domenica 26 dicembre 2021

A SINISTRA NON SI RINUNZIA MAI ALLA FAZIOSITA’

 


LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE PER GLI ITALIANI?                             


A SINISTRA NON SI RINUNZIA MAI ALLA FAZIOSITA’ La guerra, il dopoguerra, e tanti fatti su cui non si vuole fare chiarezza
Antonio Serena
 
 
    Nei giorni scorsi Peppino Zangrando, già esponente dell'Associazione partigiani Anpi bellunese, è riapparso sulla stampa locale con l'ennesima rivisitazione di episodi accaduti nel corso della guerra civile.
    Capisco la pena e l'intimo travaglio vissuto dall'avvocato nel continuo apprendere delle tante nefandezze - fino a ieri taciute in ossequio alle convenienze politiche - compiute, anche nel Bellunese, dai partigiani comunisti durante e dopo la guerra civile. Ciò non giustifica però il continuo ricorso a puerili tentativi di negare l'evidenza storica e tantomeno l'offendere anche sul piano personale chi dissente dalle sue interpretazioni della storia. Storia che ha già dato il suo giudizio sul comunismo e su coloro che intendevano liberare l'Italia dai tedeschi per affidarla alle amorevoli cure degli infoibatori titini non esitando, per arrivare a ciò, a massacrare (Porzus insegna) gli stessi partigiani non comunisti
    A dimostrazione del profilo umano di certi personaggi, va ricordato che il suddetto avvocato dopo aver assunto le difese di galantuomini come Eliseo Dal Pont (reo confesso di aver ucciso e bruciato a Lamosano nella primavera del '45 una sessantina di prigionieri di guerra) e dopo aver minacciato di querela il parroco di Tambre dal Pago, additato al pubblico ludibrio per «l'infelice iniziativa» dell'erezione di una croce sulla foiba del «Bus de la Lum», è arrivato a speculare impietosamente persino sull'assassinio della giovane Nella De Pieri, violentata, resa incinta e infoibata dai partigiani del Cansiglio, scrivendo: «... la diceria circa le condizioni della De Pieri ha avuto in D’Alpago qualche successo durante questi anni, senza che però alcuna possibilità di verifica si manifestasse... Avvertiamo infine che la legge penale militare di guerra non prevede alcuna forma di clemenza per il condannato in stato interessante». (Da: «Protagonisti» n. 36, 9/1989. Titolo: «Come da un dramma umano la stampa costruisce un mito»).
    Nell'ultimo numero di «Protagonisti» (n. 79) Zangrando scrive che le testimonianze citate nel mio libro «I giorni di Caino» non sono affidabili in quanto «contrassegnate da iniziali di fantasia, talché risulta impossibile la minima verifica». Come più volte chiarito, la scelta dell'autore è stata motivata dallo scrupolo di evitare rappresaglie a persone a volte già provate da lutti familiari relativi ai fatti citati. In caso di necessità, e comunque alla data prevista, saranno resi pubblici nome, cognome età e residenza di ogni testimone, unicamente alle testimonianze e registrate. Finora non ce n'è stato bisogno -in quanto, nonostante siano stati fatti i nomi (per esteso) di centinaia di responsabili di delitti e stragi, nessuno (il libro è giunto alla quarta edizione) si è sentito diffamato provvedendo a sporgere querela.
    Il procedimento storico seguito da Zangrando è invece diverso. Nel suo articolo si fanno i nomi (per esteso) di presunte «spie dei tedeschi» tutte decedute. L’unica «spia» citata con le sole iniziali sarebbe tuttora in vita e pronta ad adire le vie legali. E’ probabilmente questo il motivo che induce l'avvocato Zangrando a non riprodurre fotograficamente il documento citato.
Nel tentativo di squalificare ulteriormente la ricerca storica dello scrivente, Zangrando cita poi una didascalia ad una foto del fascista Filomino Martinelli mentre viene maltrattato a guerra finita in piazza Campitello da alcuni partigiani «prima di venir fucilato». E mi imputa di aver preso un granchio in quanto il Martinelli non venne fucilato, ma processato e infine assolto. Tutto vero. Con l'unica variante che il granchio, sempre per la puntuale citazione delle fonti, proviene nientemeno che dal «Comitato Nazionale per le celebrazioni del 50' della Resistenza» che nel 1995 ha dato alle stampe il volume «Le radici e le ali» dove, sotto la foto del Martinelli, si legge appunto (pag. 552): «La resa dei conti... Martinelli verrà processato, condannato a morte e fucilato».
    In precedenza la pubblicistica comunista aveva fatto anche di peggio (rivista «Crimen» riprodotta a pag. 565 de «I Giorni di Caino», quarta edizione), presentando il Martinelli come un «partigiano garibaldino» strattonato da un milite fascista prima di venire fucilato.
    Riconosco il mio errore che consiste nell'aver creduto agli storiografi partigiani. Forse è per evitare che scappino... altri granchi che risulta a tutt'oggi difficile riuscire ad accedere agli archivi delle sezioni Anpi. Lo storico Pisanò, tanto bistrattato da Zangrando, citando il caso Martinelli nella sua «Storia della guerra civile in Italia», mai scrisse che venne fucilato.
Altre affermazioni di Zangrando rasentato il ridicolo: come l'assassinio del maggiore Da Rin da parte dei partigiani il 17 maggio del'45, che l'avvocato fa risalire ad «alcuni mesi dopo la liberazione» ed insistendo sulla fantomatica versione del suicidio, senza nemmeno preoccuparsi di richiedere un atto di morte al Comune di Vigo di Cadore; o come l'infantile speculazione su un refuso tipografico nella prima edizione de «I Giorni di Caino», dove si cita «Ciminighe» al posto di Cencenighe.
Insomma, scampoli di retorica comunista che non meriterebbero neppure citazione se non fosse che vengono stampati e diffusi a spese del contribuente che foraggia senza saperlo fantomatiche associazioni ed enti (è già successo con i 20 miliardi erogati per il 50' della resistenza) che non sanno poi giustificare le uscite. Un argomento, questo, che merita una nuova interrogazione parlamentare che mi premurerò di.presentare alla prossima riapertura delle Camere.
 
 
IL SECOLO D'ITALIA Quotidiano 3 Febbraio 2002 

lunedì 20 dicembre 2021

Xa MAS LE ULTIME RESISTENZE, GLI ULTIMI ASSALTI

Xa MAS LE ULTIME RESISTENZE, GLI ULTIMI ASSALTI               


TUTTO IN UNA NOTTE. SERGIO DENTI E L'ULTIMA LEGGENDARIA IMPRESA DELLA Xa FLOTTIGLIA MAS
 
 

    Nella notte fra il 16 e il 17 aprile del 1945, a una settimana dalla fine della guerra, il pilota Sergio Denti affonda da solo un cacciatorpediniere francese. Questa è la sua storia. Luca Rimbotti
 Dopo l'8 settembre 1943, com'è noto, migliaia di italiani, spesso giovanissimi e volontari, hanno continuato a combattere al fianco degli alleati tedeschi nei reparti regolari costituiti sotto le bandiere della Repubblica Sociale Italiana, nella certezza di agire per il bene della Patria.
    Soltanto di recente, però, questo fatto incontestabile è stato riconosciuto anche da parte di quanti (e sono molti) per decenni si sono ostinati a negare a tanti italiani il giusto titolo di combattenti: uomini che al nord come al sud non hanno dimenticato di essere tali, e ai quali molto devono la nostra memoria storica e la nostra coscienza di popolo civile. Ed è uno di questi uomini che incontriamo nei pressi di Firenze, sui declivi del Passo della Consuma: Sergio Denti.
 
 
 
 
Sergio Denti. Una vita passata fra tele e vele
    La sua è una casa d'artista: quadri ovunque, ritratti di autori famosi - su una parete campeggia lo stesso Denti, ritratto in divisa da marinaio da Ottone Rosai; sulla parete centrale dell'accogliente sala spicca una splendida "Marina" di Lido Bettarini.
    Il padrone di casa, 72 anni ben portati, è un uomo gioviale e di modi cortesi, da molti anni affermato mercante d'arte, amico di pittori e frequentatore di ambienti artistici e letterari.
    Del resto, questo è sempre stato il suo mondo: da ragazzo, Sergio Denti stava a bottega dallo stesso Rosai, come intagliatore di legno e disegnatore. La sua strada sembrava segnata, e il futuro tranquillo.
    Ma il destino aveva in serbo per lui qualcosa di molto diverso, qualcosa che lo avrebbe tenuto per anni a un passo dalla morte.
 
    10 giugno 1940: la guerra e le prime azioni
    Quando scoppia la guerra, Sergio Denti è ancora un ragazzo: ha soltanto sedici anni, è il più giovane volontario della Regia Marina Militare e persino i giornali dell'epoca si occupano di lui. A diciassette è già imbarcato sulla silurante Orsa, che scorta i convogli italiani da e per l'Africa Orientale. Cominciano qui le innumerevoli missioni cui partecipa il giovanissimo marinaio: atti di guerra e decorazioni non si contano.
    Nel dicembre 1941, l'unità di Sergio Denti era alla fonda nel porto di Trapani quando venne attaccata da una squadriglia di caccia inglesi: in mezzo alla confusione e al comprensibile panico seminato dagli incursori, e nonostante vedesse cadere attorno a sé più d'un compagno d'arme, il giovane Denti ebbe la presenza di spirito di porre al sicuro detonanti e inneschi di almeno seicento torpedini "Elia", contenenti ognuna 300 chili di tritolo - materiale esplodente che, colpito dal nemico, avrebbe prodotto nel porto (e di riflesso in città) effetti devastanti. Per questo il marinaio Denti ricevette un Encomio Solenne. Nella seconda metà del 1942, poi, Sergio Denti venne decorato con due Croci di Guerra al Valore Militare e un Encomio Solenne per altrettante azioni che l'avevano visto protagonista.
    All'epoca Denti era il responsabile addetto alle armi subacquee della silurante Orsa; nel giugno del 1944, mentre l'unità incrocia nelle acque di San Rossore di Migliarino Pisano, una rovinosa incursione nemica distrugge completamente una squadriglia italiana; incurante del pericolo, Denti ha il coraggio di risalire sul mezzo in fiamme nel tentativo di soccorrere il suo primo pilota secondo capo Luigi Taccia. Purtroppo l'eroico sforzo si rivela inutile, e in quel tragico frangente trovano la morte anche il S.T. Mario Tului e il S.C. Antonio Bandiera. Sergio Denti si salverà guadagnando la riva dopo una nuotata di cinquanta chilometri; verrà decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
 
Una scelta difficile nei giorni dei facile tradimento
    Poi, come un fulmine a ciel sereno, ecco il 25 luglio e quel maledetto 8 settembre 1943.
    Sergio è in convalescenza; all'indomani dell'8 settembre si presenta a La Spezia, convinto di ritrovare l'Orsa sulla quale era imbarcato. Ma invece della silurante trova il comandante Junio Valerio Borghese che sta riorganizzando i reparti della leggendaria Xa Flottiglia MAS.
    Denti non esita neppure un istante: ha soltanto diciannove anni, ma è già sottocapo torpediniere con una notevole esperienza alla bandiera, che gli suggeriscono immediatamente la condotta da tenere.
    Come ricorda ancora adesso, entrare nei reparti d'assalto della Xa Flottiglia MAS fu la cosa più ovvia e naturale: continuai a mettere la mia competenza, il mio entusiasmo e la mia voglia di battermi a disposizione della bandiera per la quale avevo lottato negli anni precedenti. Avevo intatta la coscienza di combattere per l'Italia. Ci tengo ad aggiungere - e la cosa mi pare molto importante - che noi della Decima avevamo l'ordine tassativo di non attaccare in nessun caso unità italiane non appartenenti alla RSI: e questo la dice lunga sul nostro spirito di lealtà nazionale e patriottica».
    Così Denti si arruola nella Marina Militare della neocostituita Repubblica Sociale Italiana, dove si distingue per ardimento e competenza, e dove compirà il suo autentico capolavoro.
 
