martedì 29 ottobre 2019

LA MASSONERIA DEGLI ''ILLUMINATI''

Gli Illuminati parlano di libertà, rispetto, dignità e tolleranza. Ma in realtà le parole chiave della loro religione sono ben altre. L'umanesimo degli Illuminati, infatti, si basa su questo convincimento: "Gli uomini non sono uguali. Quando si incontrano due uomini è solo questione di tempo, prima o poi uno dominerà l’altro. Uno è fatto per dominare, l’altro è fatto per essere dominato." (Giuliano Di Bernardo, Accademia degli Illuminati)
Gli Illuminati considerano se stessi una èlite superiore, una èlite di nuovi dèi destinata a guidare gli umani "naturali", ritenuti inferiori. Questa loro presunzione e il disprezzo verso l'Uomo.
L'industria cinematografica e l'industria musicale vengono utilizzate dagli Illuminati per veicolare questi concetti attraverso un linguaggio visivo fatto di metafore e di simboli. Le parole d'ordine sono: distruggere il cristianesimo e diffondere il culto luciferino e la religione degli Illuminati attraverso la diffusione di idee e simboli. Una specie di moderno catechismo pensato e studiato per diffondere la nuova religione.
Lo scopo è quello di diffondere questi concetti, renderli familiari. E' far sì che vengano assorbiti inconsapevolemente da una moltitudine di pseudo-adepti che così vengono "iniziati" a loro insaputa al credo mistico luciferino. Lo scopo è quello di far entrare questi concetti nel modo comune di pensare. Per preparare il terreno.
Preparare il terreno per cosa?


Per capirlo dobbiamo riprendere quanto detto da Richard Hayes, direttore esecutivo del Center for Genetics and Society: "Lo scorso Giugno alla Yale University, la World Transhumanist Association tenne il suo primo congresso internazionale. I transumanisti hanno filiali in più di venti stati e promuovono l’allevamento di forme di esseri "post umani" "geneticamente arricchiti". Altri promuovono la nuova tecno-eugenetica, come il professor Lee Silver, della Princeton University, che prevede che entro la fine di questo secolo "Tutti gli aspetti dell’economia, dei media, l’industria del divertimento e l’industria della conoscenza saranno controllate dai membri della classe dei GenRich (potenziati geneticamente). I Naturali (cioè noi Homo Sapiens) lavoreranno come fornitori di servizi sottopagati o come manovali…""
Sarà inevitabile. Non tutti potremo diventare dèi immortali. L'apoteosi sarà riservata a una èlite ristretta di prescelti e noi, Homo Sapiens, saremo destinati a diventare schiavi. E questo, inevitabilmente, causerà dei forti disordini sociali.
Gli Illuminati stanno, quindi, conquistando l'egemonia culturale per fare in modo che il postuomo venga accettato e, addirittura, acclamato dai popoli come inevitabile espressione della evoluzione tecnologica. E, al tempo stesso, si stanno espandendo per prendere in mano il "controllo sociale" per poter gestire e sopprimere le inevitabili rivolte che scoppieranno non appena i popoli si renderanno conto che l'apoteosi è riservata a una èlite ristretta ed esclusiva che se la può permettere. E lo stanno facendo attraverso una lenta ma costante diffusione di loro esponenti nelle più alte sfere del potere politico ed economico. Usando gruppi di pressione come il gruppo Bildberg.

