«La nostra è una democrazia autoritaria». Intervista a Benito Mussolini. Di Theodor Wolff
L’11 maggio 1930, sul giornale Berliner Tageblatt (uno dei più importanti giornali liberali tedeschi dell’epoca), apparì una lunga intervista a Benito Mussolini firmata dal giornalista ebreo Theodor Wolff. Si trattava in sostanza del resoconto dell’incontro avvenuto fra i due pochi giorni prima a Palazzo Venezia, a Roma, nel quale Wolff interrogò Mussolini su diverse questioni concernenti il fascismo e l’Italia fascista, ma non solo. Inedita da oltre ottant’anni, l’intervista è qui riproposta al fine di far conoscere a studiosi o semplici appassionati la vera natura del fascismo, che – contrariamente a quanto si possa pensare – non è quella che viene mostrata fra le pagine dei libri in vetrina alla Feltrinelli.
1.
Nell’estate 1922, poco prima della Marcia su Roma, Mussolini è stato a Berlino; cosa che solamente pochi sanno.
Egli all’epoca mi visitò, ed io lo informai, nel miglior modo possibile, sulle condizioni politiche della Germania; e risposi inoltre alle sue numerose domande, che, una dopo l’altra, si susseguivano come colpi di pistola.
In quel momento, con evidente intenzione, egli tenne un portamento napoleonico anche nelle conversazioni private: il volto, come la testa di una medaglia romana, rimaneva immobile e la straordinaria energia, ogni momento, traspariva anche all’esterno. Egli non era ancora arrivato alla meta; però, nell’ultima fase del suo percorso, prima del segnale di partenza «In marcia!» [allusione alla Marcia su Roma], rappresentava già una forza di volontà in forte tensione.
Oggi, dopo otto anni, l’ho rivisto a Roma [a Palazzo Venezia]. Quando l’usciere aprì la porta, vidi un’immensa sala, totalmente vuota, e, infondo, nell’angolo a destra, scorsi Mussolini dietro a un tavolino. Altri visitatori hanno già descritto questa straordinaria scena del tutto fuori dal comune, ma quello che si è già detto non riduce la sorpresa che involontariamente si prova a vivere tale esperienza.
La sala, dalle pareti dipinte e dal pavimento chiaro di marmo, con un tavolino sul fondo e sedie davanti e dietro, è così lunga che, nell’ampio vuoto, alla prima occhiata, Mussolini sembra molto piccolo. Non si ha il tempo di riguardare meglio la stanza, che bisogna andare, con lo sguardo in avanti, incontro all’Uomo, che lì, completamente solo, così separato da ciò che lo circonda, è nel suo essere tutto e nel suo essere solo [alleinsein und allessein]. È chiaro che le persone dipendenti da questa tempra e, soprattutto, i gregari del Partito [PNF], ai quali vengono mostrate, al massimo, le sembianze di pietra di un busto di Mussolini, sudano freddo quando debbono affrontare il suo sguardo fisso scrutatore che, al tempo stesso, li affascina. Nessuna arte scenica ha potuto trovare un mezzo di suggestione più potente.
Quando avevo già percorso un terzo della sala, Mussolini si alzò, mi venne incontro porgendomi la mano e, ridendo, mi disse, in segno di apprezzamento, che, sebbene fossero passati otto anni, non era cambiato nulla. Al che io risposi: «E lei non ha un solo capello grigio!». E, difatti, egli ha tutti i capelli scuri, senza strie grigie, appare sano e forte e si muove leggero ed elastico. Non si scorgeva alcuna traccia del suo assiduo lavoro, e non vi era nessun dubbio che quello che si dice sulla sua salute appartiene alle numerose leggende che circolano su di lui.
