n. 1.

31 R. Lazzero, op. cit., pp. 148-149, in lingua originale a p. 258, nota 34.

32 I messaggi radio di "Nicholson" si trovano al British War Museum di Londra e sono pubblicati in R. Lazzero, op. cit., pp. 149 e segg., in lingua originale a pp. 259- 260, note 35-38-39. Cfr. anche Richard Larnb, La guerra in Italia 1943-1946, Milano, Corbaccio, 1996, pp. 329-331.

33 J.V. Borghese, op. cit., p. 158.

34 Cfr. A. Zarotti, Nord-Sud I nuotatori paracadutisti, op. cit., pp. 89 e segg.

35 Cfr. G. Bonvicini, Il battaglione Lupo, op. cit., pp. 80 e segg.; E. Maluta, La Decima non ammaina. Storia del Battaglione Lupo, op. cit., pp. 24-31 e pp. 10-20; L. Fulvi, T. Marcon, O. Miozzi, Le fanterie di marina italiane, op. cit., pp. 299-300. Il motto del battaglione "Lupo" era: "Fosse anche la mia purché l’Italia viva".

36 V, Ilari, L’impiego delle forze armate della R.S.I. in territorio nazionale, op. cit., p. 200. Le forze erano completate dal comando divisione con la sussistenza, l’autoparco, la polizia militare e l’ufficio propaganda.

37 Dichiarazione di Wolff all’autore, in R. Lazzero, La Decima Mas, op. cit., p. 154. Cfr. anche N. Arena, Soli contro tutti, op. cit., pp. 247 e segg.

38 A.C.S., R.S.I., Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., b. 59.

39 I "domobranci" erano formazioni di milizia territoriale slovena, formatesi nel periodo in cui la Slovenia, dopo la prima fase vittoriosa guerra, era entrata nella zona di influenza italiana. Nei territori dove era più acuta la pressione comunista, i comandi militari italiani avevano infatti favorito la formazione di milizie "bianche" anticomuniste. Con il crollo dell’Italia i tedeschi sostennero e rinforzarono i "domobranci", affidando loro il presidio delle zone Carsiche e di Gorizia, nonché acconsentendo allo stabilimento di loro reparti a Trieste. G. Esposito, Trieste e la sua odissea, op. cit., pp. 130-131.

40 Cfr. G. Bonvicini, Decima marinai! Decima comandante!, op. cit., p. 121; J.V. Borghese, op. cit., p. 143 e G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, op. cit., pp. 1049 e segg.

41 A.C.S., Carte Spampanato, b. 2, fasc. "R.S.I. Decima Mas", "La X Flottiglia Mas".

42 A.C.S., R.S.I., Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., b. 12, fasc. 11 (Gorizia), "Relazione riservata personale al comandante della X Mas in data 21 dicembre 1944. Oggetto: Situazione politico-militare di Gorizia. Firmata dal comandante Luigi Carallo".

43 N. Arena, Soli contro tutti, op. cit., p. 250.

44 Teodoro Francesconi, Gorizia 1940-1947, Milano, Edizioni dell’Uomo Libero, 1990, p. 153. Cfr. A.U.S.S.M.M., Marina della R.S.I., b. N, fasc. 7, "Atti riguardanti militari del Battaglione Bersaglieri Volontari B. Mussolini arruolatisi arbitrariamente nella X Mas - Proteste da parte dei superiori", 28-30 gennaio 1945.

45 S. Nesi, Decima flottiglia nostra..., op. cit., pp. 132-133.

46 J.V. Borghese, op. cit., pp. 148-149.

47 R. Lamb, La guerra in Italia, op. cit., p. 337; cfr. inoltre B.C. Novak, Trieste 1941-1954, op. cit., pp. 123 e segg.

48 Il 18 ottobre 1944 Chuchill e Stalin firmarono a Mosca un accordo che stabiliva la spartizione delle zone d’influenza nell’Europa danubiana e balcanica. Nell’inverno 1944-45 i russi avanzarono impetuosamente in Europa: il 19 ottobre 1944 l’Armata Rossa giunse a Belgrado, il 1° novembre occupò tutti i paesi Baltici, il 13 febbraio 1945 arrivò a Budapest, il 23 dello stesso mese a Poznan, il 29 marzo penetrò nel territorio austriaco, il 30 conquistò Danzica.

