venerdì 29 novembre 2019

NOI E LORO. UNA PICCOLA DIFFERENZA CHIAMATA ONORE

NOI E LORO. UNA PICCOLA DIFFERENZA CHIAMATA ONORE



Nino Arena
 
La faziosità è dura a morire; la menzogna, soprattutto se finalizzata a radicalizzare un fatto arbitrario ha radici profonde; l’invito ai chiarimenti, se presuppone la fine del teorema illegalmente costruito per convalidare la falsità, viene di norma respinto. Poi tutto torna nel dimenticatoio ed ognuno si tiene le sue convinzioni cullandosi nell’ipocrisia e nella malafede. Talvolta, allorché vengono a mancare le motivazioni per controbattere accuse e invenzioni, si fa strada timidamente la loro "verità’’ riportata pedissequamente nelle occasioni, populiste e demagogiche, non di rado sui libri di testo, quasi sempre reperibile nella bibliografia resistenziale di comodo stampata dai grandi circuiti editoriali, nella speranza che "il luogo comune’’ si trasformi in "verità’’ storica: il gioco è fatto! Dovranno sopravvenire dirompenti eventi esterni, come accadde col muro di Berlino, per smantellare l’architrave della menzogna, meglio se originati al di fuori dell’Italia, in quanto ritenuti più credibili, attendibili, affidabili.
Molti anni or sono ho dovuto lottare contro un clan di pseudo storici (di parte) che, in contrasto col responso di una apposita commissione governativa, rifiutavano di accettarne le decisioni per malafede (leggasi: in contrasto con la loro ideologia). Si trattava del bluff sui fatti di Leopoli, di cui lo scrivente - per primo e con mesi di anticipo sulle conclusioni della commissione - denunciava il falso organizzato dal PCUS con la complicità di un giornalista comunista polacco.
Ogni tanto qualcuno si sente in diritto di emanare sentenze, forte, a suo parere, di trovarsi dalla parte "vincente’’; una ridicola convinzione poiché è risaputo che l’Italia ha perduto la 2ª guerra mondiale, che non ci sono stati vincitori e quelli che ritengono di essere tali sono soltanto poveri illusi, vissuti da sempre nella loro persuasione, nel loro sogno donchisciottesco ben al di fuori della realtà.
Una frase recentemente pronunciata da un personaggio di questo effimero clan di Soloni, ci ha colpito particolarmente: "... l’accostamento con la RSI non sarà gradito da noi veterani delle FF.AA. regolari (badogliani, tanto per precisare chi sono); una sottile distinzione per prendere le distanze dai partigiani, e precisava ancora: "Nel dopoguerra le faccende non si sono per niente chiarite, tant’è vero che i reduci della RSI ostentano ancora nelle celebrazioni la scritta Per l’Onore d’Italia. Una strana pretesa da parte del badogliano, che pensa di dettare condizioni e stabilire regole di comportamento, quasi che i reduci della RSI dovessero vergognarsi di tale "ostentazione’’.
Noi siamo di parere contrario, poiché gli atti compiuti da coloro che militarono al sud non sono sempre motivo edificante di ammirazione e ostentazione. Molti avvenimenti non possono essere accettati come atti onorevoli di cui vanagloriarsi e con loro attruppiamo i miserevoli individui del CLN che segnalavano agli aviatori alleati gli obiettivi da colpire (quasi sempre centri abitati); segnaliamo ancora la miseria morale degli uomini del Partito d’Azione che parlavano durante la guerra da Radio Londra contro l’Italia e che l’articolo 16 del trattato di pace salvò immeritatamente. Non sono atti di cui vantarsi gli aiuti militari italiani forniti a Tito - sanguinario despota balcanico - e da questi usati criminosamente per la pulizia etnica degli italiani, non sono atti ammirevoli quelli dati dalla marina cobelligerante alla Royal Navy permettendogli di affondare il "Bolzano’’ per pareggiare la notte di Alessandria; non sono atti meritevoli i bombardamenti dell’aviazione del sud in Istria su zone abitate da italiani; non sono episodi da ricordare nella storia, le uccisioni e i maltrattamenti verso i soldati della RSI uccisi o catturati in azione da reparti badogliani, così come sono da dimenticare le leggi liberticide, vessatorie e discriminanti applicate verso i combattenti della RSI, ancora oggi considerati come invalidi civili, valorosi mutilati degni di rispetto e attenzioni.
Non si può imporre la democrazia come modello comportamentale per poi rinnegarne i principî con atti contrari, così come non è accettabile imporre discriminatorie settarie nei confronti di coloro che a fine guerra si trovarono dalla parte perdente. Si finirebbe per perdere la faccia e rinnegare teorie libertarie applicabili a senso unico.
I soldati della RSI avevano scelto e combattuto sino all’ultimo per cancellare il tradimento badogliano (non il tradimento dei soldati o dei cittadini italiani, vittime ugualmente delle decisioni di pochi irresponsabili); lo avevano fatto per tentare di riscattare l’onore d’Italia infangato dai congiurati. Se altri ritengono che tale comportamento vada cancellato o dimenticato per compiacere coloro che implicitamente li osteggiavano, sappiano che la storia ha condannato i traditori, non i traditi.
Le frasi incriminate fanno parte di un maldestro tentativo inteso a prevaricare la libertà di pensiero (grave per un preteso paladino della libertà) di un amico che in perfetta buonafede aveva iniziato a raccogliere elementi di giudizio, testimonianze e documenti su una possibile pubblicazione sulle vicende postarmistiziali della divisione "Nembo’’. L’intervento, invece, mirava a perpetuare con pesante pressione personale (riteniamo) una pretesa differenza morale e ideologica, di pensiero e di idealità fra i paracadutisti del nord e quelli del sud, che avevano militato nella stessa unità prima e dopo l’armistizio, alcuni dei quali si erano inaspettatamente riscoperti "democratici e antifascisti’’ soltanto a posteriori e temevano il "contagio’’, o quanto meno il pericolo di essere allineati sullo stesso piano fra coloro che avevano accettato supinamente l’armistizio - servendo i Savoia e Badoglio - e gli altri che invece lo avevano rifiutato come immorale e che intendevano opporsi nel tentativo nobile ma difficile di riscattarne col sacrificio l’aspetto d’immagine vilipesa che il tradimento aveva appiccicato all’Italia.
Il problema meritava indubbiamente una precisazione, se non altro per far conoscere meglio la posizione ideale della parte che aveva scelto il nord e il riscatto dell’onore e coloro che invece si erano trovati al sud, non per libera scelta (molti settentrionali avrebbero sicuramente optato per combattere col nord) ma per collocazione geografica, obblighi militari, situazioni contingenti (molti al nord vissero questo problema) sicuramente non per motivazioni ideologiche o scelte politiche, considerando oggettivamente che la "Nembo’’ annoverava fino all’armistizio una larghissima percentuale di personale politicizzato, non tanto nella visione ortodossa e limitata del credente quanto nell’aspetto individuale di far parte di un Corpo d’élite che da sempre (lo si verifica ancora oggi ingiustificamente) ha nell’amor di Patria, nel dovere militare, nel sentimento nazionalista e nella purezza della gioventù nata e vissuta sotto il fascismo, sicuri pilastri di forza morale e affidabilità.
Nessuno di loro conosceva la definizione di democrazia, sapeva di battersi per la libertà, contestava apertamente il fascismo, anche se in quel periodo aleggiava un sottile ma avvertito malessere causato dal crollo del fascismo e dei suoi postulati ideologici; c’era confusione morale fra tutti gli italiani, si accertava la presenza di una stanchezza diffusa fra la popolazione e le FF.AA. causata da avvenimenti interni e dal negativo andamento del conflitto.
Esaminiamo i fatti e accertiamo quanto di vero esisteva nella "Nembo’’ in quel particolare periodo.
Al momento dell’armistizio l’unità frazionata fra Calabria e Sardegna contava circa 10.500 uomini in servizio di cui circa 7.000 paracadutisti, 1.200 militari dei servizi e 2.300 fra artiglieri, carristi e genieri aggregati alla "Nembo’’ per esigenze difensive territoriali. Abbandonarono l’unità i Btg. 3°, 12° e reparti minori dei Btg. 13°/14° passati poi alla RSI; 600 paracadutisti ritenuti politicamente inaffidabili furono internati nel campo di disciplina di Uras (Cagliari); altri 410 sospetti di simpatie fasciste furono radiati dai paracadutisti e assegnati ai Rgt. di fanteria 45° e 236°; altri 300 vennero distribuiti ad altri reparti e una trentina di ufficiali - fra cui il vicecomandante divisionale, il valoroso Folgorino Col. Pietro Tantillo - furono imprigionati, processati e infine prosciolti dall’accusa di "rifiuto per coerenza etica di sparare sui reparti tedeschi’’. Il resto si era sbandato. Una perdita complessiva di oltre 3.000 uomini che riduceva la "Nembo’’ a poco più di 4.000 paracadutisti con alcune centinaia di militari dei servizi.
Non mancarono le uccisioni isolate, gli atti di violenza, le ribellioni aperte. Da una parte si ebbe l’uccisione ingiustificata e involontaria del Ten. Col. Alberto Bechi Luserna-Capo di SM-ucciso da paracadutisti aderenti alla convalida del patto d’alleanza con la Germania. Venne decorato di Movm alla memoria. Gli autori identificati, furono processati nel dopoguerra e condannati a pesanti pene detentive. Dall’altra parte si ebbe l’uccisione ingiustificata ma volontaria del maresciallo Pierino Vascelli - valoroso libico e Folgorino-addetto allo SM divisionale, assassinato da ignoti per punire la sua ostentata fede fascista. Vascelli non ebbe alcuna decorazione, non ebbe un processo poiché i suoi assassini rimasero ignoti, coperti criminosamente dall’omertà. Due pesi e due misure che gridano giustizia e di cui ben pochi conoscono i retroscena.
Non risponde quindi al vero che la "Nembo’’ disponeva nel 1944 di 10 battaglioni paracadutisti, poiché era stata ristrutturata su 5 Btg. e 2 gruppi artiglieria, reparti minori e non superava le 4.000 unità allorché venne inserita nel CIL (Corpo Italiano di Liberazione) poiché altri 250 paracadutisti furono assegnati a reparti logistici (leggasi salmerie della 210a Divisione).
Al nord, invece, furono costituiti 3 Btg. paracadutisti arditi e un Btg. allievi; un Btg. N.P. (Nuotatori Paracadutisti) della Xª MAS e un Btg. paracadutisti della GNR ("Mazzarini’’) per circa 3.800 paracadutisti in gran parte volontari. Nel 1945 si ebbero altre trasformazioni: al sud venne disciolta la "Nembo’’ sostituita col Gruppo da combattimento Folgore con un Rgt. paracadutisti su 3 Btg. nuclei sparsi di paracadutisti fra il Rgt. artiglieria e i reparti genieri. Complessivamente non più di 3.000 paracadutisti oltre ad un centinaio di parà assegnati allo Squadrone F alle dirette dipendenze del comando XIII° Corps inglese.
Al nord, oltre ai precedenti reparti già accennati, si ebbero 2 Cp. autonome e reparti indipendenti composti da complementi, dal personale del disciolto gruppo artiglieria "Uragano’’ e dagli istruttori della scuola di Tradate; dal personale del gruppo speciale sabotaggio "Vega’’ e NESGAP della Xª MAS, dal Btg. NP e dal "Mazzarini’’. Complessivamente circa 4.000 uomini superiori, per organici e reparti costituiti, a quelli del sud. Nessun vantaggio numerico o per organici, quindi, sufficiente per affermazioni fuori luogo e giustificare maggiore importanza psicologica come avventatamente dichiarato dal nostro censore sudista. Anzi, una situazione a favore della RSI.