Le due sedie di fronte al tavolo sono collocate in modo che egli siede abbastanza vicino, di fronte al visitatore. Mentre parla, cambiano – in maniera del tutto particolare – gli atteggiamenti e l’espressione del volto, dominato dai suoi grandi occhi, come un gioco che consiste solo in contrasti. Se facevo una domanda o se toccavo un tema un po’ complicato, egli si ritraeva in sé stesso. Non era la calma, fissa nella pietra, con cui egli, dal balcone o dalla tribuna, guarda in giù verso le sue truppe, ma una calma più spontanea, un “impietramento” momentaneo, divenuto abitudine, con cui egli si concede il tempo per pensare o per studiare la persona che interroga o semplicemente per difesa. Egli allora taceva, dinanzi alla persona un po’ esitante, e rimaneva senza movimento, con le labbra serrate e il mento rigido, stringendo di tanto in tanto le braccia al petto. E gli occhi, straordinariamente grandi, in cui il bianco contrasta meravigliosamente con lo splendore scuro della pupilla, possedevano un’impenetrabile immobilità. Pertanto, si sarebbe potuto credere che ciò fosse la quiete prima della tempesta, che egli, in qualche modo, sarebbe scoppiato, ma, invece, non fece niente e l’espressione impietrita si mutò in espressione naturale. La tensione dei lineamenti si sciolse, e ciò che prima era riservatezza diventò calore e disinvoltura, mentre gesti vivaci sottolineavano le risposte e, tra gli altri pregi della sua personalità, vi era anche quella qualità particolare che, con parola francese, noi chiamiamo charme, forse perché da noi essa non rappresenta la più spiccata qualità nazionale.
Parlammo francese; Mussolini lo parla correttamente e con completa padronanza; e fa sorprendere che egli, gravato da tanto lavoro, accresca anche la sua conoscenza delle lingue. Sembra anche che vi abbia aggiunto quella del tedesco; due o tre volte, infatti, quasi come per civetteria, adoperò parole tedesche.
La nostra lunga conversazione toccò molti punti, ne approfondì altri, ed egli, almeno credo, parlò senza riserve e con molto franchezza. Non ebbi neppure l’impressione che egli tenesse presente il punto di vista dell’interlocutore. E mi permise di pubblicare tutto quello che volevo delle sue dichiarazioni.
Ci si sente naturalmente in debito da così tanta fiducia, ma voglio sottolineare che tutto quello che ho escluso dalla pubblicazione non contiene niente di aggressivo, ma è sobrio e ponderato, in quanto risultato di un pensiero maturo.
2.
«Lei è stato a Napoli», cominciò Mussolini. «Mi racconti allora come le è sembrata la città. Io non ci vado da sei anni e sono un po’ diffidente verso quelle descrizioni troppo belle che mi vengono fatte; è veramente così pulita come mi si dice?».
Risposi che Napoli l’avevo trovata completamente cambiata e che gli stranieri, i quali se ne stavano negli hotel con tutto il comfort moderno, trovano ciò naturalmente meno pittoresco.
«Pittoresco?», egli disse. «Cioè il puzzo pestilenziale, gli insetti, la sporcizia…».
Gli chiesi tuttavia di chiarire il mistero che circonda la sua permanenza a Berlino, nella primavera del 1922, quando mi venne a far visita. Gli dissi che nemmeno le persone che dovrebbero, di norma, essere sempre informate, non seppero nulla della sua presenza. Rispose che era stato quattordici giorni a Berlino: aveva voluto vedere, prima della Marcia su Roma, la Germania del primo dopoguerra. Solo che, disgraziatamente, a Berlino si era ammalato: l’aveva colto un’influenza. Ma aveva fatto visita anche a Stresemann e aveva perfino avuto tempo per studiare le condizioni della Germania.
«Lei trova oggi una Germania notevolmente trasformata; nonostante tutte le crisi, politiche e finanziarie, e nonostante tutte le enormi difficoltà, la rinascita è straordinaria, se paragonata al periodo che seguì la catastrofe [della Prima guerra mondiale], e tutto questo – mi perdoni – l’abbiamo raggiunto con la politica di Locarno».
Ed egli disse: «Ma io non sono per niente contro la politica di Locarno! Capisco molto bene quello che le deve la Germania. E Stresemann…».