Sempre in prima linea a una settimana dalla fine della guerra
    Intanto gli eventi precipitano: la vicenda della Repubblica Sociale Italiana volge al termine.
    Dopo meno di due anni le forze soverchianti degli alleati angloamericani e l'odioso clima di terrore instaurato dalla guerra civile hanno la meglio sull'eroismo dei "repubblichini" - come venivano spregiativamente chiamati i combattenti italiani rimasti fedeli al patto con la Germania.
    Naturalmente, come sempre avviene in simili circostanze, anche in seno alla RSI c'è chi pensa al proprio tornaconto e a come costruirsi una comoda verginità politica in previsione di un "dopo" che si annuncia difficile.
    Ma non Sergio Denti: che, a giochi fatti ed essendo ormai scontata la vittoria anglo-americana, fedele alle consegne continuava a rischiare la pelle per un'idea ormai irrimediabilmente destinata a soccombere, insieme a un'intera epoca. Il giovane marinaio non venne meno al suo dovere neppure quella notte fra il 16 e il 17 aprile 1945, a una settimana dalla fine e a meno di dieci giorni dallo scempio di piazzale Loreto.
    Lasciamo ora, cinquant'anni dopo, che sia lo stesso Sergio Denti a raccontare come andò.
 
« sapevamo benissimo di andare incontro ad una sorte incerta ... »
    “Era il 16 aprile. Ci trovavamo nell'alto tirreno, una zona in cui potevamo incrociare facilmente navi di varie nazionalità nemiche. Quella sera uscimmo in sei per una delle azioni abituali sui nostri MTM. Gli MTM erano comuni motoscafi turistici modificati, più noti come "barchini", carichi ognuno di 300 chili di Tetril (un esplosivo tre volte più potente del tritolo) e col posto di guida a poppavia, da dove si veniva catapultati in mare al momento dell'attacco alle unità avversarie.”
    “Va da sé che nei "barchini" la situazione del pilota era piuttosto diversa da quella dei famosi "Maiali". Quelli di cui disponevamo erano mezzi fragili e facilmente vulnerabili; noi eravamo piloti di superficie; ci trovavamo il nemico in faccia ed eravamo consapevoli di andare incontro ad una sorte molto incerta: infatti il nemico, una volta che ci aveva individuati, veniva a godere di un grande vantaggio nei nostri confronti, dal momento che disponeva di una potenza di fuoco contro la quale la nostra carica esplosiva poteva agire soltanto in ritardo e all'ultimo momento - il "barchino" veniva lanciato contro il nemico a grande velocità, e lo si abbandonava soltanto a pochi metri di distanza dall'obiettivo. Inutile farsi illusioni: si trattava proprio di piccoli natanti, praticamente indifesi contro giganti bene armati. Quella sera, dunque, trascorso del tempo mi resi conto di aver perso il contatto con gli altri "barchini". Dopo aver scrutato a lungo nel buio alla ricerca dei miei camerati, non riuscendo a scorgere niente e nessuno decisi allora di rientrare alla base”.
 
« nel buio»una sagoma scura all’orizzonte ... »
    “A un tratto, mentre già mi avviavo sulla rotta di rientro, mi parve di scorgere una lunga sagoma scura che si stagliava all'orizzonte. Pensai a un traino. «Mi stropicciai bene gli occhi per capire di che si trattasse, e nel frattempo vidi che quella massa si divideva in due, poi in tre. Quella che in un primo momento, da lontano, mi era sembrata solo una nave, si rivelava ora un gruppo di tre corvette e un'altra nave più grande, che al momento non fui in grado di classificare. Sulla base delle conoscenze che avevo, mi sembrava anomala; inoltre, nonostante le competenze acquisite era estremamente difficile riconoscere il profilo di una nave inattesa: in giro c'erano unità francesi, inglesi, americane e quelle italiane appartenenti alla Marina Militare del sud.”
    “E poi si era al buio, su un natante a bordo del quale la stessa persona doveva essere contemporaneamente pilota, motorista, radiofonista, ufficiale di rotta e di strategia d'attacco, capace di operare, anche in quei momenti di tensione estrema, il calcolo cinematico fra posizione del "barchino" e velocità dello stesso in relazione ai medesimi valori della nave avversaria, così da imprimere al "barchino" la giusta velocità per colpire l'unità nemica. Un uomo solo doveva svolgere in condizioni proibitive una quantità di ruoli differenti, il che aumentava la difficoltà e il margine di errore.”
    “Improvvisamente mi ricordai che eravamo stati avvertiti del probabile passaggio di un convoglio nella zona. Ora la mia preoccupazione era quella di mantenere la rotta per colpire: cosi, non vedendo più i miei camerati, mi affrettai verso le quattro navi, decidendo di tentare attacco al bersaglio più grosso - avrei saputo più tardi che si trattava del Trombe, un cacciatorpediniere francese di grande tonnellaggio.”
    “Controllai lo zatterino, che avrebbe dovuto servirmi per pormi in salvo; appena il motore fu su di giri, esplose immediata la reazione nemica: un nutrito fuoco di sbarramento con cannoni e mitragliere, a cui si aggiungevano i mille bagliori delle traccianti che squarciavano il buio”.
 
« L’esaltante sensazione di sentirmi una specie di semidio ... »
    “Il fragore era tremendo: mi sembrava che tutto quel fuoco incrociato convergesse su di me, eppure avevo la sensazione di essere invulnerabile. Ricordo bene di avere provato emozioni esaltanti: vedevo che non morivo, mi sentivo una specie di semidio, un eroe antico...”
    “Arrivato a un centinaio di metri dalla nave più grande, bloccai il timone, tirai la leva di sicurezza al congegno di esplosione che contemporaneamente libera lo zatterino dal "barchino" e subito mi trovai in mare. Dopo non so più quante capriole sul filo nell'acqua, riuscii finalmente ad arrampicarmi sullo zatterino: ma quella tregua fu di breve durata.”
    “A causa dello spostamento della massa d'acqua provocato dall'esplosione, persi lo zatterino e fui investito da una folata d'aria calda: mi ritrovai con una mano ferita, e per di più mi sanguinava anche la testa.”
    “Nonostante il dolore, cominciai a nuotare. Mi assalirono molti cupi pensieri: temevo di essere linciato dai naufraghi, se mai mi avessero scorto, e ricordai di aver letto che i pescecani avvertono da lontano l'odore del sangue. Cosi presi a nuotare soltanto con la mano sana, tenendo quella ferita fuori dall'acqua; intanto decisi che se fossero arrivati i pescecani gli avrei offerto subito la testa per evitare di essere dilaniato a partire dalle gambe e risparmiarmi così una morte orrenda. Non fu cosi. Più tardi, a notte ormai inoltrata, fui recuperato da un cacciasommergibile francese, a bordo del quale mi vennero prestate le prime cure.”
 
 
 
 
«Soldi e cioccolata in cambio del famoso Panerai... »
     “Il giorno dopo, di mattina presto, bendato alla testa e con la mano ancora sanguinante, il Comandante in seconda del cacciasommergibile mi accompagnò all'ospedale di Nizza. «Io ero sfinito: il comandante se ne accorse e, strada facendo, decise di offrirmit una cioccolata calda. Cosi ci fermammo in un bar, dove premurosamente il comandante mi fece accomodare a un tavolino. Al polso portavo l'orologio in dotazione ai piloti dei "Mezzi d'Assalto", il famoso e oggi introvabile 'Panerai'. Il comandante guardava alternativamente me e il mio orologio, e alla fine mi disse: "Lei si rende conto che questo orologio glielo leveranno senz’altro: io, se me lo cede, sono disposto a pagarglielo". E, senza neppure aspettare la mia risposta, cominciò a posare sul tavolino delle banconote di cui io ignoravo totalmente il valore: siccome guardavo sia lui che il denaro, il comandante pensò che io stessi valutando la sua offerta e continuò ad ammucchiare banconote fino a svuotarsi le tasche.”
    “A quel punto mi tolsi l'orologio, lo misi sul mucchietto e spinsi il tutto verso di lui, dicendogli: "Se è vero, come lei dice, che mi toglieranno senz'altro l'orologio, a maggior ragione mi toglieranno anche il denaro: quindi è meglio che tenga tutto lei". «Il comandante, stupito, volle a tutti i costi che gli dessi il mio indirizzo, ma poi non ne seppi più nulla.”
    “Lasciammo il bar e proseguimmo per l'ospedale di Nizza, dove il comandante mi raccomandò ai medici, che si presero cura di me con la massima attenzione e un ammirevole rispetto”.
    “Naturalmente non mancarono gli episodi spiacevoli, come quello dell'interrogatorio piuttosto rude cui venni sottoposto da un emissario italiano del CLN, che mi colpì deliberatamente sulla ferita al capo, per punirmi di non aver voluto fornire informazioni (non solo di carattere militare) agli alleati.”
    “Infine fui tradotto al campo di concentramento di Bonrencontre, nei pressi di Tolone. Fu soltanto qui che appresi da alcuni miei camerati, già protagonisti dell'"Operazione Onore", le prime frammentarie notizie sui tragici avvenimenti italiani della fine di Aprile.”
 
 
 
 
 
 La memoria   di quel gesto è viva grazie al ten. Fracassini
    Si conclude cosi il racconto di Sergio Denti, l'unico pilota dei Mezzi d'Assalto ad aver colpito una nave non alla fonda, ma in movimento. Il suo gesto solitario avrebbe potuto passare sotto silenzio, visto anche il momento in cui fu compiuto, se non fosse stato per il tenente di vascello Gustavo Fracassini.
    Fracassini, pluridecorato al Valor Militare, all'epoca comandava la base ovest di Sanremo dalla quale Denti dipendeva direttamente. In tutta evidenza, Fracassini ricevette la segnalazione dell'accaduto dai commilitoni di Denti, i quali, rientrando alla base senza il loro camerata e avendo udito il boato del "barchino" esploso contro l'unità francese, avevano subito compreso che cosa fosse successo.
    Infatti la sorte dei "barchini" era l'esplosione in caso di urto o l'autoaffondamento in caso di mancato bersaglio.
    Il tenente Gustavo Fracassini che in seguito all'accaduto propose Sergio Denti per la Medaglia d'Oro al valor Militare - cadde pochi giorni dopo, il 26 aprile, vittima di un'imboscata partigiana mentre si recava a Milano eseguendo gli ordini del comandante Borghese.
 
La nuova repubblica umilia i valorosi combattenti italiani
    Il rientro alla cosiddetta "normalità" fu durissimo: a Denti, protagonista di un'impresa straordinaria, non venne conferita nessuna ricompensa per un atto riconosciuto di valore militare che avrebbe dato lustro ad ogni marina combattente.
    Anzi, secondo un discutibile costume ben presto invalso nella nuova repubblica italiana, il militare che aveva rischiato di persona compiendo il proprio dovere fu costretto a subire ogni specie di persecuzione. Così, nell'immediato dopoguerra, il clima pesantemente discriminatorio nei confronti dei combattenti della RSI umiliò Denti ponendolo in congedo forzato per grave mancanza disciplinare. Eppure, a vederlo oggi, Sergio Denti appare pacato, sereno e convinto di aver speso bene la sua giovinezza: “E' così. Io amavo il mare. Quando ero ragazzo guardavo l'Arno e mi immaginavo il mare come un fiume molto pi grande, con l'altra riva lontana lontana... Poi ho imparato a conoscere bene il fascino e le insidie del mare, ma più ancora le insidie degli uomini, quando portano la divisa di un nemico. Io conoscevo il mio dovere, e l'ho fatto fino in fondo”.
    E questo, dunque, l'esempio vivente di come spesso gli italiani, specialmente quelli venuti dal popolo semplice e genuino, siano migliori di chi li governa. Uomini così, presso altri popoli più orgogliosi del nostro e più gelosi della propria storia, farebbero ormai già parte dell'epopea nazionale.
 
