martedì 24 maggio 2022

I FRANCHI TIRATORI DI FIRENZE

 
TRECENTO FRANCHI TIRATORI FASCISTI, ARROCCATI SU QUATTRO SUCCESSIVE LINEE DIFENSIVE, BLOCCANO L’ AVANZATA NEMICA SU FIRENZE E RITARDANO DI DUE SETTIMANE LA TOTALE OCCUPAZIONE DEL CAPOLUOGO TOSCANO RESTANDO QUASI TUTTI UCCISI.

(Vero eroismo !  Non li dimenticheremo mai !  Restano nei nostri cuori !)


L’11 agosto 1944 Firenze venne occupata dall’invasore angloamericano perché era stata sguarnita dai nostri soldati che si stavano attestando su di una linea di fronte più a settentrione. Ma vi si resistette con caparbietà, con audacia e con onore. I franchi tiratori, immortalati anche grazie a La pelle di Curzio Malaparte, dimostrarono che la città di Pavolini, il capoluogo di quel Granducato di Toscana, come sarebbe stata definita la RSI per la grande partecipazione che la regione di Dante diede alla Repubblica, non sarebbe caduta senza colpo ferire. Centinaia di fiorentini di ambo i sessi e di tutte le età spararono dalle finestre, dai tetti, dagli angoli delle strade, inchiodando al suolo il nemico e le bande partigiane al suo seguito. Non avevano alcuna speranza di sopravvivenza perché, una volta presi, sarebbero stati fucilati. Gli ultimi soldati ad abbandonare il capoluogo toscano provarono a convincere i franchi tiratori più vicini a mettersi in salvo con loro. “La consegna – risposero – è quella di morire sul posto”. E così fecero. 

Apprendiamo con gioia che Casaggi e CasaPound Firenze hanno reso onore a questi eroi e che oggi stesso sarannno deposti fiori sulle loro tombe. 
I figli e i nipoti della vergogna sono invece insorti perché non vorrebbero affatto che quel fulgido esempio venisse ricordato: la grandezza è mal sopportata, e con astio, dai piccoli e dai mediocri. 
Il generale Alexander già a suo tempo aveva risposto in modo più che esauriente a questi infelici. “La città italiana che preferisco? Firenze. Perché lì gli italiani ci hanno accolti sparandoci addosso”. 


Giovani che si opposero dai tetti della città all’avanzata delle truppe americane e che avevano aderito alla RSI solo per una questione ideale e per salvaguardare l’onore dell’Italia già gravemente macchiato dall’onta dell’8 settembre 1943. Una scelta disinteressata, spesso presa nella consapevolezza che avrebbe significato morte certa, a guerra ormai irrimediabilmente compromessa. Una scelta coraggiosa che dall’altra parte della Linea Gotica avevano fatto soltanto quegli antifascisti della prim’ora, che avevano scelto di opporsi al Regime Fascista nel momento di suo massimo splendore ed ai quali si aggiunse poi un’ondata di antifascisti dell’ultim’ora a cose ormai fatte, composta per lo più da persone che, magari, fino al 24 luglio 1943 salutavano festanti ed a braccia tese nel corso delle adunate fasciste.


I giovani fascisti assassinati davanti alla Chiesa di Santa Maria Novella ebbero il compito di bloccare le truppe anglosassoni alle porte della città lasciando il tempo ai reparti della RSI e dell’esercito tedesco di assestarsi sulle colline a nord di Firenze. Un compito ingrato perché era chiaro che nessuno di loro avrebbe avuto via di fuga. Un sacrificio che se non fosse stato per Curzio Malaparte sarebbe totalmente passato inosservato e che, comunque, è caduto per decenni nell’oblio che la storia riserva ai vinti. Al di là delle questioni ideologiche e di parte abbiamo ritenuto che sia un dovere mantenere la memoria di persone capaci di sacrificare la propria vita per un ideale che ritenevano giusto e per l’onore della propria Nazione. 

CADAVERI DI ALCUNI FRANCHI TIRATORI FUCILATI 
SUL SAGRATO DI SANTA MARIA NOVELLA

I FUCILATI DI FIRENZE (da LA PELLE di Curzio Malaparte) 

I ragazzi seduti sui gradini di S. Maria Novella, la piccola folla di curiosi raccolta intorno all’obelisco, il capo partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa, coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffè della piazza,la squadra di  partigiani comunisti ,armati di mitra e allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l’uno sull’altro, parevano dipinti da Masaccio nell’intonaco dell’aria grigia. Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso, tutti tacevano, immoti, il viso rivolto tutti dalla stessa parte. Un filo di sangue colava giù per gli scalini di marmo. 