È stato splendido, da parte sua, che si ricordò – ed io non me lo sarei mai aspettato – di Stresemann. Allora egli aggiunse subito: «Il tempo lavora per la Germania; io credo in una rinascita tedesca, nella prosperità della Germania. E, inoltre, nella questione delle riparazioni siete andati avanti tappa dopo tappa. Prima Londra, poi Dawes, poi Young».
Risposi che era vero il fatto che, fino adesso, il tempo aveva lavorato per la Germania, ma che, forse, ora non era più come prima, almeno non in tutte le parti, come, per esempio, verso l’Est. Nell’Est, infatti, l’influsso polacco, con il tempo, si poteva rafforzare, mentre la situazione per una politica tedesca orientale non veniva migliorata. Questi problemi sembrarono interessarlo molto; egli mostra una conoscenza della geografia più profonda di quella di altri uomini politici, fuori dalla Germania; però non espresse nessun giudizio e, naturalmente, non fece conoscere il suo punto di vista. Mi diede ragione, invece, quando dissi che, per noi, l’unico mezzo per andare avanti poteva essere solo un modo di agire diplomatico per trarre profitto da ogni possibile occasione e una certa accortezza politica, la quale, purtroppo, da noi in molti non apprezzano; e che la grande maggioranza del nostro popolo era contro qualsiasi idea di cimentarsi in nuove avventure.
Anche quando il tema del discorso si avviò in altre direzioni, egli parlò attenendosi alla realtà politica, senza fantasie o millanterie, per nulla accecato da vanità nazionalistica, con molta conoscenza della realtà attuale, e se egli doveva pensare al futuro, se ne vedeva separato da una lunga via. Il condottiero di popoli potrebbe credere necessaria la fanfara che entusiasma; l’uomo di Stato pesa, prova e riflette con molta precisione. Egli, invece, giudicò le relazioni che potevano sussistere fra l’Italia e la Germania con tranquilla freddezza. Disse che desiderava relazioni amichevoli con la Germania, ma aggiunse che i rapporti fra Italia e Germania si distinguono da sempre per una «indifferenza politica». In genere, prevale l’opinione che non si può fare molto insieme.
Benché non condividevo del tutto il suo giudizio e, più volte, espressi un’altra opinione, gli dissi che esisteva perlomeno una certa comunanza di interessi e che, in date circostanze, poteva avere un certo valore una reciproca solidarietà morale. E dopo che, per circa un minuto, se ne stette irrigidito, attendendo in atteggiamento di riservatezza, rispose: «Desidero, come ho già detto, buone relazioni con la Germania, ed esistono questioni che, senza dubbio, possiamo affrontare insieme. Per esempio, nella questione del disarmo ed anche nella questione dei mandati coloniali, il punto di vista dovrebbe essere uguale; poi, nel campo degli scambi commerciali… L’Italia è principalmente una produttrice agraria, la Germania ha le sue grandi industrie…».
Io risposi: «I nostri agrari probabilmente non approverebbero».
3.
Per quanto riguarda lo sviluppo dei rapporti italo-tedeschi, sorgono incontestabilmente delle difficoltà causate dal contrasto della politica interna dei due paesi. Gli dissi: «Voi siete un Regime fascista, mentre noi una democrazia».
«Ma anche io sono democratico! In ogni caso, un democratico autoritario!».
«Si… La diversità della politica interna non dovrebbe influire anche sulla politica estera. In fondo, noi abbiamo cercato un’intesa anche con Mosca. Ma le cose stanno così: da voi, tutto quello che succede in Germania è giudicato da un punto di vista di politica interna e, poiché siamo una democrazia parlamentaristica, viene disapprovato; e, altrettanto spesso, lo stesso errore si ripete da noi».