martedì 22 ottobre 2019

Dal Fascismo al neofascismo

di Maurizio Barozzi

Dal Fascismo al neofascismo


La storia non certo edificante del “neofascismo” italiano, con le sue deviazioni nel destrismo e il suo filo atlantismo, può farsi risalire all’infausta data dell’8 settembre 1943 quando, mentre la parte migliore del nostro popolo aderiva all’appello di Mussolini per riprendere le armi e salvare l’onore dell’Italia sporcato dal tradimento badogliano, il resto maggioritario della popolazione restò indifferente ed una esigua parte (in quel momento): gli antifascisti, fu addirittura avversa.
Tra gli indifferenti o comunque i contrari a questo richiamo della Patria e del Fascismo c’erano anche tanti cosiddetti fascisti del ventennio, in genere una massa passiva, conservatrice, di indole borghese e spesso di tendenza monarchica, che aveva aderito a suo tempo e a suo modo al Fascismo perché questo aveva stroncato il pericolo bolscevico, “faceva arrivare i treni in orario” ed aveva garantito un certo progresso sociale e di prestigio alla nazione, insomma perché le cose andavano bene.
Teniamola a mente questa componente borghese e reazionaria, sostanzialmente pavida, già fascista sui generis, anzi sostanzialmente antifascista, perché la ritroveremo in misura via via sempre più preponderante nella componente qualunquista e nazionalista del neofascismo del dopoguerra.
Dal settembre del 1943 Mussolini non si era limitato a rimettere in piedi uno Stato ed un Esercito disintegrati dal tradimento badogliano; egli aveva anche portato finalmente a compimento il lungo percorso storico ed ideologico del Fascismo al quale vennero dati dei capisaldi politici e sociali di enorme portata: la svolta socializzatrice per la ricomposizione economica e sociale del mondo del lavoro e delle imprese e l’impronta repubblicana da dare alle Istituzioni: era nata la Repubblica Sociale Italiana (RSI) e allo stesso tempo era anche nato il Partito Fascista Repubblicano, che con la costituzione a marzo del ’44 della Legione Autonoma “E. Muti” ed a luglio dello stesso anno delle Brigate Nere poteva veramente definirsi un ordine di credenti e combattenti.
Si calcola che aderirono attivamente alla RSI circa 800 mila italiani, ma questo calcolo è molto approssimato perché bisogna considerare che, a causa della guerra, il territorio italiano in quel momento si trovò spaccato, grosso modo, in due: da Roma in su, nella giurisdizione della neonata Repubblica Sociale, mentre tutto il Sud della penisola era occupato dagli Alleati. Si aggiunga poi la ingombrante e scomoda presenza e ingerenza dell’esercito tedesco, reso più nemico che amico dalle note vicende del tradimento (circa 600 mila italiani erano stati nel frattempo deportati in Germania come massa di lavoro; e peggio sarebbe andata se non fosse intervenuta la RSI nel pieno delle sue funzioni).
Di fatto, tra coloro che aderirono attivamente alla RSI, si finì anche per contare tutti coloro che, dislocati nella parte centro nord della barricata, trovarono naturale proseguire i loro impieghi nei servizi militari o civili delle nuove Istituzioni repubblicane, con gli acquisiti inquadramenti burocratici e di carriera i quali, comunque, assicuravano pane e lavoro.
Era però evidente che, mano a mano che il territorio sotto la giurisdizione della RSI si restringeva a causa dell’avanzata alleata, queste adesioni, per così dire “d’ufficio” venivano meno. A testimonianza della scelta piena e convinta per i valori ideali, storici e di combattimento, nella visione della vita e del mondo che il Fascismo aveva espresso ed incarnato fino ad allora, restava la minoranza inquadrata nel Partito Fascista Repubblicano, sotto la guida del segretario provvisorio Alessandro Pavolini. Una minoranza composita, rappresentata da elementi di varia tendenza, ma che in genere si riconosceva nella nuova svolta socializzatrice che Mussolini aveva dato al Fascismo, dove non mancavano sia elementi che tendevano ad accentuare gli aspetti di destra della politica fascista ed altri che invece, addirittura, volevano spingere ad estremizzare ancor più a sinistra le innovazioni sociali.
Le anime, insomma, che avevano da sempre caratterizzato questo nuovo soggetto storico che era stato il Fascismo: la tendenza repubblicana e quella monarchica, la tendenza rivoluzionaria e quella conservatrice, la tendenza socialista e quella liberale, seppur soggiogate dalla forte personalità e dalla prassi politica mussoliniana ed anche se subordinate ai nuovi dettami politici e sociali della RSI, non potevano di certo scomparire dall’oggi al domani.
Questo nonostante che il compimento storico ideologico del Fascismo, attuatosi con la RSI, fosse oramai fuori dai vecchi schematismi destra-sinistra; e si poteva dire che il Fascismo aveva superato a sinistra lo stesso marxismo, pur partendo dal principio di una disuguaglianza ontologica degli esseri umani e da una visione spirituale della vita.
Nella contingenza storica della RSI eravamo quindi ancora in presenza di varie “anime” del Fascismo, tutte legittime, ma alquanto diverse dalla sostanza propriamente rivoluzionaria del Fascismo repubblicano.
La fine della guerra, con la inevitabile sconfitta e la scomparsa dalla scena politica di Mussolini, avrebbe certamente fatto riemergere queste anime in tutte le loro sfumature e peculiarità.
Settembre 1943: fare di necessità virtù
Di fronte alla impellente necessità di riorganizzare lo Stato ed un simulacro di esercito, senza i quali non avrebbero avuto senso il concetto di Patria ed il Fascismo stesso, Mussolini si era quindi trovato costretto a chiamare a raccolta quanti, fascisti o meno che fossero, si rendessero disponibili a portare il loro contributo alla ricostruzione della Patria devastata dalle armate straniere e dal tradimento badogliano.
La scelta repubblicana e la necessità di trovare un correttivo alla esperienza negativa delle “nomine dall’alto”, inoltre, aveva anche indotto a tollerare alcune personalità e schieramenti politici e culturali “afascisti”, purchè si riconoscessero nel trinomio Italia, Repubblica, Socializzazione. Così come il doveroso imperativo di continuare a combattere al fianco dell’alleato tedesco, per l’onore e la bandiera, vide anche lo splendido fenomeno combattentistico di organismi militari particolari, quali la X Mas il cui comandante, il principe Valerio Borghese, con doti militari di coraggio e fascino non comuni, rappresentò un fenomeno a sé stante; che non può però essere confuso con il Fascismo, essendo espressione di una tradizione militare italiana che aveva così deciso di continuare il combattimento; ma lo stesso comandante era, sostanzialmente, il rappresentante di una certa aristocrazia conservatrice aliena dai valori rivoluzionari e sociali che il Fascismo incarnava.*
• Nel 1959 Valerio Borghese fu espulso dalla FNCRSI avendo egli sponsorizzato un candidato del MSI alle elezioni, contrariamente alla politica del non voto della Federazione.
Sul Foglio di Orientamento della Fncrsi marzo 2000, firmato Comitato Direttivo Fncrsi, si parlò di quella pagliacciata che è passata alla storia come Golpe Borghese, e riferendosi a Valerio Borghese si aggiunse:
<< Sulle capacità di J. V. Borghese in campo navale, nulla quaestio, ma non su altri campi (non s’improvvisa dall’oggi al domani un comandante di G.U.); nondimeno, egli ebbe il privilegio di disporre di un eccellente S. M., dei migliori ufficiali del disciolto R. E. e di un’ottima truppa composta esclusivamente di volontari.
Tuttavia, sin dalla fine del ’43, Borghese divenne preda degli emissari dell’ammiraglio badogliano De Courten, tanto che il colonnello F. Albonetti (prefetto di palazzo a Villa Feltrinelli fino alla destituzione di Renato Ricci da Comandante generale della G.N.R.), dopo averlo più volte catturato, paventò seriamente di doverlo fucilare, ma Mussolini si limitò a farlo sorvegliare, al fine di valersene come fonte di notizie riguardanti il Governo del Sud. Comunque, che egli abbia collaborato con i «servizi» angloamericani durante e dopo la RSI, è un fatto storicamente certo>>.
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In pratica, dovendo fare di necessità virtù, vennero dal Duce, in quel tragico momento, anteposti gli interessi della Nazione a quelli della fazione (il Fascismo).
Il punto debole di tutta questa impalcatura eterogenea, con forti connotati di carattere emotivo, era quello che essa si poteva reggere fin quando anche le condizioni militari della guerra reggevano. Ma quando, con l’esaurirsi della velleitaria controffensiva tedesca dell’inverno 1944 e lo spalancarsi evidente del baratro della sconfitta il territorio repubblicano, che già a giugno del ’44 aveva perduto Roma, cominciò ad essere invaso, la massa di quegli “ottocentomila” prese a vacillare e molti, di fronte alla imminente sconfitta, cominciarono a porsi il problema del “dopo”.
Il PFR bene o male tenne magnificamente, così come tennero fino all’ultimo alcune strutture militari autonome (la “Muti”), ma il grosso dei partecipanti alla repubblica entrarono seriamente in crisi. Tra questi, varie personalità di ogni genere e spesso di alto livello sociale, che avevano dato il loro pur valido contributo alla RSI o altri, magari fascisti sui generis o addirittura neppure fascisti (i cosiddetti “moderati”), o ancora molti ufficiali e sotto ufficiali delle FF.AA repubblicane, sovente tutta gente con una mentalità più che altro prevalentemente anticomunista, nazionalista e comunque di cultura occidentale, erano già mentalmente predisposti a riciclarsi nel dopoguerra magari sulla sponda dell’anticomunismo, nella speranza che, a guerra finita, potesse esserci una spaccatura tra Alleati e Unione Sovietica; seppellendo ovviamente le istanze rivoluzionarie del Fascismo.
Non è un mistero - ed il valente storico Giuseppe Parlato lo ha dimostrato con evidenti documentazioni - che i “contatti” con l’Oss americano e ufficiali o elementi della RSI cominciarono a verificarsi già molto prima del 25 aprile 1945. *
• Giuseppe Parlato: Fascisti senza Mussolini - Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948, Ed. Il Mulino. Con la sua ricerca il prof. Parlato ha finalmente riportato quello che da sempre si sapeva, ovvero come gli americani, anche attraverso l’OSS (il predecessore della CIA), arruolarono, per i loro scopi e interessi, ufficiali e sotto ufficiali (in particolare nella X MAS), reclutandoli tra i reduci della RSI e favorirono, al contempo, il neofascismo italiano. A ruota, aggiungiamo noi, si portarono su quella sponda ex gerarchi e gerarchetti, giornalisti e manovalanza varia. Alcuni di costoro, nel dopoguerra si resero disponibili a sostenere la causa della nascita dello stato di Israele.
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Le ricerche storiche ci consentono oggi di confermare quanto già all’epoca molti avevano intuito: il Fascismo cadde, e cadde male, il 26 aprile 1945 in Como, dove per la loro scelleratezza e per la loro già ricordata predisposizione mentale, i comandanti fascisti - defluiti all’alba del 26 aprile da Milano - arrivarono in armi a Como dove finirono per sottoscrivere una vergognosa tregua, in realtà una vera e propria resa. Erano arrivati a Como di prima mattina, ma non trovandovi Mussolini che si era, prima dell’alba, spostato circa 30 Km più avanti a Menaggio, invece di proseguire, senza neppure spegnere i motori - come osservò Bruno Spampanato nel suo “Contromemoriale” - si fermarono ad attendere, a discutere, ad avere approcci con un ectoplasma del CLN che si aggirava attorno alla Prefettura, dove le autorità della RSI erano da tempo intente a trovare una scappatoia indolore per il trapasso dei poteri. Poi arrivarono anche un paio di emissari degli americani (Guastoni e Dessì) e lo sbraco fu totale. Avvenne così che con il passare delle ore una forza in armi di circa quattromila fascisti si squagliò come neve al sole.
Erano le conseguenze di una mentalità non in linea con l’ultima strategia di Mussolini, che stava sganciandosi dalle località dove potevano arrivare gli Alleati al fine di restare libero e poter contrattare una resa dignitosa, utile per la nazione ed a salvaguardia delle vite dei fascisti; anche in virtù di certe compromettenti (soprattutto per i britannici) documentazioni che portava con sé.
In quest’ottica il Duce aveva inteso l’ultimo ridotto in Valtellina, e anche quando si rese conto che, per la defezione dei tedeschi e per le quasi nulle opere di fortificazione - promesse ma non realizzate in Valtellina -, la strenua e simbolica difesa era impossibile, ugualmente intendeva recarsi in zona e raggiungere gli estremi confini, nell’ottica di una sua strategia “temporizzatrice” e di sganciamento.
Ma alcuni comandanti fascisti erano già mentalmente oltre, il loro desiderio era quello di arrendersi al più presto agli Alleati.
E fu quello che si concretizzò in Como, lasciando praticamente Mussolini solo, ovvero senza scorta armata, in Menaggio, costringendolo a muoversi mettendosi nelle mani dei tedeschi,traditori per finire catturato da uno sparuto gruppetto di partigiani ai quali, a Dongo, venne praticamente consegnato dai tedeschi.
E’ pur vero che le contingenze del momento determinavano e consentivano approcci del genere, ma quando queste “collusioni” andavano ben oltre certe intenzioni e necessità, si evidenziava chiaramente una predisposizione mentale al passaggio nello schieramento occidentale. Un trasbordo ideale, prima ancora che materiale che, con l’Italia occupata dagli eserciti Alleati e con la scusa dell’anticomunismo, sia che ci si considerasse fascisti che afascisti, rappresentava un doppio tradimento:
tradimento ideale, perché seppure tra vari tentennamenti e opportunismi, l’ideologia e la geopolitica di Mussolini aveva sempre mantenuto una evidente costante di continuità su alcuni presupposti essenziali tra i quali la proposizione di un modello di Stato in cui l’etica e la politica erano prevalenti sugli aspetti economici e finanziari (questo l’alta finanza non glielo aveva mai perdonato!) e quindi nettamente in contrasto con ogni forma statale e istituzionale a base liberista occidentale;
ma anche tradimento effettivo, perché se è pur vero che dal momento dell’assunzione del potere (1922) e fino al suo ultimo giorno nella RSI Mussolini, quale capo di uno Stato sovrano e relativamente indipendente, anche se negli ultimi giorni ridotto militarmente a misera cosa, poteva pur intraprendere iniziative per accordi ed alleanze internazionali di qualunque genere egli ritenesse opportuno per gli interessi della Nazione, dal momento esatto in cui, con la sconfitta, si concretizzava l’occupazione Alleata, con il nostro paese brutalmente colonizzato e subordinato militarmente, economicamente e soprattutto culturalmente agli Stati Uniti d’America, ogni forma di collaborazione con gli occupanti (il futuro atlantismo) rappresentava un tradimento vero e proprio della Patria.
Era chiaro quindi che la famosa contingenza di anteporre la Nazione alla fazione (il Fascismo), non poteva più valere di fronte ad una Italia post ciellenista e occupata dallo straniero.
Comunque la si voglia rigirare è indubbio che per i fascisti, dopo la inevitabile sconfitta dell’aprile del ’45, si prospettava un solo atteggiamento coerente con i postulati della RSI e gli ideali del Fascismo repubblicano: operare, nella nuova realtà del dopoguerra, dove il Fascismo sarebbe stato bandito dal consesso politico e civile, qualunque veste si fosse giocoforza assunta, a difesa delle conquiste economiche e sociali già attuate dalla RSI, impegnandosi quindi nella lotta a tutto campo contro ogni restaurazione monarchica e liberista e soprattutto contro l’occupante, in tutti i sensi, americano.
Questa l’indicazione politica, magari comprensiva anche di una lotta militare clandestina contro l’occupante, scaturita dal convegno di Maderno del 3 aprile 1945 del Direttorio del PFR, presieduto da Pavolini, ma anche il desiderio, rimasto irrealizzato, di Mussolini di lasciare le conquiste sociali della RSI alle componenti socialiste della resistenza.
Di fronte a questa prospettiva, ogni diatriba interna ai fascisti, quelli tendenzialmente di destra o tendenzialmente di sinistra, avrebbe dovuto essere definitivamente superata.
E questo perché, al di là delle scelte politiche, pur sempre opinabili o comunque condizionate da atteggiamenti tattici di diversa opportunità, i fascisti usciti in qualche modo dalla tragedia della sconfitta avevano un sacrosanto dovere, di fronte al quale nulla poteva essere opposto, né aggirato con pseudo formulazioni tattiche o necessità contingenti di lotta ad un presunto (e strumentale) “pericolo bolscevico”: i fascisti, di qualunque tendenza fossero stati, avrebbero dovuto lottare, a tutto campo, con tutte le loro forze ed il loro impegno, per una prospettiva di indipendenza della patria, occupata militarmente e stravolta economicamente e culturalmente dalla colonizzazione americana.
Quindi la vera opposizione alla NATO, considerando quella comunista una opposizione strumentale subordinata alla dipendenza da Mosca, avrebbero dovuto farla prioritariamente i fascisti ed i reduci della RSI i quali, tra l’altro, avevano un bagaglio ideologico, storico e spirituale da opporre alle nefaste conseguenze del cosiddetto “mondo libero” incarnato nella way of life americana.
Ogni fascista, che dietro qualsiasi motivazione o pseudo necessità tattica fosse entrato in connubio con l’Oss americano, poi CIA, e avesse accettato di entrare in determinate e famigerate strutture coperte, preposte a quella guerra non ortodossa come, ad esempio, le strutture della GLADIO, avrebbe dovuto essere tacciato di tradimento e trattato di conseguenza!
Sarebbe oltretutto bastato un semplice ragionamento politico ed un minimo di esperienza storica per capire che la contrapposizione USA – URSS della guerra fredda era solo una contrapposizione di livello tattico, non strategico, ovvero la necessità di mantenere, negli accordi stabiliti a Yalta, i limiti assegnati nella spartizione dell’Europa.
Il vero contenuto di Yalta era la cooperazione tra le due superpotenze che aveva consentito di dividere popoli, governi e schieramenti politici dell’Europa in attivisti della NATO o partigiani del patto di Varsavia, insomma tra scemi & più scemi, imbalsamando sotto un tallone di ferro tutta l’Europa.
Anzi, se un espediente tattico doveva esserci, esso era quello di inserirsi nelle contraddizioni di Yalta appoggiandosi, fin dove possibile, alle inevitabili spinte dinamiche della geopolitica sovietica per tentare di scardinare l’occupazione americana nel nostro paese.
La lotta dei fascisti italiani per l’indipendenza del paese dal colonialismo americano si sarebbe dovuta riallacciare, per simpatia e per rapporti di interscambio, con le altre lotte di liberazione dagli yankee in atto nel mondo, lotte che di li a pochi anni si verificarono nella Cuba di Castro e Guevara, in Vietnam e altrove.*
* A testimonianza della posizione della FNCRSI, circa la guerra nel Vietnam (così come anche l’appoggio dato alla lotta dei popoli arabi), mentre tutto l’ambiente neofascista parteggiava per gli yankee e favoleggiava inesistenti centurioni e hollywoodiani Berretti Verdi, ecco cosa scrisse il Bollettino della FNCRSI nel suo N. 4 del febbraio 1968, dopo aver fatto una analisi dell’aggressione americana al Vietnam, riportava:
“Così stando le cose, noi combattenti della, «guerra del sangue contro l'oro» non possiamo che essere vicini a coloro i quali in qualsiasi parte dei mondo difendono in armi la patria dallo straniero”.
In un altro Bollettino della FNCRSI (il N. 15/16 dell’ottobre 1971) si precisava: “Per contrastare le nostre tesi taluno elaborò la curiosa teoria detta dei "centurioni". Usciti vittoriosi dal Vietnam e passati sotto gli archi di trionfo allestiti dalla destra americana, questi novelli centurioni, si sarebbero impadroniti degli USA e avrebbero mosso subito guerra all'URSS ed alla Cina. Il disegno di certe organizzazioni (il cui asservimento a qualche ambiente dello
S.M. fu evidentissimo) prevedeva che le truppe ausiliarie della NATO (paras, corsi di ardimento, ecc.) si sarebbero coperte di gloria nelle varie fronti all'unico scopo di meglio consolidare il dominio ebraico-yankee sul mondo. Senonchè, nonostante le abbondanti libagioni di droga per vincere il terrore dei Viet-cong, i centurioni incominciarono a vedere abbastanza chiaro...”.
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E questo non certo per una condivisione ideologica delle analisi marxiste; ideologia che, a ben guardare, in quei paesi non era altro che una nomenklatura, una opportunità dell’epoca; in definitiva il comunismo, utopia al di fuori della portata umana, poco c’entrava con quelle lotte rivoluzionarie.
La stessa Russa sovietica non era altro che una abbrutita dittatura di Stato, che prima o poi sarebbe implosa su sé stessa; era una enorme nazione che praticava un certo tipo di “colonialismo”, teso non ad esportare un ipotetico comunismo, ma a controllare e sfruttare le aree sottoposte alla sua influenza in base agli accordi di Yalta.
Stante la collocazione dell’Italia, posta sotto il tallone dell’imperialismo americano, occorreva fare di necessità virtù, cercando tutti i punti di contatto con la politica sovietica e proponendo al contempo, sul piano delle idee, quelle soluzioni sociali che il Fascismo aveva intuito da anni. Proprio il Fascismo era quindi in grado di scegliere le proprie alleanze senza sconfinare in infatuazioni ideologiche e simpatie morali, ma allo scopo di subordinarle semplicemente agli interessi della propria patria e alla lotta di liberazione del nostro popolo.
Ma tutto ciò si è fatto in modo che non accadesse.
Lo spostamento a destra e su sponde atlantiche dei fascisti repubblicani
Oggi ciò che un tempo affermavano i fascisti repubblicani della Fncrsi e che allora poteva sembrare esagerato, ossia un vero e proprio tradimento finalizzato a spostare su sponde reazionarie e filo occidentali la pur variegata massa dei fascisti, viene in genere accettato da una storiografia obiettiva.
In sintesi, si ritiene che in un periodo di sbandamento e di evidenti difficoltà, come fu per i superstiti fascisti il primo dopoguerra, approfittando della composizione eterogenea dei reduci della RSI, dietro una sottile strategia massonica, sotto l’egida del Viminale democristiano, benedetto da Washington e dal Vaticano e con l’apporto di alcuni traditori ideali del Fascismo repubblicano ed altri persino mai stati aderenti alla RSI, si riuscì a condizionare la nascita del Movimento Sociale Italiano, il partito nato nel 1946 anche dallo sforzo generoso di tanti camerati che volevano riprendere uno spazio politico per il Fascismo in Italia.
Nell’atto di nascita di quel partito si sovrapposero determinate forze e conventicole, dotate di adeguati mezzi, che sempre più ne stravolsero la politica e gli intenti ideali fino a farlo ben presto diventare tristemente noto come l’incarnazione forcaiola del destrismo italiano, ultra atlantico, conservatore e reazionario oltre ogni dire, ruota di scorta per i momenti di difficoltà della politica parlamentare della Democrazia Cristiana.
Anzi si tende oggi a supporre, seppur è difficile provarlo con adeguati documenti (ma i fatti parlano chiaro), che il MSI venne opportunamente creato proprio per adempiere a questi scellerati fini (si veda a questo proposito l’articolo del ricercatore storico Franco Morini “Nome MSI – paternità SIM” pubblicato su Aurora N. 44 novembre-dicembre 1997).
E’ inutile ricordare un penoso cammino fatto di inganni, di strumentali contrapposizioni, di favolette per imbecilli (come quella che non ci si poteva sedere a sinistra nel parlamento perché lì c’erano gli assassini dei camerati… come se a destra ci fossero gli amici!), mentre anni dopo un certo Caradonna confidò
candidamente che il metodo migliore per portare i fascisti dalla parte dell’atlantismo e dell’anticomunismo viscerale era stato quello di farli scontrare il più possibile con i “rossi”.