I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. 

C’era anche una ragazza fra loro: giovanissima, nera d’occhi, e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine. 

Quando avemmo udito gli spari, eravamo a metà via della Scala, presso gli Orti Oricellari. Sboccati sulla piazza, eravamo andati a fermarci ai piedi della gradinata di Santa Maria Novella, alle spalle del partigiano seduto davanti al tavolino di ferro. 

Al cigolio dei freni delle due jeep, il partigiano non si mosse, non si voltò. Ma dopo un istante tese il dito verso uno di quei ragazzi, e disse: 

– Tocca a te. Come ti chiami? 

– Oggi tocca a me – disse il ragazzo alzandosi – ma un giorno o laltro toccherà a lei. 

– Come ti chiami ? 

– Mi chiamo come mi pare… 

– O che gli rispondi a fare a quel muso di bischero, gli disse un suo compagno seduto accanto a lui. 

– Gli rispondo per insegnargli l’educazione, a quel coso – rispose il ragazzo, asciugandosi col dorso della mano la fronte madida di sudore. Era pallido, e gli tremavano le labbra. Ma rideva, con aria spavalda guardando fisso il capoccia partigiano. 

A un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro ridendo. 

Parlavano con l’accento popolano di San Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo. 

il capoccia partigiano alzò la testa e disse: 

– Fa presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te. 

– Se gli è per non farle perdere tempo – disse il ragazzo con voce di scherno – mi sbrigo subito – 

E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato. 

– Bada di non sporcarti le scarpe ! – gli gridò uno dei suoi camerati, e tutti si misero a ridere. 

Ma in quell’istante il ragazzo gridò: – Viva Mussolini ! – e cadde crivellato di colpi .



11 Agosto 1944,  Gli inglesi ed i partigiani del C.T.L.N. entrano vittoriosi nel capoluogo toscano dopo un mese di combattimenti. Combattimenti che Churchill ed i tedeschi avrebbero volentieri evitato, ma che invece vollero ad ogni costo i partigiani. Ma durante la “battaglia di Firenze” emerse un nuovo originale fenomeno, quello dei cosiddetti “franchi tiratori”, per molti organizzati da Alessandro Pavolini in persona, per altri autentico “fenomeno” popolare voluto da quei ragazzi che, impossibilitati ad arruolarsi nelle milizie della RSI per motivi anagrafici (i più avevano tra 14 e 16 anni), scelsero un modo tutto loro per contribuire a difendere la loro Firenze e l’idea sotto la quale erano nati e cresciuti. Che abbiano combattuto dalla parte sbagliata? Può darsi… Ma questo non può servire a definire questi baby-martiri dei “terroristi”, come la storia dei vincitori ha fatto fino ad oggi. Ecco perchè, nella speranza di una sempre più auspicabile pacificazione nazionale, è giusto ricordare anche questi martiri delle guerra più sanguinosa della storia. 



I tedeschi avrebbero voluto dichiarare Firenze “città aperta” e questo andava bene anche al primo ministro britannico Winston Churchill che si era detto pronto a fare di tutto pur di “distruggere Firenze il meno possibile”. La bellezza della nostra città infatti non era seconda neppure alla guerra. Ed anche gli uomini ormai assetati solo di sangue che si trovavano a scrivere il destino delle ultime drammatiche ore della guerra più sanguinosa della storia, non potevano restare immuni di fronte a tanta bellezza. 


E questa decisione del C.T.L.N., che indubbiamente aveva i propri obiettivi (occupare le sedi istituzionali prima degli inglesi), fece sì che anche Firenze vivesse una propria battaglia culminata nella giornata dell’11 agosto quando si stima, caddero quasi 700 fiorentini, tra civili, partigiani e militari. Una tragedia che forse si sarebbe potuta ampiamente evitare. Ma la storia non la si racconta con i “se” e con i “ma” e questo è quanto accadde. 
Ma Firenze in quei giorni si distinse anche per un “fenomeno” assolutamente anomalo ed originale. Mano a mano che i partigiani e le orde anglamericane avanzavano nella conquista di Firenze ed i tedeschi si ritiravano verso nord, emerse una nuova forma di “resistenza” tutta fiorentina con la quale partigiani e nemici dovettero fare i conti. 