Alcune precisazioni merita anche l’aspetto morale e giuridico, considerando obiettivamente l’illegittimità del governo Badoglio secondo giuristi e costituzionalisti affermati, nato da un colpo di Stato e mai convalidato dagli enti istituzionali. Semplicemente, come quello della RSI un governo di fatto ma del tutto arbitrario come aspetti decisionali, considerando che era scappato al sud con due soli riluttanti ministri militari (altri 12 ministri erano stati abbandonati a Roma), che si era trovato brutalmente al cospetto delle strutture amministrative create dagli alleati: AMGOT e ACC, cui doveva ubbidienza assoluta senza alcuna recriminazione, col territorio nazionale rigidamente controllato dai funzionari angloamericani (soltanto nel 1944 furono consegnate quattro province pugliesi (Lecce, Bari, Taranto e Brindisi) all’amministrazione badogliana. Badoglio fu costretto persino a utilizzare i comandi militari in assenza di strutture civili per applicare un minimo di legalità e ordine nel caos postarmistiziale, proclamando la legge marziale con i poteri riservati ai militari, con l’assurdo giuridico e offensivo, di emanare ordinanze agli italiani da parte di comandi militari italiani, come avveniva nei territori nemici occupati.
Ciò non impedì allo stesso Badoglio di emanare ordini suicidi per attaccare i tedeschi ovunque, col risultato nefasto di privare i soldati italiani delle garanzie internazionali dovute allo status armistiziale, trasformandoli in franchi tiratori, col risultato di farli uccidere impunemente dai tedeschi per dovute legali rappresaglie, come fatalmente accaduto a Cefalonia, Balcani e Lero. Un totale di 45 mila soldati uccisi ingiustificatamente nel dopo armistizio. Fu necessario l’intervento di Eisenhower a Malta il 29 settembre, che consigliò prima e intimò poi a Badoglio di far cessare le uccisioni, ripristinando lo status giuridico internazionale col dichiarare guerra alla Germania, cosa questa che avvenne il 13 ottobre successivo.
Resta ancora da chiarire il significato di cessare le ostilità "per impossibilità materiale di continuare la guerra "come dichiarò Badoglio all’armistizio, per poi ritrovare miracolosamente volontà e capacità operativa con la proposta di "passare armi e bagagli con gli anglo-americani’’ alla pari, come ingenuamente pensarono i congiurati come fosse la cosa più semplice del mondo, nella convinzione di ritenersi indispensabili e quindi di dirigere il gioco. Gli alleati respinsero invece sdegnosamente ogni ipotesi di alleanza (l’Italia non venne mai considerata alleata dalle Nazioni Unite, ma più dimessamente "nazione cobelligerante’’ di nessuna importanza giuridica e operativa) e l’offerta fatta da Badoglio sulla "Nelson’’ di concedere la "Nembo’’ venne ugualmente respinta (confronta al proposito la testimonianza dell’interprete ufficiale italiano Magg. Carlo Maurizio Ruspoli (fratello dei folgorini Marescotti e Costantino).
Cosa rimane dunque come argomenti per trattare con sufficienza e distacco i reduci della RSI? Riteniamo ben poco, se non il disagio inconfessabile di aver militato agli ordini di simili traditori che hanno meritato il disprezzo delle genti, anche a livello internazionale, e la squalificante etichetta di opportunisti.
Pochi giorni or sono, in una intervista concessa ad un giornalista del "Giornale’’, Indro Montanelli - che non può essere certamente accusato di simpatie fasciste, pur non rinnegando il suo passato politico - disse a proposito di Badoglio, alla domanda di come si sarebbe comportato personalmente l’otto settembre: "Io avrei fatto esattamente quello che fece il maresciallo Mannerheim Presidente della Finlandia, allorché fu costretto per totale impossibilità fisica, morale e materiale dovuta a cinque anni di guerra durissima, a continuare a combattere, chiedendo un armistizio all’URSS che premeva alle frontiere della Finlandia, abbandonando l’alleanza col Tripartito e la collaborazione militare con il Reich. Mannerheim spiegò ai tedeschi la sua situazione e li invitò ad abbandonare al più presto il territorio finlandese, cosa che si verificò regolarmente senza particolari problemi. Disse così, il decano dei giornalisti italiani, e aggiunse che deprecava il metodo usato da Badoglio - subdolo e inqualificabile - le riserve mentali, le occulte intenzioni dei congiurati, i tentativi umilianti di saltare sul carro dei vincitori.
Per concludere, spendendo due parole sull’aspetto morale, comprendiamo e giustifichiamo il dramma personale vissuto da migliaia di italiani rimasti al sud, consideriamo valido il rispetto del dovere militare, non accettiamo certamente l’abuso fatto a posteriori di presentarsi e di considerarsi "combattente per la libertà’’ quasi fosse una etichetta di squadrista antemarcia, come accadde con Mussolini, ma soltanto una convalida artificiosa che significava - se accettata implicitamente - complicità morale. "Ho dovuto ubbidire agli ordini di Badoglio e Messe, ma il mio cuore e la mia fede erano al nord con la Repubblica Sociale Italiana’’ dissero molti veterani del sud. "Il giorno che decisi di disertare venni ferito’’ dichiarò un paracadutista della "Nembo’’ oggi affermato medico a Roma. "Mi legarono ad un albero in prima linea perché mi ero rifiutato di sparare contro i tedeschi. Speravano che questi mi avrebbero ucciso come bersaglio indifeso; invece i tedeschi capirono la situazione e mi risparmiarono’’ disse un veterano del 16° Btg. Molti ancora, opposero pretestuosamente il giuramento fatto al Re come ostacolo morale alla loro adesione; ma nessuno seppe che il giuramento non aveva più alcuna validità poiché era stato infranto per primo dal Re, violando la Costituzione, che parlava del giuramento prestato dal sovrano "nel bene indissolubile del Re e della Patria’’. Ma soltanto pochi obbedirono sino all’ultimo allo spirito di tale giuramento e fra questi il vecchio generale Ercole Ronco, comandante della "Nembo’’, il Col. Camosso folgorino e il Ten. Col. Felice Valletti Borgnini - anch’esso folgorino - che preferirono abbandonare la vita militare al momento in cui Umberto di Savoia abdicò e partì per Lisbona. Gli altri transitarono senza particolari patemi d’animo dalla monarchia alla repubblica, scoprirono una nuova fede e fecero carriera.
Noi, dunque, rappresentiamo per diritto acquisito la continuità ideale fra la gloriosa Folgore di El Alamein e il paracadutismo della RSI: stessi ideali, stessi nemici, stesse conseguenze. Erano gli stessi nemici con l’elmetto a scodella che uccidevano i folgorini nelle sabbie egiziane e massacravano i ragazzini alla difesa di Roma; erano per noi i nemici di sempre, quelli del primo giorno di guerra e dell’ultimo giorno, quando ci sorvegliavano e ci angariavano nei campi di prigionia. Di esempio i folgorini comandanti Izzo e Valletti che combatterono con la Folgore a El Alamein, fianco e fianco con i parà germanici di Ramcke, non sapendo che un giorno si sarebbero scambievolmente uccisi sulla "Gotica’’ nella primavera del 1945, quando Badoglio e le circostanze li avrebbero messi l’uno contro l’altro. Questo mi disse nel dopoguerra Giuseppe Izzo, quando dovette battersi per salvaguardare il suo dovere di soldato contro il suo amico Hubner a Grizzano, un camerata che aveva condiviso con lui, in Egitto, le speranze, l’acqua e le munizioni contro i Tommy’s di Montgomery. A Grizzano si guadagnò una Movm, ma avrebbe sicuramente preferito meritarsela a El Alamein battendosi contro gli inglesi. La sua carriera militare si bloccò a Palermo, nel dopoguerra, allorché rifiutò di stringere la mano di Pacciardi, Ministro della Difesa, da Lui tacciato di "traditore della Patria’’.
Valletti Borgnini si battè coerentemente col suo dovere militare contro il reggimento Bomhler sulla "Gotica’’, pur avendo il padre generale nell’esercito della RSI e il fratello minore Luciano, compagno di corso dello scrivente alla scuola AA.UU. di Varese, giovane sottotenente della GNR (morirà a Coltano per malattia non curata dal detentore USA). Una tragedia familiare, lacerante, in cui il senso del dovere fu più forte degli affetti privati. Ma forse questi fatti non influiscono sulla sensibilità del censore intento a spargere l’apartheid fra i parà, dimenticando che essi furono i primi ad abbracciarsi a guerra finita, riconoscendosi come fratelli, non come nemici o soldati di classe inferiore. Ci auguriamo soltanto che quando in futuro vedrà nelle celebrazioni i paracadutisti della RSI ostentare orgogliosamente l’insegna di "per l’Onore d’Italia’’, comprenda cosa significò per centinaia di migliaia di soldati italiani quel motto e quell’impegno che vide oltre centomila caduti, quarantacinquemila feriti e mutilati, novantamila imprigionati in campi POW fra Algeria, Francia, Italia e USA e nelle patrie galere. Oltre trentamila i processati per "collaborazionismo col tedesco invasore’’ (erano soltanto i nostri alleati con cui avevamo sottoscritto un patto militare nel 1939). A questi dati statistici aggiungiamo il milione e mezzo di italiani epurati e messi alla fame, per completare il quadro; molti i suicidi, migliaia gli emigrati nel mondo, centinaia i dispersi nella Legione fra Indocina e Algeria "mort pour la France’’, un intero popolo diseredato da leggi antifasciste volute dal CLN con l’avallo di Umberto di Savoia che le firmò, mentre i "vincitori’’ si spartivano fraternamente posti di lavoro, ricevevano lucrose pensioni, sussidi, elargizioni, premi di smobilitazione, vitalizi, ricompense (anche al valore militare come accadde per Via Rasella). E gli altri? Alla fame o proscritti come appestati, come decretato dagli alpini partigiani con una vergognosa apartheid nostrana immorale e ingiustificata creata ad hoc.
Di certo Noi non abbiamo vestito i panni del nemico di sempre, non abbiamo avuto l’elmetto a bacinella, poiché era remota per i folgorini, in quanto inaccettabile, l’ipotesi che un giorno altri parà avrebbero vestito all’inglese, sarebbero stati da loro armati e si sarebbero schierati al loro fianco per combattere gli ex alleati ormai nemici, e se capitava (come in realtà si verificherà) anche altri italiani.
Badoglio aveva creato le premesse della guerra civile, provocato una frattura nelle coscienze, creato una divisione dei corpi e delle anime. Poi la nemesi storica si riprese la sua rivincita: Badoglio venne estromesso ed emarginato come cosa inutile ("usa e getta’’ si direbbe oggi); il suo Re, mortificato, umiliato dai vincitori e malvisto dai partiti del CLN andò in esilio in Egitto; suo figlio, strumentalizzato dai politici antifascisti, firmò decine di inique leggi persecutorie contro i soldati della RSI, poi, anch’egli ormai inutile, venne costretto a lasciare l’Italia.
Tutto ciò non toglie nulla al valore dimostrato in battaglia dai paracadutisti del sud poiché nomi di località come Ascoli Piceno e Macerata, Tolentino e Aquila, Chieti e Filottrano, Grizzano e la Herring furono altrettante tappe di una lacerante partecipazione fra il dovere militare e la fede, i sacrifici fatti in difficili condizioni morali. Centinaia i caduti con oltre 400 nominativi, 587 i feriti, 54 i dispersi, centinaia le decorazioni al valore concesse e fra queste soltanto sette quelle elargite da americani e polacchi (nessuna da parte inglese). Non inferiori quelle meritate dai paracadutisti del nord che ebbero 621 caduti, 316 feriti e 620 dispersi e prigionieri, oltre 400 le decorazioni meritate fra cui oltre 80 croci di ferro di 1ª e 2ª classe a riconoscimento del valore da parte dell’alleato germanico sempre prodigo di elogi e ammirazione per i volontari italiani.
Cosa dunque restava della nostra scelta fatta non per tentare di vincere (la guerra era ormai perduta per la Germania) se non per salvare l’Onore d’Italia? Fu soltanto un ideale premio morale emerso luminoso fra tante amarezze e umiliazioni inferte dai vincitori; un valore simbolico, idealizzato che nessuno potrà mai portarci via o permettersi di discutere. Lo abbiamo conquistato duramente con innumerevoli sacrifici e se la Storia ha cambiato in parte, grazie alla RSI, il suo severo giudizio sull’Italia, lo si deve anche a chi fece di tutto per cambiarlo, sacrificandosi nel nome d’Italia, riscattandone l’Onore.
La piccola differenza fra NOI e Loro è tutta qui!
 