 
 
 
 
 
STORIA DEL XX SECOLO.
 
La mia "acquaticità" si manifestò già all'età di otto anni, quando partecipavo alle Colonie Marine della G.I.L.; più o meno nello stesso periodo nutrivo la passione per il mare con una gran quantità delle letture allora più in voga - Salgari, Verne... Le avventure marinare mi attraevano straordinariamente, e finii coi diventare persino giocatore di pallanuoto. Il 10 giugno 1940 avevo appena compiuto sedici anni (sono nato il 3 giugno del '24, a Prato). Mi presentai volontario per la leva di mare, mentendo sull'età; dopo tre giorni fui giudicato idoneo e mandato a La Spezia, dove cominciai il corso di torpediniere.
Il mio primo imbarco fu sulla Regia Torpediniera Orsa, che all'epoca svolgeva mansioni di scorta convogli lungo le rotte dei Mediterraneo meridionale. Le mie frequentazioni coi pericolo cominciarono presto: una delle prime missioni fu il trasporto di 20.000 taniche di benzina. Il rischio era enorme: basti dire che la trasgressione al divieto assoluto di fumare a azionare gli interruttori di bordo comportava la pena di morte. Fu un incubo. Finalmente giungemmo a Derna, dove non entrammo in porto ma sbarcammo in mare le 20.000 taniche, assicurate l'una all’altra da una cima e poi trascinate a riva; poi la torpediniera venne lavata da cima a fondo prima di riprendere il mare. Ma il mio primo incontro con la morte è avvenuto in occasione dell'attacco aereo inglese nel porto di Trapani, nel dicembre del '41, quando, unico superstite dell'equipaggio, riuscii ad allontanarmi con la bettolina carica di 600 torpedini che costituiva l'obiettivo dell'incursione nemica. In seguito fui riconosciuto colpevole di disobbedienza e imprigionato nell'isoletta di Colombaia; ma l'Ammiraglio Comandante, saputo il fatto, mi mandò a prelevare per consegnarmi, a nome di Sua Maestà il Re, un encomio solenne.
Cosi, quando arrivò l'8 settembre, io avevo già una certa esperienza in fatto di guerra e di esplosivi. L'armistizio mi colse a casa, a Firenze, dove mi trovavo in convalescenza in seguito alle ferite riportate in un attacco di Spitfire nel mese di aprile: l'Orsa mi aveva sbarcato a Marsiglia il 24 di quel mese. Naturalmente mi precipitai a La Spezia per imbarcarmi di nuovo sull'Orsa, ma m'imbattei nel comandante Borghese, già medaglia d'oro della Regia Marina, che stava organizzando la Xa MAS. Il comandante dell'Orsa mi riconobbe subito, chiamandomi col soprannome che mi ero guadagnato - “Pallino”. Borghese mi accettò subito nel corso di pilota dei Mezzi d'Assalto di Superficie (appunto, i MAS). A volte siamo stati paragonati ai kamikaze giapponesi: è vero che anche per noi, consci che in quel momento si poteva davvero dire tutto è perduto fuorché l'onore, la morte rappresentava l'unica alternativa. Ma non è la stessa cosa. Devo sottolineare anche un'altra cosa: e cioè che le missioni dei “barchini” esplosivi, a differenza per esempio dei famosi "maiali", offrivano al pilota pochissime possibilità di salvezza. Infatti si agiva in superficie, allo scoperto: si era quindi esposti al fuoco incrociato delle navi nemiche e poteva capitare (caso in verità non raro) di morire prima di aver raggiunto l'obiettivo. Inoltre l'agire individuale, senza il supporto tecnico e morale di un compagno, faceva sì che la missione fosse affidata unicamente alla saldezza d'animo e alla determinazione dei pilota.
Ma il brutto è stato dopo. Tornare a vivere in un mondo in cui non ritrovavamo più nulla della nostra cultura e della nostra tradizione. Abbiamo subito tutte le angherie della cosiddetta prima repubblica - che io continuo a chiamare seconda, perché ho la convinzione che la prima vera repubblica sia stata la Repubblica Sociale Italiana.
 (testo raccolto da Francesco Pozzi)
 DECALOGO DELLA Xa MAS
 
Stai zitto
Sii serio e modesto
Non sollecitare ricompense
Si disciplinato
Non avere fretta di operare. Non raccontare a tutti che non vedi l'ora di partire
Devi avere il coraggio dei forti, non quello dei disperati.
La tua vita è preziosa. Ma l'obiettivo è più prezioso.
Non dare informazioni al nemico.
Se prigioniero, sii sempre fiero di essere italiano. Sii dignitoso Se cadrai, mille altri ti seguiranno. Da gregario diventerai un capo - una guida - un esempio.
La XA MAS DOPO L'8 SETTEMBRE
 
Dopo il disonorevole armistizio dell'8 settembre 1943 - che costò alla Marina italiana la perdita della corazzata Roma e delle forze navali che si erano arrese a Malta - e nonostante il clima di generale smarrimento, il rifiuto della resa sorse spontaneo e compatto fra gli uomini della Xa, che senza esitazioni scelsero di continuare a combattere al fianco dell'alleato tedesco. i volontari di mare e di terra affluirono a migliaia: la Xa si riorganizzò in Unità navali (nelle quali confluirono gli ex appartenenti alla Regia Marina), Mezzi d'Assalto e Fanteria di Marina (in cui vennero inquadrati i militari provenienti dai vari corpi dell'esercito discioltosi con l'armistizio: ne fecero parte i battaglioni Barbarigo, Freccia, Fulmine, Lupo, Valanga e Sagittario, riuscendo a procurarsi i mezzi sia per il proprio mantenimento ad alto livello operativo sia per affermare la propria indipendenza dai tedeschi. Capo riconosciuto della nuova Xa MAS fu il capitano di fregata principe Junio Valerio Borghese, che già all'indomani dell'armistizio aveva saputo instaurare con la Germania un singolare rapporto di amicizia, rispetto e cooperazione militare, formalmente sancito da un accordo sottoscritto il 12 settembre 1943.
16-17 aprile 1945
L'ULTIMO ASSALTO
di E. Maluta
Dedicato a Sergio Denti
assaltatore della Decima Mas
 
Notte di aprile notte di commiato
Lascio la rada e punto verso il mare
col mio barchino nella prora armato.
Da solitario è triste navigare
anche se son da tempo già assuefatto
con la burrasca e l'onde a colloquiare.
Racconto il male alla mia Patria fatto
Il mare ascolta e nella notte diaccia
proseguo alla ricerca del contatto
per rendere così pan per focaccia.
Anche se il mio barchino è poca cosa
vorrei vuotar d'amaro la bisaccia.
E' vero ormai è la fine e non è rosa
ma solo spine che il destin propone
e mi arrovello nell'attesa ansiosa.
Decido -mio barchino- e sia l'azione
Penso alla casa alle violette in fiore
che fanno festa sotto al mio balcone.
Socchiudo gli occhi preso dal sopore
mentre il barchino segue a bordeggiare
e nenia dolce è il canto del motore.
Mi scuoto all'improvviso e scruto il mare
a breve spazio vedo comparire
un bersaglio nemico da centrare.
L'acqua s'abbrucia sembra di finire
nel covo dell'inferno indemoniato
con fuochi d'artificio da morire.
Mi sento da un proiettile sfregiato
Una fiammata guizza verso il cielo
Nel corpo una ferita può guarire
L'onor difficilmente vien sanato.
Lo scafo ben diretto sa colpire
ciò che si pone al centro del mirino
La sagoma avversaria da assalire.
Io quindi affido all'onde il mio barchino
e gli occhi mi si appannano d'un velo
Il mare è come un liquido cuscino.
Una fiammata guizza verso il cielo
si spengono le luci alle torrette
il rombo è di vittoria e di sfacelo.
E' il Trombe* ultima nave che perdette
il nemico di cinquant'anni fa
tra il sedici di Aprile e il diciassette.
 
NUOVO FRONTE N. 163, 1996. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
* Il cacciatorpediniere Trombe di 1319 tonnellate.
OPERAZIONE ONORE
 
Fu l’ultima impresa dei piloti dei Mezzi d'Assalto: partirono la sera del 24 Aprile 1945 per autoaffondare i loro "barchini" ma anche per colpire un nemico in un ultimo atto d'onore militare - una missione senza ritorno. Spiccano nel ricordo di Sergio Denti i camerati Alberto Boscherini (vivente), Giuseppe Dionigi, Andrea Piccolomini ("nobile - dice Denti - non solo di lignaggio"), Ezio Zambruno (che ebbe l'incarico di affondare il suo mezzo, la bandiera e altro importante materiale) e Angelo Marziale che si accese una sigaretta e scelse di lasciarsi morire senza abbandonare il suo "barchino".

mercoledì 15 dicembre 2021

«La nostra è una democrazia autoritaria». Intervista a Benito Mussolini. Di Theodor Wolff

«La nostra è una democrazia autoritaria». Intervista a Benito Mussolini. Di Theodor Wolff

L’11 maggio 1930, sul giornale Berliner Tageblatt (uno dei più importanti giornali liberali tedeschi dell’epoca), apparì una lunga intervista a Benito Mussolini firmata dal giornalista ebreo Theodor Wolff. Si trattava in sostanza del resoconto dell’incontro avvenuto fra i due pochi giorni prima a Palazzo Venezia, a Roma, nel quale Wolff interrogò Mussolini su diverse questioni concernenti il fascismo e l’Italia fascista, ma non solo. Inedita da oltre ottant’anni, l’intervista è qui riproposta al fine di far conoscere a studiosi o semplici appassionati la vera natura del fascismo, che – contrariamente a quanto si possa pensare – non è quella che viene mostrata fra le pagine dei libri in vetrina alla Feltrinelli.


1.

Nell’estate 1922, poco prima della Marcia su Roma, Mussolini è stato a Berlino; cosa che solamente pochi sanno.

Egli all’epoca mi visitò, ed io lo informai, nel miglior modo possibile, sulle condizioni politiche della Germania; e risposi inoltre alle sue numerose domande, che, una dopo l’altra, si susseguivano come colpi di pistola.

In quel momento, con evidente intenzione, egli tenne un portamento napoleonico anche nelle conversazioni private: il volto, come la testa di una medaglia romana, rimaneva immobile e la straordinaria energia, ogni momento, traspariva anche all’esterno. Egli non era ancora arrivato alla meta; però, nell’ultima fase del suo percorso, prima del segnale di partenza «In marcia!» [allusione alla Marcia su Roma], rappresentava già una forza di volontà in forte tensione.

Oggi, dopo otto anni, l’ho rivisto a Roma [a Palazzo Venezia]. Quando l’usciere aprì la porta, vidi un’immensa sala, totalmente vuota, e, infondo, nell’angolo a destra, scorsi Mussolini dietro a un tavolino. Altri visitatori hanno già descritto questa straordinaria scena del tutto fuori dal comune, ma quello che si è già detto non riduce la sorpresa che involontariamente si prova a vivere tale esperienza.