Per non ricordare l’utilizzo di ex (ma veramente ex!) ufficiali della RSI, impiegati per gli interessi dell’Oss; o gli apporti che furono dati persino in favore della nascita dello stato di Israele, se è vero, come sembra, che dal destrismo furono persino forniti gli esplosivi alle bande sioniste - per gli attentati che dovevano forzare la nascita dello stato israeliano - e ufficiali di marina per l’addestramento di sabotatori sionisti. Senza dimenticare molti elementi, da tempo emersi, che indicano persino un certo ruolo, di fatto confacente alle sporche operazioni paramafiose e americane nella Sicilia del dopoguerra.
E’ meglio stendere un velo pietoso.
In sostanza l’operazione di trasbordo sulle sponde della reazione, che venne da subito attuata non appena finita la guerra, ed in cui si tuffarono un po’ tutti - anche perché c’era da spartirsi le briciole di qualche fetta di seggi parlamentari o negli enti locali -, fu quella di snaturare il Fascismo repubblicano socializzatore e soprattutto di convincere i reduci della RSI, che avevano combattuto la guerra “del sangue contro l’oro” a schierarsi, “per difendere l’Italia dai rossi” sulla ignobile (e contraria agli interessi nazionali!) sponda atlantista dell’Occidente e in supporto del neonato esercito post badogliano democratico e antifascista.
Ed è chiaro che si ritrovarono, in questo calderone del destrismo nazionale che andava così formandosi, uomini e forze uscite dal magma qualunquista, gli pseudi fascisti borghesi del ventennio cui abbiamo precedentemente accennato e che ben si erano guardati dal partecipare alla RSI, addirittura i venticinqueluglisti e gli ex monarchici, oltre ai partecipanti “moderati” o “afascisti” della RSI ai quali non pareva vero, dietro il dispiegarsi della guerra fredda, di attuare il loro desiderio degli ultimi tempi di guerra: riciclarsi come anticomunisti!
Tutti amalgamati sotto la pretestuosa scelta fuorviante del famoso e subdolo: “non rinnegare, non restaurare”, un’esca missista buona per tutti gli usi.
In realtà il Fascismo di Mussolini, repubblicano e socializzatore lo si era rinnegato senza indugi, ed una mano la si era data senza eccessive esitazioni per restaurare in Italia la monarchia - fin quando ha potuto tenere (2 giugno 1946) -, il liberismo ipercapitalista e la forma mentale più deleteria del Fascismo del ventennio: borghese, bigotto e qualunquista.
E questo andazzo da parte di vari personaggi che reggevano le fila del neofascismo, orfano di Mussolini, era cominciato da subito, anche con quello così detto clandestino (i FAR, ecc.), cioè prima che nascesse il MSI che poi se ne assunse il ruolo e la strategia politica.
E pensare che già dal primo dopoguerra anche Togliatti aveva cercato di catturare i reduci della RSI e ancora oggi la collezione di “Candido”, il giornale di G. Guareschi con le sue vignette e i suoi trafiletti, ci attesta questo fenomeno; indice evidente di uno strato di ex repubblicani sensibili a perpetuare il discorso sociale della RSI. Ma la manovra intercettatrice dei comunisti rimase minimale, mentre quella destrista in pochi anni risultò pienamente riuscita.
Un doveroso distinguo
Storicamente non sarebbe giusto giudicare drasticamente, con gli occhi di oggi e con la conoscenza storica dei decenni seguenti, i rischi, le scelte e l’impegno di tanti camerati che tra la fine del 1945 e il 1947 diedero vita o parteciparono ad una ripresa del fenomeno neofascista e poi al MSI.
In effetti le intenzioni subdole e mistificatorie che dovevano portare quel partito su determinate posizioni, stravolgendo e rinnegando tutto il patrimonio storico della RSI, erano soprattutto nell’animo e nella mente di coloro che agirono in questa maniera e non è poi così importante andare a stabilire se questo avvenne perché ci furono uomini manovrati e collusi con le centrali occidentali e massoniche - e quindi dietro interessi inconfessabili - o perché costoro erano comunque già predisposti, per mentalità ideologica e politica di destra, a percorrere quella strada
che allora, venne asserito, fu ritenuta una opportunità tattica per riprendere, in qualche modo, l’attività politica del neofascismo.
Quando in futuro si apriranno gli archivi statunitensi e vaticani potremo conoscere la verità, ma già oggi, come dimostrato da vari ricercatori storici, certi “contatti” con le centrali dell’Oss e le forze conservatrici della Nazione sono stati ampiamente accertati.
In ogni caso, godendo di adeguati mezzi ed “appoggi”, furono proprio un pugno di imbonitori e di traditori ideali del Fascismo repubblicano che tennero le redini o comunque vennero opportunamente fatti assurgere alle cariche direttive di quel partito, in modo da guidarlo nei porti del destrismo nazionale.
Ma tutti gli altri, la gran massa dei reduci repubblicani e dei giovanissimi, seppur animati da convinzioni politiche ed ideologiche alquanto difformi, da spinte ideali di varia natura, non possono essere liquidati, con il loro generoso prodigarsi per la ripresa del fenomeno fascista in Italia, in un giudizio tanto drastico e negativo.
I partecipanti alla nascita ed ai primi anni di vita politica del Msi erano un composto alquanto eterogeneo, come eterogeneo e con tutte le sue diverse anime era stato il Fascismo sotto la guida di Mussolini.
Il fatto è che agendo su queste diversità si fece in modo di isolare e di snaturare la componente dei fascisti repubblicani, quella che spesso viene grossolanamente definita “di sinistra”, per privilegiare ed incanalare il MSI sulle sponde del destrismo e del filo atlantismo.
Ecco come il prof. Manlio Sargenti, tra i fondatori del MSI milanese, rispondendo alle domande di A. Fontana, direttore della rivista “Italia Tricolore” descrisse con molta efficacia quei momenti e quelle scelte:
D: “Quali furono le motivazione che la spinsero alla scelta del MSI?”
R: < Movimento, a scegliere questa alternativa nonostante il pericolo a cui si andava incontro>>.
D: “Che posizione ebbe Lei quando il MSI aderì alla NATO?”
R: <<... io fui della corrente che si oppose per i motivi che ora soprattutto si rivelano determinanti; perché la NATO si è sempre più rivelata lo strumento della supremazia americana e del controllo dell’America sulla politica dei paesi che vi hanno aderito. Lo spirito del MSI fu perduto nel momento in cui il Movimento votò a favore dell’adesione alla NATO>> *.
* Vedi Italia Tricolore N. 8, Maggio 2008.
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In verità, almeno per le sue linee politiche e programmatiche, dettate dai suoi dirigenti, lo spirito del MSI, nel senso della vera continuità della politica del Fascismo repubblicano era già perso fin dal momento della sua fondazione (26 dicembre 1946) perché, di fatto, l’operazione che aveva condizionato la sua nascita proprio a questo mirava.
Non è un caso che nell’autunno del 1947 il MSI partecipò per la prima volta alle elezioni amministrative che si tennero a Roma con una propria lista. Giovandosi anche della crisi che oramai aveva investito il movimento qualunquista, il MSI raggiunse quasi il 4 percento dei voti e 3 seggi al Comune. Ebbene questi seggi furono determinanti per la creazione della giunta di centro destra (41 a favore, 39 contro) del democristiano Rebecchini!
Era quindi iniziato, da subito, quel penoso cammino dell’apparentamento con i conservatori, i liberali, i monarchici, i democristiani di destra, in funzione di ruota di scorta o di supporto alla Democrazia Cristiana. Funzione di sostegno e di salvataggio nei momenti di crisi politica, richiesta e in qualche modo ricompensata, ma non gradita e comunque trattata come la mano tesa dell’appestato, perché agli occhi dell’opinione pubblica il MSI veniva fatto apparire come il partito del neofascismo.
E questa contraddizione, questa mistificazione, che portava gli antifascisti a inquadrare e definire il partito, che di fatto era il più distante dal Fascismo, come la tentata ricostituzione di un partito fascista, a chiederne addirittura lo scioglimento, quando invece
avrebbero dovuto, come poi in effetti sottobanco facevano, cullarlo, coccolarlo e proteggerlo per il loro interesse nell’agitare un antifascismo di maniera, un pericolo fascista inesistente e di averlo all’opposizione relegato in una nicchia reazionaria e priva di prospettive.
La contraddizione evidente di sbandierare un pericolo fascista in un “qualcosa” che fascista non era se non nella riproposizione insulsa e nostalgica e con il passere degli anni sempre più sfumata di qualche icona, di qualche “saluto al Duce” e superficialità del genere, ha cristallizzato l’immagine falsa di questo Movimento che agli occhi dell’opinione pubblica cercava di apparire come un partito democratico della destra nazionale, mentre invece alla sua base faceva intendere di essere il continuatore del Fascismo, sia pure di un Fascismo, per esigenze tattiche, in “doppio petto”.
Non solo fuorvianti e strumentali erano le richieste dell’antifascismo parlamentare nel voler chiedere lo scioglimento del MSI, ma addirittura erano funzionali proprio alla salvaguardia di quel partito tanto utile un po’ a tutti.
E’ inutile continuare a tracciare la storia di questo partito che comunque riuscì a manovrare e gestire una non indifferente massa del popolo italiano, quella qualunquista, conservatrice, di destra, seppur con sfumature e tendenze di altra natura.
Le due vere anime di questo partito, nella loro apparente contrapposizione, furono quelle di Pino Romualdi e di Giorgio Almirante. Due anime che, a guardar bene, erano sempre state idealmente fuori dal Fascismo repubblicano (già al convegno di Maderno, dell’aprile ’45, prima richiamato, Romualdi, pur vicesegretario del Pfr, uomo che poi si rivelò di destra e di ideologia occidentale, si era dichiarato contrario a quelle linee programmatiche indicate per il dopoguerra).
Romualdi quindi incarnava la componente di destra di questo partito, mentre Almirante, che neppure aveva seguito il suo ministro Mezzasoma nel suo ultimo viaggio, con le sue doti istrioniche aveva cercato di manovrare l’altra, quella cosiddetta “sociale”.
Al primo si può forse concedere l’attenuante di una sua convinzione ideologica e politica su quelle posizioni, che fin dal primo dopoguerra, nella sua clandestinità operò per spostare a destra e in senso occidentale la massa dei reduci della RSI; al secondo neppure quell’attenuante, perché la sua apparente collocazione su posizioni “sociali”, che all’interno del partito lo portavano ad essere il leader delle componenti socializzatrici o comunque “meno di destra”, erano sempre puntualmente tradite con l’accordo dell’ultimo minuto con la direzione “liberale” di Arturo Michelini che, di fatto, controllava le casse e le strutture del partito: così al congresso di Milano del 1956, così a quello di Pescara del 1965 fino a quando, divenuto finalmente segretario del partito nel 1968, gettò definitivamente la maschera “sociale” trasformando il partito nella peggior Destra qualunquista e forcaiola che mai si era vista in Italia.
Tutto questo andazzo, questo interpretare una specie di Fascismo, proprio come lo vedevano e desideravano che fosse gli antifascisti, finì, con gli anni, per realizzare una vera e proprio mutazione antropologica del “neofascista”, conformandolo ai dettami della conservazione, della reazione e delle più bieche specifiche del destrismo
In ogni caso, a partire dal dopoguerra, a latere di questo partito, sorsero anche vari gruppi e movimenti politici, estremamente minoritari, che di fatto ne fecero la ruota di scorta, perché al di là di una certa impostazione extraparlamentare, non erano altro che il “MSI fuori dal MSI”, ma soprattutto agirono anche svariati personaggi che le cronache giudiziarie dei decenni successivi ci hanno mostrati, per quel periodo infame della strategia della tensione, essere in servizio permanente effettivo del SID e/o degli Affari Riservati, intelligence con le quali erano intimamente collusi.
E furono anche queste collusioni e strumentalizzazioni a trascinare quasi tutto un ambiente umano, oramai allo sbando e disorientato, nel più gretto e sciocco servilismo all’atlantismo.
Ma questo è niente a confronto di quello che accadrà alla fine degli anni ‘60, perché quando in Italia occorse mantenere certe collocazioni NATO del nostro paese, i servizi d’oltreoceano non si fecero scrupoli a far esplodere bombe e innescare provocazioni di ogni tipo, trascinando nel fango per prima cosa i loro principali servi sciocchi, che poi nel giro di qualche anno vennero anche scaricati e lasciati andare in galera o sbattuti nelle pagine di cronaca nera.
La vera trasformazione del nostro paese, culturale, sociale e istituzionale, infatti, passate le strette contingenze e necessità internazionali, doveva gradualmente avvenire in senso progressista e neo radicale, non conservatore!
E i “reazionari”, sbattuti come mostri sulle pagine della cronaca nera dovevano, con la loro immagine, contribuire indirettamente a questo spostamento politico e culturale del paese.
Le “bombe”, usciti dalla contingenza della crisi mediorientale (guerra arabo – israeliana del giugno 1967 e quella del 1973 e conseguenti crisi internazionali) che aveva determinato la necessità, costi quel che costi, di tenere il nostro paese saldamente ancorato alla collocazione NATO (1964 – 1973 “destabilizzare per stabilizzare”), in conseguenza dell’ipotetico pericolo che questa collocazione potesse essere messa in discussione dalla presenza del più forte partito comunista d’Europa o dalle iniziative imprevedibili dei governi di centro sinistra (già nei primi anni ’60 si era dovuto ricorrere all’assassinio per bloccare le iniziative economiche, ma con pesanti risvolti di politica internazionale, di Enrico Mattei) dovevano quindi continuare ad esplodere, anche in seguito, in modo da scatenare la caccia al “bombarolo nero” e consentire uno spostamento progressista della nazione che agevolasse al contempo l’”occidentalizzazione” dello stesso partito comunista. Tutti eventi puntualmente verificatisi.
Accadde così che venute meno le strumentali accuse agli anarchici per piazza Fontana, in piena strategia della tensione, dopo la strage di Brescia e poi quella dell’Italicus (agosto 1974), mezzo milione di persone manifestarono in tutto il paese, persino nelle località balneari, contro quelli che nell’immaginario collettivo erano stati fatti passare come gli “attentati fascisti”.
Da quel momento la parola “Fascismo” divenne un luogo comune, sinonimo di bombarolo, macelleria cilena, reggicoda degli USA.
Mass media e magistratura si “inventarono” persino l’esistenza di una “eversione nera”, quando era noto a tutti che i neofascisti, tranne che negli slogan, (salvo rare eccezioni ininfluenti) non avevano mai praticato alcuna lotta al sistema, ma erano sempre stati controllati, se non al servizio degli apparati di sicurezza (per non parlare di iscrizioni o frequentazioni di mafie, ‘ndrine o Logge massoniche) per svolgere opera di provocazione o per coadiuvarli nella repressione del comunismo.
Ed i responsabili diretti, indiretti o semplicemente coinvolti in quelle strategie infami, che avevano contribuito a consolidare queste ignobili equazioni, non potranno e non dovranno mai essere perdonati da coloro che hanno combattuto la “guerra del sangue contro l’oro”.
Non è infatti importante, né interessa appurare se pseudo neofascisti di ogni sfumatura abbiano avuto le mani sporche di sangue in funzione degli interessi statunitensi, o fossero solo stati utilizzati per contorno alle stragi o semplicemente messi in mezzo come utili idioti “USA e getta”, perché il risultato storico non cambia di molto.
Le pagliacciate che si ebbero in ipotetici e speranzosi golpe alla “vogliamo i colonnelli”, i tanti raduni e comitati tricolore, la costituzione di Fronti e nuclei per la difesa dello Stato, gli appelli alle cosiddette forze sane, ecc., hanno tutti fatto parte di un film già scritto il cui degno finale è stata la liquidazione non certo gloriosa di tutto un ambiente da tempo degenerato.
In termini di neofascismo, quello che oggi in Italia ci ritroviamo è quello che ieri è stato seminato, o che “qualcuno” ha contribuito a determinare.
Non possiamo infatti ignorare che anche in Italia, culla del Fascismo, siano da tempo presenti strani “aggregati” (non vogliamo neppure chiamarli “gruppi” o “schieramenti”) che si rifanno, in modo totalmente stravolto e mistificatorio, al Fascismo e ne ripropongono demenzialmente simboli, slogan ed emblemi tra l’altro fuori da ogni logica e dal tempo.
A questo si accompagnano, spesso, fatti delinquenziali e cruenti, sotto gli emblemi di un razzismo rozzo o banalmente xenofobo che finiscono per ottenere risultati diametralmente opposti a quelli che si attestano, tanto da far ingenerare il sospetto che proprio questa sia la vera funzione di queste manifestazioni.
Per chi è conscio delle conseguenze che abbiamo sempre subito a causa dell’occupazione statunitense, del collocamento nella NATO e della introduzione nel nostro paese della way of life americana, per chi conosce il grande inganno che fu perpetrato ai danni dei reduci della RSI e in particolare dei fascisti repubblicani quando, ancor prima della fine della guerra, si cercò di portare quelle energie e quelle esperienze su posizioni filo atlantiche e strumentalmente anticomuniste, per chi comprende cause e conseguenze di quel periodo che vide all’opera la precedente richiamata strategia della tensione, con i tanti strani personaggi risultati poi collusi con gli Affari Riservati e/o con il Sid (se non direttamente con la CIA), non è difficile intuire una continuità operativa tra il vecchio anticomunismo viscerale, ormai inservibile ed il nuovo pseudo razzismo a tutto campo.
Non è un caso che l’ex colonnello Amos Spiazzi, già a suo tempo inquisito (ma forse più che altro usato come capro espiatorio) per i fatti relativi alla Rosa dei Venti e al cosiddetto Golpe Borghese, in un libro-intervista con il giornalista Sandro Neri ("Segreti di Stato" per i tipi della Aliberti), abbia ancora oggi evidenziato:
<> (Vedi la Newletter di Storia in Rete di marzo 2008).
Ma l’osservazione e la conoscenza di tutto questo non è neppure sufficiente per inquadrare quanto accade in svariati paesi dell’occidente (il fenomeno, infatti, è comune a tutto l’occidente) ed in particolare in Italia. Forse occorre anche affrontare l’argomento da un punto di vista più introspettivo ed oserei dire esistenziale. In una società priva di valori, dell’etica e del senso dello Stato, com’è quella moderna, consumista e democratica, la gioventù allo sbando e in cerca di sensazioni (specialmente quella con impulsi delinquenziali e a volte purtroppo anche quella, che in tal modo viene deviata, con attitudini di lotta), è attratta da simboli, forme ed atteggiamenti trasgressivi, anche repellenti: anzi, più questi simboli sono paventati e demonizzati dalla società e più essi costituiscono un elemento di attrazione, da far proprio: per distinguersi, per aggredire, spaventare i cosiddetti “borghesi”. Insomma, contare qualcosa, sentirsi qualcuno nel branco e nascosti dietro una simbologia comunemente fuori legge o ritenuta aberrante.
Negli anni ’50 un timido fenomeno trasgressivo erano i cosiddetti teddy boys, ma da allora se ne è fatta di strada, oggi si ostenta qualcosa di più truce, come per esempio il satanismo o, purtroppo, anche la simbologia spregiativamente definita “nazifascista”.
Si da il caso, infatti, che tutta una filmografia hollywoodiana, tutta una pubblicistica antifascista, dalla Resistenza all’olocausto, ha descritto il Nazionalsocialismo soprattutto, ma anche il Fascismo, come un aggregato di maniaci, di psicopatici, di criminali, di delinquenti assetati di sangue e così via. Anche l’industria dei fumetti ha freudianamente ritagliato sulla tipologia del nazista un misto di sesso perverso e criminalità.
Non erano altro che i vecchi contenuti della guerra psicologica degli Alleati, divenuti col tempo e col diffondersi della letteratura, del cinema e della televisione, un luogo comune, una immagine indotta e fatta propria dall’inconscio collettivo.
Orbene, svariati gruppi cosiddetti “neonazisti” europei ed americani (sic!), spesso creati a bella posta dalle centrali occidentali “recitano”, di fronte all’opinione pubblica, questa miserabile parodia del Fascismo, facendo addirittura propri slogan, atteggiamenti e modelli che l’antifascismo aveva, a suo tempo, disegnato proprio per denigrare il fascista.
Ecco, allora, che oggi ci ritroviamo bandiere e simboli, bagnati dal sangue di centinaia di migliaia di caduti, squalificati e riportati con scritte demenziali sui muri delle strade, mostrati negli stadi di calcio, utilizzati nelle imprese da cronaca nera, ostentati da tanti delinquenti e prezzolati che ne sono attratti, ma probabilmente anche manovrati dai soliti mascalzoni.
Se, con pazienza, si fa una esplorazione in Internet, risulta facile imbattersi in qualche sito, comprensivo di forum, dove se ne vedono e se ne leggono delle belle: tra svastiche, croci celtiche e slogan in misto inglese (“white power”), tedesco e italiano, estrapolati dalle mode correnti, si possono trovare canzoncine e poesie di cattivo gusto, offensive per gli ebrei ed inneggianti alle camere a gas.
Pensate un po’ “chi” può rallegrarsene! A “chi” possono giovare! Tanto più che non bisogna ignorare il fatto che negli Stati Uniti, per esempio, è stato di recente provata l’origine a dir poco “spuria” di vari dirigenti, anche massimi dirigenti, di organizzazioni ultra razziste e di estrema destra. Come se al “sistema” facesse oltremodo comodo la presenza di queste organizzazioni ed il loro gestire minoranze di giovani da indirizzare e strumentalizzare su determinati temi e azioni.
In ogni caso è difficile stabilire se questa aberrazione faccia parte di una degenerazione becera e demenziale dei soggetti in questione o sia invece l’opera di qualche “addetto ai lavori” appositamente impiegato in queste nefandezze (forse un po’ tutte e due le cose, visto che una volta “dato il via”, la demenzialità prosegue anche da sola).
A parte il buon gusto, infatti, queste esternazioni vanno ad esclusivo vantaggio di chi si vorrebbe (falsamente) colpire in quanto:
1. guarda caso, con questi insulti, si fa propria la storiografia dell’olocausto e la verità sulle camere a gas, la cui macabra esaltazione indirettamente le va a convalidare e contribuisce a veicolarne la versione storica. E questo mentre coraggiosi storici
e ricercatori, a rischio della propria libertà, provano a dimostrare la falsità della versione olocaustica.
2. si consente, per l’emozione suscitata, dietro episodi esecrabili o scritti deliranti, di incrementare e far passare con naturalezza la società multi razziale, come nel desiderio delle centrali mondialiste, ed allo stesso tempo contribuire a suscitare l’odio verso l’Islam ritenuto un ostacolo, soprattutto culturale, per il mondialismo.
3. si offre al sistema un’arma preziosissima per colpevolizzare e mostrificare il dissenso scatenando, quando lo ritiene opportuno, una repressione generalizzata verso chi, anche con altri e più seri argomenti, porta avanti tesi revisioniste della storia e/o critiche al mondialismo ed al sionismo.
La conseguenza immediata è infatti il varo di leggi liberticide articolate dietro la scusa di reprimere l’odio razziale.
Anche contro questa tendenza, di cui già dalla fine degli anni ’60 si cominciava ad intravedere e ad intuire le finalità, la Federazione Nazionale Combattenti della RSI ha sempre combattuto cercando, con i suoi uomini e il loro insegnamento di vita e con i suoi fogli di orientamento politico e dottrinale, di opporsi alla degenerazione umana di tutto un ambiente storico. E forse oggi possiamo dire che il Fascismo ha avuto la sua vera testimonianza umana, ideale e dottrinale, proprio e soprattutto nei camerati della FNCRSI.
Ma siamo andati troppo avanti, dovremo tornare agli anni del dopoguerra quando, a poco a poco, il grande inganno in cui stavano per essere coinvolti i fascisti ed i combattenti repubblicani, dapprima subdolo e difficilmente avvertibile (se presi dalle contingenze del tempo) diveniva sempre più evidente.