 




domenica 24 novembre 2019

FRA´ GINEPRO UN MONACO FASCISTA



il FranceF                       
R   FRA´ GINEPRO UN MONACO FASCISTAscano, lo sFRRcrittore, il cappellano (*)
(*) I FRRtesti e le immagini qui riportati sono tratti e adattati dal libro "Fra Ginepro - il Francescano, lo scrittore, il cappellano", dell'Associazione Amici di Fra' Ginepro, NovAntico Editrice, con i necessari consensi.
Fra' Ginepro
Fra' Ginepro (1903-1962)



Introduzione
L'amore per Dio e l'amore per la Patria erano mirabilmente fusi nel padre cappuccino Fra' Ginepro, al secolo Antonio Conio, nato a Pompejana (IM) nel 1903 e morto a Loano (SV) nel 1962.
Per quanto riguarda la sua spiritualità basteranno due citazioni da sue opere per farla comprendere: "La poesia del combattimento prima che dannunziana è francescana e cristiana. E' poesia del volo e dell'ascesi, della conquista e dell'ardimento, della dedizione e del sacrificio, della luce scaturita dalla sofferenza, dell'alloro meritato attraverso la prova dura del calvario"; e ancora: "Io considero come il gesto più bello e più religioso della vita sacerdotale, di essermi schierato con i percossi e con i reietti".

Questo emulo di San Francesco, che svolse opera di apostolato anche tra le forze armate sia nella guerra d'Etiopia che nella seconda guerra mondiale, come pure nella R.S.I. e che per la propria fede di patriota e di cristiano dovette subire tremende persecuzioni, nel dopoguerra si dedicò alla pietosa opera di continuare a ricordare i Caduti della R.S.I., soprattutto quelli uccisi, innocenti, dal piombo fratricida. E, nel contempo, si dedicò anche all'opera di pacificazione tra Italiani, affinché il ricordo dei Caduti non fosse fomite d'odio, ma incentivo al perdono e alla riconciliazione.
Tra le doti che Fra' Ginepro ricevette da Dio vi fu anche quella di saper scrivere assai bene, ed egli sfruttò appieno questa dote lasciandoci oltre quaranta libri, e forse, la strada migliore per seguirne la vicenda biografica è quella tracciata da essi, alcuni dei quali, quelli pubblicati nell'immediato dopoguerra, sono firmati "Pio Cappuccino" (per evitare ulteriori noie con le autorità, i suoi superiori gli avevano imposto di usare questo pseudonimo).