La sala, dalle pareti dipinte e dal pavimento chiaro di marmo, con un tavolino sul fondo e sedie davanti e dietro, è così lunga che, nell’ampio vuoto, alla prima occhiata, Mussolini sembra molto piccolo. Non si ha il tempo di riguardare meglio la stanza, che bisogna andare, con lo sguardo in avanti, incontro all’Uomo, che lì, completamente solo, così separato da ciò che lo circonda, è nel suo essere tutto e nel suo essere solo [alleinsein und allessein]. È chiaro che le persone dipendenti da questa tempra e, soprattutto, i gregari del Partito [PNF], ai quali vengono mostrate, al massimo, le sembianze di pietra di un busto di Mussolini, sudano freddo quando debbono affrontare il suo sguardo fisso scrutatore che, al tempo stesso, li affascina. Nessuna arte scenica ha potuto trovare un mezzo di suggestione più potente.

Quando avevo già percorso un terzo della sala, Mussolini si alzò, mi venne incontro porgendomi la mano e, ridendo, mi disse, in segno di apprezzamento, che, sebbene fossero passati otto anni, non era cambiato nulla. Al che io risposi: «E lei non ha un solo capello grigio!». E, difatti, egli ha tutti i capelli scuri, senza strie grigie, appare sano e forte e si muove leggero ed elastico. Non si scorgeva alcuna traccia del suo assiduo lavoro, e non vi era nessun dubbio che quello che si dice sulla sua salute appartiene alle numerose leggende che circolano su di lui.

Le due sedie di fronte al tavolo sono collocate in modo che egli siede abbastanza vicino, di fronte al visitatore. Mentre parla, cambiano – in maniera del tutto particolare – gli atteggiamenti e l’espressione del volto, dominato dai suoi grandi occhi, come un gioco che consiste solo in contrasti. Se facevo una domanda o se toccavo un tema un po’ complicato, egli si ritraeva in sé stesso. Non era la calma, fissa nella pietra, con cui egli, dal balcone o dalla tribuna, guarda in giù verso le sue truppe, ma una calma più spontanea, un “impietramento” momentaneo, divenuto abitudine, con cui egli si concede il tempo per pensare o per studiare la persona che interroga o semplicemente per difesa. Egli allora taceva, dinanzi alla persona un po’ esitante, e rimaneva senza movimento, con le labbra serrate e il mento rigido, stringendo di tanto in tanto le braccia al petto. E gli occhi, straordinariamente grandi, in cui il bianco contrasta meravigliosamente con lo splendore scuro della pupilla, possedevano un’impenetrabile immobilità. Pertanto, si sarebbe potuto credere che ciò fosse la quiete prima della tempesta, che egli, in qualche modo, sarebbe scoppiato, ma, invece, non fece niente e l’espressione impietrita si mutò in espressione naturale. La tensione dei lineamenti si sciolse, e ciò che prima era riservatezza diventò calore e disinvoltura, mentre gesti vivaci sottolineavano le risposte e, tra gli altri pregi della sua personalità, vi era anche quella qualità particolare che, con parola francese, noi chiamiamo charme, forse perché da noi essa non rappresenta la più spiccata qualità nazionale.

Parlammo francese; Mussolini lo parla correttamente e con completa padronanza; e fa sorprendere che egli, gravato da tanto lavoro, accresca anche la sua conoscenza delle lingue. Sembra anche che vi abbia aggiunto quella del tedesco; due o tre volte, infatti, quasi come per civetteria, adoperò parole tedesche.

La nostra lunga conversazione toccò molti punti, ne approfondì altri, ed egli, almeno credo, parlò senza riserve e con molto franchezza. Non ebbi neppure l’impressione che egli tenesse presente il punto di vista dell’interlocutore. E mi permise di pubblicare tutto quello che volevo delle sue dichiarazioni.

Ci si sente naturalmente in debito da così tanta fiducia, ma voglio sottolineare che tutto quello che ho escluso dalla pubblicazione non contiene niente di aggressivo, ma è sobrio e ponderato, in quanto risultato di un pensiero maturo.


 2.

«Lei è stato a Napoli», cominciò Mussolini. «Mi racconti allora come le è sembrata la città. Io non ci vado da sei anni e sono un po’ diffidente verso quelle descrizioni troppo belle che mi vengono fatte; è veramente così pulita come mi si dice?».

Risposi che Napoli l’avevo trovata completamente cambiata e che gli stranieri, i quali se ne stavano negli hotel con tutto il comfort moderno, trovano ciò naturalmente meno pittoresco.

«Pittoresco?», egli disse. «Cioè il puzzo pestilenziale, gli insetti, la sporcizia…».

Gli chiesi tuttavia di chiarire il mistero che circonda la sua permanenza a Berlino, nella primavera del 1922, quando mi venne a far visita. Gli dissi che nemmeno le persone che dovrebbero, di norma, essere sempre informate, non seppero nulla della sua presenza. Rispose che era stato quattordici giorni a Berlino: aveva voluto vedere, prima della Marcia su Roma, la Germania del primo dopoguerra. Solo che, disgraziatamente, a Berlino si era ammalato: l’aveva colto un’influenza. Ma aveva fatto visita anche a Stresemann e aveva perfino avuto tempo per studiare le condizioni della Germania.

«Lei trova oggi una Germania notevolmente trasformata; nonostante tutte le crisi, politiche e finanziarie, e nonostante tutte le enormi difficoltà, la rinascita è straordinaria, se paragonata al periodo che seguì la catastrofe [della Prima guerra mondiale], e tutto questo – mi perdoni – l’abbiamo raggiunto con la politica di Locarno».

Ed egli disse: «Ma io non sono per niente contro la politica di Locarno! Capisco molto bene quello che le deve la Germania. E Stresemann…».

È stato splendido, da parte sua, che si ricordò – ed io non me lo sarei mai aspettato – di Stresemann. Allora egli aggiunse subito: «Il tempo lavora per la Germania; io credo in una rinascita tedesca, nella prosperità della Germania. E, inoltre, nella questione delle riparazioni siete andati avanti tappa dopo tappa. Prima Londra, poi Dawes, poi Young».

Risposi che era vero il fatto che, fino adesso, il tempo aveva lavorato per la Germania, ma che, forse, ora non era più come prima, almeno non in tutte le parti, come, per esempio, verso l’Est. Nell’Est, infatti, l’influsso polacco, con il tempo, si poteva rafforzare, mentre la situazione per una politica tedesca orientale non veniva migliorata. Questi problemi sembrarono interessarlo molto; egli mostra una conoscenza della geografia più profonda di quella di altri uomini politici, fuori dalla Germania; però non espresse nessun giudizio e, naturalmente, non fece conoscere il suo punto di vista. Mi diede ragione, invece, quando dissi che, per noi, l’unico mezzo per andare avanti poteva essere solo un modo di agire diplomatico per trarre profitto da ogni possibile occasione e una certa accortezza politica, la quale, purtroppo, da noi in molti non apprezzano; e che la grande maggioranza del nostro popolo era contro qualsiasi idea di cimentarsi in nuove avventure.

Anche quando il tema del discorso si avviò in altre direzioni, egli parlò attenendosi alla realtà politica, senza fantasie o millanterie, per nulla accecato da vanità nazionalistica, con molta conoscenza della realtà attuale, e se egli doveva pensare al futuro, se ne vedeva separato da una lunga via. Il condottiero di popoli potrebbe credere necessaria la fanfara che entusiasma; l’uomo di Stato pesa, prova e riflette con molta precisione. Egli, invece, giudicò le relazioni che potevano sussistere fra l’Italia e la Germania con tranquilla freddezza. Disse che desiderava relazioni amichevoli con la Germania, ma aggiunse che i rapporti fra Italia e Germania si distinguono da sempre per una «indifferenza politica». In genere, prevale l’opinione che non si può fare molto insieme.

Benché non condividevo del tutto il suo giudizio e, più volte, espressi un’altra opinione, gli dissi che esisteva perlomeno una certa comunanza di interessi e che, in date circostanze, poteva avere un certo valore una reciproca solidarietà morale. E dopo che, per circa un minuto, se ne stette irrigidito, attendendo in atteggiamento di riservatezza, rispose: «Desidero, come ho già detto, buone relazioni con la Germania, ed esistono questioni che, senza dubbio, possiamo affrontare insieme. Per esempio, nella questione del disarmo ed anche nella questione dei mandati coloniali, il punto di vista dovrebbe essere uguale; poi, nel campo degli scambi commerciali… L’Italia è principalmente una produttrice agraria, la Germania ha le sue grandi industrie…».

Io risposi: «I nostri agrari probabilmente non approverebbero».


 3.

Per quanto riguarda lo sviluppo dei rapporti italo-tedeschi, sorgono incontestabilmente delle difficoltà causate dal contrasto della politica interna dei due paesi. Gli dissi: «Voi siete un Regime fascista, mentre noi una democrazia».

«Ma anche io sono democratico! In ogni caso, un democratico autoritario!».

«Si… La diversità della politica interna non dovrebbe influire anche sulla politica estera. In fondo, noi abbiamo cercato un’intesa anche con Mosca. Ma le cose stanno così: da voi, tutto quello che succede in Germania è giudicato da un punto di vista di politica interna e, poiché siamo una democrazia parlamentaristica, viene disapprovato; e, altrettanto spesso, lo stesso errore si ripete da noi».

«Molto bene. Per citarle un esempio, da poco tempo ho letto un libro scritto da un autore italiano, il quale dice che Berlino è una città nazionalista, poiché, per caso, in un restaurant berlinese, ha sentito cantare canti nazionalisti. Che cosa non è stato raccontato su di me!? Si è detto persino che io voglio fare allungare le vesti alle signore! Io so bene che esistono due cose che non si possono toccare: la moda e la religione. Tutto quello che si scrive e si dice su di noi, ci lascia del tutto indifferenti. Il fatto è che si realizza la realtà che noi viviamo, si compiono le opere che noi conduciamo a termine, e non serve a nulla cercare di rimuovere la menzogna dal mondo. Se noi due, lei ed io, diciamo che il sole non c’è, il sole c’è lo stesso. Se lei – democratico – ed io – fascista – diciamo: il tavolo non è qui, esso, malgrado ciò, sta qui. Pertanto, si può disconoscere quello che noi facciamo, ma esso esiste e permane. …Che vogliamo noi, dunque? Noi creiamo l’ordine morale, non un ordine poliziesco, ed è nostro problema farlo penetrare nel popolo. In questo periodo, noi possiamo senza dubbio realizzare questo programma solamente attraverso un certo rigore – ma anche questo viene spesso esagerato – e ne è seguita una milderung [attenuazione]».

Egli adoperò proprio la suddetta parola tedesca. E continuò: «Non serve a niente governare con le mitragliatrici e con la polizia. Noi creiamo lo Stato, il “sentimento italiano dello Stato”. Finora non c’è mai stata una coscienza unitaria dello Stato. Ogni provincia, ogni comune, in fondo, viveva per sé stesso. Il Fascismo raccoglie tutto insieme: crea l’unità, poiché riempie il popolo della coscienza fascista dello Stato. Ma noi non siamo reazionari, come si vuol far credere. Tutt’altro! Dalla nostra legislazione sindacalista appare evidente come sia stata sviluppata la concezione che unisce insieme capitale e lavoro. Persone che sono orientate verso sinistra, vennero dalla Germania e rimasero meravigliate da tutto quello che era stato fatto qui [in Italia]».

Egli, in proposito, ripeté l’espressione «democrazia autoritaria», usando anche le parole «ordine morale» per definire l’antitesi ad un «regime poliziesco senz’anima [geistlos]».


 4.

Gli dissi: «Un ostacolo ad una reciproca e obiettiva valutazione è rappresentato soprattutto da quelli che da noi si definiscono “partiti di destra” o, meglio, “organizzazioni di destra”, ossia le comunità nemiche dello Stato tedesco di oggi. Per farla breve, le dico che i nostri cosiddetti “fascisti” agiscono in maniera tale da far credere che Lei sia il loro protettore…».