Molti ragazzini, di età compresa tra 14 e 18 anni, nati e cresciuti sotto il regime fascista chiesero, venendo rifiutati logicamente, di poter aderire ai reparti militari della RSI per difendere Mussolini fino alla fine. Non ci dimentichiamo che Firenze era la città di Alessandro Pavolini, giovanissimo Podestà prima e Segretario Nazionale del Partito Fascista Repubblicano, nonchè capo delle Brigate Nere, poi, autentico mito per i giovanissimi formatisi nelle scuole fasciste. 
E questi bambini (perchè quello si era a 14 o 15 anni ad inizio secolo) che non poterono seguire Pavolini e Mussolini a Salò decisero di dare il proprio contributo alla causa alla loro maniera ed imbracciato un fucile (spesso recuperato dal cadavere di qualche soldato o di qualche partigiano trovato nelle campagne attorno a Firenze) si assieparono sui tetti dei palazzi di Firenze in attesa che partigiani e NEMICI USA entrassero in città per poi sparargli addosso con l’obiettivo, tanto folle quanto assurdo, di difendere il capoluogo toscano. Furono i cosiddetti “Franchi Tiratori” ai quali lo storico gruppo musicale degli Amici del Vento, a suo tempo, aveva dedicato l’omonima ballata. 

Su questi ragazzi, simili per certi versi agli adolescenti che difesero Berlino nelle drammatiche ore della caduta del Reich, tanto è stato detto e scritto, ma purtroppo quasi sempre con l’occhio dei vincitori. Si è parlato di loro come di “terroristi” o come di assassini. Si è detto che fossero squadracce organizzate da Pavolini in persona ed addestrate ad uccidere da grande distanza. Si è detto addirittura che alcuni di loro fossero provenienti da reparti in rotta di Waffen-SS. Quanto di questo sia vero e quanto frutto di fantasia non si può stabilire. Una cosa è certa, l’età di questi ragazzi e la loro provenienza: tutti o quasi fiorentini, figli del popolo, di età compresa tra 14 e 18 anni, con qualche picco oltre i 20. Quando venivano catturati nessuno mosse loro un dito a pietà. Nessuno si commosse per la giovanissima età. catturati venivano consegnati nelle mani del C.T.L.N. che, etichettandoli appunto come “terroristi” o come “uomini di Pavolini”, non indugiava a passargli per le armi. 
Furono le giornate del 10 agosto e dell’11 agosto le più sanguinose. Decine e decine di giovanissimi incolonnati per le vie di Firenze (qualcuno ebbe a dire che “parevano gite di scolari forestieri venuti a vedere le bellezze di Firenze…”) venivano condotti dai partigiani nei luoghi dove sarebbero poi andate in scena le esecuzioni. ASSASSINATI. Quattordici o trent’anni in quel momento era uguale. L’umana pietà aveva lasciato ormai posto soltanto all’odio e alla sete di vendetta. 


I BOMBARDAMENTI DEI NEMICI AMERICANI NON HANNO NEMMENO PRESO  
NELLA PIU’ LONTANA  CONSIDERAZIONE
L’ IDEA DI CONSIDERARE FIRENZE UNA PURA E SEMPLICE CITTA’ D’ ARTE. 
NELLA FOTO IL CENTRO DI FIRENZE VISTO DA PONTE VECCHIO

4 AGOSTO 1944- PER IMPEDIRE ALLE TRUPPE ALLEATE L’ OCCUPAZIONE 
DI FIRENZE VENGONO FATTI SALTARE I PONTI

19 AGOSTO 1944 – PASSERELLA DI FORTUNA SULL’ ARNO

13 AGOSTO 1944 – IL CENTRO DI FIRENZE

12 AGOSTO 1944 FRANCHI TIRATORI ITALIANI
ASSERRAGLIATI UN PO’ DOVUNQUE IN CITTA’
14 AGOSTO 1944 –CRIMINALI PARTIGIANI RASTRELLANO I QUARTIERI DOVE SONO
ASSERRAGLIATI I FRANCHI TIRATORI ITALIANI




SETTEMBRE 1944 – LA CACCIA AI FASCISTI : 
LA MOGLIE E LA FIGLIA DI UN FASCISTA
VENGONO CONDOTTE IN GIRO PER LA CITTA’