«Molto bene. Per citarle un esempio, da poco tempo ho letto un libro scritto da un autore italiano, il quale dice che Berlino è una città nazionalista, poiché, per caso, in un restaurant berlinese, ha sentito cantare canti nazionalisti. Che cosa non è stato raccontato su di me!? Si è detto persino che io voglio fare allungare le vesti alle signore! Io so bene che esistono due cose che non si possono toccare: la moda e la religione. Tutto quello che si scrive e si dice su di noi, ci lascia del tutto indifferenti. Il fatto è che si realizza la realtà che noi viviamo, si compiono le opere che noi conduciamo a termine, e non serve a nulla cercare di rimuovere la menzogna dal mondo. Se noi due, lei ed io, diciamo che il sole non c’è, il sole c’è lo stesso. Se lei – democratico – ed io – fascista – diciamo: il tavolo non è qui, esso, malgrado ciò, sta qui. Pertanto, si può disconoscere quello che noi facciamo, ma esso esiste e permane. …Che vogliamo noi, dunque? Noi creiamo l’ordine morale, non un ordine poliziesco, ed è nostro problema farlo penetrare nel popolo. In questo periodo, noi possiamo senza dubbio realizzare questo programma solamente attraverso un certo rigore – ma anche questo viene spesso esagerato – e ne è seguita una milderung [attenuazione]».
Egli adoperò proprio la suddetta parola tedesca. E continuò: «Non serve a niente governare con le mitragliatrici e con la polizia. Noi creiamo lo Stato, il “sentimento italiano dello Stato”. Finora non c’è mai stata una coscienza unitaria dello Stato. Ogni provincia, ogni comune, in fondo, viveva per sé stesso. Il Fascismo raccoglie tutto insieme: crea l’unità, poiché riempie il popolo della coscienza fascista dello Stato. Ma noi non siamo reazionari, come si vuol far credere. Tutt’altro! Dalla nostra legislazione sindacalista appare evidente come sia stata sviluppata la concezione che unisce insieme capitale e lavoro. Persone che sono orientate verso sinistra, vennero dalla Germania e rimasero meravigliate da tutto quello che era stato fatto qui [in Italia]».
Egli, in proposito, ripeté l’espressione «democrazia autoritaria», usando anche le parole «ordine morale» per definire l’antitesi ad un «regime poliziesco senz’anima [geistlos]».
4.
Gli dissi: «Un ostacolo ad una reciproca e obiettiva valutazione è rappresentato soprattutto da quelli che da noi si definiscono “partiti di destra” o, meglio, “organizzazioni di destra”, ossia le comunità nemiche dello Stato tedesco di oggi. Per farla breve, le dico che i nostri cosiddetti “fascisti” agiscono in maniera tale da far credere che Lei sia il loro protettore…».
Mussolini, con un gesto vivace, disse protestando: «Ma non c’è nessun rapporto fra i nostri imitatori all’estero e me!».
«Io ne sono convinto, ma questi “imitatori” ricevono un certo appoggio morale, sforzandosi di presentarLa come il loro prototipo! Lei è il loro profeta, al quale essi chiamano, e, come i fedeli cattolici vengono qui per il Papa, così essi vengono da Lei, a Roma».
«Ma io non ne ho chiamato nessuno, non ho chiesto a nessuno di venire! Io non conosco nessun fascista fuori dall’Italia, e non ve ne sono nemmeno all’estero. Il Fascismo italiano è tutt’altra cosa: non è – lo ripeterò sempre – reazionario, ma è una democrazia autoritaria. L’ho già detto in un mio discorso, non proprio con questa espressione commerciale, che, però, è molto eloquente: IL FASCISMO NON È ARTICOLO D’ESPORTAZIONE. Noi non riconosciamo alcun imitatore e non abbiamo niente a che fare con loro. Si è detto che Primo de Rivera avesse le nostre stesse idee. Ma, invece, rimase completamente lontano da noi. Quando egli è caduto, si disse che il Fascismo avesse subìto una sconfitta e che ciò fosse una disfatta per il Fascismo. No! Noi non siamo responsabili per questa gente di fuori, e se anche essi sono delle nostre stesse idee, essi non ricorrono a noi».
«Anche se non si aderisce al principio fascista, bisogna però ammettere che il Fascismo italiano, malgrado la sua intransigenza, poggia su una tradizione di correnti ideali dell’umanità. Esso è nato su un suolo spirituale che non ha niente a che fare con le imitazioni tedesche e non conosce nemmeno lontanamente l’antisemitismo, che è il più grande postulato di questi partiti tedeschi di destra».