Mussolini, con un gesto vivace, disse protestando: «Ma non c’è nessun rapporto fra i nostri imitatori all’estero e me!».

«Io ne sono convinto, ma questi “imitatori” ricevono un certo appoggio morale, sforzandosi di presentarLa come il loro prototipo! Lei è il loro profeta, al quale essi chiamano, e, come i fedeli cattolici vengono qui per il Papa, così essi vengono da Lei, a Roma».

 «Ma io non ne ho chiamato nessuno, non ho chiesto a nessuno di venire! Io non conosco nessun fascista fuori dall’Italia, e non ve ne sono nemmeno all’estero. Il Fascismo italiano è tutt’altra cosa: non è – lo ripeterò sempre – reazionario, ma è una democrazia autoritaria. L’ho già detto in un mio discorso, non proprio con questa espressione commerciale, che, però, è molto eloquente: IL FASCISMO NON È ARTICOLO D’ESPORTAZIONE. Noi non riconosciamo alcun imitatore e non abbiamo niente a che fare con loro. Si è detto che Primo de Rivera avesse le nostre stesse idee. Ma, invece, rimase completamente lontano da noi. Quando egli è caduto, si disse che il Fascismo avesse subìto una sconfitta e che ciò fosse una disfatta per il Fascismo. No! Noi non siamo responsabili per questa gente di fuori, e se anche essi sono delle nostre stesse idee, essi non ricorrono a noi».

«Anche se non si aderisce al principio fascista, bisogna però ammettere che il Fascismo italiano, malgrado la sua intransigenza, poggia su una tradizione di correnti ideali dell’umanità. Esso è nato su un suolo spirituale che non ha niente a che fare con le imitazioni tedesche e non conosce nemmeno lontanamente l’antisemitismo, che è il più grande postulato di questi partiti tedeschi di destra».

Mussolini mostrò assoluta approvazione. «Si, il Fascismo italiano è assolutamente estraneo al concetto dell’antisemitismo».

A questo punto, però, è necessaria una constatazione.

Se anche Mussolini stesso non ha e non desidera avere alcun rapporto con i “fascisti tedeschi”, tali relazioni, però, vengono avviate e curate da alcuni rappresentanti, grandi e piccoli, del Fascismo italiano, sia sul suolo tedesco che a Roma.

Gli imitatori tedeschi, che solamente una cosa non possono imitare, ossia il genio del Capo, trovano in questi benevoli e amichevoli incontri un vero incoraggiamento; e lo stesso avviene quando personalità tedesche, grazie al facile dialogo instaurato coi loro amici italiani, s’infiammano per alcune fantasie politiche che, oltre ad essere folli e pericolose, in contrasto col pensiero da uomo di Stato di Mussolini, non corrispondono alla realtà,

E non si può negare che queste relazioni, più o meno intime, provenienti da “simpatie elettive”, allontana i partiti repubblicani tedeschi e opera contro una “considerazione realistica” dell’Italia fascista, rendendo difficile ad ogni politico serio il superamento di quella fase che Mussolini chiama “indifferenza”.

Sarebbe quindi giusto se Mussolini ponesse fine a questi dannosi amoreggiamenti, i quali, partendo da ingenue intuizioni, hanno finito per influire nelle chances del radicalismo tedesco. Frattanto, è già un bene che si conosca la sua opinione.


 5.

«Lei», dissi io, «poco fa ha pronunciato la parola tedesca milderung… Non se ne abbia a male, se mi permetto di farle una domanda: non è possibile nessun passaggio dall’intransigenza del Regime ad una posizione moderata? Ciò non sarebbe raccomandabile?».

Mussolini, vivace come in tutta questa parte della conversazione, disse, con simpatico calore: «Io le assicuro che le cose non sono come si dice; si è molto falsata la realtà».

«In una corrispondenza di un giornalista americano, non molto tempo fa, si leggeva che vi erano ancora molti confinati nelle isole…».

«Le voglio dire come stanno le cose. Lei stesso potrà poi giudicare», rispose Mussolini. «In un’isola del golfo di Napoli ci sono ancora duecento o trecento persone, che, per ragioni politiche, sono stati mandati lì al confino. Ma non tutti sono oppositori di questo Governo; vi sono anche fascisti, contro i quali, se essi incorrono in qualche colpa, io sono ancora più severo che con gli altri. I confinati politici sono separati dai delinquenti comuni, dato che vi sono anche di questi. A ognuno è permesso di esercitare la propria professione. I medici esercitano la loro pratica professionale. Il clima come quello di Capri è sano. E nessuno, badi bene, rimane lì sino alla fine della sua condanna. Ogni giorno io accordo gràzie e, anche oggi, su questo tavolino, ho posto la mia firma sotto ad un atto di gràzia. Durante il periodo del fidanzamento di mia figlia, mi sono giunte moltissime domande.  Io ho detto a mia figlia: “Tutte le domande di gràzia che arrivano saranno accordate”, e così è avvenuto. Io non amo parlare troppo di queste cose, e non le faccio pubblicare volentieri. Ma se lei vuole, lo può dire, poiché è la verità».

Egli, naturalmente, non avrebbe nulla da ribattere se si dicesse che, nel metodo delle gràzie, vi è qualcosa che ricorda le usanze di antiche potenze autoritarie, anche se, nelle sue dichiarazioni, ci sono tratti umani molto commoventi. Come Mussolini ami la figlia – che, proprio ora, tre giorni prima della presente intervista, si è sposata – è ormai risaputo in tutta Italia.

«E la libertà di stampa?», domandai. «La libertà di critica?».

«Non è giusto se si dice che da noi non è permessa la critica e che una critica non ci sia. Io so molto bene che la critica ha il suo valore e che, secondo le circostanze, è necessaria. Ma una critica che si rivolge contro l’essenza dello Stato fascista, contro il Regime fascista, e che incita a rovesciarlo, io non la permetto; essa viene soppressa senza riguardi. In questo – dato quello che sono e dato il mio punto di vista – io non ho alcuna esitazione. No! Se si vuole mettere da parte il Regime fascista, se si combatte lo Stato che noi vogliamo costruire, noi non possiamo sopportarlo. Ma se si prescinde da ciò, noi accettiamo la critica e, specialmente nel campo economico e nelle questioni finanziari, la critica si esercita liberamente. Essa si esprime sia nelle discussioni che sulla stampa, e noi abbiamo proprio oggi cambiato la legge sulla tassa del vino, perché ci è sembrata giusta la critica che ne è stata fatta. Da poco tempo, per l’apertura del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, io ho detto nel mio discorso: “Noi vogliamo lavoro legislativo, niente incensamenti!” E ciò, del resto, è abbastanza evidente».


 6.

Mi è stato confermato da più parti che Mussolini sta lasciando più lenti i lacci con cui era stata imbrigliata la libertà d’opinione. Là dove il Fascismo non è fatto oggetto di critica o, perlomeno, di allusioni critiche, la censura deve avere limitata la propria azione; e la costituzione di un “Parlamento delle Corporazioni” è già una prova che Mussolini ritiene utile l’esistenza di una “opposizione bianca”, seppur limitata, su un terreno dal quale siano escluse le questioni fondamentali del Fascismo. Però, a mio avviso, è proprio qui il punto debole delle sue argomentazioni.

In genere, Mussolini parlò sempre molto realisticamente, ma quando volle riunire la tesi del cosiddetto “ordine morale” con il mantenimento di un sistema di dittatura, si poté notare la sua illusione o, meglio, la sua intima contraddizione – poiché non è possibile che, nel suo chiaro spirito, si radicasse un’illusione. Mussolini aveva ragione quando diceva che egli vuole ben altro che un regime poliziesco e che, inoltre, bisogna tendere all’unità morale. Poiché questa unità morale non esiste, difficilmente può essere raggiunta; nella borghesia, oppressa da tasse e da difficoltà finanziarie, e fra gli intellettuali e l’aristocrazia, la latente opposizione, dietro i muri del silenzio, non è poca. E così, Mussolini rimane legato allo strumento che egli stesso si è forgiato in maniera così grandiosa, per la creazione e il consolidamento della sua potenza.

Questa potenza, che è mantenuta con tutti i mezzi della disciplina, della propaganda e del teatro e si appoggia al Partito fascista, che egli sistematicamente ringiovanisce e alla cui epurazione continuamente lavora, e alla milizia, a cui si perviene attraverso due eserciti giovanili, resta salda e non c’è potere che possa travolgerla finché il capo si chiamerà Mussolini. Ma questa potente macchina del Partito, anche se funzionasse sino alla più piccola rotella, come può superare sé stessa e il proprio spirito? Come può muoversi dall’ordine, che essa mantiene, all’ordine voluto e vagheggiato da Mussolini, fino all’unità spirituale? Nessun dubbio: Mussolini sa tutto, e il suo sguardo, rivolto verso il futuro, non si confonde. Egli crea senza pausa, costruisce opere, trascina con sè, con la sua straordinaria energia, i suoi seguaci. Queste opere debbono pur rimanere, e se uno volesse negarle, esse sarebbero sempre qui, non è vero? Come il sole che ritorna a risplendere e come lo scrittoio sui cui egli poggia la mano! Il suo genio ha la sua tragica fisionomia.

Ed è forse questo che porta più in alto la sua figura, e che lo avvicina di più, oltre ogni contrasto, alle persone che cercano l’uomo dietro la maschera. Egli mi accompagnò con amichevoli, cordiali parole di commiato attraverso la lunga sala vuota, sino alla porta.

Fuori, nell’altra stanza, gli uscieri di servizio alzarono il braccio in cenno di saluto.


Di Theodor Wolff

giovedì 9 dicembre 2021

ANALISI DELLA RSI: MINISTERI, LEGGI, ETC.

ANALISI DELLA RSI: MINISTERI, LEGGI, ETC.
                                          REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

    La Repubblica Sociale Italiana ebbe, dal Settembre 1943 all'Aprile del 1945, più di un anno e mezzo di vita  intensa e reale, a differenza del Regno del Sud di Badoglio e il RE TRADITORI che non ebbe possibilità nè di liberamente legiferare nè di impedire la moneta d'occupazione nemica anglo-americana. Lo Stato della Repubblica Sociale, per metà del periodo sui due terzi d'Italia e per l'altra metà su un terzo d'Italia, si espresse non solo nelle sue Forze Armate di leva e volontarie, non solo negli eventi culturali e sportivi, non solo nello scorrere regolare dell'ufficialità burocratica, ma anche e soprattutto nella continua legiferazione, regolarmente riportata nelle Gazzette Ufficiali di Stato. E' ora di portare a conoscenza questa attività, assai poco evidenziata da certa storiografia "frou frou" che, nella manualistica scolastica, preferisce piuttosto acchiappare farfalle nella Repubblica partigiana della Val d'Ossola dal 9 Settembre al 22 Ottobre del 1944.
    Accantonando le nostre originali intenzioni, sempre procrastinate, di produrre questa documentazione, per un un accordo con i curatori del sito autonomo (http://web.tiscali.it/RSI_ANALISI/) sarà ora possibile accedere a tale documentazione, anche partendo dalla nostra Antologia sulla RSI, come ad un qualunque dei nostri Capitoli.
    In questo Capitolo troverete una ANALISI generale della RSI: un'interessantissima breve presentazione delle realtà della RSI, Ministeri, Ministri, luoghi, esercito e poi le principali leggi decise nella Repubblica. Eccovi il collegamento (non dimenticate che state lasciando lo spazio proprio di www.italia-rsi.org):
 
 
               


 

giovedì 2 dicembre 2021

“Cancel Culture” .........