SETTEMBRE 1944 – PARTIGIANI CHE TRASCINANO 
UNA DONNA SCALZA ACCUSATA DI APPARTENERE AL FASCIO

VALDARNO (FIRENZE) LUGLIO 1944

UNA DONNA ISCRITTA AL PARTITO FASCISTA VIENE COSTRETTA DAI BANDITI PARTIGIANI A CIRCOLARE NUDA PER LE VIE 

                                                                                                                                          

http://ifranchitiratoridifirenze.blogspot.it/

Aggiunto da SOCIALE

“Firenze non cede”. Agosto 1944: i franchi tiratori

sabato 14 maggio 2022

IL PREMIO STREGA

IL PREMIO STREGA 2018


Ho da poco letto il libro intitolato “La ragazza con la Leica”, scritto da Helena Janeczwek, vincitrice del Premio Strega 2018.
.
Il volto della disinformazione letteraria
Francamente, mi è apparso fin dalle prime pagine del prologo, come la riproposizione di un ennesimo trito e ritrito rigurgito di antifascismo, accompagnato per contro, come se ciò fosse una prerogativa simbiotica, dall’immancabile apoteosi del comunismo e del fenomeno rivoluzionario.
.
L’ambientazione del romanzo è datata, all'inizio, nel 1936, in una Spagna che si sta armando contro il fascismo, appunto, e ciò, alla luce dei tanti libri mai scritti sul gulag e sui milioni di morti ammazzati dal comunismo, sembra quanto meno anacronistico, se non addirittura compiacente con la tendenza pseudo intellettuale delle sinistre odierne, allineate a stereotipi disinformativi ben delineati.
.
Nel prologo, la figura dell’operaia che tiene il fucile tra le gambe, e la coppia ridente (sempre armata di fucile), vogliono simboleggiare una tendenza che sempre più, oggi, appare come l’estremo tentativo di resuscitare fantasmi del passato; un passato che con la scusa dell’antifascismo crea un alibi all’imposizione di immediate riproposizioni di un comunismo e di un marxismo beceri e mai morti, sopiti ma sempre pronti a ripresentare i mille volti di odio e disperazione di cui sono l'essenza, e che li contraddistingue.
.

.
Nei dialoghi fra i protagonisti del romanzo appaiono fin dalle prime pagine i riferimenti a Marx, a Lenin, e a Rosa Luxemburg, proposti (anzi imposti) in chiave positiva, come a voler sbilanciare il lettore verso posizioni di riferimento obbligate, verso un binario da percorrere che si dirige nella direzione prefissata, mentre i riferimenti a Mussolini e al fascismo ne sono il corollario di contrasto.
.
Un libro, questo, la cui pianificazione politica segue costantemente un filo apertamente marxista, con i suoi riferimenti a Mosca e a Lenin, omettendo accuratamente di accennare, neppure minimamente, ai tanti milioni di disperati uccisi proprio in nome del comunismo stesso e dei suoi leader.
.
Ogni tanto è riproposta una enfasi anacronistica che rispunta con impazienza rivoluzionaria, accuratamente costruita e artefatta, che priva il lettore di una flluidità narrativa omogenea e interessante, svilendo la trama stessa del racconto e declassandolo a mera propaganda politica.
.
Non mancano i riferimenti che si affacciano alla diaspora ebraica e alle migrazioni nella Francia non ancora occupata dai nazisti, senza però accennare  mai, neppure minimamente (lo schema disinformativo si ripete), al fatto che mentre Hitler da un lato iniziava ad emanare leggi razziali contro gli ebrei, dall’altro Stalin e Lenin ne avevano già ammazzati a centinaia di migliaia, sia direttamente con le deportazioni, che indirettamente con l’organizzazione di pogrom (1) in tutti i territori soggetti all’influenza bolscevica.
.
L’essenza della disinformazione comunista di cui è impregnata l’evoluzione  della narrativa stessa, impone all’autore di questo libro di proporre Gerda, la ragazza con la Leica, nei panni di demagogica crocerossina,  impegnata a immortalare scene e visioni di umanità sofferenti, di vittime di bombardamenti, di uomini nudi coperti da lenzuola insanguinate.