49 D. De Castro, La questione di Trieste, op. cit., p. 204. Naturalmente ciascuno degli Alleati aspirava ad un diverso modello di Stato jugoslavo postbellico e di conseguenza vi furono numerose divergenze sulla politica da seguire nei confronti di Tito. Il Presidente americano Roosevelt, ad esempio, aveva nutrito forti dubbi circa l’opportunità di ricostruire una Jugoslavia unita, al contrario di Churchill. Inoltre il Comandante Supremo alleato nel Mediterraneo, l’inglese Wilson (poi sostituito da Alexander), aveva proposto sin dal giugno 1944 di effettuare in Istria, invece che in Provenza, lo sbarco secondario sulle coste meridionali dell’Europa in appoggio all’invasione in Normandia. Ma gli americani non avevano voluto un coinvolgimento delle proprie truppe nei Balcani. Per un approfondimento della politica angloamericana riguardo la Venezia Giulia cfr. John Gooch, Trieste nella politica anglo-americana, in "L’Italia in guerra. Il sesto anno-1945", Commissione italiana di Storia Militare, Gaeta, 1996, pp. 321-328.

50 Giorgio Petracchi, La ripresa delle relazioni internazionali del Regno del Sud, in "L’Italia in guerra. Il quinto anno. 1944", Roma, Commissione italiana di Storia Militare, 1995,pp. 115-138

51 Sulle richieste italiane di una tempestiva occupazione alleata della Venezia Giulia e sulla risposta alleata cfr. Ministero degli Affari Esteri, Documenti Diplomatici Italiani (d’ora in poi DDI), Decima serie (1943-1948), vol. I (9 settembre 1943 - 1l dicembre 1944) Visconti Venosta a Stone, 15.08.1944, d. 344; Stone a Visconti Venosta, 11.09.1944, DDI, s. 10 a, vol. I, d. 399; Bonomi a Stone, 16.09.1944, DDI, s. IOa,vol.I,d.405.

52 Il 1° agosto 1944, il Direttore generale degli affari politici del Ministero degli Esteri, Vittorio Zoppi, in un appunto a Visconti Venosta, indicava la necessità di chiedere al Comando Supremo "per l’eventualità che esso abbia segreti contatti con Comandi ed unità della pseudo Repubblica Sociale, di interessare tali comandi a presidiare i paesi della Venezia Giulia appena si verificassero i primi segni del collasso germanico. Se ciò non fosse possibile, non rimarrebbe che segnalare tale situazione alle Autorità alleate prospettando l’opportunità che, ad evitare massacri, le zone in questione siano - appena i Tedeschi le abbandoneranno - occupate non dai partigiani slavi, ma dalle truppe anglo-americane (possibilmente con unità italiane) che dovrebbero essere tempestivamente trasportate a Trieste, via mare". Zoppi a Visconti Venosta, 01.08.1944, DDI, s. 10 a, vol. I, d. 312.

53 Raffaele De Courten, Le memorie dell’Ammiraglio De Courten (1943-1946), Roma, U.S.M.M., 1993, p. 546.

54 Ibidem.

55 Sergio Nesi, Il cosiddetto "piano De Courten" e la difesa dei confini orientali, in "Storia Verità", n. 22, luglio-agosto 1995, pp. 23-25. Nesi riporta dichiarazioni fatte a lui personalmente dal generale Mastragostino.

56 Ibidem.

57 R. De Courten, Le memorie dell’Ammiraglio De Courten, op. cit., p. 547-548.

58 Ibidem.

59 S. Nesi, Il cosiddetto "piano De Courten", op. cit..

60 Cfr. Fabio Andriola, 1944-1945: La strana alleanza tra marinai del Sud e della R.S.I. per difendere Trieste e le terre dell’Est, in "Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare", Roma, anno XII, marzo 1998, pp. 119-142. Il Reggimento "San Marco", incorporato nella Divisione "Folgore", combatteva lungo la "Linea Gotica" ed un suo spostamento non era più possibile. Ma si sarebbero potuti impiegare gli "NP" del Sud che, tra l’altro, alla fine del conflitto arrivarono, via terra, per primi a Venezia. A. Zarotti, Nord-Sud. I nuotatori paracadutisti, op. cit., pp. 167- 168.

61 S. Nesi, Decima flottiglia nostra..., op. cit., pp. 104-105 e p. 107.

62 Deposizione del comandante Agostino Calosi al processo Borghese, udienza del 21 novembre 1948, in Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, op. cit., 131.

63 R. De Felice, Rosso e Nero, op. cit., p. 132.

64 A.U.S.S.M.M. Memoriale De Courten, b. 3, fasc. 85, "Rapporto del tenente di vascello Zanardi sull’attività svolta dall’8 settembre 1943 al 21 agosto 1944", datato 21 agosto 1944.