“Cancel Culture” e senso di colpa. Quando il politicamente corretto cancella la Storia

Nel limo impestato del politicamente corretto, si sta sempre più delineando quel «fenomeno orrendo» – come ha dichiarato il filosofo Diego Fusaro – che si riassume nella cosiddetta Cancel Culture, ossia la volontà di cancellare il passato, o, meglio, quel passato “scomodo”, “fastidioso”, non in linea con l’attuale paradigma dominante e divergente dagli standard liberal-democratici imposti dall’élite massonica di Bruxelles e Washington.

Shakespeare diviene quindi razzista, così come Omero, Mozart e molti altri personaggi storici, le cui opere – secondo i nuovi esperti della political correctness – meritano di essere cancellate per sempre.

«Attento a quel che dici, perché appena mi deludi ti cancello. Ti blocco, ti defalco, ti depenno, o – che l’Accademia della Crusca ci perdoni tutti – ti “unfriendo”», scrive la Trecanni, al fine di far comprendere il clima allarmante imposto da questa Cancel Culture, il cui obiettivo in sostanza è quello di conformare l’arte e la cultura al politicamente corretto, eliminando quel passato oggi considerato anacronistico, quindi sgradito.

Dietro a queste prerogative “iconoclastiche” di matrice ultra-progressista, si cela tuttavia il profondo desiderio di condizionare, attraverso una nuova maniera di interpretare il passato, la società attuale e del futuro.

Secondo il giornalista francese Jacques Ploncard d’Assac, è possibile infatti «modificare il presente e l’avvenire secondo il modo di vedere il passato». «La storia futura», afferma d’Assac, «si scrive sotto la luce del passato… Si può anche dire che la politica dipende interamente da come si insegna la storia».

Da qui, l’importanza di “alterare” o reinterpretare il passato, per modificare il presente e il futuro secondo i nuovi parametri del politicamente corretto. Ecco la vera essenza della Cancel Culture: l’allineamento ideologico-culturale!

Ma v’è di più. Fabio Andriola, direttore di Storia in Rete, in un prezioso slancio intellettuale degno di essere riportato integralmente, si è spinto oltre, accostando la Cancel Culture al tragico fenomeno della globalizzazione, in particolar modo alla «globalizzazione del senso di colpa», designando un quadro d’insieme alquanto drammatico, che preannuncia un futuro senza Dio, né identità, in cui il passato sarà modellato e interpretato a piacimento dai sacerdoti della political correctness:

La globalizzazione non ha, anzi, non tollera confini. Né quelli geografici, né quelli ideali. Siamo nell’Età della Globalizzazione e insieme ai container che spostano tonnellate di merci da un capo all’altro del mondo ci sono anche altre cose che si muovono ancora più velocemente: le idee. Idee legate sempre più spesso ad analisi superficiali del passato. La Cancel Culture con la quale ci confrontiamo ormai quotidianamente con le sue intolleranze, le sue ipocrisie, le sue forzature, è stata preparata ed è accompagnata ad esempio dalla “globalizzazione del senso di colpa”. Il “senso di colpa” è il vero virus letale del nostro tempo, strumento perfetto di una “dittatura del pensiero” che tenta in ogni modo di imporsi. Quello che sta maturando in questi anni è un processo iniziato molto tempo fa e che ha avuto nel “mitico ’68” uno dei suoi snodi fondamentali. Con l’affermarsi delle istanze di libertà e anarchia – etica, sociale e politica – si è affermata anche una classe dirigente, politica, intellettuale e imprenditoriale che, dagli anni Settanta, ha promosso e promuove in ogni modo idee e concetti funzionali alla nuova era, che dovrà essere senza confini, senza nazioni, senza identità culturali strutturate, senza religioni. Tutti presunti ostacoli alla pace universale: così vengono presentati sulla falsa riga di una delle canzoni di maggior successo – e anche tra le meno capite – degli anni della contestazione giovanile di ormai oltre cinquant’anni fa. Il riferimento è ovviamente a Imagine di John Lennon (1971), in cui, appunto, si immaginava un mondo senza nazioni, confini, proprietà private: un’umanità fatta di “cittadini del mondo”, capace di guardare in alto solo per contemplare il cielo e vivere in pace. Senza farsi troppe domande, senza troppi dubbi su un passato che veniva rapidamente ridisegnato, reinterpretato e spesso anche reinventato.

Parole forti, che meritano senza dubbio di essere condivise. Pertanto, sorge spontaneo chiedersi: dove ci porterà questa Cancel Culture? Quale passato sarà cancellato domani?