.
Le prime 80 pagine del romanzo seguono il tracciato sopra descritto, insistendo ancora sulla tragica scomparsa di Gerda, morta sì per un incidente stupido e crudele, ma pur sempre in una guerra che, con le sue immagini, voleva vincere la lotta contro il fascismo.
.
Le riflessioni del protagonista, il Dottor Chardack, spaziano da un lato verso  considerazioni sulla sua stessa figura di ebreo anomalo, non legato alle tradizioni religiose, svincolato da imposizioni etniche e calato in un ruolo di scienziato e illuminista, che pare osservare con distacco l’evolversi delle situazioni che lo circondano, mentre dall’altro rivivono una malinconica serie di rimembranze, di ricordi, di fatti ed episodi di vita vissuta, in perenne afflato con Gerda, su cui il protagonista tenta di lasciare una impronta indelebile, prodromica ad una auspicata quanto improbabile simbiosi.
.
Fanno  da corollario i ricordi della gioventù studentesca trascorsa a Lipsia, poi a Parigi, dai quali emerge, caso mai ce ne fosse bisogno, l’impellenza di ribadire un modus vivendi fuori dalle righe e dall’ordinario, alla giornata, magari supportato da furtarelli quotidiani e da una concezione della vita refrattaria a imposizioni di qualunque tipo, di tipo bohemien.
.
Non manca, nuovamente, il tentativo di fagocitare il lettore verso tesi che l’autrice vorrebbe universalizzare, ma che in realtà esprimono invece (in una platea culturalmente preparata) una concatenazione di sentimenti avversi a tale tentativo.
.
La morte di Gerda viene infatti presentata come l’estremo sacrificio di una martire, avvolta nella bandiera rossa, che ha perso la sua vita in difesa di un valore universale a cui l’intera umanità fa riferimento, e da cui ne dipende il futuro stesso.
.
Il saluto con il pugno chiuso e le processioni rosse delle manifestazioni, così come le ipotesi rivoluzionaire, non potevano certo mancare in questa farsesca rappresentazione che pare uscita da un melodramma di infima categoria, e che tratteggia molto bene l’universo della feccia comunista.
.
Le istantanee scattate da Gerda e da tutti i suoi colleghi fotografi pseudo rivoluzionari, sebbene presentati al lettore come campioni di antifascismo e come depositari di un turbamento ideale che solo la fotografia può trasmettere,  in realtà esprimono una bassezza culturale, ideologica, e morale, che trascende da un manipolato entusiamo e sfocia in un complice asservimento ai dictat del comunismo.
.
Mancano infatti in tutta l’opera dell’autrice i riferimenti, noti ma tenuti nascosti, alle tragiche vicende dell’intero popolo russo, anch’esso asservito con la violenza agli stessi dictat a cui Gerda e i suoi amici si prostrano con entusiasmo.
.
Una normale divagazione avrebbe consentito, mediante un approccio contestuale quanto doveroso, di affermare di fronte al lettore una propria verginità ideologica, non assuefatta a logiche di partito, che raccontasse anche le miserie dell’universo comunista, appunto.
.
L’autrice ha invece deliberatamente omesso qualsiasi riferimento di tipo critico,  enfatizzando con perseveranza un avanguardismo rivoluzionario condito da spaccati di vita che definire insulsi sarebbe eufemistico.
.
Il banditismo nazista nei confronti degli ebrei, così come i saccheggi, gli interrogatori e la prigione, a loro riservata, non hanno ragione di Gerda, che  nel romanzo viene quindi considerata, ad un certo punto, come una creatura di  un mondo a parte.
.
Questa divagazione, ricorda un’opera dello scrittore polacco Gustaw Herling,  intitolata “Un mondo a parte”, in cui l’autore racconta la sua deportazione nei gelidi gulag siberiani, dove fu costretto a vivere a temperature di 40 gradi sotto zero.