Mussolini mostrò assoluta approvazione. «Si, il Fascismo italiano è assolutamente estraneo al concetto dell’antisemitismo».
A questo punto, però, è necessaria una constatazione.
Se anche Mussolini stesso non ha e non desidera avere alcun rapporto con i “fascisti tedeschi”, tali relazioni, però, vengono avviate e curate da alcuni rappresentanti, grandi e piccoli, del Fascismo italiano, sia sul suolo tedesco che a Roma.
Gli imitatori tedeschi, che solamente una cosa non possono imitare, ossia il genio del Capo, trovano in questi benevoli e amichevoli incontri un vero incoraggiamento; e lo stesso avviene quando personalità tedesche, grazie al facile dialogo instaurato coi loro amici italiani, s’infiammano per alcune fantasie politiche che, oltre ad essere folli e pericolose, in contrasto col pensiero da uomo di Stato di Mussolini, non corrispondono alla realtà,
E non si può negare che queste relazioni, più o meno intime, provenienti da “simpatie elettive”, allontana i partiti repubblicani tedeschi e opera contro una “considerazione realistica” dell’Italia fascista, rendendo difficile ad ogni politico serio il superamento di quella fase che Mussolini chiama “indifferenza”.
Sarebbe quindi giusto se Mussolini ponesse fine a questi dannosi amoreggiamenti, i quali, partendo da ingenue intuizioni, hanno finito per influire nelle chances del radicalismo tedesco. Frattanto, è già un bene che si conosca la sua opinione.
5.
«Lei», dissi io, «poco fa ha pronunciato la parola tedesca milderung… Non se ne abbia a male, se mi permetto di farle una domanda: non è possibile nessun passaggio dall’intransigenza del Regime ad una posizione moderata? Ciò non sarebbe raccomandabile?».
Mussolini, vivace come in tutta questa parte della conversazione, disse, con simpatico calore: «Io le assicuro che le cose non sono come si dice; si è molto falsata la realtà».
«In una corrispondenza di un giornalista americano, non molto tempo fa, si leggeva che vi erano ancora molti confinati nelle isole…».
«Le voglio dire come stanno le cose. Lei stesso potrà poi giudicare», rispose Mussolini. «In un’isola del golfo di Napoli ci sono ancora duecento o trecento persone, che, per ragioni politiche, sono stati mandati lì al confino. Ma non tutti sono oppositori di questo Governo; vi sono anche fascisti, contro i quali, se essi incorrono in qualche colpa, io sono ancora più severo che con gli altri. I confinati politici sono separati dai delinquenti comuni, dato che vi sono anche di questi. A ognuno è permesso di esercitare la propria professione. I medici esercitano la loro pratica professionale. Il clima come quello di Capri è sano. E nessuno, badi bene, rimane lì sino alla fine della sua condanna. Ogni giorno io accordo gràzie e, anche oggi, su questo tavolino, ho posto la mia firma sotto ad un atto di gràzia. Durante il periodo del fidanzamento di mia figlia, mi sono giunte moltissime domande. Io ho detto a mia figlia: “Tutte le domande di gràzia che arrivano saranno accordate”, e così è avvenuto. Io non amo parlare troppo di queste cose, e non le faccio pubblicare volentieri. Ma se lei vuole, lo può dire, poiché è la verità».
Egli, naturalmente, non avrebbe nulla da ribattere se si dicesse che, nel metodo delle gràzie, vi è qualcosa che ricorda le usanze di antiche potenze autoritarie, anche se, nelle sue dichiarazioni, ci sono tratti umani molto commoventi. Come Mussolini ami la figlia – che, proprio ora, tre giorni prima della presente intervista, si è sposata – è ormai risaputo in tutta Italia.
«E la libertà di stampa?», domandai. «La libertà di critica?».