Di Javier André Ziosi

mercoledì 24 novembre 2021

I FRANCESI IN VALTELLINA

I FRANCESI IN VALTELLINA                


LA "MILIZIA FRANCAISE" IN VALTELLINA Anche i francesi la scelsero come ultima ridotta
Marino Viganò
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  Anche Tirano era piena di soldati. Oltre i militi confinari, i legionari "M", gli squadristi delle brigate nere, si erano accantonati nella cittadina due battaglioni di fascisti francesi della "Milice française", creata dal Maresciallo Pétain. I 600 francesi, divisa di panno azzurro, camicia nera e basco nero, aria spavalda, ottimo armamento, erano agli ordini diretti del capo della polizia di Vichy, generale Darnand, giunto anche lui da pochi giorni a Tirano. [...] Ebbi così la maniera di conoscere alcuni degli ufficiali francesi presenti a Tirano. Erano tutti ragazzi in gamba, nulla da dire. Uomini di fegato. Appena arrivati a Tirano, alcuni loro plotoni erano stati destinati alla zona di Mazzo. Lì avevano saputo che, qualche chilometro più avanti, il paese di Grosotto era occupato dai partigiani e Grosio circondato. Senza pensarci due volte, erano risaliti sui loro camion e, cantando a squarciagola la "Marsigliese", si erano avviati, completamente allo scoperto, lungo la statale, verso Grosotto. Dopo poche centinaia di metri, però, erano stati inquadrati sotto il tiro delle mitragliere partigiane che dominavano quel punto della vallata. Tredici di loro erano morti. Ma i superstiti avevano sloggiato i partigiani da Grosotto e si erano barricati nel paese (1).
    Giorgio Pisanò è un giovane ufficiale della G.N.R. quel 20 aprile 1945, quando, approdato con altri militi toscani in quello che dovrebbe essere il ridotto della Repubblica Sociale Italiana (2), si trova di fronte l'inaspettato spettacolo di un battaglione di miliziani di Vichy schierati a difesa di quell'ultimo lembo dell'Italia di Mussolini.
    Sono, per la precisione, circa seicento francs-gardes al comando del capitano Carus, dei tenenti Coutret, Viala, Hoareau, Brun (stato maggiore), Fontaine (1a compagnia), de Pons (2a compagnia), Vibert (3a compagnia), degli aspiranti Doumergue e Portallier (4a compagnia) (3), in Valtellina dal mese di marzo, dopo l'abbandono dei campi di raccolta del Baden Wurttemberg - Heuberg, Baden-Baden e dintorni - e della nuova "capitale" della Commission gouvernementale, Sigmaringen.
    Là nella Foresta Nera, si erano raccolti i resti del governo di Vichy dopo la caduta della Francia e avevano formato nel settembre '44 un governo-ombra - Bridoux, Déat, Darnand e Luchaire in prima fila - e nel gennaio '45 un Comité de la libération française - presieduto da Doriot (4); là, a Mengen, il 25 febbraio, si era svolta l'ultima manifestazione "politica" del collaborazionismo francese: le esequie di Jacques Doriot, morto tre giorni prima sotto un mitragliamento aereo (5).
    Poi, appunto a metà marzo, davanti all'avanzata alleata e delle forze francesi golliste, la ricerca affannosa d'un angolo d'Europa dove trovar rifugio, sia pure momentaneo: l'Italia fascista repubblicana. Cominciano i politici, come scrive l'addetto tedesco all'ambasciata presso la R.S.I. Eitel Friedrich Moellhausen:
    "Erano i profughi del governo di Vichy che speravano di trovare in Italia un clima ed un'alimentazione più convenienti e di avere maggiore probabilità di sparire al momento del crollo. Così Jean Luchaire (era stato a Parigi direttore di "Nouveaux Temps") arrivato con tutta la famiglia, così Darnand (della "Milice" ed ultimo ministro dell'Interno dei governo di Vichy), così Barthélemy (braccio destro di Doriot), e così lo stesso Laval all'ultimo momento, che era stato preceduto dal suo collaboratore Jacques Guerard, segretario generale del governo di Pétain. Dopo la ritirata delle truppe tedesche da Parigi i più eminenti collaborazionisti francesi, rifugiatisi in Germania, erano tutt'altro che uniti nella disgrazia; a Sigmaringen, per i dissensi interni e per le difficoltà materiali dell'esistenza, la vita veniva considerata intollerabile" (6).
    Un'Italia d'impressioni forti, di bombardamenti e guerra civile, quella che gli uomini di Darnand e gli altri trovano al loro arrivo, chi -i primi- a metà marzo, chi -le retroguardie- a metà aprile... Obiettivo: la guerra contro le formazioni resistenziali. Victor Barthélemy, collaboratore di Doriot, appena arrivato a Innsbruck incontra il generale Joseph Darnand e raggiunge in seguito Milano dove il P.P.F. ha una sede presso la Delegazione francese di via Telesio 5, quartiere San Siro:
    "Gli chiesi dove andasse con quell'equipaggio; mi disse: "Vado in Italia. Più precisamente a Milano. Ci porto un battaglione della Milice". - "Una strana idea", gli dissi. "Per che motivo questo gruppo e per far cosa ? " "Semplice. Andiamo a batterci. Volevo assumere un comando nella 'Charlemagne', ma mi è stato proibito. Himmler non vuole dirigenti politici nella brigata. Non potevo allora battermi sull'Oder coi miei compagni. C'era a Ulma un certo numero di francs-gardes, che non avevano potuto esser arruolate nelle S.S. I loro consigli di leva sono feroci. Ho ottenuto l'autorizzazione di farne un piccolo battaglione - sette o ottocento -, di portarli in Italia e di prenderne il comando ". - "E contro chi vai a combattere in Italia?" - "Ma contro i partigiani!" scoppiò in una risata Darnand. "Schellenberg m'ha detto che è possibile. Lo Standartenfuhrer Rauff che comanda a Milano deve riceverci. Poi devo prendere contatto con Wolff e avremo istruzioni". [...] Decisi che saremmo proseguiti per Milano dove arrivammo a notte fonda. Niente di particolare era accaduto alla sede della Delegazione francese durante la mia assenza. Trovai i miei amici italiani ormai francamente pessimisti. Andai a far visita a Pavolini di passaggio a Milano, e che mostrava ancora una gran fiducia, ma apparentemente tutta di facciata. Il prefetto della città, Bassi, era da parte sua nettamente preoccupato. [...] Darnand mi venne a trovare in via Telesio. S'era installato in una villa presso l'ippodromo di San Siro. I suoi miliziani erano alloggiati in una piccola caserma della città. Li si vedeva deambulare per il centro. Avevano l'aria d'annoiarsi molto. . ."(7).
    Sempre via Brennero, arriva più tardi Henry Charbonneau, ufficiale della Milice e parente di Darnand:
    "Appena sbarcati dal nostro camion di legno di prima mattina, a Milano raggiungiamo, i miei compagni ed io, la caserma Adriatica, in un lontano sobborgo della città, dov'è il deposito del battaglione. Arrivo un po' come un riservista che riprende servizio. Ecco, da più di due anni ho lasciato le armi; prendo con soddisfazione un'uniforme di stoffa blu scuro, equipaggiamento e armamento" (8).
    Viaggio simile e nello stesso periodo - il 17 aprile arriva sul lago di Garda - per Saint Loup, anch'egli entrato in Italia per la stessa strada, e diretto al centro di raccolta di Milano:
    "Attraversare il Brennero diventa oggi più pericoloso che passare il capo Horn... Ordine di missione? Ecco... Da Sigmaringen, dirigo un convogliò di miliziani: dieci uomini che non sono che otto... di cui tre donne! Il tedesco cerca di capire... Presto, presto... Ti spiegheranno più tardi come un francese si trovi sempre in regola! [...] Il 21 aprile quando, provenienti da Bergamo abbiamo terminato di installarci nella caserma requisita per la Milice, la bomba psicologica cade nel cortile, massacrando tegole e finestre. Senza dubbio avevamo acquisito in Germania le proprietà fisiche dei parafulmini! Il raid SigmaringenMilano si conclude" (9).
    Assieme, ma più spesso ancor prima, sono arrivati i militari: tronconi di compagnie di S.S. della Charlemagne, il battaglione "zoppo" della Milice, entrati in Italia attraverso la riviera da Nizza e Ventimiglia o sempre dal passo del Brennero. Filippo Anfuso, allora sottosegretario agli Esteri del governo di Gargnano, lascia scritto nelle sue memorie:
    "Sul termine della guerra, appresi a Berlino da Salò che il Governo tedesco aveva disposto per l'invio in Italia di formazioni di Milizia francese che avrebbero dovuto partecipare alla guerriglia antipartigiana. Il proposito era appoggiato dall'Ambasciata germanica in Italia e trovai che fra tutte le idee sorte ai tedeschi questa era la peggiore ed insorsi per quanto potei contro la sua attuazione, specificando in un mio telegramma a Mussolini sembrarmi un grave errore mandar francesi a combattere in Italia contro italiani dato che il lumicino dell'amicizia fra i due Paesi era già tanto fioco che una faccenda del genere l'avrebbe spento del tutto" (10).
    E ancora Moellhausen:
    "Un gruppo francese arrivò senza preavviso: fu quello di un centinaio di elementi estremisti della Milice di Darnand, provenienti dalla provincia di Nizza e che, montati su autocarri, avevano raggiunto Verona. [...] La Milice fu presa sotto la protezione delle S.S., accasermata e costituita in unità speciale, che avrebbe dovuto essere utilizzata nella lotta antipartigiana. Ma mancò il tempo per inquadrare le nuove reclute: arrivarono gli angloamericani !" (11).
    Sono queste le forze destinate in Valtellina: un discreto numero, ma certo non i "circa 3.000 soldati francesi autotrasportati che dovranno essere impiegati in un'azione di rastrellamento nella zona del passo di Mortirolo" di cui parla, fantasticando come in altri, un rapporto del servizio informazioni partigiano "Montezemolo"(12).
    Accantonate alla casermetta della Bicocca di Sesto San Giovanni, sede del centro addestramento delle S.S. (13), le unità francesi si preparano; i capi fan visite di cortesia ai dirigenti della R.S.I.: Darnand, appena giunto, è ricevuto dal segretario del P.F.R.. Pavolini e dal vicesegretario Pino Romualdi (14).
    Qualcuno arriva sino a Gargnano, come quegli ufficiali e sottufficiali che l'altro vicesegretario del partito, Antonio Bonino, e il federale di Verona, Valerio Valeri, accompagnano da Mussolini il 18 marzo: due dei sottufficiali faranno poi recapitare all'eccezionale ospite una breve lettera di ringraziamento (15). Gli ordini operativi sono diramati un paio di giorni dopo. Scrive Barthélemy:
    "Quasi immediatamente dopo il Duce ci ricevette e dopo i saluti d'uso s'indirizzò a Zerbino per avere delle novità. Quest'ultimo non ne aveva... [...] Prendemmo congedo e, lasciato Zerbino a Gargnano, riguadagnammo Milano. Rividi Darnand che preparava il ripiegamento delle sue truppe sulla Valtellina, in accordo con i servizi di Pavolini. Rividi ugualmente quest'ultimo che mi disse che stava riunendo in questa regione diverse migliaia di fascisti fra i più fedeli e i più agguerriti" (16).
    E' Darnand in persona a condurre i suoi uomini nella regione di Sondrio e Tirano. Le istruzioni parlano chiaro: combattere a fianco dei tedeschi e dei fascisti la guerriglia partigiana. I primi scontri si rivelano subito sanguinosi. Ricostruisce una storia della Milice:
    "Darnand non ha ottenuto dai tedeschi di passare in Italia con l'ultimo battaglione della Milice che alla condizione di combattere i partigiani italiani. Ma Darnand non ha più spirito non ha più fiducia nei tedeschi; vuole salvare quei cinquecento e limitare la rottura: niente più zelo. Il generale Wolff invita Darnand e Coutret a colazione. Annuncia loro che il battaglione sarà accantonato a Sesto, nei sobborghi di Milano, in attesa di ricevere un settore operativo. Poco dopo il battaglione arriva, comandato da Carus. Non restano più al campo di Heuberg che il comandante Pincemin e circa 250 uomini. Il battaglione va a Sesto. [...] A fine marzo, il battaglione Carus riceve la sua missione: pulire la vallata della Valtellina, in prossimità della frontiera svizzera. Si porta a Tirano. Filliol lo raggiunge [...] Verso il 10 aprile, il comando dell'Ordine Pubblico ordina al battaglione d'andare a liberare due paesi quasi circondati dai partigiani: Grossetto e Grosio. Carus prende le sue tre compagnie di fucilieri, un gruppo di mortai e tre camion. Lascia a Tirano la compagnia pesante e la compagnia fuori ranghi. Darnand e Coutret, giunti da Milano, sono dell'operazione. Partono di notte, a piedi. Raggiungono senza incidenti Grossetto dove Carus lascia una compagnia e i mortai. Continuano in direzione di Grosio, Darnand, Carus e Coutret in testa" (17).
    La battaglia di Grosio e Grosotto del 18 aprile, come ricordato da Pisanò, s'accende violenta. Un diario di "Ivan" Rinaldi che, nello schieramento partigiano, si confronta con i miliziani di Darnand:
    "Si spara da tutte le posizioni ed in ogni direzione - pare che qualche francese sia riuscito ad entrare in Grosio - ma in condizioni fisiche, soprattutto morali, piuttosto provate. Nel pomeriggio - Foglia della brigata Stelvio con i suoi partigiani scende sul pendio del lato sinistro dell'Adda e sorprende alle spalle i collaborazionisti francesi, il grosso della truppa, che tentavano di entrare il Grosio passando per la strada "delle prese" (incassata, coperta) in una posizione favorevole. Si ha pure notizia che un gruppetto di francesi (sei o sette) sono entrati all'interno della centrale e tiene una posizione che può diventare per noi pericolosa - bisogna neutralizzarli - Emilio, vice comandante la "13", Giuaca con altri tre compagni si incaricano della operazione. [...] I francesi, che la generosità partigiana avrebbe risparmiato, saranno sepolti nel cimitero di Grosio con altri loro commilitoni caduti durante il combattimento" (18).
    Restano sul terreno sette miliziani, dei quali "esistono certificati di morte" (19). Il 20, il comando francese accetta una tregua d'armi che la divisione alpina Giustizia e Libertà, sotto garanzia di don Pietro Lanfranconi, accorda per evacuare i feriti "con una vettura della Croce Rossa", a condizione di un'ispezione della vettura e dell'allontanamento "di tutte le armi e di tutti i franchi tiratori che si sono installati nelle chiese e sui campanili" (20).
    A Milano, il 23, Darnand "di ritorno da Sondrio" commenta con Charbonneau la situazione degli uomini, racconta che "Carus è alla loro testa con Fouques e il capitano Rollet che comanda la compagnia pesante. Ci sono Fontaine e anche de Pons. Sono perfetti... Filliol è stato ferito al piede, da una pallottola..."(21). E aggiunge:
    "Credo proprio che questa volta tutto quanto è fottuto, ma una volta che si ha un'uniforme sulle spalle le cose diventano più semplici. Noi, i camerati della Charlemagne e quelli di Sondrio, non possiamo fare altro che batterci. Niente più problemi politici!... niente più discussioni di clan!... Se dobbiamo finire sarà armi alla mano" (22).
    Ma il combattimento il suo segno l'ha lasciato anche sul vecchio ufficiale, in attesa della dislocazione a Milano dalla Germania meridionale di quanto rimane dei suoi uomini:
    "Darnand ritorna a Milano per avere delle notizie fresche della situazione. Il 21 aprile, è ricevuto a cena con Coutret da Alessandro Pavolini, segretario generale del partito fascista, che si mostra ottimista: in Germania le cose vanno male, ma in Italia il fronte tiene. Un vecchio cameriere serve in guanti bianchi. Darnand evoca il combattimento di Grosio e dice: "Noi non lo volevamo. E' duro. Abbiamo fallito...". Pavolini (sarà fucilato alcuni giorni più tardi) gli risponde: "Se resistono, bruciate i paesi e fucilate". Questo getta un senso di gelo. Francois Gaucher, Jean Degans, Henry Charbonneau, i comandanti della Milice arrivano gli uni dopo gli altri in Italia. In Germania, è la fine. La commissione di governo ha lasciato Sigmaringen la notte dal 18 al 19 aprile. Bout de l'An non partirà che la notte seguente. Al campo di Heuberg, con i 250 azzoppati ed alcuni altri venuti un po' dappertutto, Pincemin ha formato un simulacro di battaglione. Bout de l'An gli ordina di guadagnare l'Italia: primo incontro, Bolzano; secondo, Milano. A Tirano, il comandante Carus s'interroga su quello che farà del suo battaglione" (23).
    Saggiate con risultato negativo le possibilità di passare in Svizzera, Carus raggruppa i miliziani a Tirano, parte in caserma, parte "sotto il comando del tenente Fontaine in una scuola", con la speranza che possano arrendersi "alle forze regolari degli Alleati" (24). Il 21 aprile, il colonnello Giuseppe Motta, "Camillo", comandante la divisione alpina "Giustizia e Libertà", manda un primo invito alla resa che si chiude con il consiglio "di andare in Svizzera" e l'avvertimento "Se non accettate, peggio per voi, dividerete la sorte dei nazifascisti" (25).
    Grosio, 24 aprile. Situazione ancora calma, racconta Pisanò, attesa delle forze da Milano e decisione di "tener duro sulle posizioni che ci erano state assegnate": "Il capitano francese sorrise e si dichiarò soddisfatto di questa decisione che era anche la sua" (26) .
    Milano invece è già inquieta. Il 25, iniziato uno sciopero alla Bicocca, alle ore 14 "intervengono i 600 francesi collaborazionisti di stanza nella caserma vicina allo stabilimento, con mortai e mitragliatrici contro moschetti e pistole". Solo il giorno dopo, nel pomeriggio, "la caserma francese si arrende" (27).
    Aggiunge Alessandro Vaia, commissario di guerra per il P.C.I. del Comando piazza di Milano, che nella notte tra il 25 e il 26 aprile "gruppi scelti delle brigate "Martelosio", "Casiraghi" e "Temolo", ossia della Breda, della Ercole Marelli e della Pirelli, assaltano un presidio di "baschi neri", collaborazionisti francesi, attestato tra Sesto S. Giovanni e Cinisello Balsamo" (28).
    Proprio il 25, Darnand e Coutret "lasciano Milano per Tirano con i resti dello stato maggiore" e la sera "dormono alla caserma di Sondrio, tenuta da militi fascisti". Il giorno dopo, si legge sempre in una storia della Milice, tutto si decide col mancato rendez-vous con la colonna Mussolini:
    "In questa notte dal 25 al 26 aprile, Bout de l'An che arriva da Sigmaringen con la sua segretaria, il suo interprete ed alcuni altri [...], passa il colle del Brennero. Arrivano a Bolzano alle 10 del mattino. Là, un miliziano venuto in avanguardia spiega a Bout de l'An che le cose vanno male e che non c'è questione che possa raggiungere Milano. Nel frattempo, Bout de l'An riceve un messaggio di Alessandro Pavolini che gli domanda d'inviare le forze di cui dispone sulla strada di Sondrio per proteggere la ritirata di Mussolini. Purtroppo per Mussolini, che sarà giustiziato il 29 [sic], Bout de l'An non dispone di alcuna forza organizzata. Ci sono a Bolzano dei miliziani, degli isolati, ma il battaglione Pincemin è stato preso nello sbandamento, non li raggiungerà. ll 26, Darnand ed il suo piccolo convoglio ripartono verso Tirano. In cammino, trovano una sezione della Milice française venuta ad incontrarli. Arrivano a Tirano dove tutto è calmo" (29).
    A Tirano, dove nel frattempo sono ripiegate tutte le forze fasciste, la calma dura poco. Il 26 ai francesi arriva dal colonnello Motta un nuovo, pressante invito alla resa:
    "Francesi! Il neofascismo è caduto, Milano è nelle mani dei patrioti, il fronte italiano è crollato e Mussolini è in fuga dopo aver chiesto di arrendersi con tutti i suoi. l tedeschi lasciano la Valtellina e Como, lasciando voi e le miserabili forze fasciste nei guai. ll Maresciallo Pétain, che è un uomo d'onore, entra in Francia per presentarsi al suo processo; Laval, Luchaire e Déat hanno domandato asilo alla Svizzera che l'ha rifiutato. [...] Noi vi inviamo una formale intimazione di arrendervi con le vostre armi" (30).
    Il 28 mattina, l'attacco partigiano comincia e si sviluppa per tutto il giorno; i miliziani subiscono perdite pesanti, "venticinque morti e una sessantina di feriti", poi "Darnand e Coutret, in grande uniforme della Milice, con una bandiera bianca vanno a incontrare i capi partigiani" (31). Scrive lo stesso Darnand:
    "Verso le 16, un parlamentare si presenta. Accetto di discutere. [...] Discuto, come Carus e Coutret, e ottengo che ci siano resi gli onori di guerra e che solo le nostre armi saranno cedute. Partiremo coi nostri archivi, i nostri bagagli e i nostri fondi. [...] Alle dieci, il battaglione è riunito sulla piazza. Parlo agli uomini davanti ai partigiani e alla popolazione. Emozione intensa. Molti dei nostri compagni piangono. l feriti sono là su delle barelle. Poi la rassegna e la presa d'armi. Tutto è finito, il battaglione, la Milice sono morti" (32).
    Pochi giorni dopo, i miliziani sono avviati al campo prigionieri di Coltano di Pisa, poi, "restituiti alle autorità francesi del corpo di spedizione in Italia", vengono rimpatriati in Francia. Darnand, dopo una latitanza di un mese e mezzo a Edolo, viene arrestato il 25 giugno "da un servizio speciale inglese". Condotto a Bergamo, a Milano, a Nizza, al carcere parigino di Fresnes, viene condannato a morte il 3 ottobre 1945 (33).
    Charbonneau, inseritosi a Como nella colonna fascista in marcia verso l'alto lago il 27 aprile, entrato in Svizzera, espulso, viene arrestato a Monza (34); altri miliziani, come Saint Loup, trovano asilo sicuro a Milano (35); altri ancora, come Victor Barthélemy, Louis Beaux e Louis Corradi, sempre a Milano, sono arrestati nella sede della Delegazione francese, via Telesio, dalla formazione "Franchi" di Edgardo Sogno (36).
    Entra in azione allora un gruppo dei servizi d'informazione della Francia libera, la missione "Usignolo 205/207", al comando di Louis Cheyron, installata a Genova dal 31 maggio 1945 e composta da "dodici ufficiali e da due sottufficiali della Sécurité Militaire dell'esercito permanente".
    Compito della missione, "scoprire i criminali di guerra, i testimoni dei loro crimini e raccogliere tutte le informazioni sulle loro vittime (spesso non identificate), senza trascurare i crimini commessi contro persone di nazionalità straniera" (37).
    Molti collaborazionisti, tuttavia, riescono a sfuggire alla rete che, fra contrasti tra francesi, italiani, inglesi e americani, si stringe loro attorno. Tra coloro che sfuggono alla cattura, Francis Bout de l'An, comandante di battaglione della Milice; Simon Sabiani, capo del P.P.F di Marsiglia, che secondo un rapporto del 22 settembre 1945 "fa la spola tra Firenze e Livorno" (38); Jean Degans e Jean Filliol, vecchi cagoulards, "due uomini letteralmente coperti di sangue francese" (39), implicati fra l'altro nell'assassinio dei fratelli Rosselli.
    E anche il capo del Rassemblement National Populaire, Marcel Déat. Nascosto a Milano, poi a Torino, insegna francese per anni sotto il nome della madre, Le Roux: muore in una clinica di Cavoretto il 5 gennaio 1955, per una vecchia ferita della prima guerra mondiale (40).
 
