lunedì 22 febbraio 2021

RITORNEREMO



RITORNEREMO




lunedì 8 febbraio 2021

ESSENZA DELLO SQUADRISMO



 Francesco Giunta fu il capo indiscusso del fascismo triestino. Di formazione patriottica e volontario nella  impresa di Fiume guidata da d’ Annunzio, riversò la sua formazione ideologica nell’ impostare il Fascio di Trieste, trovando, per il vero, un terreno particolarmente fertile e recettivo. 

Dall’ impresa fiumana trasse lo spirito per il beau geste eclatante e che estasiasse le masse, nonché la convinzione, che già era di d’ Annunzio, che Trieste fosse il perno non solo dell’ azione nazionale verso Fiume, ma anche della identità della patria italiana  stessa. 

Nasce quindi un Fascio che rivolge la sua azione politica non solo verso i nemici “ interni “ della nazione, ma in particolare verso i nemici “ esterni”, cioè verso quelle pressioni di etnie e stati che premevano su Trieste e su tutto il confine orientale italiano, visto da questi come una " soglia " da sfondare per irrompere. Vale la pena ricordare che ancora oggi in termini di geografia militare italiana , la zona fra Gorizia e Trieste viene definita come " La Soglia" . Un punto fragile, da presidiare  sempre con attenzione. 

La peculiarità del Fascio triestino ne fa a tutti gli effetti  una prosecuzione ininterrotta dell’ ideologia e dell'  azione risorgimentale, così  come si è sviluppata  fino alla  prima guerra mondiale. Non a caso, ci ricorda Giacinto Reale nel suo studio in appendice al Diario di Giunta, il fascio triestino fu tra i primi a fregiarsi del teschio degli Arditi e del motto “ me ne frego”. 


Ad essere obiettivi va considerato che l’ idea dinamica di Patria di Francesco Giunta, si è tramandata anche alla Destra triestina successiva al secondo conflitto mondiale, acuita anche in seguito al genocidio italiano perpetrato da parte slavo – comunista con le foibe e le stragi di italiani in Istria ( basti pensare a Vergarolla, fra le tante) : difficile pensare che la Destra triestina si spogliasse dell’ idea di “ nazionalismo integrale ” di derivazione risorgimentale e del fascismo di confine , dopo aver patito il sanguinoso genocidio delle foibe per mano slovena. 

Quello che stupisce non è che l’ allarme contro la “barbarie che viene dall’ est” e preme ai Confini Orientali si sia mantenuto acceso fino agli anni ‘ 70, ma che esso sia andato spegnendosi negli anni successivi , visti i tragici eventi delle foibe e dell’ esodo istriano – dalmata …

E' solo il caso di ricordare ai più distratti che la geopolitica non cambia e ripropone sempre gli stessi problemi nei secoli...

Ma torniamo al nostro libro, ristampato dalla infaticabile Lanterna per la prima volta dal dopoguerra dopo la edizione del 1931. Il  Diario politico di Giunta  va dal 6 dicembre 1920 fino alla marcia su Roma , cesella le caratteristiche ideologiche del fascismo triestino e in parte della Destra dei Confini Orientali fino a non moltissimi anni fa. Il punto era stato ben colto dallo stesso Giorgio Almirante, molto amato a Trieste, che aveva dedicato a Francesco Giunta un valido libro negli anni ’70, ora introvabile e che meriterebbe ristampa. 

Ma le analisi di Giunta non sono solo tasselli in progress della ideologia nascente nel fascismo triestino e intrecciata con le gesta risorgimentali e le imprese degli Arditi della Grande Guerra. 

 Non solo contributi ideologici, ma   anche in termini di “ prassi squadrista”, il cui perno è il famoso incendio dell’ hotel Balkan, centro ideologico e deposito di armi  della sovversione anti italiana di matrice slovena, non rassegnata alla sconfitta bellica del 1918.  


Incendio che per Giunta fu “ l’ inizio della nostra campagna elettorale” e che Benito Mussolini definì in uno storico discorso a Trieste come “ il capolavoro dello squadrismo triestino”. 

" Cosa fatta, capo ha" - avrebbe detto il Comandante d' Annunzio : fatto sta che da quella volta l' insurrezionalismo sloveno non  fece più sentire il fuoco delle sue armi per almeno 20 anni. 