                                                                                                                                               

giovedì 17 ottobre 2019

DAI PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION AL “NUOVO ORDINE MONDIALE”


DAI PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION AL “NUOVO ORDINE MONDIALE”

Da
gendiemme
associazioneeuropalibera.wordpress.com


Le rivelazioni sconvolgenti dei protocolli dei Savi di Sion sono sempre oggetto di discussione sulla genuinità della scrittura. Rectius, della riscrittura, ma non sui contenuti. Essi sono in linea con il Talmud, il testo sacro ebraico secondo solo alla Bibbia. E il Taimud, che significa insegnamento, studio, discussione dalla radice ebraica, non è certo un falso. In sintesi, è il contratto di lavoro fra Dio e il popolo ebraico per dare un servizio all’umanità e l’ebreo vi viene visto come sacerdote e servo dell’umanità in una sorta di culto cosmico al Creatore. Traggono da qui molte interpretazioni della superiorità del popolo ebraico sugli umani. I Farisei furono i sacerdoti del Taimud e furono combattuti da Gesù.
I PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION

..UNA LETTURA IMMANCABILE PER CHI VUOLE CAPIRE..
di Giacoletto Dario
..un documento, può essere vero oppure, può essere falso. Un documento vero, può dire il vero, oppure può dire il falso (esempio: certificato di nascita vero, con data errata). Viceversa, anche un documento falso può  dire sia il vero che  il falso. Se io falsifico, ovvero produco,  un documento falso che dice esattamente ciò che dice l’originale vero; avrò fatto un falso che dice il vero. Ripeto, non necessariamente un documento falso, dice il falso.
I protocolli dei savi di Sion, vengono generalmente presentati come un’opera letteraria che precede l’attuale concetto di cospirazionismo ovvero, l’idea secondo il quale esiste nel mondo un piano per manipolare e gestire l’umanità “Goym”  da parte dei cosi detti “eletti” chiamati a governare su di loro.
Circa il documento ”Protocolli dei savi di Sion”, si è lungamente dibattuto circa la sua genuinità. Poco invece si è dibattuto circa il fatto che dicano o meno il vero. Perché?.. Semplice la risposta: La loro genuinità non è dimostrabile (ma neanche la loro non genuinità) e, chi dispone dell’informazione non ha interesse che ne vengano valorizzati e pubblicizzati i contenuti. Perché?.. Perché il contenuto dimostra che dicono il vero indipendentemente dal fatto che siano veri o falsi. A mio parere, potrebbero essere benissimo una riproduzione falsa di documenti veri. Direbbero quindi il vero, ma permetterebbero all’informazione di affermare che sono dei falsi. Ciò che però secondo me conta, è che questi documenti, sono di tipo profetico, in quanto chi li ha scritti afferma ciò che avverrà in seguito e, in seguito tutto quanto si è regolarmente avverato. Da quando si suppone siano stati scritti, sono passati  più di cento anni e, si può ipotizzare che i documenti prevedano ancora un po’ di tempo a venire. Constatando che nel tempo passato da quando sono stati scritti sino ad ora, tutto si è avverato secondo i piani riportati dal documento; come si può affermare che sono falsi nel loro contenuto?.. E difatti si preferisce attrarre l’attenzione sulla loro genuinità originale; ma non sul contenuto che si sceglie di non evidenziare.  Io però, cerco la verità (parziale e mai assoluta) e, quindi mi va bene anche un documento del genere. A cosa mi servirebbe un documento autentico che dicesse il falso?
A parte queste considerazioni, ve ne sono altre di altro genere. Supponendo che  si tratti di un falso, l’autore che in questo caso avrebbe inventato quanto sostenuto dai protocolli, gli si dovrebbe riconoscere una fantasia notevole e se poi la sua fantasia si traduce in realtà; dovrebbe pure essere ammirato per la sua enorme dote profetica.
Colui che li ha scritti, avrebbe avuto la possibilità di affermarsi come scrittore, senza nulla rischiare; perché rischiare mettendo in circolazione un documento falso che nulla gli da e tutto gli può togliere?.. A suo tempo, venne messa in circolazione la notizia, secondo il quale l’autore falsario era un rampollo di  famiglia benestante. Questo potrebbe ipoteticamente essere vero, in quanto solamente i facenti parte di famiglie benestanti inserite ad alto livello nella mafia di sistema, conoscono l’apparato occulto che opera dietro le quinte!.. Ma questo non fa altro che confermare ciò che sostengono coloro che considerano veri i  Protocolli. Li ha scritti certamente una persona che conosce l’apparato sionista occulto ovvero, la dottrina rabbinica e il Talmud.
Di fronte alla disastrosa situazione sociale (vedi mafia di stato, di stati, globale), culturale, economica attuale; non si può continuare a pensare che tutto sia il risultato della casualità. Siamo di fronte ad una azione mafiosa di portata mondiale del quale la casta politica non è l’artefice ma, una mercenaria presenza al servizio di essa. Semplicemente puttane!.. Lo dimostrano gli atteggiamenti apparentemente d’opposizione mentre, portano ai risultati che la mafia internazionale e globalista (bancaria) a loro impone. Ora in Italia, abbiamo addirittura un bipolarismo a quattro!.. Un governo tecnico, due opposizioni con destra e sinistra, un centro per le evenienze di mercato!.. Ci viene detto che vi è la crisi, che occorre pagare il debito!.. perché nulla fanno per impedire l’affermazione della strategia dello spreco?.. se il debito ci danneggia; perché ora cercano di imporre il debito europeo e collettivo?.. perché nessun politico o giornalista, parla mai della vera causa che sta alla base del debito di stato?.. ovvero il “Signoraggio bancario”?.. Le puttane che stanno lungo le strade, hanno ancora una loro apparente dignità; queste non più!.. Esattamente come dimostrato nei “Protocolli dei savi di Sion”.
Uomini siate, e non pecore matte,
Sì che ‘l giudeo tra voi di voi non rida.
(Dante: Par. c. V; v. 80, 81)