 
     Ringraziamento
    L'amico Laurent Berrafato (Parigi) ha fornito documentazione indispensabile ad arricchire il testo; altri documenti vengono dall'Archivio centrale dello stato (Roma), dall'Istituto storico della resistenza di Como, dall'archivio del colonnello Pieramedeo Baldrati (Como), di Franco Giannantoni (Varese) e di Hans Werner Neulen (Colonia); Carlo Alfredo Panzarasa (Magliaso Ticino) ha messo a disposizione le fotografie; lo scomparso vicesegretario del P.F.R. Pino Romualdi (Roma) ha reso una interessante testimonianza.
 
 Indice di abbreviazioni e sigle
 AA.VV. = autori vari
 
A.C.S. R.S.I. S.P.D. ris. = Archivio centrale dello Stato, Roma, fondo R.S.I., Segreteria particolare del Duce, carteggio riservato.
A.P. = archivio privato
I.S.R. = Istituto storico della resistenza 
P.C.I. = Partito comunista italiano
P.F.R. = Partito fascista repubblicano 
P.P.F. = Parti populaire français
R.S.I. = Repubblica sociale italiana 
T.A.A. = testimonianza all'autore
NOTE
(1) G. Pisanò, La generazione che non si è arresa, Milano, Visto, 1979, pp. 41-42.
(2) G. Rocco, Com'era rossa la mia valle. Una storia di antiresistenza in Valtellina Milano, Greco & Greco, 1992,passim.
(3) A.P. Franco Giannantoni (Varese). Bataillon Français, liste nominative par profession, Tirano, 12.5.1945.
(4) Per un approfondimento: R. Aron, Histoire de Vichy, Paris, Fayard,1954, pp.714-715; A. Brissaud, Pétain à Sigmaringen (1944-1945), Paris. Perrin, 1966: H. Rousso, Un chateau en Allemagne. La France de Pétain en exil, Paris, Ramsay, 1980.
(5) A. Pavolin - Ch. Goergen, La mort de Jacques Doriot, in: "La Gazette des Uniformes" XXIII, gennaio-febbraio 1993, n. 140, pp.3-7.
(6) E. F. Moellhausen, La carta perdente. Memorie diplomatiche 1943-1945, Roma, Sestante, 1948. pp. 423-424.
(7) V. Barthélemy. Du Communisme au Fascisme. Paris, A.M. 1978, pp. 477 e 479.
(8) H. Charbonneau, Les mémoires de Porthos, Paris. La Librairie Française, 1981, vol. ll. p. 129
(9) S. Loup, Gotterdammerung (Rencontre avec la Bete), Paris. Editions art et histoire d'Europe, 1986, pp. 152 e 165.
(10) F. Anfuso, Roma - Berlino - Salò, Milano, Garzanti, 1950, p. 558.
(11) Moellhausen. La carta perdente. cit., p. 424.
(12) V. Fornaro, Il servizio informazioni nella lotta clandestina. Gruppo Montezemolo, Milano, Editoriale Domus, 1946, p. 277, Valtellina (11-16 aprile).
(13) R. Lazzero, Le S.S. italiane, Milano, Rizzoli, 1982. p. 212
(14) T.A.A. Pino Romualdi (n. Predappio 24/7/1913 - m. Roma 21/5/1988), Roma, 19 febbraio 1988.
(15) A.C.S.R.S.l.S.P.D. ris. b.61 f.630 stf. 3. Stralcio udienze concesse dal Duce del giorno 18 marzo 1945-XXIII. Dr. Bonino - Federale Valerio Valeri con altri ufficiali e sottufficiali collaborazionisti S.S. francesi.
(16) Barthélemy, Du Communisme, cit., pp. 482-483.
(17) J. Delperrié de Bayac, Histoire de la Milice (1918-1945), Paris, Fayard, 1969, pp. 612-613.
(18) I.S.R. Como, Fondo Giannantoni. Diario di una giornata di guerra partigiana: 18 aprile 1945; su questi combattimenti, in generale si veda: M. Fini - F. Giannantoni, La resistenza più lunga, Milano, SugarCo, 1984, voll. 2, vol. I, pp. 306-307.
(19) A.P. Pieramedeo Baldrati (Como), perdite accertate del battaglione Milice Française, combattimento di Grosio del 18 aprile 1945.
(20) I.S.R. Como, Fondo Giannantoni. Biglietto, Grosio 20 aprile 1945, firmato "le Commandement Français", e risposta del 21-4-1945 del comandante la divisione alpina.
(21) Brissaud, Pétain à Sigmaringen, cit., p. 498, "temoignage personnel d'Henry Charbonneau".
(22) Charbonneau, Les mémoires, cit. a pag. 130.
(23) Delperrié de Bayac, Histoire de la Milice, cit., p. 14.
(24) Delperrié de Bayac, Histoire de la Milice, cit., pp. 614-615.
(25) I.S.R. Como, Fondo Giannantoni. Dernier avertissement aux Français, 21 aprile 1945, firmato "Camillo".
(26) Pisanò, La generazione, cit., p. 57.
(27) AA.VV., Milano nella Resistenza: bibliografia e cronologia marzo 1943/maggio 1945, Milano, Vangelista,1975, pp.205 e 207.
(28) A. Vaia, Da galeotto a generale, Milano, Teti, 1977, p. 246.
(29) Delperrié de Bayac, Histoire de la Milice, cit , p. 615.
(30) I.S.R. Como, Fondo Giannantoni. Biglietto, 26 apnle 1945, firmato "Camillo".
(31) Delperrié de Bayac, Histoire de la Milice, cit., pp. 615-617.
(32) Bnssaud, Pétain à Sigmaringen, cit., p. 502 document personnel communiqué par Philippe Darnand, fils du chef de la Milice.
(33) Delperrié de Bayac, Histoire de la Milice. cit., pp. 619-621; Brissaud, Pétain à Sigmaringen, cit., pp.503-506.
(34) Charbonneau, Les mémoires, cit., pp. 148- 160.
(35) Loup, Gotterdammerung, cit., pp. 178-183.
(36) Barthélemy, Du Communisme, cit., pp. 488-492.
(37) I. Delarue, Missione "Usignolo 205/ 207", in: "Studi Piacentini" n. 4 - 1988, pp.53-67, qui pp. 59-61.
(38) Delarue, Missione "Usignolo 205/207", cit., p. 65.
(39) Delperrié de Bayac, Histoire de la Milice, cit., p. 619.
(40) M. Déat, Memoires politiques, Paris, Denoel, 1989, pp. 947-963.

STORIA VERITA' N. 14 Marzo-Aprile 1994