La vicenda dell’ incendio dell’ hotel Balkan ancora oggi accalora strumentalmente lo sterile e rattrappito antifascismo triestino, che su di esso cerca di dare un senso alla propria esistenza,  ma la sua storiografia  a senso unico presenta il fatto  avulso dalla contestualità del tempo che viene  invece esaminata in ogni dettaglio storico dal ricercatore Giacinto Reale nello studio pubblicato in appendice e che evidenzia come la reale responsabilità fascista nell’ incendio vada ampiamente ridimensionata. 

L’ incendio non fu un atto strategico preparato a tavolino, ma divampò accidentalmente all’ interno proprio a causa dei colpi di pistola e fucile degli asserragliati terroristi sloveni nei confronti della enorme folla italiana che asserragliava il palazzo a seguito di una manifestazione di piazza per protesta dell’assassinio a freddo di alcuni militi italiani. Il luogo era di fatto un magazzino di armi.  Ma i dettagli e i documenti di una ricostruzione non faziosa dei fatti , certamente al calor bianco, possono essere letti nello studio sul fascismo triestino e i fatti del Balkan di Giacinto Reale : uno studio magistrale che riprende il lavoro svolto da Reale per la rivista “ Ereticamente” che ai fatti del Balkan ha dedicato molto spazio.

Siamo grati a Giacinto Reale che ancora una volta ci ha onorati della sua preziosa collaborazione storiografica per il ristabilimento della verità storica.

 



LINK UFFICIALE DEL LIBRO : 

https://www.amazon.it/dp/B08W4JRMCV/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&dchild=1&keywords=essenza+squadrismo&qid=1612788938&s=books&sr=1-1

 

lunedì 15 febbraio 2021

Pearl Harbor: la vera storia

Pearl Harbor: la vera storia dell'attacco del 7 dicembre 1941

Pearl Harbor: la vera storia dell’attacco del 7 dicembre 1941


Pearl Harbor, l’attacco giapponese rivolto alla postazione americana nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico che ha distrutto innumerevoli navi della Marina, ha rappresentato l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di un fatto storico di grande importanza, le cui modalità e fatticità – tuttavia – non sono ancora state sviscerate del tutto.

Le minacce che incombevano sugli USA

Dopo la Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d’America adottarono una politica isolazionista. Nell’estate del 1940, i sondaggi dimostravano che l’opinione pubblica statunitense era contraria al coinvolgimento del proprio Paese nel nuovo conflitto europeo. Conflitto nel quale il Paese sarebbe entrato poco più di un anno dopo, dopo l’attacco nipponico a Pearl Harbor.

Tuttavia, già dai primi di settembre dello stesso anno dal governo vennero date direttive che lasciavano pochi dubbi sul protrarsi della neutralità degli USA. I provvedimenti presi rappresentavano un chiaro preludio alla guerra: chiamata alle armi in tempi di pace, uso degli impianti industriali per la produzione di materiale bellico, cessione di vecchi mezzi della Marina all’Inghilterra ed una spesa di 5 miliardi di dollari per creare una Marina per due oceani (l’Atlantico ed il Pacifico).

La grande paura degli Stati Uniti era quella di essere circondati dalle forze militari tedesche dopo la caduta di Londra. Inoltre, in quegli anni era in corso la Seconda guerra sino-giapponese (1931-1945), ed il governo di Washington era (non ufficialmente prima del 7 dicembre 1941) schierato con la Cina. Infatti, fornendo supporto alle truppe di Chiang Kai-Shek, gli Stati Uniti intendevano salvaguardare gli interessi anglo-americani, dei Paesi Bassi e della Francia nel Pacifico. Due minacce incombevano, dunque: il Giappone nel Pacifico e la Germania in Europa.

Il bollettino USA contro il Giappone del 1940

Il 4 ottobre 1940, Franklin Delano Roosevelt venne informato da Roy Howard che un portavoce giapponese chiedeva agli Stati Uniti la smilitarizzazione di tre basi nel Pacifico: la Wake, la Midway e Pearl Harbor. Arthur McCollum [1], il capo del reparto dell’Estremo Oriente dell’ONI (Ufficio dei Servizi Informativi della Marina), insieme al presidente Roosevelt, non condivideva il pensiero isolazionista radicatosi dell’opinione pubblica statunitense.