.
Quello di Herling è veramente “un mondo a parte”, e il solo accostamento seppur lessicale dell’autrice ad una realtà così devastante come quella effettiva e reale del comunismo, senza però citarlo ma anzi nascondendolo, diventa offensivo per qualsiasi lettore che abbia un minimo di conoscenza dell’argomento.
.
Tutta l’opera, se così si può chiamare, è una mistificazione che compare sulla scena letteraria in un particolare momento storico-politico, quello odierno, in cui la sinistra soffoca, strangolata dall’espandersi delle sue stesse millanterie.
.
Fa molto comodo alle sinistre il poter disporre di schiere di pseudo intellettuali, come l’autrice, appunto, pronti a ripetere l’esperimento già riuscito e attuato in passato con la diffusione dell’opera “il diario di Anna Frank”.
.
Risvegliare sentimenti particolari, facendo leva su emozioni ancestrali, è uno dei metodi adottati dalla disinformazione comunista oramai da decenni, parallelamente all'opera di omissione, di mistificazione, e di annientamento di altre importanti realtà, volutamente celate e rese inaccessibili per lungo tempo.
.

.
Il romanzo vincitore del Premio Strega 2018 appare proprio così, come il prodotto di un autrice che ci impone un remaking dal sapore nauseabondo e sicuramente disprezzabile, grottesco, e partigiano.
.
La trama, confusa e priva di fluidità, sembra solo un mezzo per trainare il vero scopo della proposta letteraria, finalizzata all’enfatizzazione del comunismo e della rivoluzione.
.
L’anacronismo e la doppiezza sono quindi elementi intrinsecamente riscontrabili in tutto lo svolgersi dell’opera, da cui traspare uno stillicidio di manovre propagandistiche, celate nella cosiddetta trama narrativa, che offendono l’intelligenza del lettore.
.
Anche quando l’ambientazione del romanzo si sposta avanti nel tempo, fino al 1960, l’autrice, non paga della sua incessante propaganda, continua imperterrita a riproporre rimembranze della guerra di Spagna, evocando giovani “compagni” assuefatti all’ideologia comunista, alla loro determinazione, fino all’uso delle armi, e all’immancabile Gerda che ne immortala l’enfasi ideologica con la sua Leica.
.
Stucchevole nella sostanza e statico nella sua essenza, ripetitivo e incompleto, il romanzo propone solo ciò che all'autrice fa comodo proporre, e cioè la propaganda sinistroide, senza sapere che oggi Internet ci permette di conoscere la verità e di rifiutare le imposizion stereotipate fino ad oggi proposte dalla disinformazione comunista o post-tale, come appunto quest’opera.
.
La parte finale del libro è illeggibile ...
.
Si passa da considerazioni appena tratteggiate, ma costanti, su ostaggi trattenuti dai nazisti durante la guerra, ad evocazioni di partigiani catturati e deportati, per disquisire poi di sfilate del Ventennio, di Legione straniera, di Buchenwald, di DDR, di comunismo, interpretando così una sorta di attivismo letterario, di volantinaggio virtuale, di percorso finalizzato alla creazione di un fronte unitario della sinistra, rispolverando i fantasmi del passato.
.
L’apice della menzogna nel romanzo si raggiunge quando l'autrice accenna a quei comunisti che da Lipsia si rifugiarono in Russia per sfuggire alle persecuzioni naziste.
.
L’autrice afferma che di questo universo di persone emigrate e mai più riviste, molte furono uccise dall’artiglio del grande freddo artico mentre altri divennero preda di assassini, ladri e sfruttatori, negando così palesemente la responsabilità accertata del Partito comunista russo nella morte di centinaia di migliaia di vittime innocenti.
.
Non paga l’autrice dà sfogo al suo estro disinformatore raccontando fatti di cronaca italiani avulsi da un contesto più generale, allo scopo di enfatizzare quella che per lei è la abbiano giusta lotta dei compagni comunisti.
.
Da una autrice ebrea mi sarei aspettato una conformità storica disgiunta da condizionamenti di parte, e una narrazione meno partitica, obiettiva ed universale, ma pare che l’ebrasimo letterario oggi sia restio a condannare il comunismo, nonostante le sue indubbie crudeltà, i genocidi su base etnica, culturale, religiosa, e politica.
.
E’ anche vero il fatto che, nonostante l'effettiva realtà che le persecuzioni del comunismo russo verso gli ebrei abbiano prodotto molte vittime innocenti, i seguaci della Stella di David costituirono il nucleo centrale del potere comunista stesso.
.

.
I maggiori gerarchi comunisti, descritti come feroci e spietati assassini erano infatti ebrei, ma questo pare non interessare alla vincitrice del Premio Strega 2018.
.
Suggerisco ai lettori del presente articolo, e a coloro che cercano una piena soddisfazione in ambito storico-culturale, di scegliere opere letterarie obiettive e scevre da condizionamenti partitici, che possano dare l’esatta dimensione di fenomeni politici narrati senza manipolazioni evidenti.
.
A questo scopo, accludo il link al sito che ho creato per indicare e proporre gli scrittori e gli intellettuali che, con il loro minuzioso lavoro di ricerca e di indagine, propongono argomenti fino ad oggi nascosti o falsati dalla disinformazione comunista.
.
.
.
Note :
.
(1) Pogrom : il termine è di derivazione russa e significa devastazione.
Indica le sommosse popolari antisemite (contro le comunità ebraiche), iniziate nella russia zarista già nel 1881, che provocarono massacri e saccheggi.
Spesso i pogrom erano fomentati dalle autorità.
I massacri di ebrei si registrano fin dal 1066, a Granada (Spagna), ma anche in Inghilterra (1189-1190), in Francia e Germania (1348-1351), in Poloni e Ucraina (1648).
.
.
Dissenso
 