Breve biografia


1903 Fra' Ginepro al fonte battesimale fu chiamato Antonio, e tutti lo chiamarono Tugnolo. La famiglia era Conio. L'anno di nascita in Pompejana 1903. I genitori e i fratelli si occupavano di agricoltura, mentre Tugnolo si era dato allo studio universitario, ramo legge. Ma invece di un avvocato, la famiglia Conio si arricchì di un bel frate con molta delusione di tante belle fanciulle!
Temprato fisicamente, in gioventù, da una intensa attività sportiva, dopo i vent'anni si fece Religioso per prepotente vocazione. Fu professore di lettere e filosofia, conferenziere, amico di scrittori ed artisti. Egli però ingigantisce sotto le spoglie di ardente, valoroso Cappellano militare e come tale resterà certamente un grande esempio dell'apostolato militare!
1935 Nel 1935 il frate partì, quale cappellano della Divisione Cosseria, per l'Africa Orientale, dove si distinse per il coraggio nell'assistenza spirituale ai suoi soldati e anche alla popolazione indigena, tanto da meritarsi gli elogi del vescovo dei cattolici di Rito Etiopico, Chidanè Marian Cassà.
1940 Quando scoppia la seconda guerra mondiale andò, senza che nessuno glielo chiedesse, in prima linea sul fronte francese ed il 4 luglio 1940 si trovò a dire Messa sulla piazza principale di Mentone, la cittadina redenta, tornata all'Italia dopo ottant'anni.
Sempre col suo saio (non indosserà mai l'uniforme e raramente si toglierà i sandali per indossare gli scarponi) fu sul fronte greco, dove venne ferito mentre amministrava i sacramenti ad un soldato ellenico morente.
Su questo fronte venne preso prigioniero e stette a lungo rinchiuso nei campi di concentramento dell'India.
Qui si diede da fare in ogni modo per consolare i suoi commilitoni prigionieri. Dall'India, gravemente ammalato, fu rimpatriato come invalido.
1943 Pur collocato ufficialmente a riposo per le sue condizioni di salute, fu pronto a scendere in campo non appena si costituì la Repubblica Sociale Italiana.
Fu un'ora tremenda per l'Italia, c'era bisogno delle forze di tutti per far sì che la nostra Patria non sprofondasse completamente nel baratro e c'era bisogno, anche, di una gran forza spirituale e morale per resistere in frangenti come quelli. E Fra' Ginepro si diede da fare proprio in questo senso: assisté militari e civili, si impegnò a limitare lo spargimento di sangue fraterno, riuscendo a salvare molte vite umane di prigionieri dei fascisti e dei tedeschi.
Riuscì a farsi inviare, dallo stesso Mussolini, in Germania, per portare una parola di consolazione ai prigionieri Italiani nei lager e alle famiglie dei prigionieri, che aiutò come poteva, recando notizie dei loro cari.
Ebbe lunghi colloqui privati con Mussolini, nel corso dei quali affrontò molti delicatissimi temi di natura anche religiosa.
1945 Dopo il 25 aprile fu arrestato per "collaborazionismo col nemico invasore", per avere affermato che "la Patria è là dove si salva il suo onore!" e si fece undici mesi di galera. Ne uscì assolto, ma lo spettacolo indegno a cui assistette con animo straziato, raddoppiò il suo zelo nel documentare in molti volumi, le tristi vicende del più torbido periodo della vita nazionale.
1946 Dopo una lunga detenzione a Marassi, la magistratura non avendo alcun elemento di accusa per il frate, voleva liberarlo, ma il sacerdote escogitava di volta in volta un pretesto per rimanere ancora. Veniva accontentato più che altro perché si dimostrava efficace elemento di buon ordine e la tranquillità dello stabilimento penale.
Ma ad un dato giorno non fu più possibile giustificare il suo stato detentivo, e si ricorse ad uno stratagemma.
Gli fu comunicato che veniva trasferito di carcere. Lo fecero salire su un autofurgone, ve lo chiusero dentro senza che potesse vedere dove lo trasferivano. Il tragitto fu breve: l'Ospedale Gaslini. Lo sportello venne aperto ed ebbe la... sgradevole sorpresa di essere ricevuto dai suoi superiori della Provincia Ligure.
    Probabilmente fu l'unica volta nella sua vita che Fra' Ginepro andò, come si dice, sulle furie: "Io dovevo rimanere là sino a che ci fosse stato un politico!" Poi si rassegnò, già pensando che poteva essere utile anche al di fuori delle sbarre.
Dopo la scarcerazione si dedicò anima e corpo (quest'ultimo pesantemente provato per le conseguenze della grave malattia contratta in prigionia) alla difesa dell'onore dei soldati d'Italia e a consolare le famiglie che piangono i troppi morti della guerra civile.
Per non dare nuova turpe esca alla stampa sovversiva anticlericale Fra' Ginepro venne trasferito a Siena, e dovette cambiare temporaneamente nome: Padre Pio. Con questo pseudonimo apparvero i suoi primi libri del dopoguerra. Nella città toscana trovò anche col nuovo nome, modo di rendersi simpatico a tutti, forse un po' meno ai nuovi Superiori, perché non nascondeva a nessuno le sue idee di Patria e le verità brucianti della nostra sconfitta.
Dopo Siena passò a Reggio Emilia, dove in pieno acuto rossismo, mantenne quotidiani contatti con gli ex combattenti e con le loro famiglie. La tema dei Superiori che la sua presenza potesse generare spiacevoli incidenti, fece sì che venisse deciso il suo ritorno in Liguria, riprendendo il nome francescano.
Il frate si dedicò a fissare sulla carta la memoria dei Caduti che facevano schifo a tutti i cosiddetti "democratici", ossia i Caduti della Repubblica Sociale Italiana, caduti spesso a tradimento, sotto il piombo di altri Italiani.
Con rinnovata lena tornò alla predicazione, però non più richiesta come una volta. L'esaltare il patriottismo, il valore sfortunato dei nostri combattenti, le basi morali d'un tempo già lontano in contrasto con la mentalità ed il costume trionfanti nel dopoguerra, non lo rendevano bene accetto in tante parrocchie. Ma Fra' Ginepro non si scoraggiò ed anche per mezzo di altre sue pubblicazioni, tutte pervase di altissimo amore patrio, accontentò le sue convinzioni ed il suo profondo fervore religioso. Ex combattenti, familiari dei Caduti, amici mantenevano quotidiani contatti col fraticello di Pompejana. Parlare con lui era un vero ristoro dell'anima.
1956 Nel 1956 ebbe inizio lo smantellamento della forte fibra di Fra' Ginepro. Una ipertensione gli procurava alcuni disturbi. Si fece visitare, ma non stette alle prescrizioni mediche. Certamente era ignaro - come lo saranno stati anche i medici - del grave male, il cui germe o "virus" che si voglia, proveniva dall'India.
1957 Purtroppo nel gennaio del 1957 lo dovettero trasportare di tutta urgenza all'Ospedale San Martino a Genova, dove fu ospitato nel Padiglione d'isolamento. Era stato colpito da encefalomacia con paralisi facciale destra e alla lingua, oltre a disturbi cardiaci e all'altissima pressione sanguigna. Fu curato bene e quando poté riparlare, disse fra il serio e il faceto: "Iddio mi ha punito nella lingua! Pazienza...".
Pur rimettendosi quasi completamente, egli non guarì più, ebbe delle ricadute, tornò negli ospedali con lunghe degenze. Ma non si perse mai d'animo, né mai la sua serenità scomparve dal suo viso. Era rassegnato, solo spiacente di non poter dare più tutto se stesso. Durante i cinque anni d'infermità continuò a scrivere o, quando non poteva di propria mano, a dettare a giovani frati che si sentivano molto onorati di fungere da segretari.
Riuscì a pubblicare ancora alcuni libri, le cui edizioni si sono pressoché esaurite. Poco prima di morire aveva posto la parola "Fine" al suo secondo volume sul "Martirologio" del periodo della lotta fratricida, e si dichiarava soddisfatto di aver compiuto questa opera, alla quale aveva lavorato per lungo tempo.
1962 Morì il 2 luglio 1962 all'età di 59 anni, assistito dalla madre ottantaseienne di cui era sempre stato tenerissimo figlio. L'unanime rimpianto della sua dipartita che lasciò un vuoto incolmabile giunse sino alla costernazione ed allo smarrimento. La sua vita era troppo preziosa e necessaria alla Chiesa e alla Patria!

Conclusione
    Il fatto che ancora oggi, a quasi quarant'anni dalla sua morte, vi sia una sorta di "culto" per questo indomito fraticello è un'eloquente testimonianza del suo carisma. Carisma che gli permise di fondere in una meravigliosa sintesi mazzinianesimo e cristianesimo, amore per il Tricolore e per la Vergine, patriottismo e devozione.
    Un grande esempio è stato Fra' Ginepro, un uomo il cui ricordo ci dà la forza di attraversare indenni anche le più cupe epoche di decadenza.


Monumento a Fra' Ginepro (Loano - SV)
"Quando il nostro popolo era nelle trincee, Iddio mi mandò nelle trincee; quando il nostro popolo era fra i reticolati Iddio mi mandò dentro i reticolati; quando il nostro popolo era in galera Iddio mi mandò in galera. Ti ringrazio, o Signore, per queste prove di cui mi hai ritenuto degno".
Fra' Ginepro

Le opere di Fra' Ginepro


1926 San Francesco d'Assisi il più italiano dei santi x
1927 Pompejana - borgo francescano x
1930 La benedizione di San Francesco nelle nozze della Regina di Bulgaria x
1931 La famiglia Ruffini - Un canto di religiosità nel Risorgimento x
1931 La reggia d'oro del Sacro Cuore di Gesù in Bussana x
1932 Riviera d'oro x
1932 Terra natìa x
1933 Il diadema stellato x
1935 La palma più alta della Riviera x
1935 La vasaia di Albisola x
1935 Santa Barbara x
1935 Le Suore Terziarie Cappuccine nel 1° cinquantesimo della fondazione (anche in spagnolo) x
1937 L'altare da campo in Africa Orientale x
1938 La strada delle Madonne in Africa Orientale x
1940 Cuore di soldato italiano x
1942 La croce sulle forche x
1943 La Madonna del Buon Ritorno x
1943 Adorazione nella tormenta x
1944 La fede dei nostri prigionieri x
1945 Il bambino della frontiera x
1946 Guerra e prigionia []
1947 Meglio essere la madre di un assassinato che di un assassino x
1948 Famiglie che piangono []
1949 Fame di Dio in "lager" x
1949 Convento e galera []
1950 La via crucis dei criminali []
1951 Fanciulli martiri []
1951 Parole ai vivi e ai morti x
1953 Ospitalità al sacrificio x
1954 L'innamorata silenziosa x
1954 Madre di eroi []
1956 Il mio saio: una bandiera []
1957 Alle soglie dell'aldilà []
1958 Non li possiamo dimenticare x
1961 La seconda prova []
1962 Martirologio italico (1° vol.) []
1963 Martirologio italico (2° vol.) []
1970 Ho confessato il Duce []
1973 Eroi d'Italia x

Martirologio italico (3° vol.) []
x = Esaurito
[] = Disponibile presso l'Associazione FRA GINEPRO


lunedì 18 novembre 2019

CHI EMANO' L' ORDINE DI UCCIDERE MUSSOLINI?