Difatti, in un bollettino del 7 ottobre 1940 – mentre la Luftwaffe bombardava l’Inghilterra – inviato ai capitani della marina Walter Anderson e Dudley Knox, illustrava un programma da adottare nei confronti del Giappone. Nel documento vi erano 8 punti in cui venivano riportate le azioni necessarie a provocare il Giappone:

  • Accordarsi con la Gran Bretagna per utilizzare le basi inglesi nel Pacifico, soprattutto Singapore.
  • Accordarsi con l’Olanda per utilizzare le attrezzature della base e poter ottenere provviste nelle Indie Orientali olandesi.
  • Dare tutto l’aiuto possibile al governo cinese di Chiang Kai-Shek.
  • Mandare in Oriente, nelle Filippine od a Singapore, una divisione di incrociatori pesanti a lungo raggio.
  • Mandare due divisioni di sottomarini in Oriente.
  • Tenere la flotta principale degli Stati Uniti, attualmente nel Pacifico, nei pressi delle isole Hawaii.
  • Insistere con gli olandesi perché rifiutassero di garantire al Giappone le richieste per concessioni economiche non dovute, soprattutto quelle riguardanti il petrolio.
  • Dichiarare l’embargo per tutti i commerci con il Giappone, parallelamente all’embargo simile imposto dall’impero britannico [2].

Gli USA vennero a conoscenza di Pearl Harbor mesi prima

Il programma venne accolto dal governo Roosevelt [3] e messo subito in pratica, nonostante in pubblico, durante la campagna elettorale, continuasse a rassicurare i cittadini di non voler inviare i propri soldati in guerre straniere. È chiaro che nel caso in cui Stati Uniti e Giappone fossero entrati in guerra tra di loro, il Patto Tripartito (Roma-Berlino-Tokyo) siglato appena due settimane prima (27 settembre 1940) avrebbe trascinato gli USA anche nel conflitto europeo contro Germania e Italia [4].

Era questa la volontà degli inglesi, che si aspettavano l’entrata in guerra degli USA non appena Roosevelt fosse stato rieletto per il terzo mandato (5 novembre 1940). Il 27 gennaio 1941, il segretario di stato USA Cordell Hull ricevette un messaggio inviato dall’ambasciatore J. Grew da Tokyo, in cui scriveva che un suo collega [5] era venuto a conoscenza di piani giapponesi che intendevano attaccare a sorpresa Pearl Harbor.

Da parte del governo non vennero presi provvedimenti, e le intercettazioni dei messaggi (che riguardavano tattiche e strategie) in codice del Giappone, decrittate da Washington, non vennero inviate al comandante della flotta del Pacifico Husband Kimmel.

Il rifiuto americano per la soluzione pacifica

Tra C. Hull e K. Nomura (ambasciatore giapponese presso gli Stati Uniti) vi furono più di quaranta incontri in cui si cercò una soluzione alla situazione tesa che si era creata tra Giappone e Stati Uniti per il controllo del Pacifico. Una situazione ove sostanzialmente il Giappone chiedeva che si riallacciassero rapporti commerciali e si trovasse una via di incontro pacifica al conflitto con Chiang Kai-Shek. Le proposte del governo nipponico vennero respinte in blocco: gli Stati Uniti desideravano mantenere lo status quo nel Pacifico.

Il presidente statunitense ebbe particolare riguardo per il punto 4 del bollettino del 1940 e, incoraggiato da Churchill fin da quell’ottobre del 1940, iniziò a far navigare incrociatori statunitensi – violando il diritto internazionale – nelle acque giapponesi a partire da marzo 1941.

Il Ministero della Marina del Giappone, a fine marzo di quell’anno, indirizzò una nota di protesta all’ambasciatore statunitense Joseph Grew a Tokyo, ma Roosevelt – disposto a sacrificare qualche nave per la sua causa – non cedette: era sicuro che i giapponesi prima o poi avrebbero risposto alle provocazioni.

A Pearl Harbor non furono informati

Nel luglio del 1941 venne chiuso il canale di Panama alle imbarcazioni giapponesi e messo in pratica il punto 8 di McCollum: il Giappone non importava più dagli USA materiale bellico. Esistono prove documentali [6] su intercettazioni fatte nei primi di novembre dai crittografi statunitensi di messaggi giapponesi che rivelavano i piani di Yamamoto [7] riguardanti Pearl Harbor e le isole Hawaii. Fino al giorno prima dell’attacco, erano stati intercettati più di 100.000 messaggi radio delle navi giapponesi.