65 Ivi, Promemoria del capitano di vascello Calosi, del 25 ottobre 1944 "Missione del T.V. Zanardi". Calosi scrive che "al suo rientro lo Zanardi è stato fermato dalle Autorità Britanniche alle quali egli ha consegnato al completo la relazione. Successivamente per mio intervento presso il Magg. Page lo Zanardi è stato lascito libero di proseguire per Roma. Il Colonnello inglese Gibson della Security nel territorio italiano nell’occasione ha scritto una lettera alla Commissione Alleata di Controllo per la Marina nella quale si fanno rimostranze per l’avvenuto passaggio delle linee da parte di un militare italiano per iniziativa del S.I.S.".

66 Ivi, "Relazione di Zanardi su come si è svolta la missione effettuata in Italia Settentrionale per conto del S.I.S. dal 14 settembre al 20 ottobre 1944" - Allegato n. I (Colloquio con l’ammiraglio Sparzani e con il ten. di vascello Manincor). Quest’ultimo era l’aiutante di bandiera dell’ammiraglio.

67 Ivi, allegato n. 4 (colloquio con il comandante Borghese). Zanardi, in una testimonianza giurata al processo Borghese, in data l’8 dicembre 1948, dichiarò che lo scopo della sua missione era quello di "proporre due cose utili per l’interesse d’Italia: 1) far trovare Trieste in mani italiane al momento della liberazione… 2) cercare di ottenere che la Marina repubblicana svolgesse azione efficace per salvaguardare le industrie… Borghese mi disse che tutto questo lo faceva di sua iniziativa… quando sono tornato al Sud, ho dovuto dire che avevo ottenuto quanto richiesto ma che non c’era alcun merito perché Borghese lo aveva già fatto". In Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, op. cit., p. 132.

68 R. De Courten, Le memorie dell’Ammiraglio De Courten, op. cit., p. 551.

69 A.U.S.S.M.M., Memoriale De Courten, b. 3, fasc. 85, Promemoria del II Reparto dello Stato Maggiore della Marina del 14 marzo 1945 sull’"Atteggiamento delle FF.AA. della Repubblica Sociale Italiana nella questione dei confini orientali".

70 Ivi, lettera di Gasparotto a Bonomi, in data 3 marzo 1945. La lettera fu poi trasmessa da Bonomi a De Courten aggiungendovi che il ministro "ignorava le origini dei propositi e le finalità a cui tendono".

71 Ivi, Nota del maresciallo Messe del 7-3-1945, prot. n. 55259/S, oggetto: "Difesa della Venezia Giulia da parte della X Mas", dove si legge che "reparti della X flottiglia Mas con a capo il comandante Borghese, all’atto della cacciata dei tedeschi dall’Italia, avrebbero in animo di difendere l’italianità della Venezia Giulia... Attualmente gran parte dell’unità si trova dislocata nella Venezia Giulia per la lotta antipartigiana ma secondo il Borghese lo schieramento è stato da lui attuato a salvaguardia e protezione dell’italianità di quelle popolazioni".

72 R. De Courten, Le memorie dell’Ammiraglio De Courten, op. cit., p. 553.

73 A.U.S.S.M.M., Memoriale De Courten, b. 3, fasc. 85, relazione dell’ingegner Giulio Giorgis del 23-4-1945. Giorgis accennò anche al fatto che alcune forze del Sud stavano convergendo ad Ancona, pronte per essere traghettate al di là dell’Adriatico. In realtà questa spedizione non ebbe mai luogo poiché contrastante con gli interessi strategici e politici angloamericani del momento.

74 J.V. Borghese, Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia MAS, op. cit., pp. 192-193.

75 Ibidem.

76 A.U.S.S.M.M., Memoriale De Courten, b. 3, fasc. 85, lettera di Marceglia a De Courten del 1956 sullo svolgimento della propria missione, richiesta da quest’ultimo per stendere le proprie memorie. Della relazione immediatamente posteriore a quegli eventi si sono infatti perse le tracce. Tornato dalla prigionia, Marceglia aveva fondato a Taranto la "Lega Adriatica" con lo scopo dichiarato di dare assistenza ai militari e ai civili giuliani dislocati in città e quello celato di selezionare elementi adatti per essere inviati oltre le linee in modo da costituire gruppi di resistenza patriottica.

77 "R. De Courten, Le memorie dell’Ammiraglio De Courten, op. cit., p. 553. A guerra finita, il Reparto Informazioni cercò di sminuire la portata dell’iniziativa e di attribuirle finalità esclusivamente antitedesche e antirepubblicane, politicamente meno compromettenti. A.U.S.S.M.M., Memoriale De Courten, b. 3, fasc. 85, Promemoria del 25 giugno 1945, "Missione Marceglia".

78 In S. Nesi, Decima Flottiglia nostra..., op. cit., p. 112. Cfr. anche F. Andriola, 1944-1945: La strana alleanza tra marinai del Sud e della R.S.I., op. cit., pp. 136-137.