Chi emanò l’ordine di uccidere sbrigativamente Mussolini?
di Maurizio Barozzi


            Dopo decenni di indagini e ricerche inerenti l’assassinio proditorio di Mussolini e Clara Petacci, il sottoscritto ha conseguito la ragionevole consapevolezza che la “storica versione”, la vulgata tramandata da W. Audisio, è palesemente falsa perchè il Duce venne ucciso  tra le 9 e le 10 del mattino del 28 aprile 1945 nel cortile di casa De Maria in quel di Bonzanigo e la Petacci intorno alle 12 dello stesso giorno nel prato di un viottolo poco più avanti.
Non staremo qui a riportare le testimonianze, le osservazioni, gli studi peritali e altro, che comprovano quanto appena affermato. Lo abbiamo fatto spesso, su queste stesse pagine (vedi anche: M. Barozzi, “Fine di una vulgata” in http://fncrsi.altervista.org/fine_vulgata.htm e il testo base di Giorgio Pisanò “Gli ultimi 5 secondi di Mussolini”, Saggiatore 1996).
Detto questo però dobbiamo anche aggiungere che per quanto riguarda i mandanti, ovvero coloro che emanarono dietro le quinte i precisi ordini operativi, per arrivare a questa sbrigativa uccisione, a parte quanto accertato sull’operato di Luigi Longo e dei comunisti, non vi è alcuna certezza, ma soltanto delle ipotesi sia pure abbastanza attendibili.
Buio pesto anche sui due possibili nomi degli assassini, ipotizzati in una coppia di sparatori, con mitra e pistola, in base agli studi su la possibile dinamica balistica di quella “fucilazione” che riscontra traiettorie eterogenee e distanzialità nei colpi che attinsero Mussolini.
In mancanza di prove e documentazioni precise, a nostro avviso finite negli inaccessibili archivi statunitensi, britannici e vaticani, dovendoci basare su di una letteratura in argomento palesemente contraddittoria e superficiale, su una pletora di testimonianze e memoriali dove non c’è alcuna certezza della loro attendibilità e su pochi altri elementi veramente concreti, ogni individuazione dei mandanti rimane nel campo delle ipotesi possibili, ma non dimostrabili.
A complicare ancor più la faccenda c’è poi il fatto che Mussolini era desiderato morto da più di una componente nemica, tanto che già nella registrazione di una conversazione intercontinentale del 29 luglio 1943, tra W. Churchill e D. Roosevelt, quando il Duce si trovava da pochi giorni nelle mani di Badoglio, questi due campioni di “umanità” discutevano tra loro sulla opportunità o meno che Mussolini arrivasse vivo ad un eventuale processo e si trovarono perfettamente d’accordo che forse sarebbe stato conveniente che “morisse” durante la detenzione (vedi: A. De Felice Il gioco delle ombre, in www.alessandrodefelice.it).
In effetti, proprio come ebbe a scriverci un importante storico, considerando le ultime vicissitudini del Duce, dalla sera del 25 aprile fino alla cattura:
<<La figura di Mussolini sembra essere caduta nella triangolare Savoia, SOE (il servizio segreto inglese, n.d.r.), PCI, tela del ragno (una vedova nera senz'altro) venduto, anzi passato, di mano in mano. La tela triplice permea tutta la 52a Brigata Garibaldi (i partigiani che lo catturarono a Dongo e poi nascosero a Bonzanigo, N.d.A.) che riproduce al suo interno il triangolo...
E’ ovvio e pleonastico  ricordare due convitati di pietra assieme alla piovra a 3 teste di cui prima:
1) OSS; 2) Karl Wolff (che agisce da piazzista alla mostra dell'acquisto dei vertici fascisti)>>.
Quindi, per riassumere, possiamo dire che Mussolini:
- lo volevano morto gli inglesi, per nascondere la compromettente intesa intercorsa con Churchill al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, una intesa che una volta svelata, avrebbe rivoltato tutta l’interpretazione storiografia della seconda guerra mondiale, squalificato il britannico agli occhi del mondo e complicato la politica internazionale degli inglesi nel dopoguerra (per il Carteggio Mussolini – Churchill, rimandiamo ai nostri articoli: M. Barozzi, “Gli scottanti contenuti del carteggio Mussolini Churchill”, Rinascita 1 settembre 2009  e “10 giugno 1940 le vere motivazione della guerra italiana”, Rinascita 10 giugno 2010).
- Lo volevano morto gli americani, per gli stessi motivi di nascondere importanti documentazioni riguardanti Roosevelt, nonostante che apparentemente e ufficialmente asserivano (ma non facevano niente in proposito!) di volerlo catturare per processarlo e umiliarlo,.
- Lo volevano morto i sovietici, visto che Stalin voleva tenere nascoste certe “intese segrete” con l’Italia, risalenti fin dal 1924 (praticamente, avevano preservato, fino al 1941, l’Italia da attentati delle cellule comuniste, gli unici attentati infatti furono quelli dei massoni e di Giustizia e Libertà), ma voleva anche nascondere certi “sondaggi”, avvenuti nel primo semestre del 1943, quando Italia e Urss si approcciarono per verificare le possibilità di far uscire i sovietici dalla guerra.
- Lo voleva morto la Massoneria e l’Alta Finanza che, idealmente, lo consideravano il loro peggior nemico. Consorterie queste trasversalmente presenti nella Resistenza, nella RSI e negli Alleati.
- Lo desiderava morto il Re che paventava venissero fuori le sue responsabilità nella guerra, dove il Savoia, che deteneva tutti gli interessi finanziari della Corona nelle banche di Londra, aveva condiviso,  eccome,  la decisione di entrare in guerra.
- Morto, infine, non dispiaceva neppure ai tedeschi del generale Wolff, che lo avevano tradito con i loro accordi di resa con gli Alleati, conseguiti alle spalle degli italiani.
Ed ovviamente lo volevano immediatamente morto le componenti più estremiste della Resistenza, quali i comunisti, gli azionisti, i socialisti come Pertini, ecc.
Resta difficile stabilire, senza concrete documentazioni, a chi può farsi risalire l’ordine di morte, perchè è anche probabile che vi fu una segreta concomitanza di azioni e interessi, mentre l’esecuzione dell’assassinio venne assunta dai comunisti, gli unici, in quel momento ed in quelle località del comasco, in grado di agire alla svelta, avendo tra l’altro il Duce nelle proprie mani.
Ci sarebbe poi da delineare i giochi del Vaticano, in massima parte in sintonia con quelli degli americani, in virtù dei sottili fili, soprattutto di ordine finanziario che lo legavano all’Alta Finanza e alla massoneria d’oltre oceano, nonchè una sorda e occulta “guerra” tra inglesi e statunitensi per il controllo dell’Italia, controllo che finì per passare nelle mani USA determinando la fine della monarchia, la riesumazione della mafia (divenuta “cosa nostra” sui due continenti) e l’accordo di potere DC governo - PCI opposizione (con ritagli di potere in ambiti locali).
La situazione resta quindi ingarbugliata e per aiutare a raccapezzarsi in qualche modo vediamo di riassumere ed illustrare almeno le decisive posizioni degli inglesi e degli americani.
GLI INGLESI
E’ indubbio che gli inglesi erano interessati alla soppressione immediata di Mussolini a causa del famoso Carteggio e della possibilità che un Mussolini in vita li chiamasse sul banco degli accusati.
Tra le tante indicazioni per il tipo di responsabilità inglese, quella di Renzo De Felice, resta la più attendibile. Lo storico, infatti, ebbe a sostenere che Mussolini venne ucciso dietro ispirazione inglese. Si riferiva a Max Salvadori Paleotti, un ufficiale italo inglese di collegamento con il CLNAI che al momento dell’arresto di Mussolini, fece presente ai dirigenti ciellenisti che loro potevano disporre della sorte del Duce fino all’arrivo delle truppe alleate e conseguente amministrazione AMG. Praticamente un sottile invito ad eliminarlo alla svelta. Per l’esecuzione di Mussolini, invece, il De Felice indicò un gruppo di partigiani comunisti milanesi.
Molti hanno ampliato questo ruolo degli inglesi, ipotizzando dei misteriosi killers, agenti segreti di sua Maestà, a Bonzango, ma oltre a non avere alcuna prova in merito, costoro non considerano che, a meno non ci fossero stati portati dagli stessi partigiani che avevano in mano il Duce, non era certo facile per gli inglesi, individuare in poche ore il nascondiglio segreto dove, forse prima delle 5, era stato nascosto il Duce ed arrivarci senza determinare la reazione armata dei due custodi.
In ogni caso il nipote di Renzo De Felice, lo storico Alessandro De Felice ha rivelato che un giorno imprecisato tra il novembre del 1989 e la primavera del 1990, presso la Fondazione Feltrinelli, ebbe una fugace confidenza dall’allora senatore Leo Valiani che gli raccontò, pregandolo poi di non farne menzione, quanto segue: <<La morte di Mussolini deve rimanere un mistero. Ed è meglio che sia così…, Londra ha suonato la musica, ed il PCI è andato a tempo!>> (A. De Felice: “L’assassinio di Mussolini i documenti scomparsi e il ruolo di Dowing street”, CSS Catania).
Oggi che sappiamo che il Valiani, oltre che membro del Comitato Insurrezionale antifascista era anche un “agente” in servizio del SOE, la sua confidenza assume uno spessore notevole.
Acquisito quindi un  ruolo di “ispiratori” e “promotori”, se vogliamo “mandanti” da parte dei britannici per l’uccisione del Duce, occorre però aggiungere che tutta questa strategia omicida è comunque molto più ambivalente di quanto possa sembrare.
L’immediatezza di una esecuzione del Duce, infatti, pur desiderata dagli inglesi, se necessaria e inevitabile, per non correre rischi o avere complicazioni, nel caso lo avessero preso i partigiani (come infatti è poi accaduto), forse non era opportuna se invece fosse finito in mano alle loro Special Force. In questo caso gli inglesi lo avrebbero sicuramente ucciso, ma non prima di averlo interrogato assieme alla Petacci, perchè la sua morte immediata poteva risultare una complicazione che avrebbe costretto, come costrinse, gli inglesi e Churchill in particolare a darsi da fare fin verso la metà degli anni ’50 per recuperare ogni carta compromettente.
Sappiamo per certo che il 10 maggio 1945, Churchill scrisse al Feldmaresciallo H. Alexander in Italia, per invitarlo ad ordinare una inchiesta sulle morti di Mussolini e della Petacci. L’esecuzione della donna la definì proditoria e codarda. Ora il fatto che Churchill, che in altra precedente occasione, si era rallegrato che il “bestione” (come lo definì) finalmente era morto, se la prendesse tanto, fa sospettare proprio che erano stati infranti dei patti e degli accordi precedentemente presi, con gravi complicazioni per il recupero programmato dei preziosi documenti.