«Non è giusto se si dice che da noi non è permessa la critica e che una critica non ci sia. Io so molto bene che la critica ha il suo valore e che, secondo le circostanze, è necessaria. Ma una critica che si rivolge contro l’essenza dello Stato fascista, contro il Regime fascista, e che incita a rovesciarlo, io non la permetto; essa viene soppressa senza riguardi. In questo – dato quello che sono e dato il mio punto di vista – io non ho alcuna esitazione. No! Se si vuole mettere da parte il Regime fascista, se si combatte lo Stato che noi vogliamo costruire, noi non possiamo sopportarlo. Ma se si prescinde da ciò, noi accettiamo la critica e, specialmente nel campo economico e nelle questioni finanziari, la critica si esercita liberamente. Essa si esprime sia nelle discussioni che sulla stampa, e noi abbiamo proprio oggi cambiato la legge sulla tassa del vino, perché ci è sembrata giusta la critica che ne è stata fatta. Da poco tempo, per l’apertura del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, io ho detto nel mio discorso: “Noi vogliamo lavoro legislativo, niente incensamenti!” E ciò, del resto, è abbastanza evidente».
6.
Mi è stato confermato da più parti che Mussolini sta lasciando più lenti i lacci con cui era stata imbrigliata la libertà d’opinione. Là dove il Fascismo non è fatto oggetto di critica o, perlomeno, di allusioni critiche, la censura deve avere limitata la propria azione; e la costituzione di un “Parlamento delle Corporazioni” è già una prova che Mussolini ritiene utile l’esistenza di una “opposizione bianca”, seppur limitata, su un terreno dal quale siano escluse le questioni fondamentali del Fascismo. Però, a mio avviso, è proprio qui il punto debole delle sue argomentazioni.
In genere, Mussolini parlò sempre molto realisticamente, ma quando volle riunire la tesi del cosiddetto “ordine morale” con il mantenimento di un sistema di dittatura, si poté notare la sua illusione o, meglio, la sua intima contraddizione – poiché non è possibile che, nel suo chiaro spirito, si radicasse un’illusione. Mussolini aveva ragione quando diceva che egli vuole ben altro che un regime poliziesco e che, inoltre, bisogna tendere all’unità morale. Poiché questa unità morale non esiste, difficilmente può essere raggiunta; nella borghesia, oppressa da tasse e da difficoltà finanziarie, e fra gli intellettuali e l’aristocrazia, la latente opposizione, dietro i muri del silenzio, non è poca. E così, Mussolini rimane legato allo strumento che egli stesso si è forgiato in maniera così grandiosa, per la creazione e il consolidamento della sua potenza.
Questa potenza, che è mantenuta con tutti i mezzi della disciplina, della propaganda e del teatro e si appoggia al Partito fascista, che egli sistematicamente ringiovanisce e alla cui epurazione continuamente lavora, e alla milizia, a cui si perviene attraverso due eserciti giovanili, resta salda e non c’è potere che possa travolgerla finché il capo si chiamerà Mussolini. Ma questa potente macchina del Partito, anche se funzionasse sino alla più piccola rotella, come può superare sé stessa e il proprio spirito? Come può muoversi dall’ordine, che essa mantiene, all’ordine voluto e vagheggiato da Mussolini, fino all’unità spirituale? Nessun dubbio: Mussolini sa tutto, e il suo sguardo, rivolto verso il futuro, non si confonde. Egli crea senza pausa, costruisce opere, trascina con sè, con la sua straordinaria energia, i suoi seguaci. Queste opere debbono pur rimanere, e se uno volesse negarle, esse sarebbero sempre qui, non è vero? Come il sole che ritorna a risplendere e come lo scrittoio sui cui egli poggia la mano! Il suo genio ha la sua tragica fisionomia.
Ed è forse questo che porta più in alto la sua figura, e che lo avvicina di più, oltre ogni contrasto, alle persone che cercano l’uomo dietro la maschera. Egli mi accompagnò con amichevoli, cordiali parole di commiato attraverso la lunga sala vuota, sino alla porta.
Fuori, nell’altra stanza, gli uscieri di servizio alzarono il braccio in cenno di saluto.
Di Theodor Wolff
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