79 R. De Felice, Rosso e Nero, op. cit., p. 133. Gli inglesi, a operazioni belliche finite, fecero saltare con i "maiali" della Decima una nave, o forse due, che trasportava dalla Jugoslavia armi per gli ebrei in Palestina. Ibidem.

80 Nelle sue memorie, Borghese annota l’incontro con Marceglia il 29 marzo. Cfr. J.V. Borghese, op. cit., p. 181.

81 A.U.S.S.M.M., Memoriale De Courten, b. 3, fasc. 85, rel. cit.. Cfr. anche la testimonianza di Marceglia al processo Borghese, udienza del 1° dicembre 1948, in J.V. Borghese, op. cit., pp. 181-182.

82 R. De Courten, Le memorie dell’Ammiraglio De Courten, op. cit., p. 555.

83 S. Nesi, Il cosiddetto "piano De Courten", op. cit., p. 27.

84 J.V. Borghese, op. cit., p. 131-

85 G. Bonvicini, Decima marinai! Decima comandante!, op. cit., pp. 121-122.

86 A.C.S., R.S.I., Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., b. 29, fasc. 238, sottofasc. 2, "Rapportino sulla situazione militare in Venezia Giulia del 31 gennaio 1945", dove si legge che: "Mentre precedeva una colonna di rifornimento, il comandante della Divisione X, Carallo, veniva colpito mortalmente da una raffica di mitragliatrice sulla strada Gorizia-Chiapovano. Un ufficiale italiano, uno tedesco e l’autista rimanevano feriti, ma riuscivano ugualmente ad allontanarsi dalla macchina nel tentativo di raggiungere la colonna per il soccorso necessario. Prima che questa giungesse sul posto, circa 80 partigiani si avvicinavano alla vittima, denudandolo". Cfr. inoltre ivi, b. 73, sottofasc. 10, "Relazione del maggiore della G.N.R. Angelo Antico, Capo Ufficio "C" di questo Servizio presso lo Stato Maggiore della Marina, circa il brillante comportamento della Divisione X MAS contro bande partigiane nel Goriziano, con particolari sulla morte del C.F. Carallo, Caduto sul campo", datata 15 gennaio 1945, che alla fine conclude "la presenza della X ha risollevato il morale delle popolazioni italiane nella zona di Gorizia e non sono casuali le manifestazioni di simpatia che accompagnano i reparti là dove sono rimasti nuclei di italianità".

87 Per un approfondimento tattico-militare dell’operazione Adler cfr. T. Francesconi, Bersaglieri in Venezia Giulia, op. cit., pp. 260 e segg.; N. Arena, Soli contro tutti, op. cit., pp. 250 e segg.; M. Perissinotto, Duri a morire, op. cit., pp. 143 e segg.; R. Lazzero, La Decima Mas, op. cit., pp. 157 e segg. Per una maggiore chiarezza sui luoghi interessati dall’operazione cfr. Ia cartina in allegato.

88 Una compagnia del XIV Costiero presidiava Gargaro, mentre ulteriori capisaldi erano occupati dai militari germanici (Sambasso, Aisovizza e Monte Santo).

89 Per il piano operativo slavo cfr. Marino Perissinotto, La battaglia di Tarnova, in "Storia del XX secolo", n. 20 gennaio 1997, pp. 30-44.

90 Anche dei reparti del "Mussolini" e del "Tagliamento", di presidio nelle valli vicine, concorsero alle operazioni di alleggerimento a favore di Tarnova, con il compito di impedire che filtrassero dei rinforzi per i partigiani. G. Bonvicini, Decima marinai!, op. cit., pp. 132 e segg.

91 Sui fatti di Tarnova della Selva cfr. A.C.S., R.S.I., Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., b. 48, fasc. 546, "Relazione ufficiale presentata al Duce datata 15 febbraio 1945" (scritta da un guardiamarina superstite). Cfr. inoltre le relazioni del guardiamarina Antonio Minervini (II compagnia) e del tenente di vascello Elio Bini, comandante del "Fulmine", dettata al serg. A.U. Prestipino Filippo subito dopo il rientro a Gorizia (23 o 24 gennaio 1945) pubblicate in Battaglione Fulmine. X Flottiglia Mas (1944-1945). Documenti e immagini, a cura di Maurizio Gamberini e Riccardo Maculan, Bologna, Ed. Lo Scarabeo, 1994, pp. 157 e segg. In quest’opera sono anche riportate ulteriori testimonianze di reduci della battaglia, un’ampia documentazione fotografica e i nominativi dei caduti del battaglione. Infine cfr. anche M. Perissinotto, La battaglia di Tarnova, op. cit., pp. 30-44; Gianfranco La Vizzera, Il Battaglione "Fulmine" della X MAS, in "Storia del XX secolo", n. 20 gennaio 1997; Ricciotti Lazzero, "La verità sulla battaglia della X MAS nella Selva di Tarnova", in "La Resistenza Bresciana", n. 19 aprile 1988, pp. 66-76.