In questo senso è anche alquanto importante la testimonianza riportata nel libro “Confesso che mi sono divertito”, T.Pironti editore, 2007, scritto da Maurizio Valenzi, ebreo italo tunisino, già sindaco di Napoli e ex senatore del PCI, morto a 99 anni. Valenzi era giunto a Napoli alcuni mesi prima dell’arrivo di Togliatti (marzo 1944), al fine di mettere in piedi l’organizzazione logistica del PCI, di fatto garantita e finanziata dai Servizi inglesi (tramite il capitano Renè MacKey, amico di vecchia data). Ebbene, nel 1994 Valenzi ritrova MacKey, arrivato all’età di 93 anni. Renè gli mostra un foulard di seta verde con la scritta credere obbedire combattere, e gli racconta che lo trovò nella casa di Giulino di Mezzegra ventiquattro ore dopo l’esecuzione di Mussolini e la Petacci. Significativamente gli dice: <<Peccato, noi inglesi li volevamo vivi. In compenso sono tornato a Londra con un baule colmo di documenti>>.
Considerando tutto questo è quindi molto probabile che quella mattina del 28 aprile 1945 a Bonzanigo nella casa dei contadini De Maria, dove Mussolini e la Petacci erano nascosti, giunsero alcuni partigiani comunisti che entrarono a brutto muso nella camera dei prigionieri, ne conseguì un trambusto, l’imprevisto del ferimento del Duce e la conseguente sua soppressione nel cortile dello stabile. Importanti testimonianze (soprattutto quella di Dorina Mazzola di Bonzanigo e quella di Savina Santi, la vedova di Guglielmo Cantoni, Sandrino uno dei guardiani del Duce in casa dei De Maria a Bonzanigo) e rilievi dinamico balistici, sul vestiario, ecc., concordano su questa dinamica, confermata indirettamente anche dal fatto che si dovette poi allestire una messa in scena, con tanto di finta fucilazione di due cadaveri davanti allo storico cancello di Villa Belmonte per “aggiustare” e presentare al meglio una esecuzione in “nome del popolo italiano”.
Gli inglesi, impegnati nella ricerca delle documentazioni e del Duce stesso, furono preceduti e dovettero accettare le modalità di quella morte sbrigativa, del resto da loro stessi ispirata.
GLI AMERICANI
La favoletta degli americani impegnati a catturare Mussolini da vivo è inattendibile. Il modo di procedere degli americani fu del tutto superficiale. Essi avevano alcune missioni impegnate nella ricerca del Duce, tra le quali la più vicina ai luoghi interessati era quella del capitano Emilio Daddario giunto appositamente dalla Svizzera. E proprio il Daddario, guarda caso considerato un elemento non certo campione di efficienza, era stato incaricato di arrestare il Duce. Ebbene il tardo -pomeriggio del 27 aprile l’americano se la prese comoda, procedendo prima a recuperare il maresciallo Graziani arresosi a Cernobbio, poi accettò a Como la resa del generale tedesco Hans Leyers e dei suoi uomini. Quindi trasportato Graziani a Milano firmò anche, a notte inoltrata, il famoso lasciapassare in inglese per Walter Audisio, alias colonnello Valerio, incaricato dal CVL di recarsi a Dongo per prelevare Mussolini e gli altri fascisti prigionieri. In pratica, lento pede Daddario si mosse talmente male da far venire il sospetto che, in realtà avesse ben altre segrete disposizioni.
Scrive lo storico Alessandro De Felice nel suo “Il gioco delle ombre” già citato:
<<“Daddario non fece alcuno sforzo per cercare Mussolini: gli ordini che aveva ricevuto da Dulles, in combutta con Wolff, non erano di catturare l’ex dittatore, ma di lasciarlo prendere dai partigiani. Finito questo bel lavoro, Wolff rientrò a Bolzano, passando per la Svizzera”>>.
Ed ancora, A. De Felice, espone meglio tutta la situazione:
<<...è necessaria una premessa legata alla caccia anglo-americana verso il Duce: la sua morte è uno dei primi esempi di operazioni sporche che caratterizzano le azioni dello spionaggio stile Cia (anche se qui, nel caso della soppressione fisica del Duce e della Petacci, trattasi dell’intelligence britannico) nel ventesimo secolo. Tre diverse unità si lanciano alla ricerca dell’ex Presidente del Consiglio fascista.
La prima è la 34ª Divisione Usa – unità celere - guidata dal Generale Browne Bolty e diretta a Como. Vi è poi una seconda unità formata da ex-fascisti passati agli ordini del governo monarchico del Sud ed organizzata dal Luogotenente di Cadorna a Como, Colonnello barone Sardagna. A Lugano Donald Jones dell’Oss, appresa la notizia dell’arresto di Mussolini, ordina a due suoi agenti di andare immediatamente a Como per il trasferimento dei poteri al CLN e per prendere in custodia il Duce, ammesso, e non concesso, che Allen Dulles volesse veramente vivo il leader repubblicano-sociale e non fosse, invece al servizio a sua volta dell’intelligence britannica interessata alla soppressione fisica dell’ex-dittatore socialrivoluzionario italiano.
I due agenti dell’Oss sono il Capitano Giovanni Dessy... e Salvatore Guastoni.
Vi è una terza unità comandata dal Maggiore Usa Albert William Phillips del C.I.C. (Counter Intelligence Corps), che arriva a Como la notte del 27 aprile ’45 con il compito militare, avuto dalla Vª Armata, di prendere Mussolini vivo. Vi è un altro agente del Cic, John MacDonough, che è un emissario della 1ª Divisione corazzata americana, il quale manda a Sardagna un messaggio volto a trasferire Mussolini a Blevio, un paesino della riva orientale del lago poco distante da Como. “Quella sera, al posto di confine di Chiasso, il maggiore Phillips ricevette l’ordine di attendere l’arrivo di altri ufficiali dell’OSS e del CIC da Lugano, ma alle 21, quando arrivarono, costoro gli dissero, forse intenzionalmente ingannandolo, che Mussolini era già stato catturato e che ormai lo stavano trasportando a Milano” (P. Tompkins, Dalle carte segrete del Duce. In Momenti e protagonisti dell’Italia fascista, National Archives di Washington, M. Tropea Editore, Milano, 2001)>>.
Se poi consideriamo il modo di operare di Guastoni a Como, vi troveremo la stessa strana analogia riscontrata con lento pede Daddario: il Guastoni perde parte della giornata del 26 aprile e tutta la notte successiva a mediare una resa dei fascisti disinteressandosi di Mussolini, come se più che altro la sua preoccupazione fosse quella di evitare che il Duce, isolato a Menaggio, possa ricongiungersi con i suoi uomini rimasti a Como. A dimostrazione di questo basta leggere alcuni stralci di “La cronaca degli avvenimenti che condussero alla cattura di M.” scritto il 1 maggio 1945 proprio da Giovanni Dessy e reperibile presso il National Archives and Records Administration. Scrisse il Dessy nella sua relazione, riferendosi ai noti avvenimenti del 26 aprile a Como che portarono alla ignobile resa dei comandanti fascisti presenti in città:
<<... il dottor Guastoni si mise immediatamente in contatto con il vice console americano per sondare il punto di vista degli Alleati (...). Da una parte quindi vi era l’assoluta necessità di bloccare le forze fasciste che erano ancora padrone della situazione perché erano ancora più numerose e con armi migliori (...). Nello stesso tempo, era assolutamente necessario impedire a tutte le forze delle Brigate Nere, che stavano convergendo su Como di arrivare nella zona di Menaggio (...) .ottenere la smobilitazione e il disarmo di tutte le forze fasciste radunate a Como o in arrivo, così da prevenire la formazione di un gruppo di forte resistenza attorno a Mussolini (...).
Questi erano i veri intenti che avevano gli agenti americani, altro che catturare Mussolini vivo!
Marino Vigano, valente ricercatore storico, preciserà:
<<Per di più, a Jones (Donald Jones viceconsole a Lugano, n.d.r.), vennero date istruzioni di "stare alla larga dal Duce>> (M. Viganò “Mussolini, i gerarchi e la <fuga> in  Svizzera 1944-‘45”, in Nuova Storia Contemporanea N. 3 - maggio giugno 2001).
Da quanto riportato traspare quindi un ambiguo operare degli americani: ufficialmente le loro missioni si muovevano per catturare Mussolini vivo, ma in realtà dietro evidenti ordini segreti dell’ultimo minuto, lasciavano campo libero a chi voleva ucciderlo immediatamente.
Oltretutto alcuni ritengono che anche gli americani erano alla caccia di Mussolini per sopprimerlo alla svelta e forse furono proprio i loro agenti ad ucciderlo.
Questa ipotesi nasce dal fatto che le scottanti documentazioni in mano al Duce contenevano anche una parte importante di carteggio tra Mussolini e F. D. Roosevelt. Effettivamente Mussolini nella seconda metà degli anni ’30 aveva cercato approcci in tutte le direzioni, al fine di mantenere uno stato di equilibrio in Europa  che gli consentisse di perseguire i propri disegni geopolitici. In una certa ottica anti inglese, anche gli Stati Uniti, dove tra l’altro vivevano moltissimi immigrati italiani che avevano un loro peso, potevano essere utili a questa strategia. Ma Roosevelt non era altro che una pedina in mano a precise consorterie d’alta finanza, che miravano al dominio mondiale e quindi questa carta si vanificò ben presto, anzi l’americano diede avvio, con ogni mezzo ed enormi sovvenzioni, alla ricerca atomica per fini esclusivamente bellici e nel 1939 realizzò anche il famoso gigantesco piano di riarmo “sui due oceani” con chiari scopi guerrafondai. Quindi scheletri negli armadi Roosevelt ne aveva eccome, anche se forse non della stessa dirompente importanza di quelli di Churchill (del resto Roosevelt era poi morto quindici giorni prima di Mussolini).
Sul ruolo diretto degli americani nella morte del Duce, per la serietà dello studioso e per la gran messe di notizie, aneddoti e informazioni di cui è in possesso,  occorre accennare alla tesi formulata dallo scrittore, saggista e già presidente dell’Istituto di studi poundiani, professor Antonio Pantano.
Secondo Pantano nella morte di Mussolini ci entrò l’Oss di J. J. Angleton, anche su imput del pro-segretario di Stato Vaticano monsignor Giovanni Battista Maria Montini «assecondato dal suo fido Togliatti» (vedesi: A. Pantano: Ezra Pound e la Repubblica Sociale Italiana, Ed. Pagine, 2009, e A. Bertotto: Mussolini ucciso dagli 007 americani?, Rinascita 7 giugno 2008).
Effettivamente i veri ruoli del futuro Papa, uomo vicino ad ambienti d’Alta Finanza statunitense e di Togliatti (al servizio di Mosca, ma con i piedi in due staffe in virtù di particolari intese con gli inglesi), devono ancora essere denunciati dagli storici e quindi la tesi di Pantano non è poi tanto peregrina. Del resto J. J. Angleton, capo del controspionaggio USA in Italia, si serviva della rete d’informazioni che aveva messo in piedi la Santa Sede, un servizio d’Intelligence che in quegli anni era diretto dal «pio» monsignor G. B. M. Montini.
Ma anche qui, come per gli inglesi, per una esecuzione diretta di Mussolini da parte di agenti americani, le prove, inghiottite negli archivi Anglo – Usa – Vaticani, non si trovano e più che delle ipotesi non possiamo fare.
Interessante infine l’acuta osservazione di Antonio Pantano: a Piazzale Loreto i CombatFilm (il LUCE degli USA) profuse circa 12 cineprese (i famosi operatori Houston, Wyler, Capra, Hitchcock, Visconti assistente). Ebbene, le installazioni e i "tralicci/piattaforme" elevati furono predisposte dalla sera precedente. Ergo gli americani ben sapevano che Mussolini morto ammazzato sarebbe stato portato in Piazzale Loreto e si premunirono, come al solito, per le documentazioni - spettacolo che erano usi imbastire.