                                                                                                        

domenica 8 maggio 2022

STRAORDINARIE AVVENTURE DI SOLDATI DELLA RSI

STRAORDINARIE AVVENTURE DI SOLDATI DELLA RSI
Umberto Scaroni
 

 
    Fra le tante, gloriose e spesso incredibili imprese compiute dai Reparti speciali della Decima Flottiglia MAS, al comando del Principe Junio Valerio Borghese, le meno conosciute, anche perché segretissime, sono forse quelle affidate agli "N" del Gruppo Ceccacci, composto di due Squadre di esperti "nuotatori", agli ordini del S. Ten. Aladar Kummer e del S. Ten. Renzo Zanelli, particolarmente addestrati all'uso di esplosivi e destinati ad incursioni di sorpresa oltre le linee nemiche.
    Tali azioni non erano certamente facili da portare a termine, ed il loro successo dipendeva da un lungo e specifico addestramento, compiuto sulle spiagge di Jesolo, ma anche e soprattutto da un perfetto affiatamento fra i componenti della Squadra, nonché dalla fiducia e dalla stima reciproca, dato che la vita di uno era nelle mani dell'altro.
    Ci occuperemo qui, in particolare, delle azioni compiute dalla Squadra del S. Ten. Aladar Kummer, che, a causa del suo nome, è stato talora indicato come Ufficiale tedesco, mentre si tratta di un italianissimo figlio di Fiume che, dopo aver combattuto come Sottotenente nella Divisio­ne "Trieste" nella battaglia di El Alamein e, successivamente, in diverse azioni di contenimento durante la lunga ritirata di Libia, fu ferito ai confini della Tunisia e quindi trasferito con una Nave Ospedale a Napoli, ove rimase rico­verato per una ventina di giorni.
    Dopo una breve licenza di con­valescenza, fu destinato alla "dife­sa aeroporti" di Pianello Val Tidone (Piacenza), ove lo colse la vergognosa resa dell'8 settembre.
    Mentre l'Esercito si sfasciava miseramente, Kummer non esitò a presentarsi al Centro di recluta­mento della Decima MAS, a La Spezia, l'unico Reparto che non aveva ammainato la Bandiera, e, fra le varie specialità, essendo un ottimo nuotatore, scelse gli "N" del Btg. "N.P", e provvide perso­nalmente a costituire la squadra al suo comando, reclutando a Fiume dieci giovani amici, tutti universitari. Quindi raggiunse tesolo, per uno speciale addestramento, effettuato in gran segreto. In seguito ad una richiesta d'impiego di due Squadre "N" giunte dalla zona di operazioni, Kummer e Zanelli si recarono a Penne, sede del Gruppo Ceccacci, famoso per le missio­ni già compiute oltre le linee, nei territori occupati dal nemico.
    Purtroppo, proprio quando le Squadre erano pronte a compiere un'audace azione contro i mezzi da sbarco inglesi nel porto di Ortona, in seguito allo sfondamento del fronte a Cassino il Gruppo dovette ripiegare, risalendo l'Adriatico con tutti i suoi mezzi, fino a Cesenatico, ove requisì l'Albergo Roma, nel re­cinto del Porto Canale.
    Finalmente, verso la fine di lu­glio'44, la Squadra ebbe il battesi­mo del fuoco, sbarcando nottetempo con i "tacchini" sulla costa fra Senigallia ed Ancona (già in mano agli "alleati"); ove recò notevoli danni ad un deposito di munizioni, a diverse linee telefoniche ed a vari automezzi inglesi, rientrando incolume, dopo poche ore, con il motoscafo d'appoggio.
    L’entusiasmo della Squadra era alle stelle per il successo ottenuto, e già si stava organizzando una nuova audace impresa quando il Gruppo fu ancora costretto ad ar­retrare verso Nord, fino a Dosson (Treviso), usufruendo del Porto Corsini quale base operativa e di partenza per le azioni.
    Fu allora che la Squadra Kummer, onde poter disporre di un mezzo veloce per avvicinarsi agli obiettivi e sbarcare sulle spiag­ge con i battellini, si recò a Venezia, ove requisì il motoscafo del Conte Volpi di Misurata, che usò a metà ottobre per compiere un'azio­ne nella zona tra Miramare di Rimini e Riccione.
    Lasciato al largo il motoscafo, gli incursori raggiunsero silenziosamente la spiaggia con i battellini. Quindi, strisciando sulla sabbia, raggiunsero i cespugli sulla strada ove erano allineati numerosi grossi autocarri carichi di munizioni e di esplosivi.
Minati, indisturbati, tutti gli automezzi, gli arditi "nuotatori" provvidero quindi a tagliare tutti i fili di collegamento telefonico tra i vari Comandi alleati, creando un vero caos.
    Quando la Squadra, raggiunta la spiaggia, già si trovava al largo con i suoi battellini, iniziò una se­rie di terribili esplosioni che pro­vocarono un fuggi-fuggi generale ed il più completo scompiglio fra gli occupanti.