92 Sempre il 26 gennaio 1945 il maresciallo Graziani indirizzò a Borghese una missiva rendendola nota per conoscenza a Mussolini, al sottosegretariato di Stato per la Marina e all’ufficiale tedesco di collegamento presso il ministero delle FF.AA., avente lo scopo di cercare d’irreggimentare quell’organismo anomalo, come era ormai considerata la Decima, e soprattutto di mettere in fila il suo comandante. Vi si legge che: "il carattere volontaristico al cento per cento, l’entusiasmo e la fede nella riscossa della Patria che costituiscono il patrimonio degli uomini che la compongono, rimarrebbero sterili se non fossero cementati dallo spirito di disciplina, forza insostituibile di ogni organismo militare. Occorre, perciò, allinearsi al più presto anche in questo campo, eliminando tutte quelle esuberanze e quegli eccessi che da varie parti vengono segnalati e che non possono non nuocere all’efficienza bellica della divisione... Senza disciplina ferrea nessuna formazione militare può reggere alla prova del fuoco - mentre noi vogliamo che la divisione Marina "X" diventi poderoso strumento di guerra, ben temprato nelle mani del suo comandante". A.C.S., R.S.I., Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., b. 39, fasc. 16, "Divisione di Marina X".

93 Nel gennaio 1945 una delegazione di alti funzionari del regime di Salò si recò da Rahn per esaminare con lui la crisi dell’amministrazione repubblicana. Ne facevano parte Graziani, Pavolini, Pellegrini, Buffarini Guidi, Barracu e Mazzolini. Tra le altre cose si chiedeva un chiarimento sulla situazione nelle due "zone di operazione". Dopo una lunga controversia sull’opera di "snazionalizzazione" compiuta dai tedeschi in quelle province, Rahn dichiarò di non credere "per ora possibile il ristabilimento della completa sovranità italiana in quelle zone ...Ci sono oggi diecimila sloveni che combattono contro le bande di Tito; ci sono unità croate che fanno altrettanto. Essi… non lo farebbero sotto la guida italiana. Bisogna considerare questi dati psicologici per rendersi conto di quanto sia necessario mantenere queste popolazioni nell’attuale regime". F.W. Deakin, La brutale amicizia, op. cit., pp. 986 e segg.

94 A.C.S., Carte Spampanato, b. 2, fasc. "R.S.I. Decima Mas", rel. cit.

95 G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, op. cit., pp. 1059-1060.

96 Borghese avrebbe voluto sostituire Carallo con Enzo Grossi, ma il comando tedesco si oppose alla sua candidatura a causa dell’origine ebraica della moglie. J.V. Borghese, op. cit., p. 162. I rapporti tra il generale Corrado e la "Decima" non furono dei migliori. Egli infatti, in un rapporto al Duce, pur affermando che questa era "dotata di un materiale umano di primissimo ordine" e che era "ottimamente attrezzata", criticava aspramente il fatto che essa volesse affrontare i compiti a lei assegnati "con quadri forniti esclusivamente dalla Marina" e più precisamente da "un ristrettissimo gruppo di Ufficiali Superiori sommergibilisti". Inoltre il generale lamentava "i continui interventi del Comandante Borghese nel funzionamento interno della Divisione, svalorizzando gravemente la funzione di comando. Ogni gesto del Comandante Borghese e dei suoi fiduciari rileva ad ogni istante quanto sia mal tollerata l’imposizione di un Generale dell’Esercito quale comandante divisionale". Ed aggiungeva: "I’altissimo spirito di corpo della X è esso conseguenza esclusiva di quello che distingue la Marina? E’ esso esclusivo frutto delle vicende operative della Divisione e del suo spirito volontaristico spregiudicato? Sarebbe azzardato affermarlo. O quanto meno può esserlo solo parzialmente e da parte di qualche elemento in buona fede. La X Divisione appare e vuole essere una G.U. che si batte sotto bandiera repubblicana. Nella realtà costituisce una forza che si pretende resti a disposizione del Comandante Borghese". Sulla fedeltà del quale il generale Corrado alla fine della sua relazione avanzava numerosi dubbi. A.C.S., R.S.I., Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., b. 39, fasc. 16, "Rapporto in data 29 marzo 1945 del Generale G. Corrado, Comandante la X Divisione M.A.S.".