martedì 12 novembre 2019

IL MASSACRO DI KATYN

IL MASSACRO DI KATYN





di Maurizio Barozzi

A nessuno piace sentirsi parte di partiti o governi criminali e così molti “compagni” si aggrappano a tesi farlocche.
Girano, infatti, tesi che cercano con ogni mezzo di addebitare questo massacro ai tedeschi, utilizzando buona parte delle “prove falsificate” già a suo tempo usate dai sovietici e riciclate per palati di bocca buona.
Ma si tratta di una farsa storica, laddove oltretutto i tedeschi che pur hanno compiuto rappresaglie e repulisti etnici a sfondo razziale, non avevano alcuna necessità di un genocidio del genere, mentre invece i sovietici anche in altre regioni si erano sempre distinti in opere di “repulisti” soprattutto di intellettuali, ufficiali e rappresentanti della borghesia locale, al fine di garantirsi la “sovietizzazione del paese da loro invaso.
Tra le migliaia di ufficiali polacchi uccisi, vi erano 7000 soldati della riserva che nella vita civile erano laureati, professionisti e dirigenti, cioè costituivano quella élite intellettuale e sociale che il regime comunista sovietico considerava “nemica di classe”.
Nella prefazione del libro del prof. Victor Zaslavsy, università Luiss di Roma: “PULIZIA DI CLASSE”, ed, Il Mulino 2006 si sostiene:
«"Intorno al massacro di Katyn la propaganda staliniana realizzò, non senza la complicità dei politici e degli storici occidentali, una gigantesca operazione di falsificazione, occultamento e rimozione della verità che non ha paragone nella storia contemporanea. I sovietici cercarono di addossare la colpa dell'eccidio alle truppe tedesche, creando una propria che diffusero grazie a una potente macchina di propaganda, mobilitando tutti i sostenitori e i simpatizzanti all'estero. Fino al crollo dell'Unione Sovietica lo storico che rifiutava questa versione era sospettato, quando non accusato, di sminuire o addirittura negare i crimini nazisti."».
Oggi la Storia ha dovuto prendere atto delle responsabilità sovietiche, e le Enciclopedie di ogni paese hanno dovuto riconoscerle. Inevitabilmente anche la Enciclopedia on line Wikipedia si è dovuta adeguare.
Katyn, infatti, fu una esecuzione di massa, da parte dell'NKVD sovietica, di soldati, soprattutto ufficiali polacchi, ma anche civili polacchi che complessivamente riguarda 21.857 cittadini, prigionieri di guerra dei campi di Kozel'sk, Starobil'sk e Ostaškov e i detenuti delle prigioni della Bielorussia e Ucraina occidentali, fatti uccidere su ordine di Stalin nella foresta di Katyn' e nelle prigioni di Kalinin, Char'kov e di altre città sovietiche.
Quelli uccisi nella foresta di Kathyn vennero scoperti dai tedeschi e denunciati il 13 aprile 1943 e furono sottoposti alla ispezione di una commissione internazionale.
La responsabilità sovietica del massacro apparve evidente, tanto che alcuni membri del governo polacco in esilio a Londra, si rifiutarono per ogni eventuale azione di guerra comune con i sovietici.
I sovietici negarono per anni la loro responabilità, contro ogni evidenza, fino al 1990, quando riconobbero l'NKVD come responsabile del massacro e della sua copertura.
Persino Winston Churchill espresse in privato l'opinione che le atrocità erano state probabilmente compiute dai sovietici, ma al contempo rassicurò i russi: «Dobbiamo sicuramente opporci vigorosamente a qualsiasi "investigazione" da parte della Croce Rossa Internazionale o di qualsiasi altro organo»
Nel 1944 Franklin D. Roosevelt incaricò il capitano George Earle, suo emissario speciale nei Balcani, di raccogliere informazioni su Katyń.
E anche Earle concluse che l'Unione Sovietica era colpevole, ma Roosevelt per esigenze belliche ordinò la soppressione del rapporto di Earle, impedendo anche con un ordine scritto allo stesso Earle di pubblicare le sue indagini.
Nel 1951-‘52, un'indagine del Congresso statunitense chiuse ogni indagine e concluse che i polacchi erano stati uccisi dai sovietici.
A guerra appena conclusa i sovietici, con pressioni facilmente comprensibili, raccolsero alcune false confessioni di tedeschi prigionieri che si accusarono dell’eccidio, ottenendo la permuta a 15 anni di lavori forzati invece della esecuzione. Alcune confessioni però erano piene di assurdità, rasentando il ridicolo e quindi non furono usate a Norimberga.
La rivelazione della verità
Nel 1989 studiosi sovietici rivelarono che Stalin aveva effettivamente ordinato il massacro; nell'ottobre 1990 Michail Gorbačëv porse le scuse ufficiali del suo paese alla Polonia, confermando che l'NKVD aveva giustiziato i prigionieri e rendendo nota l'esistenza di altri due luoghi di sepoltura simili a quello di Katyń: Mednoe e Pjatichatki.
Che Gorbaciov fosse un infame liquidatore della eredità sovietica era vero, ma in qusto caso la verità in Russia si era già fatta strada fin dai tempi di Brezniev.
Finalmente nel 1992 alcuni funzionari russi rilasciarono documenti top secret del «Plico sigillato n. 1». Tra questi vi erano: la proposta del marzo 1940, di Lavrentij Berija, di passare per le armi 25.700 polacchi dei campi di Kozelsk, Ostashkov e Starobels e di alcune prigioni della Bielorussia e dell'Ucraina occidentali, con la firma (tra gli altri) di Stalin; estratti dell'ordine del Politburo del 5 marzo 1940; e una nota di Aleksandr Šelepin a Nikita Chruščëv del 3 marzo 1959, con informazioni sull'esecuzione di 21.857 polacchi e con la proposta di distruggere i loro archivi personali.
Il 22 marzo 2005 la Camera dei deputati della Polonia approvò all'unanimità un atto con il quale richiedeva che sugli archivi russi venisse tolto il segreto.
Nel 2007 con regia di Andrzej Wajda e produzione dell’ Akson Studio, Istituto Polacco di Roma, Consolato Generale della Repubblica di Polonia in Milano, venne prodotto un film “KATYN, che cerco di attenersi ai fatti reali narrando la storia di 22.000 ufficiali dell’esercito polacco, sterminati con un colpo alla nuca e seppelliti in fosse comuni nella foresta di Katyn dai soldati sovietici dell’Armata Rossa che avevano invaso la Polonia.
Nel 2010, finalmente, il governo russo accolse parzialmente la richiesta polacca, mettendo online i documenti oramai già noti.