PS: Il libro è facilmente reperibile in internet. (Introvabile l’edizione dell’immagine).Sono riportati i protocolli nel libro “LE SOCIETA’ SEGRETE e il loro potere nel ventesimo secolo”.
A proposito della questione sull’autenticità dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” (articolo di Francesco Lamendola)
Nell’articolo sui “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, il professor Francesco Lamendola affronta, con il consueto equilibrio, un tema molto spinoso. L’autore, dopo aver ripercorso la fortuna dei Protocolli, dalla loro comparsa nella Russia dello czar Nicola II Romanov, esamina la portata del libro, inquadrando la questione nell’ambito degli studi inerenti alla cospirazione globale. Esemplare è il discorso circa le fonti cui possono attingere solo gli storici accademici, laddove gli studiosi che desiderano addentrarsi negli oscuri meandri della storia vera, debbono accontentarsi di indizi, parallelismi, “coincidenze”, giacché è fatale che i burattinai non lascino documenti scritti.
Circa i famigerati Protocolli, ferve il dibattito sulla loro paternità: alcuni li attribuiscono alla polizia segreta russa, altri ai Sionisti, altri ancora ai Gesuiti. Stabilire chi li vergò è esercizio ozioso: piuttosto se ne può verificare, punto per punto, la plausibilità, quando, ad esempio, l’ignoto autore descrive i piani politici ed economici della feccia satanista. Chi guardi all’odierna situazione della Grecia, preludio di altri tumultuosi eventi, vedrà nei Protocolli il canovaccio (trama, si potrebbe scrivere con intento anfibologico) di quanto sta accadendo oggigiorno. Anche il continuo e gattopardesco “ricambio” delle classi dirigenti, in cui ad una generazione di corrotti ne subentra un’altra illibata solo all’apparenza, ma in verità ancora più immorale, è una strategia illustrata nei Protocolli.
Dunque l’analisi di questo testo è illuminante, sebbene resti poi da scrutare il vertice della Piramide. E’ come, infatti, se si potessero scorgere da lontano le pendici di una gigantesca montagna, mentre la vetta è sottratta alla vista, a causa di dense e spesse nubi che la nascondono. Così si può soltanto tentare di indovinare la forma e le dimensioni della cima. Ad ogni modo, non ci sbaglieremo, se collocheremo al culmine del potere gli Arconti: su costoro sappiamo poco, ma è certo, piaccia o no, che non sono uomini.
Da quando hanno fatto la loro comparsa nella storia d’Europa (la prima traduzione italiana apparve nel 1921 a cura di Giovanni Preziosi), i «Protocolli dei Savi Anziani di Sion» non hanno cessato di polarizzare l’attenzione degli storici, dei politologi e dell’opinione pubblica intorno alla controversia sulla loro autenticità. Il libro, apparso nella Russia di Nicola II all’interno di un’opera più vasta del mistico russo Sergej Nilus, è scritto in prima persona da un “grande vecchio” che rivolge le sue parole ad un’assemblea di anziani ebrei, esponendo le linee guida di un piano strategico dalla straordinaria vastità di concezione e mirante, addirittura, alla conquista e alla sottomissione del mondo da parte degli Ebrei, il “popolo eletto”.
Infiltrandosi come una prodigiosa, efficientissima e segretissima quinta colonna nelle società cristiane e segnatamente nei centri del potere economico, finanziario, culturale e dell’informazione, gli Ebrei – stando a questo testo – si porrebbero l’obiettivo dichiarato di indebolire la fibra morale di tutte le società non ebree, sovvertendo gradualmente, ma inesorabilmente, tutti i valori, tutte le certezze, tutte le tradizioni, fino a creare le condizioni adatte perché il mondo intero cada, come un frutto maturo, in potere dell’ebraismo internazionale, che agisce per mezzo di banchieri, uomini politici, giornalisti ed esponenti del mondo della cultura.
Dal momento che i «Protocolli» si prestano ad una lettura in chiave antisemita e che, effettivamente, essi entrarono a far parte del bagaglio propagandistico antisemita del nazismo (e, in misura molto più blanda, del fascismo, ma solo all’epoca delle leggi razziali del 1938), con tutto quello che ne è derivato, gli storici della seconda metà del Novecento hanno liquidato l’intera questione della loro autenticità, dichiarandoli un falso confezionato dalla «Ochrana», il servizio segreto zarista, probabilmente a Parigi e con lo scopo di creare una sorta di giustificazione morale per i “pogrom” che infuriavano, di quando in quando, in Russia, in Ucraina, in Polonia.
Anche il saggista Sergio Romano, col suo libro del 1992 «I falsi protocolli», ha impostato così tutta la problematica ad essi relativa, come già il titolo suggerisce chiaramente: come se, una volta assodata la loro non autenticità, venisse a cadere interamente l’altra questione, ad essa collegata, ma che nessuno osa anche soltanto accennare, tanto forte è il timore di essere accusati di antisemitismo o addirittura di simpatie per il nazismo: se, cioè, le cose espresse in quel documento possano corrispondere a fatti reali e se, inoltre, siano o meno in linea con la Legge ebraica e con il sentire ebraico nei confronti dei “gojm”, dei Gentili.
Ma torniamo al legame fra l’«Ochrana» e i «Protocolli».
Ora, a parte il fatto che si potrebbe discutere se tutti i “pogrom” fossero voluti e organizzati dagli ambienti antisemiti della Russia e dai servizi segreti zaristi, o se non possano ricondursi anche, almeno in parte, ad una manovra delle potenti lobbies ebraiche dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, proprio allo scopo di screditare il governo zarista (ne abbiamo già parlato nell’articolo «Possono darsi delle verità così tremende che nessuna voce umana riuscirebbe a pronunziarle», inserito sul sito di Arianna Editrice in data 28/02/10), forse sarebbe il caso di domandarsi se la questione della autenticità, affermata o negata che sia, costituisca davvero la questione centrale che ci si dovrebbe porre davanti a questo impressionante documento.
Infatti, posto e stabilito che nessuna seria società segreta lascia documenti scritti relativi ai suoi complotti (e, in questo senso, i «Protocolli», nella versione in cui li conosciamo, sono quasi certamente un falso), il punto è che non si dovrebbe guardare il dito che indica la Luna, ma la Luna in se stessa: si dovrebbe cioè vedere se, nello sviluppo della storia moderna e nelle prescrizioni e invocazioni della “Torah”, della “Mishna” e del “Talmud”, i concetti espressi nei «Protocolli» trovino corrispondenza, oppure no.
A proposito dell’intera questione, Julius Evola, autore della «Introduzione» all’edizione italiana del 1938 dei «Protocolli», curata dalla rivista di Giovanni Preziosi «La vita italiana», così si esprimeva (pp. 9-10): «Due punti vengono particolarmente in risalto nei “Protocolli”. Il primo si riferisce direttamente alla questione ebraica. Il secondo ha una portata più generale e conduce ad affrontare il problema delle forze vere in atto nella storia. Perché il lettore si renda pienamente conto dell’uno e dell’altro punto, crediamo opportuno svolgere alcune considerazioni, indispensabili per un giusto orientamento. Per un tale orientamento, occorre anzitutto affrontare il famoso problema della “autenticità” del documento, problema sul quale si è voluto tendenziosamente concentrare tutta l’attenzione e misurare la portata e la validità dello scritto. Cosa invero puerile. Si può infatti negare senz’altro l’esistenza di una qualunque direzione segreta degli avvenimenti storici. Ma ammettere, sia pure come semplice ipotesi, che qualcosa di simile possa darsi, non si può, senza dover riconoscere che, allora, s’impone un genere di ricerca ben diverso da quello basato sul “documento” nel senso più grossolano del termine. Qui sta precisamente – secondo la giusta osservazione del Guénon – il punto decisivo, che limita la portata della questione dell’”autenticità”: nel fatto, che NESSUNA ORGANIZZAZIONE VERAMENTE E SERIAMENTE SEGRETA, QUALE SI SIA LA SUA NATURA, LASCIA DIETRO DI SÉ DEI “DOCUMENTI” SCRITTI. Solo un procedimento “induttivo” può dunque precisare la portata di “testi”, come i “Protocolli”. IL CHE SIGNIFICA CHE IL PROBLEMA DELLA LORO “AUTENTICITÀ” È SECONDARIO E DA SOSTITUIRSI CON QUELLO, BEN PIÙ SERIO ED ESSENZIALE, DELLA LORO “VERIDICITÀ”. Giovanni Preziosi già sedici anni or sono, nel pubblicare per la prima volta il testo, aveva ben messo in rilievo questo punto. La conclusione seria e positiva di tutta la polemica, che nel frattempo si è sviluppata, è la seguente: CHE QUAND’ANCHE (cioè: dato e non concesso) I “PROTOCOLLI” NON FOSSERO AUTENTICI NEL SENSO PIÙ RISTRETTO, È COME SE ESSI LO FOSSERO, PER DUE RAGIONI CAPITALI E DECISIVE:
1) Perché i fatti ne dimostrano la verità;
2) Perché la loro corrispondenza con le idee-madre dell’Ebraismo tradizionale we moderno è incontestabile.»
Che l’antisemitismo di Evola non fosse di tipo biologico – e quindi razzista – è attestato, peraltro, dal seguente passaggio (che, ove ipotizza una strumentalizzazione degli stessi Ebrei da parte di poteri occulti corrispondenti ad un livello più alto, che potrebbe far capo a forze non interamente umane, ricorda, sia detto fra parentesi, la posizione sostenuta al presente da David Icke; op. cit., p. 21-22): «Diciamo subito che noi personalmente non possiamo seguire, qui, un certo antisemitismo fanatico che, nel suo voler vedere dappertutto l’Ebreo come “deus ex machina”, finisce col cader esso stesso vittima di una specie di tranello. Infatti dal Guénon è stato rilevato che uno dei mezzi usati dalle forze mascherate per la loro difesa consiste spesso nel condurre tendenziosamente tutta l’attenzione dei loro avversari verso chi solo in parte è la causa reale di certi rivolgimenti: fattone così una specie di capro espiatorio, su cui si scarica ogni reazione, esse restano libere di continuare il loro giuoco. Ciò vale, in una certa misura, anche per la questione ebraica. La constatazione della parte deleteria che l’Ebreo ha avuto nella storia della civiltà non deve pregiudicare una indagine più profonda, atta a farci presentire forze di cui lo stesso Ebraismo potrebbe esser stato, in parte, solo lo strumento. Nei “Protocolli”, del resto, spesso si parla promiscuamente di Ebraismo e di Massoneria, si legge” cospirazione massonico-ebraica”, “la nostra divisa massonica, ecc., e in calce della loro prima edizione si legge: “firmato dai rappresentanti di Sion del 33 grado”. Poiché la tesi, secondo la quale la Massoneria sarebbe esclusivamente una creazione e uno strumento ebraico è, per varie ragioni, insostenibile, già da ciò appare la necessità di riferirsi ad una trama assai più vasta di forze occulte pervertitrici, che noi siamo perfino inclini a non esaurire in elementi puramente umani. Le principali ideologie consigliate dai “Protocolli” come strumenti di distruzione e effettivamente apparse con questo significato nella storia – liberalismo, individualismo, scientismo, razionalismo, ecc. – non sono, del resto, che gli ultimi anelli di una catena di cause, impensabili senza antecedenti, quali per esempio l’umanesimo, la Riforma, il cartesianismo: fenomeni dei quali però nessuno vorrà seriamente far responsabile una congiura ebraica, così come il Nilus, in appendice, mostra d credere, inquantoché fa retrocedere la congiura ebraica niente di meno che al 929 a. C. Bisogna invece restringere l’azione distruttrice positiva dell’internazionale ebraica ad un periodo assai più recente e pensare che gli Ebrei hanno trovato un terreno già minato da processi di decomposizione e d’involuzione, le cui origini risalgono a tempi assai remoti e che sui legano ad una catena assai complessa di cause: essi hanno utilizzato questo terreno, vi hanno, per così dire, innestato la loro azione, accelerando il ritmo di quei processi. La loro parte di esecutori del sovvertimento mondiale non può dunque essere assoluta. I “Savi Anziani” costituiscono invero un mistero assai più profondo di quanto lo possano supporre la gran parte degli antisemiti, e così pure, per un altro verso, coloro che invece fanno cominciare e finire ogni cosa nell’internazionale massonica, o simili.» Per Evola, la questione dell’autenticità o meno è una falsa questione, perché quello che conta è la piena concordanza fra lo spirito della Legge ebraica e lo spirito che emerge dalle pagine dei «Protocolli; e, in particolare, l’idea della rivincita mondiale dell’ebraismo su tutto il resto dell’umanità, sui Gentili, considerati alla stregua di bestiame, se non di autentica spazzatura destinata, comunque, ad un ruolo totalmente subalterno nel “nuovo ordine mondiale” che verrà instaurato nel gran giorno (idem, pp. 24-26):
«Per ben inquadrare il problema ebraico e comprendere il vero pericolo dell’Ebraismo bisogna partire dalla premessa che alla base dell’Ebraismo non sta tanto la razza (in senso strettamente biologico), ma la Legge. La Legge è l’Antico Testamento, la “Torah”m, ma altresì, e soprattutto, i suoi ulteriori sviluppi, la “Mishna” e essenzialmente il “Talmud”. È stato giustamente detto che, come Adamo è stato plasmato da Jehova, così l’ebreo è stato plasmato dalla Legge: e la Legge, nella sua influenza millenaria attraverso le generazioni, ha destato speciali istinti, un particolar modo di sentire, di reagire, di comportarsi, è passata nel sangue, tanto da continuare ad agire anche prescindendo dalla coscienza diretta e dall’intenzione del singolo. È così che l’unità d’Israele permane attraverso la dispersione: in funzione di un’essenza, di un incoercibile modo d’essere. E insieme a tale unità sussiste e agisce sempre, fatalmente, o in modo atavico e inconscio, o in modo oculato e serpentino, il suo principio, la Legge ebraica, lo spirito talmudico.

È qui che interviene un’altra prova della veridicità dei “Protocolli” quale documento ebraico, inquantoché trarre da questa Legge tutte le sue logiche conseguenze nei termini di un piano d’azione significa – esattamente – venire più o meno a quanto di essenziale si trova nei “Protocolli”. Ed è essenziale questo punto, CHE MENTRE L’EBRAISMO INTERNAZIONALE HA IMPEGNATO TUTTE LE SUE FORZE PER DIMOSTRARE CHE I “PROTOCOLLI” SONO FALSI, ESSO HA SEMPRE E CON LA MASSIMA CURA EVITATO IL PROBLEMA DI VEDERE FINO A CHE PUNTO QUESTO DOCUMENTO, FALSO O VERO CHE SIA, CORRISPONDE ALLO SPIRITO EBRAICO. E proprio questo è il problema che ora vogliamo considerare. L’essenza della Legge ebraica è la distinzione radicale fra Ebreo e non-Ebreo più o meno negli stessi termini che fra uomo e bruto, fra eletti e schiavi; è la promessa, che il Regno universale d’Israele, prima o poi, verrà, e che tutti i popoli debbono soggiacere allo scettro di Giuda; è il dovere, per l’Ebreo, di non riconoscere in nessuna legge, che non sia la sua legge, altro che violenza e ingiustizia e accusare un tormento, una indegnità, dovunque il dominio, che egli ha, non sia l’assoluto dominio; è la dichiarazione di una doppia morale, che restringe la solidarietà alla razza ebraica, mentre ratifica ogni menzogna, ogni inganno, ogni tradimento nei rapporti fra Ebrei e non-Ebrei, facendo dei secondi una specie di fuori-legge; è, infine, la santificazione dell’oro e dell’interesse come strumenti della potenza dell’Ebreo, al quale soltanto, per promessa divina, appartiene ogni ricchezza della terra e che deve “divorare” iogni popolo che il Signore gli darà. Nel “Talmud” si arriva a dire: “Il migliore fra i non-Ebrei (“gojm”), uccidilo”. Nel “Shemoré Esré”, preghiera ebraica quotidiana, si legge: “Che gli apostati perdano ogni speranza, che i Nazzareni e i Minim (i Cristiani) periscano di colpo, siano cancellati dal libro della vita e non siano contati fra i giusti”. “ Ambizione senza limiti, ingordigia divoratrice, un desiderio spietato di vendetta e un odio intenso” si legge nei “Protocolli” (XI) e difficilmente si saprebbe dare una più adeguata espressione di ciò che risulta a chi penetri l’essenza ebraica. E mai è venuta meno, all’Ebreo, la speranza del Regno, è in essa che sta, anzi, in gran parte, il segreto della forza inaudita che ha tenuto in piedi ed ha conservato uguale a sé stesso Israele, tenace, caparbio, orgoglioso e vile ad un tempo, attraverso i secoli. Ancor oggi, annualmente, nella festa del Rosch Hassanah, tutte le comunità ebraiche evocano la promessa: “Innalzate le palme e acclamate, giubilando, Dio, poiché Jehova, l’altissimo, il terribile, sottometterà tutte le nazioni e le porrà sotto ai vostri piedi”.»
Le considerazioni di Evola ci sembrano non prive di un certo spessore concettuale e meritevoli, comunque, di essere prese seriamente in esame, piaccia o non piaccia la figura di colui che le ha formulate ed il ruolo da lui rivestito nella cultura antisemita dell’epoca. La prima domanda che ci dovremmo porre è se una cospirazione globale sia possibile e verosimile e se sia dato di scorgerne non già le prove – abbiamo visto che nessuna società segreta ne lascerebbe alle proprie spalle -, ma almeno degli indizi abbastanza riconoscibili. La seconda domanda è se sia possibile che non già gli Ebrei indiscriminatamente, ma alcuni gruppi ebraici potenti e sperimentati, facendo leva su una Legge che è stata loro inculcata per innumerevoli generazioni, non possano essersi prestati ad un disegno del genere, magari in collaborazione con altri centri di potere occulto. Alla prima domanda ci sembra sia difficile rispondere in maniera assolutamente negativa.
Che i membri del “villaggio globale” si trovino in una condizione di vera e propria schiavitù psicologica e culturale, instupiditi da demenziali programmi radiofonici e televisivi, disinformati da una stampa asservita e fuorviati da sedicenti intellettuali che fanno a gara, ormai da lungo tempo, nel fare a pezzi ogni parvenza di valore tradizionale e nel descrivere la vita come decadenza, dolore, noia e disperazione: tutto questo è sotto gli occhi di tutti, se si possiedono ancora – beninteso – occhi per vedere e una mente per riflettere. Ora, è difficile pensare che tutto questo sia frutto del caso o di una spontanea convergenza di circostanze; senza contare che l’esperienza ci insegna che i grandi gruppi finanziari e industriali non tralascerebbero alcuna strategia, alcuna manovra, alcuna bassezza, per quanto criminosa, nel perseguire i loro fini inconfessabili: che non consistono solamente nel vendere una quantità sempre crescente di prodotti inutili o addirittura nocivi, ma anche nel distruggere ogni residuo di spirito critico nel suddito-consumatore, in modo da renderlo il più simile possibile ad uno “zombie”: perché solo così si può essere certi che egli non prenderà consapevolezza della sua reale condizione e non tenterà di sottrarvisi.
Scatenare guerre e rivoluzioni, finanziare gruppi terroristici magari di opposta matrice ideologica, istigare colpi di stato, provocare crisi finanziarie, promuovere filosofie e movimenti artistici che inneggiano al nichilismo e alla distruzione della società: sono tutte azioni che un tale gruppo di potere occulto, attraverso le sue innumerevoli ramificazioni, non esiterebbe a mettere in atto e che non presentano, sotto il profilo tecnico, ostacoli insormontabili, specialmente se si dispone di possibilità finanziarie praticamente illimitate.