97 L. Fulvi, T. Marcon, O. Miozzi, Le fanterie di marina italiane, op. cit., p. 300. "NP" e "Colleoni" andarono a far parte della 362ª divisione di fanteria tedesca che già aveva avuto nelle sue file il "Lupo", mentre il "Barbarigo" fu integrato nella 4ª divisione paracadutisti del generale Trettner. Il 1° aprile, giorno di Pasqua, Borghese andò in visita ai reparti sul fronte del Senio.

98 Ciò dipese non soltanto dalla mancanza di piani di lungo periodo nel perseguire obiettivi militari, ma anche dalle divergenti priorità politiche da parte di inglesi e americani sulla strategia da attuare nel Mediterraneo. Se infatti da una parte la Gran Bretagna aveva cercato di utilizzarvi quelle forze che sarebbero altrimenti rimaste inattive fino al completamento dei preparativi per il secondo fronte, allo scopo di ripristinare la sua egemonia in quell’area, dall’altra parte gli Stati Uniti volevano concentrare tutte le risorse nel preparare l’invasione dell’Europa occidentale attraverso il canale della Manica, sospettosi di quelli che essi consideravano gli "obiettivi imperialistici" britannici. Ne nacque una strategia improntata ad una sorta di compromesso tra le due impostazioni che si risolse in una penetrazione nel Mediterraneo dall’andamento incerto e male coordinato, finché, nell’estate del 1944, con il trasferimento di numerose divisioni dall’Italia sugli altri fronti, la campagna d’Italia fu relegata al ruolo che gli americani le avevano attribuito fin dall’inizio: un’operazione secondaria che tenesse impegnato il maggior numero di truppe nemiche. Elena Aga Rossi e Bradley F. Smith, La resa tedesca in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 41 e segg.

99 Per le trattative svoltesi in Svizzera cfr. ivi, pp. 96 e segg. e F.W. Deakin, La brutale amicizia, op. cit., pp. 1014.

100 V. Ilari, L’impiego delle forze armate della RSI in territorio nazionale, op. cit., p. 203. Sul fronte italiano Kesselring era stato sostituito dal generale von Vietinghoff.

101 G. Bonvicini, Decima marinai!, op. cit., pp. 157 e segg. Il "Lupo", dopo aver trascorso un periodo addestrativo a Marostica (Vicenza) si era attestato, il 22 aprile, sul Po, e successivamente si era ricongiunto al I gruppo. Sul ripiegamento e la resa di questi reparti cfr. M. Perissinotto, Duri a morire, op. cit., pp. 181 e segg.; G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, op. cit., pp. 1060 e segg.; E. Maluta, La Decima non ammaina, op. cit., pp. 25 e segg; G. Bonvicini, Battaglione Lupo, op. cit., pp. 265-266.

102 A. Zarotti, I nuotatori paracadutisti, op. cit., pp. 163 e segg. A Venezia furono salutati calorosamente dagli "NP" del San Marco del Sud che avevano risalito la penisola con gli Alleati.

103 Per le modalità della resa di questi reparti cfr. G. Bonvicini, op. cit., pp. 183 e segg.; M. Bordogna, Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, pp. 219 e segg.; G. La Vizzera, Il battaglione Fulmine della X MAS, op. cit., pp. 15-16; M. Gamberini e R. Maculan, Battaglione Fulmine, op. cit., pp. 146-148. G. Roberti, Il mio Comandante, pp. 28-31. Per tutti quei reparti non facenti parte della "Divisione Decima" cfr. S. Nesi, Decima Flottiglia nostra..., op. cit., pp. 304 e segg.

104 In linea di massima, quelli che vennero catturati dalla V armata americana andarono a finire al 337° POW Camp di Coltano in provincia di Pisa; quelli presi in consegna dagli inglesi, dopo le peregrinazioni in vari campi della penisola, furono condotti in Algeria al 211° POW Camp di Cap Matifou. Altri trascorsero il loro periodo di prigionia in diversi campi in Italia. Quando, il 12 giugno 1945, arrivò nel campo algerino il maresciallo Graziani, il comandante del campo ne affidò la sicurezza al gruppo di "maggiore compattezza": la Decima Flottiglia Mas. Per la fase della prigionia cfr. Luigi Del Bono, I reticolati non fanno ombra, Savona, Ed. Liguria, 1988. Si può in quest’occasione ricordare che una delle clausole del Trattato di Pace (10 febbraio 1947) prevedeva la distruzione di tutti i mezzi d’assalto rimasti alla Marina italiana e ne vietava la futura ricostruzione (Art. 59). Sulle restrizioni del Trattato riguardanti la Marina cfr. Michele Cosentino e Ruggero Stanglini, La Marina Militare Italiana, Firenze, EDAI, 1995, pp. 10-13.