Tutti sapevano delle intercettazioni, perfino Churchill (che nel frattempo aveva concesso all’esercito statunitense l’uso di basi militari inglesi nel Pacifico, come previsto dal punto 1 del bollettino di McCollum). Nel frattempo, gli uomini che più di tutti avevano bisogno di quelle informazioni, l’ammiraglio Kimmel (comandante della Flotta del Pacifico) ed il generale Short (con l’incarico di difendere le istallazioni militari delle Hawaii) non ricevettero alcun avviso.

In un memorandum dell’ambasciatore Grew del 10 novembre 1941 si ritrovano delle parole indicative sulla politica statunitense. Infatti, secondo l’ambasciatore, il Giappone aveva «ripetutamente fatto delle precise proposte per avvicinarsi al punto di vista americano, ma il governo americano non aveva fatto nulla per andare incontro alle posizioni giapponesi» [8].

Le inaccettabili condizioni USA per il Giappone

Due settimane prima dell’attacco a Pearl Harbor, l’ammiraglio Kimmel diede l’ordine di spostare la flotta a nord delle isole Hawaii. La Casa Bianca venne a sapere di questo spostamento della flotta del Pacifico nel punto in cui sapevano che i giapponesi progettavano di attaccare: diedero l’ordine di ritirare la flotta da quel punto e Kimmel obbedì.

Appena qualche giorno dopo, il 26 novembre 1941, a Kimmel – nonostante le sue proteste – venne ordinato di consegnare tutti i caccia dell’esercito, insieme alla portaerei Enterprise, alle isole Midway. Nello stesso giorno, venne inviata dal governo statunitense una nota che proponeva la risoluzione del conflitto sino-giapponese con delle condizioni inaccettabili per il Giappone, che venne recepita dal primo ministro Hideki Tojo come un ultimatum.

Roosevelt era cosciente dell’inaccettabilità delle condizioni proposte, tant’è che la sua unica preoccupazione espressa il giorno prima che venisse inviata la nota al governo nipponico fu quella di pensare «in che modo potremmo metterli in condizioni di sparare il primo colpo senza esporci ad un pericolo eccessivo».

L’attacco dicembrino a Pearl Harbor

Nella sera del 30 novembre venne intercettato l’ennesimo messaggio che indicava l’obiettivo della flotta nipponica. Nelle prime ore del 2 dicembre venne intercetto un messaggio che indicava il giorno preciso dell’attacco: 7 dicembre 1941. La settimana che precedette l’attacco, i giapponesi vennero informati da un infiltrato alle Hawaii che riferiva la totale mancanza di allerta nella base di Pearl Harbor [9].

Il 5 dicembre venne consegnata da Kimmel anche la portaerei Lexington insieme ad otto moderne navi da guerra. A Pearl Harbor rimasero solo vecchie navi usate durante la Grande Guerra. Nei sette giorni che precedettero l’attacco, il capitano di vascello C. McMoriss ed il comandante V. Murphy rassicurarono Kimmel che un attacco giapponese alle Hawaii era improbabile, nonostante i messaggi intercettati dalla Marina dicessero l’esatto opposto.

Gli alti ufficiali della Marina non fecero nulla per avvertire Honolulu. Quando intercettarono il messaggio giapponese che dava l’ordine di attaccare, lo trasmisero al generale G. Marshall: quest’ultimo, per comunicarlo ai diretti interessati, si servì inspiegabilmente della comunicazione R.C.A. (la più lenta) senza nemmeno preoccuparsi di far porre sul telegramma il timbro della precedenza. La comunicazione dell’allerta giunse dopo l’attacco.

Alle 7:52 del 7 dicembre iniziò l’attacco a Pearl Harbor, che provocò la morte di 2476 uomini. Nello studio ovale della Casa Bianca, quella mattina, vennero staccate tutte le comunicazioni telefoniche, mentre Roosevelt sfogliava i suoi album di francobolli.

Alla ricerca della verità sul 7 dicembre 1941

L’idea che il governo degli Stati Uniti abbia “lasciato fare” ai giapponesi nella vicenda di Pearl Harbor non è ancora accettata dalla storiografia ufficiale. Tuttavia, nel caso di Pearl Harbor i dubbi sulla negligenza della Marina vennero espressi fin da subito all’interno della politica statunitense, soprattutto dai rappresentanti repubblicani.