“Siamo sul punto di una trasformazione globale. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la giusta maggiore crisi e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale.”
Alla seconda domanda ci sembra che si possa egualmente rispondere in maniera affermativa; o, quanto meno, che una risposta affermativa possa costituire una ragionevole ipotesi di lavoro sulla quale indagare. Gruppi di potere occulto sappiamo che esistono, primo fra tutti la Massoneria, che affonda le proprie radici in una tradizione ormai plurisecolare e la cui regia nascosta è ormai accertata dietro fatti storici rilevanti, a cominciare da quelli riguardanti la nascita del nostro Stato nazionale, nel corso del Risorgimento. Che, poi, esista una sorta di federazione tra tali gruppi, ciascuno dei quali persegue, in realtà, un proprio disegno egemonico e ciascuno dei quali spera di servirsi degli altri per realizzare i propri fini particolari: anche questo rientra nell’ambito del possibile e perfino del probabile; come suggerisce, ancora una volta, l’osservazione di fatti storici ormai noti, come la collaborazione che si instaura fra organizzazioni criminali internazionali, ciascuna delle quali particolarmente interessata ad un certo ambito delle attività illecite. Che, infine, salendo di livello in livello, si giunga al vertice della piramide che nessuno ha mai potuto conoscere di persona, anche perché i suoi membri più importanti, i burattinai supremi del grande gioco, sono – forse – creature di origine non umana: ebbene, ciò può essere solo oggetto di speculazione teorica, mancando prove o anche indizi concreti tali, da poter dirimere la questione per via documentaria. Chi studia il fenomeno della cospirazione mondiale non può servirsi dei normali metodi di ricerca dello storico professionista, perché la materia stessa è completamente diversa da quella della storia. Lo storico procede di documento in documento; ma lo studioso della cospirazione globale sa che non troverà mai dei “documenti” paragonabili a quelli di cui si servono i suoi colleghi della storia, chiamiamola così, profana. Possiamo da ciò trarre la conclusione che non è cosa da persone serie mettersi a studiare la cospirazione globale, dato che, a rigore, non siamo affatto certi nemmeno del fatto che esista il soggetto di una tale ricerca? Certamente no. Il fatto che non esistano prove assolutamente certe e incontrovertibili di una costante presenza aliena sul nostro pianeta non è un argomento per squalificare gli studi che si possono fare in proposito o per denigrare quanti decidono di dedicarvisi; e la stessa osservazione può farsi per tutti quegli ambiti di studio che abbracciano materie prive di un riscontro materiale oggettivo, a cominciare dalle religioni.
Gli studiosi “seri”, però, temono il ridicolo: sono persone che ha molto amor proprio, anche se non esitano a mangiare nella greppia di istituzioni, giornali o televisioni che si aspettano da loro appunto quel tipo di “serietà” che consiste nel non fare mai, assolutamente mai, delle domande veramente scomode, ma nel blandire, al contrario, la pigrizia mentale del pubblico. Ora, il ridicolo (o peggio) è quasi inevitabile per chiunque si addentri nel labirinto della cospirazione globale; e i più petulanti nel ridere alle spalle di un tale ricercatore sono, senza dubbio, proprio coloro i quali – ne siano consapevoli o no – hanno subito in dosi più massicce l’opera di omologazione e istupidimento perseguita dal Pensiero Unico dominante. Perché a quei signori pieni di sussiego e di serietà, magari baroni universitari con ampie gratificazioni professionali, non va molto a genio l’idea di prendere in esame la possibilità, anche solo teorica, di essere, né più né meno di chiunque altro, soltanto dei poveri burattini eterodiretti.
Come se non bastasse, fa parte, da sempre, della tecnica di tutti i gruppi di potere occulto, quella di operare una sistematica disinformazione, lasciando trapelare brandelli di verità, mescolati però a tali e tante inverosimiglianze, da confondere completamente le carte e da screditare anche il lavoro di quanti concentrano le proprie spassionate ricerche proprio su quei brandelli.
Certo, finché il conformismo intellettuale continuerà a dominare incontrastato, i signori dei poteri occulti potranno dormire sonni tranquilli ancora a lungo.
Finché qualcuno, un poco alla volta, comincerà a scuotersi dal torpore e a farsi delle domande scomode e politicamente scorrette: a farle a se stesso in primo luogo; e poi, in un secondo tempo, a farle anche agli altri. Allora, i signori del Pensiero Unico cominceranno a non sentirsi più tanto tranquilli. Avranno paura che la verità cominci a venir fuori: non quella mezza verità che essi stessi lasciano fuggire, di quando in quando, aprendo e chiudendo il rubinetto della disinformazione; ma la verità vera, quella che a loro non piace affatto, perché disturba i loro progetti e i loro affari.
Quel giorno, forse, si sta avvicinando. Un principio di consapevolezza incomincia a soffiare, qua e là, nella stagnante palude in cui siamo sprofondati. Speriamo che quella brezza si trasformi quanto prima in un vento impetuoso e che sia abbastanza forte da disturbare i piani e gli affari di chi ci vorrebbe eternamente schiavi, e sia pure schiavi di lusso, imprigionati mani e piedi con delle catene d’oro massiccio.

                                                                                                                                  

giovedì 10 ottobre 2019

RODOLFO GRAZIANI

Rodolfo Graziani


Rodolfo Graziani nacque l’11 agosto 1882 a Filettino, paesino situato nella Valle dell’Aniene, ai piedi del Monte Viglio.
Quarto di nove figli, dalla madre Adelia Clementi ricevette un educazione all’insegna del sentimento religioso, del culto del bene, educato verso mete nobili ed elevate.
Indirizzato dal padre Filippo nel seminario di Subiaco, dove osservò “regole” rigide e tempranti, già da allora Rodolfo mostrò amore per l’imprevisto e sete di avventura.
Durante gli anni del liceo, in lui si era sviluppata la tendenza alla carriera militare.
Al sacerdozio non aveva mai pensato se non in qualche periodo di fugace esaltazione; non era molto attratto dalla politica, anche se dal padre era stato educato ai principi monarchici.
Era più interessato alla questione sociale: pensava infatti che un sistema di collaborazione fra capitale e lavoro potesse avvicinare le classi con beneficio reciproco, senza bisogno di ricorrere alla lotta di classe.
A causa delle ristrettezze economiche, non potendo frequentare la scuola militare, si iscrisse al notariato nell’Università di Roma e, contemporaneamente, fece il servizio militare di leva nel plotone allievi ufficiali del 94° Regg. Fanteria in Roma.
Il I° maggio 1904 fu nominato sottotenente e destinato al 92° Fanteria a Viterbo.
Verso il finire del servizio militare si preparò per un concorso pubblico, ma nel momento in cui il suo nome fu chiamato egli non si mosse: era come se una forza superiore lo avesse trattenuto.
Fece così il concorso per ufficiale effettivo, dove presentò un tema:”dimostrare come le Nazioni, pur cadute nella rovina, possano risorgere, sempre che mantengano intatti l’onore e l’amore all’ indipendenza e alla libertà”.
Si realizzò così il suo sogno: Ufficiale nel I° Reggimento Granatieri di Roma, era il 1906.
Nel 1908 fu destinato in Eritrea, dove entrò in contatto con quel deserto che aveva già infiammato la sua fantasia di adolescente, e dove imparò l’arabo e il tigrino, per penetrare nel costume delle popolazioni locali.
Destinato al primo battaglione con sede ad Adi Ugri, vi rimase quattro anni, dove ebbe modo di temprare il suo carattere.
La sua esperienza coloniale terminò alla fine del 1912 a seguito di un morso di un serpente velenoso che per oltre un anno lo vide combattere tra la vita e la morte.
Nel 1913 sposò Ines Chionetti, amica d’infanzia di Subiaco, e sei mesi dopo era già in Cirenaica a combattere per lo scorcio della prima campagna libica; l’unica figlia nacque alla vigilia della partenza, dell’allora Capitano, per la Grande Guerra.
Ne rientrò con l’aureola dell’eroe: più volte ferito, decorato al valore, promosso per meriti di guerra, citato nei bollettini militari e nei diari storici delle varie grandi unità a cui era appartenuto.
Aveva 36 anni: il più giovane colonnello dell’Esercito Italiano! Già un alone di leggenda circondava il suo nome e le sue gesta.
In quel periodo non vi era ancora il Fascismo; e debbono così ricredersi, quanti affermarono ed affermano ancor oggi che la sua carriera fu dovuta a favoritismi da parte di Mussolini e del Regime.
Rientrato in Italia con il 61° Fanteria, che egli comandava in Macedonia, tornò a Parma, sede normale di quel Reggimento, dove prese contatto per la prima volta, suo malgrado, con l’ambiente politico.
Finita la guerra, infatti, cominciò il triste periodo 1919-21, dove vi furono agitazioni politiche, scioperi, rivolte, rappresaglie.
Ci trovavamo in una situazione in cui: la nostra vittoria era misconosciuta all’estero e rinnegata all’interno; il sacrificio dei seicentomila morti e di milioni di mutilati e feriti, vilipeso; fu dato ordine agli ufficiali di uscire disarmati; furono strappati dal petto dei valorosi i contrassegni delle medaglie; furono invase le caserme, distrutte le loro insegne, e i reduci colpiti a morte; furono offese le bandiere della Patria!
A Parma ribolliva più che altrove la lotta delle opposte fazioni, al punto che il Colonnello Graziani venne segretamente condannato a morte dal comitato rivoluzionario, reo di aver assunto un’ atteggiamento risoluto contro gli sbandati, per ricondurli all’ordine.
Graziani in quei frangenti mantenne un’assoluta neutralità fra i partiti, e dopo un anno passato nell’incertezza ” cedetti anch’io alla crisi che colpì allora tanti ufficiali e chiesi di essere collocato in aspettativa per riduzione dei quadri”.
Nell’ottobre del ’21, dopo due anni di distacco, e dopo alcuni tentativi di darsi al commercio con l’oriente, Graziani accettò la proposta, fattagli dall’allora Ministro della Guerra, di andare in Africa.
In quell’anno era ricominciata la conquista della Libia la cui campagna si era dovuta abbandonare nel corso della Guerra italo-austriaca: Graziani, destinato a Zuara, ebbe inizialmente funzioni puramente militari, ma quando le operazioni presero un raggio di grande ampiezza, divenne uno dei migliori esecutori della politica interna.
Attenendosi a fermi principi di giustizia, Graziani, nominato Comandante militare e politico dell’Altopiano del Gebel Occidentale, si conquistò l’immenso ascendente e il prestigio, che continuò a godere per tutta la vita, presso le popolazioni libiche.
Fino al 1929 egli, con il grado di Generale di Brigata, continuò ad esercitare funzioni politico-militari nella progressiva avanzata dapprima verso la Sirtica e poi verso Fezzan, fino ad essere considerato “elemento prezioso” dall’allora Governatore De Bono.
Nominato Vice-Governatore della Cirenaica, dove la politica iniziale del Governatore Badoglio aveva prodotto un vero disastro, tradusse in atto, con mano ferma, le direttive impartitegli, riformando su nuove basi il corpo di truppe coloniali, imprimendo maggior vigore alle operazioni, stroncando ogni connivenza con i ribelli.
Nel marzo 1934 il Generale Graziani consegnò la Cirenaica completamente pacificata ed etnicamente riordinata nella sua essenza al nuovo Governatore Generale Maresciallo Italo Balbo.
Tale operazione gli valse, da parte del Ministro delle Colonie, la citazione quale benemerito della Patria nei due rami del Parlamento.
Nel frattempo, nel ’32, era stato promosso Generale di corpo d’Armata per “meriti speciali”; aveva allora 50 anni, e si trovava nel massimo vigore della mente e del corpo.
Tornato dalla Libia ottenne il comando del Corpo d’Armata di Udine, il più importante sia per estensione territoriale, sia per il numero delle unità.
Alla fine del ’34 il nostro Governo, dopo molte esitazioni, decise di liquidare la situazione etiopica, divenuta sempre più acuta; e nel febbraio dell’anno successivo, Graziani ricevette l’ordine della sua nuova destinazione: Somalia come Governatore e Comandante supremo delle truppe.
Incaricato del comando del fronte Sud con compiti iniziali di difesa, ricevette quasi subito l’ordine, con l’appoggio del Ministro delle Colonie Lessona, di procedere all’offensiva, cosa che fu resa possibile con la motorizzazione delle truppe, effettuata soprattutto con mezzi di trasporto e di manovra acquistati dagli Stati Uniti.
Il 9 maggio del 1936 il Governo italiano proclamava l’annessione dell’Etiopia e la creazione dell’Impero e, quindici giorni dopo, il Maresciallo Badoglio, primo Viceré, rientrava in Italia lasciando la reggenza del Vicereame a Graziani suo successore, che nel contempo veniva nominato Maresciallo d’Italia.
Graziani, contrariamente a quanto si credeva in Italia, venne a trovarsi in una difficile situazione politico e militare.
L’immenso Impero non era occupato che in piccolissima parte e, per giunta, si era nel mese delle pioggie che rendeva quasi impossibile l’affluenza dei rinforzi e dei rifornimenti.
La situazione costituzionale del Viceré non era brillante, poiché egli aveva tutte le responsabilità ma scarso potere.
Con vigorose operazioni affermò saldamente il nostro dominio e fece compiere grandiosi lavori pubblici, che restano a tutt’oggi monumento delle capacità e della volontà civilizzatrice dell’Italia fascista.
Il Viceré continuò a dirigere l’Impero anche quando fu ferito, a seguito di un attentato nel febbraio 1937 in occasione dei festeggiamenti per la nascita del Principe di Napoli da parte di alcuni “Giovani Etiopici” istigati dall’Intelligence Service britannico; nel mese di dicembre fu sostituito dal Duca d’Aosta.
Dopo il suo rimpatrio dall’Etiopia Graziani restò a disposizione del Governo: tenuto piuttosto in disparte, anche a causa della sua grande popolarità che suscitava invidie, gelosie e risentimenti.
Nel frattempo la situazione europea si era andata aggravando, e solo dopo lo scoppio della guerra, il 3 novembre ’39, il Maresciallo apprese dalla radio della sua nomina a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, a dimostrazione dell’imbarazzante situazione interna.
Il suo potere rimase comunque limitato dal Maresciallo Badoglio in qualità di Capo di S.M. Generale da una parte, e dal Sottosegretario alla Guerra dall’altra.
Nonostante le limitazioni, Graziani si rese subito conto delle manchevolezze che caratterizzavano la nostra situazione militare, di cui parlò apertamente a Mussolini.