                                                                                                                                             

giovedì 7 novembre 2019

3 SETTEMBRE 1939: INIZIAVA COSI’ LA SECONDA GUERRA MONDIALE


STORIA 2009

3 SETTEMBRE 1939: INIZIAVA COSI’ LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Francia e Gran Bretagna responsabili della morte dell’Europa

Con le dichiarazioni di guerra degli Imperi francesi e britannico alla Germania del 3 settembre 1939, il Vecchio Continente sprofondava in quello che passò alla storia come il Secondo conflitto mondiale.
Tuttavia, questa data è stata rimossa dai manuali di storia, intenti ad attribuire al Reich la deliberata volontà di scatenare una guerra planetaria dagli esiti apocalittici. E, infatti, oggi nessuno mette in discussione la data del 1° settembre 1939 come data di inizio del quel conflitto.
Ma cosa accadde veramente questo giorno?
Prima ci tolleri il lettore una breve “retrospettiva”. Dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale, la Germania – come gli altri Stati sconfitti – venne duramente punita. La Pace di Versaglia, che provocherà un’instabilità tale da condurre a un secondo conflitto, venne studiata appositamente per garantire l’egemonia dei due Imperi-guida che avevano trionfato, anche a scapito dell’Italia che della coalizione vincente faceva parte.
Francia e Gran Bretagna decisero di punire la Germania e, tra le varie vessazioni imposte al Reich sconfitto, vi fu quella della costituzione della Libera Città di Danzig (Danzica) che de iure spezzava in due la continuità geografica della Germania e de facto permetteva l’incunearsi della Polonia in territorio tedesco, fino al Mar Baltico (all’epoca la Polonia era uno Stato continentale e non aveva accessi al mare).
Il ritorno alla Madre Patria di Danzig fu sempre nell’agenda di tutti i Governi germanici, ma la debolezza dello Stato tedesco e l’incapacità degli “amministratori” della Repubblica di Weimar frustrarono ogni ipotesi di “ritorno”.
Le cose cambiarono con l’avvento al potere del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi, i cui sostenitori si diffusero massicciamente in tutti i territori irredenti del Reich.
Anche a Danzig (95% di popolazione di origine germanica) i nazionalsocialisti ottennero la maggioranza e si schierarono compattamente per il ritorno alla Madre Patria.
Nel 1938, un referendum condotto sotto controllo di osservatori neutrali della Confederazione Elvetica confermò in maniera schiacciante – se ce ne fosse stato il bisogno – il desidero della città tedesca di riunirsi al Reich.
Danzig irredenta per i Germanici divenne un simbolo, come Trieste irredenta lo era stata per gli Italiani.
Ma Francia e Gran Bretagna, che ostacolavano il sorgere della potenza “concorrente”, fecero blocco e si schierarono nettamente contro ogni mutamento dei confini imposti alla Germania dal Trattato di Versaglia.
Nell’ottobre 1938, Hitler chiese palesemente alla Polonia la restituzione di Danzig, ma il Governo polacco, nel timore di perdere il suo unico accesso al mare e forte dell’appoggio internazionale, rifiutò sdegnosamente tutte le offerte germaniche.
Le reiterate proposte tedesche e i continui rifiuti del Governo polacco fecero comprendere che per salvaguardare i diritti del popolo di Danzig l’unica soluzione doveva essere affidata alle armi.
Nell’agosto 1939, il Reich concluse un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica, il cui obiettivo era quello di neutralizzare il forte esercito della Polonia con un duplice attacco: da oriente e da occidente. L’URSS, come pegno per il suo intervento, si assicurava addirittura i 2/3 dell’intero territorio polacco!
Il Governo della Polonia, consapevole della situazione, ma ancora sicuro di poter giocare le sue carte, proclamò la mobilitazione generale, respingendo anche l’ultima “ragionevole proposta” – come venne definita dalla Gran Bretagna – della Germania.
Stanche di pazientare e provocate dall’atteggiamento intransigente dei Polacchi, il 1° settembre, le Divisioni tedesche e un contingente della Repubblica Slovacca attaccarono.
Il 3 settembre 1939, Francia e Gran Bretagna utilizzarono questo conflitto “locale” per dichiarare guerra alla Germania, sapendo benissimo di scatenare una guerra mondiale.
Le alte probabilità che nel conflitto potesse essere coinvolta anche l’Italia – legata al Reich dal Patto di Acciaio – fanno ipotizzare che i due Imperi francesi e britannico volessero liquidare non solo la potenza continentale tedesca, ma anche quella italiana, la cui espansione marittima nel Mediterraneo e coloniale in Africa turbavano e irritavano le diplomazie dei due Governi democratici.
Del resto, Francia e Gran Bretagna decisero di attaccare solo la Germania e non l’URSS le cui Armate, dal 17 settembre, “scorazzavano allegramente” in territorio polacco.
Che la “difesa” della Polonia fosse stata solo un pretesto per scatenare una guerra mondiale in funzione anti-germanica e anti-italiana è dimostrato dal fatto che, quando l’URSS richiese formalmente di inghiottire nella sua zona di influenza tutta l’Europa orientale – compresa la Polonia – le “candide vestali” della democrazia britannica e francese accondiscesero al progetto, tradendo altresì i soldati dell’Armata polacca che combattevano valorosamente al loro fianco in Italia nella speranza di tornare un giorno nella loro Polonia, libera da ogni straniero.
La Seconda Guerra Mondiale arriverà ben presto a coinvolgere il Giappone, che nella sua espansione stava travolgendo gli interessi franco-britannici in Asia. Si ricordi che l’Impero del Sol Levante era in guerra “locale” con la Cina fin dal 7 luglio 1937. Strano che anche questa data non venga utilizzata come data di inizio del Secondo conflitto…
Francia e Gran Bretagna fecero molto male i loro conti. L’esercito francese – il più forte del mondo nel 1940 – venne travolto dalle Divisioni corazzate del Reich con una rapidità impressionante, mentre quello inglese – che vantava la Marina da guerra più forte del mondo – dovette ben presto chiedere aiuto ai “cugini” statunitensi.
L’entrata in guerra degli USA – che da tempo aspiravano a un conflitto mondiale per far rientrare la crisi decennale, per eliminare la minaccia giapponese e imporsi come Stato-guida – determinò la svolta.
A essere travolte dallo schiacciante strapotere statunitense, però, non furono solo le Armate dell’Asse, ma anche i sogni di gloria britannici (quelli francesi, orami, erano sepolti da un pezzo).
L’Inghilterra si troverà così a vincere una guerra sapendo di averla persa politicamente.
Questo declinò porterà con sé il crollo dell’intera Europa, oggetto della duplice occupazione sovietico-americana. Quell’occupazione a cui ancor oggi è costretta e che ha la sua chiara espressione nelle centinaia di basi militari statunitensi sparse in tutto il Vecchio Continente e nella farsa delle guerre “umanitarie” per l’“esportazione della democrazia”.

Pietro Cappellari
Ricercatore
Fondazione RSI
Istituto Storico