Appena dieci giorni dopo l’attacco, alcuni membri del Congresso chiesero al governo come mai la forza militare del Pacifico si fosse fatta trovare impreparata. Una Commissione, che stilò un rapporto in meno di un mese, declinò ogni responsabilità all’ammiraglio Kimmel, che venne sollevato dal suo incarico il 16 dicembre, ed al generale Short, che venne rimosso dal comando nello stesso giorno dell’attacco.

Thomas E. Dewey, candidato alle Elezioni Presidenziali con Partito Repubblicano nel 1944, fece delle pesanti accuse al governo Roosevelt, sostenendo che quest’ultimo fosse a conoscenza dei piani dei giapponesi prima dell’attacco. Dalle prime indagini congressuali su Pearl Harbor nel 1945, non emerse che i crittografi statunitensi fossero riusciti decrittare i codici giapponesi: cosa che si sa ora essere non vera.

L’attacco di Pearl Harbor è stato battezzato dal presidente Roosevelt come «il giorno dell’infamia», il giorno in cui gli Stati Uniti sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati. Oggi è storicamente noto che l’attacco venne previsto ed intercettato con largo anticipo, ma che il governo non fece nulla per evitarlo. Un attacco che, peraltro, non maturò da un capriccio giapponese, ma fu la diretta conseguenza di trattative fallite e di provocazioni statunitensi.

 

Note:

[1] Arthur McCollum (1898-1976), nato e cresciuto in Giappone, a 18 anni tornò negli USA e fu ammesso all’Accademia Navale; dopo la laurea, tornò in Giappone come addetto navale all’ambasciata di Tokyo. All’interno della Marina statunitense, nessuno conosceva il Giappone meglio di McCollum.

[2] Bollettino del 7 ottobre 1940 di Arthur McCollum, riportato in appendice con le immagini dei documenti originali nel saggio di Robert Stinnett, “Il giorno dell’inganno. La verità su Pearl Harbor“, Il Saggiatore, Milano 2001.

[3] Vi fu comunque qualche dissidente, come l’ammiraglio James Richardson, non disposto a mettere a rischio la vita dei propri uomini lasciando una buona parte della flotta statunitense nei pressi delle isole Hawaii. Il problema venne risolto sollevando l’ammiraglio dal suo incarico il 1° febbraio 1941. Al suo posto venne nominato Husband Kimmel. Il presidente si impegnò a piazzare nei posti di comando uomini che approvavano od ignoravano la sua politica, come Walter Anderson, un uomo che non godeva di grande stima all’interno della Marina, ma promosso contrammiraglio comandante di corazzata delle navi da guerra della flotta del Pacifico.

[4] Il ministro degli esteri giapponese Yosuke Matsuoka il 28 marzo del 1941 apprese da un incontro con von Ribbentrop che «la Germania non aveva il minimo interesse ad una guerra contro gli Stati Uniti».

[5] Max Bishop, un segretario dell’ambasciata statunitense a Tokyo.

[6] Desecretate con la legge Free of Information Act, riportate nel saggio di R. Stinnett.

[7] Isoroku Yamamoto (1884-1943), comandante in capo della flotta militare giapponese, ideatore dell’attacco di Pearl Harbor. Il 26 novembre 1941 Yamamoto aveva ordinato il silenzio radio (eccetto emergenze), silenzio che durò appena sei ore. Il silenzio radio giapponese fu una delle giustificazioni usate dalla Marina statunitense per non essere riusciti ad intercettare l’attacco giapponese. Oggi invece si sa che il silenzio radio giapponese non venne rispettato e che le intercettazioni via radio continuarono.

[8] Cfr. Charles C. Tansill, “I responsabili della Seconda Guerra Mondiale“, Cappelli Editore, Bologna 1962.

[9] Takeo Yoshikawa, inviato dalla Marina giapponese come diplomatico, doveva svolgere azioni di spionaggio alle Hawaii. Fin dal suo arrivo alle Hawaii, nel marzo del 1941, venne individuato dalla Marina statunitense e tenuto sotto controllo: compresero il suo ruolo di spia, ma paradossalmente non fecero nulla per fermare il traffico di dati tra Yoshikawa e Tokyo.

(Umberto Camillo Iacoviello)