Vi erano deficienze in ogni campo: materie prime, produzione ed armamento.
Come è riportato nel suo libro “Ho difeso la Patria”, delle “otto milioni di baionette, ne esistevano solo 1.300.000 e altrettanti fucili e moschetti mod. 1891”; ma le deficienze erano ben altre.
L’Esercito era attraversato da una crisi morale; l’esistenza della Milizia Nazionale, che non era mai stata tollerata, l’intromissione della politica nelle cose militari, l’obbligo del matrimonio e la creazione di numerosi altri Corpi armati, estranei all’Esercito, costituivano elementi che ne logoravano il prestigio e ne aggravavano la debolezza.
Al momento in cui Graziani assunse le funzioni di Capo di S.M. era già in atto la seconda guerra mondiale, anche se ci vedeva ancora non belligeranti, e le nostre Forze Armate si trovavano nelle seguenti condizioni:
– L’Aviazione era scarsa ed invecchiata, anche perché non aveva alle sue spalle un’adeguata industria. Il bilancio era scarno e in risposta alle proposte di Balbo – che l’aveva portata in alto con le sue imprese – ne era stato disposto l’allontanamento con l’invio in Libia;
– La Marina, fiore all’occhiello, aveva molte belle unità, ma era priva di aviazione specializzata e povera di basi logistiche attrezzate;
– L’Esercito era numeroso, ma con un armamento, un equipaggiamento, un addestramento certamente assai inferiori a quelli dell’Esercito che aveva combattuto e vinto la grande guerra del 1915-18.
In tutto questo, infine, la nostra industria bellica era debolissima; le nostre riserve di materie strategiche e di derrate non esistevano quasi più.

E MUSSOLINI DI TUTTO QUESTO NON NE SAPEVA NULLA. 
 La responsabilità effettiva ricade storicamente sul Capo di Stato Maggiore Generale Maresciallo Badoglio, il quale ricopriva tale incarico fin dal 1926 ed era, per legge, il consigliere militare del Capo del Governo e l’autore dei piani di guerra.
Badoglio, inoltre, era presidente dell’Istituto Nazionale delle Ricerche, creato apposta per scopi bellici, incaricato di sovrintendere alla mobilitazione industriale, tecnica e civile; era membro della commissione suprema per la difesa dello Stato.

A parte l’impreparazione, il Governo seguiva una strana politica militare: noi compravamo dall’America con oro e valute estere le materie grezze e rivendevamo i prodotti lavorati, e cioè armi ed equipaggiamenti all’ estero e soprattutto alla Francia ed alla Romania, mentre le nostre FF.AA. ricevevano ben poco.
E mentre sembrava che l’Italia dovesse seguire una politica di neutralità, i miracolosi successi germanici , che avevano impressionato tutto il mondo e segnato una grandiosa sconfitta della flotta britannica, portarono Mussolini ad orientarsi verso l’intervento.
Il Duce riteneva sicuro ormai che la Germania avrebbe vinto la guerra e riteneva urgente che l’Italia le fosse al fianco, sia per assicurarsi alcuni vantaggi, sia per frenare l’eventuale egemonia tedesca; per suo ordine, tramite il Maresciallo Graziani, comunicò a tutti i generali dell’Esercito che la guerra si sarebbe combattuta non per la Germania, né con la Germania, ma a fianco della Germania.
La politica del Governo, basata su presupposti che non dovevano dimostrarsi reali, ci lanciò così in una lotta mortale, senza adeguata preparazione diplomatica, politica e militare.
LA GUERRA
La guerra venne dichiarata il 10 giugno del ’40 con lo spiegamento iniziale di difensiva assoluta sulle Alpi Occidentali.
Solo dopo dieci giorni si passò da uno schieramento difensivo ad uno offensivo.
Le operazioni durarono tre giorni, ed il 24 giugno i francesi sottoscrissero l’armistizio.
Ultimata la campagna del Fronte Occidentale, Graziani tornò a Roma, e la sera del 28, mentre era nella sua tenuta di Arcinazzo, ricevette una telefonata che gli annunciava la morte del Governatore e Comandante Superiore in Libia, Maresciallo Balbo, avvenuta a Tobruch, e l’ordine di partire subito per assumerne la successione.
Gli ordini erano precisi: invadere l’Egitto! L’obiettivo era Alessandria, base della flotta del Mediterraneo Orientale e chiave del delta del Nilo.
L’occupazione significava il dominio del Mediterraneo centro-orientale e il sicuro dominio del Canale di Suez, con prospettive politiche e militari illimitate.
Conquistare Alessandria sarebbe stata per noi la vittoria; non conquistarla, la sconfitta più o meno lontana, ma sicura.

Per compiere l’impresa, unica nella nostra storia millenaria per diventare realmente una grande potenza mediterranea, avremmo dovuto disporre di 5 o 6 divisioni fra corazzate e motorizzate, mentre il nostro potenziale era di 73 divisioni armate .
Il nostro organismo militare, preparato da un opaco conservatore come il Maresciallo Badoglio, non rispondeva minimamente alle esigenze della lotta.
Il punto di vista, che Graziani aveva più volte ripetuto in precedenza al Capo del Governo, era sempre quello: poiché nonostante l’evidente impreparazione militare, ci avevano gettati nella lotta, bisognava vincere e cioè compiere uno sforzo concorde e sovraumano per riparare alla situazione di impotenza cui ci aveva condotto una politica militare assurda e retrograda.
L’offensiva prevista per il 15 luglio era impossibile a causa della mancanza dei mezzi più elementari non solo per combattere, ma anche per vivere nel deserto, e così egli ottenne un rinvio; ma il 25 agosto arrivava l’ordine da Mussolini di avanzare in Egitto, motivato da altre ragioni politiche: i tedeschi stavano per sbarcare in Inghilterra, e in vista delle trattative anglo-tedesche noi saremmo rimasti fuori da ogni discussione se non avessimo avuto almeno un combattimento con gli inglesi.
In un’iniziale offensiva nel settembre-ottobre i nostri soldati si spinsero fino a Sollum, poco oltre la frontiera egiziana.
Ma né lo sbarco tedesco in Inghilterra, né le trattative ebbero luogo, e tutte le richieste di automezzi da parte di Graziani furono vanificate; in più dal Gen. Roatta egli venne a sapere che per “ordine superiore” ben 25.000 automezzi erano stati accantonati per una futura campagna contro la Jugoslavia!

La cosa molto strana fu che il nostro RE rifiutò per ben tre volte (3 settembre, 4 e 28 ottobre 1940) l’aiuto da parte dell’alleato tedesco, che offriva non solo le divisioni corazzate, ma anche autocarri speciali per il deserto.
La sera del 27 ottobre a Cirene, Graziani apprese dalla radio dell’attacco alla Grecia.
Fu allora che comprese che il Governo e lo Stato Maggiore avevano dato sfogo alla loro mania di azione nei Balcani e che contro tutti, anche e specialmente contro la più decisa opposizione dell’alleato, avevano gettato le poche risorse italiane non sul teatro principale, quello del Mar Mediterraneo, ma in direzione eccentrica, ove andavano a cercare gratuitamente nuovi nemici! Da quel momento fu chiaro come la guerra italiana fosse perduta e le truppe d’Africa abbandonate alla loro sorte.
La campagna di Grecia, iniziata e condotta con incredibile leggerezza, si risolse in un disastro militare accompagnato da un disastro politico e morale.

                                                          I N0STRI EROICI SOLDATI!
Il 4 dicembre, il Capo di Stato Maggiore Generale, responsabile dell’operazione oltremare, Maresciallo Badoglio, schiacciato dalla sue tremende responsabilità, venne sostituito.
Ma anche in Africa la catastrofe era imminente: un deciso contrattacco inglese, appoggiato da mezzi corazzati e da una forte aviazione, travolse le divisioni italiane riuscendo persino ad invadere la Cirenaica e conquistarla.
Il morale delle nostre truppe, scosse e disorganizzate, scese molto in basso, ma il comando inglese non potè approfittarne per tentare la conquista della Tripolitania; uomini e mezzi dovettero essere trasferiti in Grecia.
Dal principio alla fine gli italiani vennero dominati non perché fossero mediocri soldati, ma perché, anche se fossero stati i migliori di tutti, non avrebbero potuto a lungo resistere alla superiorità di mezzi che gli inglesi potevano mettere in campo.
A causa di questa superiorità le battaglie assunsero il carattere di rese più che di combattimenti.
Mussolini, costatando la gravità in cui si trovavano i nostri soldati, accettò l’offerta d’aiuto di Hitler; un’armata tedesca, totalmente corazzata e meccanizzata, addestrata per la guerra nel deserto, fu inviata in Africa sotto il nome di Afrikakorps, affidata ad un brillante ufficiale: Erwin Rommel.
Nel frattempo Graziani chiese di essere esonerato da ogni incarico e lasciò la Libia l’11 febbraio 1941.
Rimpatriato, il Maresciallo si dedicò alla bonifica agraria della sua tenuta di Casal Biancaneve sugli altipiani di Arcinazzo, schivando ogni contatto con personaggi ufficiali.
Nel novembre del ’41, il Duce, essendo stata ristabilita, per il concorso tedesco, la situazione in Cirenaica, credette giunto il momento di ristabilire anche il prestigio del Comando Supremo, dando la responsabilità della sconfitta al Maresciallo Graziani.
Fu istituita una commissione d’inchiesta presieduta dal Grande Ammiraglio Thaon de Revel; la commissione doveva agire segretamente, senza interrogare nessuno, e tanto meno l’interessato.
Ma il Maresciallo Graziani ne venne comunque a conoscenza e scrisse a Mussolini chiedendo di presentare un memoriale documentato di quanto in realtà era avvenuto.
Mentre la commissione aveva espresso un parere completamente sfavorevole, la presentazione del memoriale troncò ogni ulteriore procedimento; così nel gennaio ’43 il sottosegretario alla guerra, Gen. Scuero, comunicò al Maresciallo che non esisteva più un “caso Graziani”, e che quindi la vertenza era esaurita.
Nel frattempo molti mesi erano passati, e la situazione italiana diventava sempre più difficile sia politicamente che militarmente: Graziani ne seguiva l’andamento con estremo interesse, a tal punto che la caduta del Regime Fascista, il 25 luglio, non lo sorprese più di tanto.
Lo stupì invece l’incredibile scelta fatta dal Re di nominare il Maresciallo Badoglio a Capo del Governo, anzi a dittatore militare!

Proprio Badoglio, principale responsabile non solo della impreparazione delle Forze Armate, ma anche della insensata condotta militare del primo e decisivo periodo della guerra.
Alla fine del Luglio del ’43 vi fu un contatto da parte della Casa Reale, dove fu chiesto al Maresciallo Graziani un suo parere sulla situazione attuale.
Il suo pensiero in sintesi fu:”come il comunicato di Badoglio ha annunciato, la guerra deve continuare, l’onore nazionale ci comanda di tener fede ad un patto solennemente sancito, a meno che non vogliamo essere condannati dai nostri figli per aver trascinato la Patria in guerra senza preparazione ed esserne usciti poi con la taccia di tradimento.
Qualsiasi altro male doversi preferire all’annientamento morale perché le Nazioni possono rialzarsi dalla rovina, non dal disonore.
Meglio perdere tutto, fuorché l’onore! Secondo me, il sovrano deve seguire questa linea, anche se dovesse costargli la perdita della Corona”.
Nel mese di agosto segnali provenienti dalla casa Reale facevano prevedere una sostituzione di Badoglio proprio con Graziani; ma gli avvenimenti che seguirono, cioè la firma dell’armistizio di Cassabile e la fuga del Governo e della famiglia Reale, travolsero ogni progetto.

LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Nel fatale settembre del 1943 cominciò per il Maresciallo Graziani una nuova esistenza che lo vide assumere un compito realmente politico quale mai fino ad allora, direttamente sostenuto.
Dopo la catastrofe dell’8 settembre egli ricevette, sia da Mussolini, che nel frattempo era stato liberato dalla sua prigione a Campo Imperatore , sia da parte del Governo tedesco, rappresentato dall’ambasciatore dott. Rahn, l’invito ad assumere la carica di Ministro della Difesa del nuovo Governo che si stava ricostituendo.
Il 9 settembre si costituirono le Forze Armate Repubblicane con quadri ufficiali e sottufficiali di carriera esclusivamente volontari.
Si stabilì che il trattamento fosse in tutto uguale a quello delle truppe germaniche.
Il 24 dello stesso mese il Duce firmò il decreto di nomina del Maresciallo a Ministro.
Sui motivi che spinsero Graziani a diventare Ministro della Difesa della R.S.I. circolarono e circolano tutt’ora le tesi più assurde e faziose: c’è chi sostenne che il Maresciallo si recò ripetutamente presso l’ambasciata tedesca a Roma per offrire i suoi servigi al tedesco invasore; chi disse che accettò l’incarico perché spinto da sete di potere e da una smodata ambizione; chi infine disse che fu costretto perché intimorito dalle SS che gli puntarono una pistola alla nuca.
Tutte queste versioni false furono frutto di odio scatenato dal nemico al fine di distruggere moralmente coloro che dopo l’8 settembre continuarono a combattere nelle file della R.S.I.
La consacrazione di questo autentico Risorgimento repubblicano per l’Italia avvenne al teatro “Adriano” di Roma il 1° ottobre, quando Graziani, nel suo discorso ad oltre quattromila ufficiali e valorosi combattenti precisò che: “chi vi parla è il Maresciallo d’Italia il quale, durante la sua lunga vita di soldato, ha conosciuto la mala sorte, il sole della gloria e l’ombra della ingratitudine.
Adesso egli è chiamato dal destino a stringere intorno a se gli italiani per cancellare la macchia della vergogna con la quale l’infedeltà e il tradimento hanno deturpato la bandiera d’Italia”.
Tra i veri motivi che portarono Graziani ad accettare l’incarico vi era anche quello di frapporsi fra il popolo italiano incolpevole e l’alleato tedesco reso furioso dal tradimento subito, allo scopo di riscattare l’onore militare degli italiani, che ormai era leso dal tradimento e da una resa incondizionata firmata dal Governo Badoglio.
Il suo atteggiamento fu quindi dettato interamente da sentimenti nazionali e da moventi altamente morali.

Graziani, con la collaborazione del Col. Emilio Canevari, fece approvare da Mussolini un promemoria in cui si sosteneva l’opportunità che l’Esercito da costituire dovesse rimanere ” Esercito Nazionale “, basato non solo sui volontari, ma anche sulla coscrizione, e costituito da grandi unità da addestrare < ex novo> nei campi di addestramento germanici; i quadri avrebbero dovuto essere tutti di ufficiali volontari a domanda e bisognava evitare ad ogni costo la guerra civile perciò le nuove truppe dovevano essere assolutamente tenute fuori dalla politica e mai impiegate in servizi di ordine pubblico.
Sulla base di tali propositi, furono siglati degli accordi con il comando supremo germanico che si concretizzarono il 16 ottobre: i tedeschi si impegnarono ad armare e istruire 4 Divisioni italiane, di cui una alpina, e successivamente altre 4; una nona Divisione corazzata doveva essere composta con personale italiano addestrato alla scuola di motorizzazione tedesca.
Il Comando italiano si impegnava, inoltre, a costituire un’unità di artiglieria da montagna, artiglieria contraerea e Genio, per un totale di 30.000 uomini, che dovevano essere posti immediatamente a disposizione del Maresciallo Kesserling.