105 Sull’azione svolta da Arillo per salvaguardare il porto di Genova cfr. S. Nesi Decima Flottiglia nostra..., pp. 319 e segg. e la sua deposizione al processo Borghese, udienza del 14 dicembre 1948, in Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas op. cit., pp. 188-189 e pp. 194 e segg. Il 23 aprile Arillo ordinò l’"Operazione Onore" a cui si è già accennato: tredici "barchini d’assalto" sferrando l’ultimo attacco nelle acque francesi, vennero annientati. S. Nesi, op. cit., pp. 326 e segg.

106 F. Molinari, Istria contesa, op. cit., pp. 47-48.

107 R. Lamb, La guerra in Italia, op. cit., pp. 337-338 e A.G. de Robertis, Le grandi potenze e il confine giuliano, op. cit., pp. 265-266.

108 Verso la fine di aprile, il generale Esposito, il dottor Sambo e il prefetto Coceani cercarono di costituire, per fronteggiare l’avanzata slava e permettere agli Alleati di occupare per primi la città, un "blocco comune di tutti gli italiani senza distinzione di partito" ma a causa dei contrasti con i membri del Cln triestino, ciò non fu possibile. Il Cln era convinto di riuscire a disarmare le truppe tedesche prima dell’arrivo delle forze alleate. Cfr. B.C. Novak, Trieste, op. cit., pp. 138 e segg. e G. Esposito, Trieste e la sua odissea, op. cit., pp. 181 e segg.

109 Nesi fu prima imprigionato in Algeria e poi nel Campo "S" di Taranto, da dove evase nell’aprile del 1946.

110 Francesco Fatutta, L’ultima difesa delle province perdute, in "Rivista Storica", Anno VIII, n. 4, aprile 1995, pp. 28-35.

111 Archivio Papo, "La fine della guerra a Pola - Comportamento della M.D.T.", note riservate tratte da appunti del cap. Carlo Bacchetta, s.d..

112 La relazione del comandante Marchini sulle trattative svolte con i tedeschi e con i comandi partigiani per mettere i reparti della Decima al servizio dell’ordine pubblico è riportata in "L’Arena di Pola", n. 6, 19 agosto 1969.

113 F. Molinari, Istria contesa, op. cit., pp. 65-66.

114 Sulla fine dei reparti italiani a Pola cfr. N. Arena, Soli contro tutti, pp. 331 e segg.; S. Nesi, op. cit., pp. 136 e segg. e L. Papo, L’Istria e le sue foibe, op. cit., pp. 219 e segg. Per quanto riguarda la squadriglia "Longobardo": il C.B. 6 fu affondato da aerei il 3 aprile 1945 presso Cattolica; il C.B. 18 si autoaffondò a Pola il 30 aprile 1945; il C.B. 20 venne catturato a Pola dagli jugoslavi (attualmente è conservato al Museo delle Scienze di Zagabria); il C.B. 22 fu affondato da aerei britannici al largo di Lussinpiccolo l’11 marzo 1945. A. Turrini, Il minisommergibile: un miraggio storico, op. cit., p. 24.

115 Lino Vivoda, Fiume in esilio, in "Fiume. Rivista di studi fiumani", anno III, n. 6., ottobre 1983, pp. 31-74.

116 Fulvio Farba, Decima Mas in Istria, in "L’Arena di Pola", 15 aprile 1995.

117 L. Papo, Albo d’Oro, op. cit., pp. 351-355 e pp. 587-591. Il campo di concentramento di Curzola ospitò numerosi prigionieri della X Mas, ivi, p. 27.

118 Intervista a Borghese di Leo Scalmo, Borghese: non cedemmo, difendemmo la Venezia Giulia, in "Il Secolo d’Italia", 17 maggio 1953.

119 Secondo gli studi condotti da Luigi Papo le vittime accertate delle foibe, dopo la fine della guerra, oltre a otto soldati neozelandesi, sarebbero 832, mentre le vittime presunte ammonterebbero a 4.940 delle quali 2.500 gettate nella voragine di Basovizza. L. Papo, Albo d’oro, op. cit., pp. 25-26. Secondo altre fonti furono deportate 850 persone, delle quali 670 finirono nelle cavità carsiche. Un rapporto segreto stilato il 3 agosto 1945 dai servizi informativi del tredicesimo Corpo alleato e inviato al quartier generale delle forze alleate, sulla base di una serie di dati raccolti tramite la Croce Rossa e di denuncie individuali, faceva risalire a 3.150 - 3.650 il numero delle persone sicuramente arrestate e deportate da Gorizia, Trieste, Pola e Monfalcone.