Tutta la legislazione che portò alla creazione delle FF.AA. era disgraziatamente apolitica e ben presto dovette cedere il passo ad alcuni ambienti fascisti, che portarono alla creazione della Guardia Nazionale Repubblicana, unità autonoma e con proprio bilancio, che doveva, secondo il progetto iniziale, comprendere semplicemente i Carabinieri rimasti volontari, con integrazioni per raggiungere la cifra di circa 30.000 uomini scelti.
Invece la G.N.R. raggiunse la forza di 150.000 uomini; e in più si vennero a creare nelle varie Province le “Brigate Nere”, nelle quali furono inquadrati tutti gli iscritti al Partito che non erano ancora alle armi.
Sulla base dei principi precedentemente codificati il nucleo dell’Esercito Repubblicano venne costituito con 4 Divisioni di fanteria: Italia, San Marco, Monte Rosa e Littorio; esse vennero armate e perfettamente addestrate e nell’estate del ’44, tornate in Italia fra l’entusiasmo della popolazione, formarono, con alcune Divisioni tedesche, l’Armata Liguria, che si schierò dalla Garfagnana al San Bernardo.
Altre unità vennero costituite, e che compresero i 15.000 soldati italiani che, non avendo deposto le armi all’atto della vergognosa resa badogliana, per 20 mesi costituirono il presidio contro il nemico slavo alla nostra frontiera orientale.
L’Aeronautica si costituì con il poco materiale di volo disponibile; la nostra piccola caccia si fece massacrare per difendere le nostre città dai massicci e indiscriminati bombardamenti nemici e cobelligeranti.
La Marina fu pronta alla ricostruzione intorno alla bandiera tricolore della Decima Flottiglia Mas, che non fu mai ammainata, perché continuò semplicemente la sua azione di guerra senza tener conto della resa e senza aspettare che sorgesse un nuovo governo.
Migliaia di giovani volontari accorsero entusiasti.

L’apporto di valore dato all’Italia da questi marinai e soldati non deve essere dimenticato da nessuno perché, ogni giorno di più, appare evidente che essi si batterono per una causa del tutto nazionale, quale non era certo quella degli aviatori che Badoglio si vantò di aver mandato in aiuto a Tito e che servirono a facilitare la conquista slava della Venezia-Giulia.
Il valore dimostrato dai giovani marinai e soldati Repubblicani al servizio solo della Patria, in una lotta disperata, sotto il motto “Per l’Onore della Bandiera”, fu ed è titolo di gloria ed ampio riconoscimento non solo dall’alleato germanico, ma dal nemico stesso, che cavallerescamente volle manifestarlo.
Il Maresciallo Graziani assunse il comando dell’Armata Liguria il 15 agosto ’44; quanto all’azione militare svolta dalle truppe della Repubblica , si può così sintetizzare: le truppe delle Divisioni Monterosa e Littorio, in unione con le truppe germaniche, si opposero, sui passi alpini occidentali, al tentativo delle truppe golliste francesi ed americane di invadere il Piemonte e la Liguria dopo l’abbandono della Provenza, da parte dei tedeschi.
Alle dipendenze del Maresciallo Kesserling furono posti, oltre alle truppe di artiglieria da montagna e del Genio che si batterono sulle Alpi contro la 92ª Divisione americana e contro le truppe brasiliane, circa 68 battaglioni “costieri” e “territoriali” con circa 80.000 uomini.
Meritano uno speciale riconoscimento i reparti che difesero la frontiera orientale contro le bande slave di Tito, tra cui alcuni battaglioni Bersaglieri volontari: la Legione Tagliamento, composta di reduci dalla Russia e di volontari, in gran parte studenti, che difese fino all’ultimo il Friuli; i reparti della Divisione di Marina Decima.

Nella Venezia-Giulia vi furono anche notevoli reparti della G.N.R. che presidiarono Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, che la difesero fino all’ultimo e che caddero massacrati quasi totalmente.
Ormai le sorti della guerra erano segnate.
Le truppe anglo-americano erano alle porte di Milano e di molte altre città del nord del Paese.
Le truppe italiane si preparavano con dignità alla resa.

IL PROCESSO
LA PRIGIONIA
La notte tra il 29 e il 30 aprile del ’45 il Maresciallo Graziani si arrese presso il comando del IV Corpo d’Armata americano.
Dopo circa un mese di prigionia presso il campo di Cinecittà in Roma, il 12 giugno fu trasferito in aereo ad Algeri, presso il campo P.O.W. 211, come prigioniero di guerra, in ossequio alla decisione della Corte Internazionale Permanente, che aveva riconosciuto le truppe della Repubblica Sociale come “combattenti regolari”.
Con eccezione al regolamento inglese, Graziani fu accolto in una tenda nel quadrato ufficiali britannico, dove ebbe la matricola A.A.252533.
Dopo un breve periodo trascorso presso l’ospedale di Algeri, a seguito di problemi fisici, quando rientrò al campo chiese ed ottenne di essere destinato al reparto ufficiali italiano.
Al suo arrivo gli fu assegnata la tenda n° 21, ed egli divenne subito amico di tutti: chiunque poteva avvicinarlo e conversare con lui familiarmente.
Condusse la stessa vita degli altri: nei giorni festivi assisteva alla Messa comune; vestiva la divisa militare italiana di panno grigio-verde, senza gradi né distintivi di medaglie o ferite.
Il suo periodo di prigionia in Algeria si concluse il 16 febbraio 1946 quando fu trasferito in Italia con l’appellativo di prigioniero di guerra ( posizione esaminata dai Consigli per la punizione dei criminali di guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia e Francia) e non quale criminale di guerra, come invece amavano chiamarlo i suoi detrattori.
La stessa sera dell’arrivo venne internato a Procida.
Nel carcere il Maresciallo trovò, tra l’altro, alcuni dei suoi vecchi collaboratori: Gambara, Borghese, Canevari, Villari, Di Battista ed Esposito.
A Procida Graziani migliorò lentamente nel fisico, ma non nello spirito: camminava poco e si stancava in fretta perché non era più abituato al movimento; anche durante la mezzora d’aria traspariva il suo nervosismo e il desiderio di rientrare in camerata.
Via via che veniva a conoscenza dei fatti, degli atteggiamenti e dei giudizi relativi ai venti mesi della Repubblica Sociale, si agitava nel rivivere la tragedia; ma il travaglio non determinò dubbi in lui: sapeva e confermava di aver perseguito la strada dell’onore e del dovere.
Durante il periodo della detenzione Graziani scrisse e pubblicò tre volumi: “Ho difeso la patria”, “Africa settentrionale 1940-41”, “Libia redenta”.
Ogni suo racconto risultava essere preciso: mai esaltazioni o dubbi; ricordò con esattezza fatti, nomi, episodi, date; la chiarezza delle citazioni, dei riferimenti e dei giudizi era sorprendente.
Il 5 giugno ’48 al Maresciallo giunse la citazione a comparire in giudizio il 24 dello stesso mese al palazzo della Sapienza in Roma, davanti alla Corte d’Assise ordinaria.
In appena due mesi e mezzo fu tutto fatto: istruttoria completa e rinvio a giudizio; mentre migliaia di altri politici, con imputazioni meno complesse, giacevano in carcere da circa tre anni, molti di essi senza nemmeno essere stati interrogati.
Il 2 maggio 1950, ultimo dei sei giorni dibattimentali, Graziani pronunciò queste parole: “affermo innanzi tutto ancora una volta che solo la volontà di tutelare e difendere l’onore della Patria mi guidò nell’assumere la mia missione nel settembre del ’43.
Oggi, nelle stesse condizioni, farei altettanto.
[…] Dichiaro che la bandiera della Repubblica Sociale fu sempre e solo quella della Patria.
Quelli che servirono sotto di essa non possono quindi in nessun modo essere considerati traditori, ma hanno fatto il loro dovere verso il Paese”.
Alle ore 22.00 dello stesso giorno il presidente Gen. Di Corpo d’Armata Beraudo di Pralormo, del tribunale Militare Territoriale di Roma, dichiarò:
“Rodolfo Graziani colpevole del reato di collaborazione militare con il tedesco posteriormente all’8 settembre 1943 e diminuita la pena per gravi lesioni riportate e per atti di valore morale e sociale, lo condanna alla pena di anni 19 di reclusione dei quali 13 e 8 mesi condonati”.
Graziani fu dimesso dalle carceri nell’agosto del ’50 e, dopo una breve sosta a Roma, si trasferì ad Affile.
IL M.S.I.
Alla fine del processo, messo in libertà, dovette da subito dedicarsi alla ricostruzione del suo patrimonio finanziario, sminuito da rapine e devastazioni di ogni genere; riuscendovi in poco tempo, grazie anche all’aiuto di alcuni fedeli amici.
Il suo carattere volitivo e la sua forte personalità non potevano estraniarsi dalla situazione politica che regnava nella Penisola.
Fu così che divenne il Presidente della Federazione Nazionale dei Combattenti Repubblicani, che raccoglieva, a scopi di pura e semplice assistenza, i soldati superstiti della R.S.I. , i cui soci si trovavano in difficoltà finanziaria in quanto esclusi dalle associazioni ufficiali, nelle cui file erano stati fatti entrare invece tutti gli “altri combattenti” racchiusi nell’Art. 16.
Ma, da un lato il Governo, dall’altro i partiti politici, gelosi e timorosi di vedere risorgere una personalità così ancora popolare come quella di Graziani, fecero di tutto per farne fallire l’opera.
Si arrivò addirittura al paradosso allorchè il Ministro della Difesa, on. Pacciardi, emanò un decreto che, riportandosi ad una vecchia legge fascista, toglieva a Graziani le Medaglie al V.M., il distintivo di mutilato, ecc.
La lettera di risposta, potentemente sarcastica, terminava con le seguenti parole: “[…] radiate pure dai ruoli autentici soldati che alla Patria offrirono tutta la loro vita; cancellatene pure i segni del valore, delle ferite, delle mutilazioni; privateli dei diritti civili, politici e umani; togliete pure loro ed alle loro vedove ogni diritto di pensione; metteteli in una parola alla fame, e, peggio ancora, alla disperazione: ma per carità di questa stessa Patria alla quale essi fecero olocausto di ogni bene, smettete voi di esserne, proprio voi, il Ministro della Difesa.”
Nel mese di marzo del ’52 il Maresciallo, impiegando il suo prestigio, riusciva ad ottenere che tutte le varie associazioni di combattenti si raccogliessero sotto il suo patrocinio per svolgere un’azione coordinata.
Si arrivò così il 29 dello stesso mese al Patto di Cassino, concluso presso la storica Abbazia in ricostruzione.
Anche continuando a rimanere al di fuori e al di sopra di ogni parte, estraneo alla politica militante per la quale, del resto, non era affatto portato, e deciso ad occuparsi solo dei combattenti, era purtroppo circondato dallo sciocco timore governativo e dall’odio cieco dei partiti antinazionali, i quali non tralasciavano un’occasione per insultarlo.
Fu così che maturò l’idea di prendere parte diretta nella politica portandovi il peso della sua enorme popolarità: ed il 15 ottobre chiese la tessera del Movimento Sociale Italiano entrandovi come semplice iscritto.
Era tuttavia difficile, con il prestigio che lo circondava, che non divenisse punto di riferimento del partito.
Tanto era il suo carisma, che utilizzò la sua autorevole parola riconciliatrice per impedire la secessione di alcuni gruppi dell’Italia settentrionale.
Ma le sue buone intenzioni furono ben presto travisate ed ostacolate: annoiato, accennò anche al ritiro, ma la sua figura, di importanza nazionale ed internazionale, doveva rimanere al di sopra di beghe di partito.
Il M.S.I., temendo di perdere un punto di forza, lo convinse ad accettare la presidenza onoraria del movimento, insieme con il comandante Borghese.
Ogni sua partecipazione in pubblico si tramutava in un bagno di folla entusiasta.
Nei primi giorni del gennaio del 1954 si svolse a Viareggio il IV congresso nazionale del M.S.I. ed il Maresciallo, in qualità di Presidente onorario del movimento, inviò un suo messaggio che tracciava quella che sarebbe dovuta essere la linea politica generale da seguire e gli obiettivi su cui puntare al fine di rilanciare il movimento.
Purtroppo il nobile messaggio, a lungo studiato, che conteneva la sintesi della sua lunga esperienza, destò pochissima impressione fra i congressisti, preoccupati solo della imminente elezione per il comitato centrale del partito.
In sintesi, Graziani indicava, come scopo supremo da conseguire, la profonda modifica della Costituzione ciellenista, la quale, con il suo regime di partiti, rendeva penosa e artificiosa la vita politica dell’Italia.
Ma molti si trovavano ottimamente nel regime della partitocrazia che concedeva ad essi, come deputati e senatori, una condizione assolutamente eccezionale sia economicamente, sia giuridicamente, quali privilegiati posti al di sopra di ogni legge.
Perciò apparve estremamente inopportuna e inattuale l’idea di Graziani di una lotta per una nuova Costituzione.
Il Maresciallo, resosi conto dello stato d’animo del partito, così differente dal suo, si ritrasse dalla vita del movimento e, in generale, dalla vita cosiddetta politica.
Lo attrasse molto, durante l’ultimo periodo della sua vita, lo studio della difesa dell’Europa, come si presentava dopo la conclusione del Patto Atlantico, e i nuovi scenari di una nuova ipotetica guerra.
Sulla difesa europea il suo studio fu lungo e laborioso: egli possedeva una grande e completa documentazione e si teneva quotidianamente al corrente della situazione e degli avvenimenti in modo particolare per il problema militare, che naturalmente lo attraeva di più.
Secondo il Maresciallo Graziani, “per fare un Esercito europeo, occorrevano degli eserciti nazionali efficienti dai quali trarre Divisioni e Corpi d’Armata da raccogliere in unità superiori internazionali. […] naturalmente, se si potesse creare un’ Esercito realmente europeo, composto da Germania, Francia, Italia, Benelux, si potrebbe […] sfidare un eventuale attacco russo con la certezza di poterlo respingere vittoriosamente.”
Sul finire del novembre del ’54 Graziani cominciò a sentirsi male e dopo una serie di accertamenti medici subì anche un’operazione che fece emergere complicazioni inattese.
Alle ore 06.00 del mattino dell’11 gennaio 1955 si spense l’eroe di tante battaglie, punto di riferimento per milioni di combattenti e non.
Le sue ultime parole furono:”se questa è la mia ora, vado sereno al giudizio di Dio, perché ho sempre fatto il mio dovere.”
Il feretro fu composto nella bara secondo il suo ultimo comando: vestito della sdrucita sahariana, chiuso nel suo pastrano, che aveva conosciuto le tappe del suo viaggio terreno.
Al suo funerale partecipò una folla così enorme che era impossibile avvicinarsi alla chiesa.
Nessuna propaganda era stata fatta per invitare la popolazione ad assistere: il tutto si era svolto nella massima spontaneità.
Lungo il percorso del corteo funebre da Roma ad Affile intere popolazioni si riversarono nelle strade per dimostrare il loro rispetto per la memoria del grande Soldato d’Italia.
Le autorità politiche avrebbero voluto sabotare la cerimonia e la dimostrazione, come avevano fatto in cento altre occasioni.
Ma questa volta non osarono……