Sempre secondo questo rapporto, dei tre-quattromila arrestati a Gorizia, mille-millecinquecento erano stati rilasciati a metà del mese di giugno. Solo a Trieste risultavano arrestate, dal primo maggio al dodici giugno, diciassettemila persone, delle quali ottomila successivamente rilasciate, altre seimila risultavano internate e ben tremila uccise. F. Molinari, Istria contesa, op. cit., p. 45. Per un ulteriore approfondimento cfr. Antonio Pitamitz, La verità sulle foibe, i nomi delle vittime, in "Storia Illustrata" n. 307, giugno 1983 e Paolo Simoncelli, Il piano De Gasperi, ma per l ‘lstria fu la fine, in "Avvenire" del 29-10-1994. Per la dolorosa fase dell’esodo che vide coinvolti centinaia di migliaia di istriani, fiumani e dalmati cfr. P. Romano, La questione giuliana, op. cit.,; per il successivo difficile inserimento cfr. Alberto Sciarra, Gli esuli istriani: la dispersione in Italia e nel mondo e le loro associazioni, tesi di laurea in Storia Contemporanea, facoltà di Scienze Politiche, La Sapienza, Roma, A.A. 1997/98.

120 Il 9 giugno, infatti, a Belgrado, gli Alleati e gli jugoslavi firmarono un accordo in base al quale la Venezia Giulia veniva divisa, secondo la linea proposta dal generale Morgan, in due zone, che verranno poi chiamate Zona A e Zona B. Cfr. B. C. Novak, Trieste, op. cit., p. 191 e A.G. de Robertis, Le grandi potenze e il confine giuliano, op. cit., pp. 309 e segg.

121 F.W. Deakin, La brutale amicizia, op. cit., pp. 1069 e segg.

122 Ivi, p. 1057

123 M. Bordogna, Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, op. cit., p. 186.

124 Sugli accordi per la resa a Milano dei reparti della X Mas cfr. R. Lazzero, La Decima Mas, op. cit., pp 206 e segg.

125 M. Bordogna, op. cit., p. 187. Il 17 aprile Borghese si recò a Venezia e a Trieste in visita ai reparti lì dislocati.

126 Ivi, p. 19l.

127 Tra gli altri furono fucilati Pavolini, Zerbino, Mezzasoma, Liverani, Coppola, Bombacci, Romano, Marcello Petacci. Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi separatamente da questi ultimi in modo tutt’oggi controverso. Il 30 aprile Hitler si suicidò nel bunker della cancelleria a Berlino. Il primo maggio il generale Weidling, comandante della piazza di Berlino, firmò la resa.

128 Testimonianza di Bruno Spampanato in G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, pp. 15-19. Era presente anche il cieco di guerra Carlo Borsani, Presidente dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra, Medaglia d’Oro, che, dopo la partenza di Mussolini, venne ospitato presso il comando della Decima ma, allontanatosi imprudentemente nella notte, fu ucciso dai partigiani. Cfr. Carlo Borsani Jr., Carlo Borsani. Una vita per un sogno (1917-1945), Milano, Mursia, 1995.

129 E. Aga Rossi e B. F. Smith, La resa tedesca in Italia, op. cit., p. 183.

130 Ivi, p. 194.

131 V. Ilari, L’impiego delle forze armate della R.S.I. in territorio nazionale, op. cit., p. 215. In totale il numero dei morti delle forze armate della R.S.I. ammonterebbe a 18.877.

132 J.V. Borghese, op. cit., p. 215.

133 Ibidem.

34 R. De Courten, Le memorie dell’ammiraglio De Courten, op. cit., p. 555.

135 Dichiarazione n. 121, firmata in data 10 novembre 1950, dal capitano di fregata Carlo Resio, nel corso del processo di revisione della sentenza emessa contro un ufficiale della X Mas, in Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, op. cit., pp. 216-217. Nella dichiarazione Resio aggiunge che "la Decima Mas aveva acquisito un ruolo notevolmente importante durante il periodo dell’occupazione tedesca, poiché era l’unica unità che godeva di un’ampia indipendenza, forse anche a causa del prestigio personale del proprio Comandante, capitano di fregata Valerio Borghese, e delle qualità degli ufficiali e del personale che ne costituivano il nucleo originario".

136 Paolo Simoncelli, L’inedita alleanza per evitare le foibe, in "Corriere della Sera", 11 ottobre 1996.

137 E. Galli della Loggia, La morte della patria, op. cit., pp. 56 e segg. Sui problemi generali del rapporto tra il Pci da un lato, e la Resistenza jugoslava e il governo di Tito dall’altro, cfr. Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 1997 e Francesca Gori e Silvio Pons (a cura di), Dagli archivi di Mosca. L’U.R.S.S., il Cominform

ed il Pci (1943-1951), Roma, Carocci, 1998.

138 Testimonianza di Sergio Nesi, allegato n. 1.

139 R. De Felice, Rosso e Nero, op. cit., p. 133.