    Purtroppo, il previsto appuntamento con il motoscafo non avvenne perché si stava avvicinando l'alba, ed ai primi chiarori il mez­zo aveva l'ordine di allontanarsi dal luogo dello sbarco, per cui Kummer decise di pagaiare con il battellino verso Nord, accorgendosi però, dopo un giorno di faticosa navigazione, che la corrente con­traria lo allontanava sempre più dalla spiaggia, per cui preferì pun­tare verso terra, per sbarcare la sera sulla spiaggia e tentare di attraver­sare le linee a piedi.
    La Squadra sbarcò infatti vicino a Rimini, e si avviò camminando in colonna lungo la circonval­lazione della città. Ad un certo punto, però, arrivò nel senso con­trario una pattuglia nemica (anche questa in fila indiana) che portava sul basco dei distintivi simili a quelli dei nostri Marò, il cui capofila li salutò militarmente. Kummer, istintivamente, tese il braccio in avanti nel regolamentare saluto fascista, ma, accorgendosene, ripiegò subito il braccio portando la mano al berretto. Tutto andò liscio, e le colonne sfilarono così una accanto all'altra con una sequenza da film comico, malgrado la pericolosità della situazione.
La squadra Kummer decise quindi di dividersi per tentare separatamente di rientrare attraverso le linee con maggiori possi­bilità di successo: chi scelse di indossare abiti civili e chi, con Kummer, decise di restare in divi­sa. Quest'ultimo gruppetto si di­resse quindi verso Cesenatico, zona familiare, e si rifugiò in una cascina disabitata dei dintorni, ma improvvisamente, di notte, fu sorpreso e catturato da un gruppo di soldati polacchi, che lo caricò a calci su un camion e lo portò in carcere a Forlì, da dove, dopo qualche giorno, fu trasferito a Roma, a Cinecittà, ove aveva sede il servizio di spionaggio alleato.
    Kummer, dopo venti giorni di demoralizzante isolamento, fu infine interrogato da un ufficiale maltese, che parlava italiano, ed avendo appreso che anche gli altri componenti della Squadra erano stati catturati in borghese, riuscì a salvar loro la vita dichiarando e dimostrando che non erano spie, ma militari incursori del suo Reparto che tentavano di passare le linee senza dar nell'occhio.
    Quanto alle informazioni mi­litari richieste, Kummer ebbe l'impressione che quegli interrogatori, anche se rimanevano senza risposta, fossero inutili, dato che gli "alleati"... sapevano già tutto!
    In tempi successivi, nella sua stessa cella furono rinchiusi il collega Zanelli - la cui Squadra era stata pure catturata dopo un riuscito attacco nelle retrovie inglesi - ed il fratello Carlo, dei mezzi d'assalto della Decima dislocati a San Remo, catturato in mare dopo aver affondato il suo M.T.M.
    I tre prigionieri studiarono su­bito insieme un piano di fuga, ma non riuscirono a realizzarlo perché vennero divisi e trasferiti nel campo di concentramento di Afragola (Napoli). Ad Afragola furono caricati su un treno di carri bestiame diretto a Taranto, dove sarebbero stati imbarcati per l'Algeria. Giunti in Basilicata, non volendo essere trasferiti in Africa, i nostri amici tentarono finalmente la fuga, riuscendo a scardinare le tavole dal fondo del vagone con un vecchio chiodo arrugginito strappato a fa­tica dalla porta. Quindi, dì notte, riuscirono a calarsi uno alla volta sulle rotaie, approfittando dei rallentamenti del treno e subito si al­lontanarono dalla ferrovia attraverso la campagna dove, in una casa colonica, trovarono una insperata e generosa accoglienza da parte dei contadini, ai quali si era­no presentati come cittadini del Nord desiderosi di tornare a casa, e che offrirono loro da mangiare e da dormire.
    All'indomani, considerata la grande distanza dalle linee del fronte, allora attestate sulla Linea Gotica, approfittando del fatto che Zanelli parlava l'inglese, i tre fug­giaschi compirono una ennesima bravata, chiedendo ed ottenendo il passaggio su un camion diretto al Nord. Tutto andò bene, e con un auto-stop dopo l'altro il gruppetto riuscì ad arrivare a Roma senza destar sospetti.
    Proseguendo a piedi verso la Toscana, mentre attraversavano la piazza di un paese, i tre fuggitivi furono però notati da alcuni citta­dini che, insospettiti, li trattennero in Comune "per chiarimenti" fino all'arrivo dei Carabinieri, i quali, evidentemente informati della loro fuga, senza tanti discor­si li portarono a Roma, proprio a Cinecittà, ove l'Ufficiale maltese dei Servizi Segreti li accolse sorridendo ironicamente chiedendo loro se avevano fatto un bel viaggio!
    Ciò, anziché deprimere, stimolò la reazione dei nostri Eroi, che subito si misero all'opera per rea­lizzare il piano di fuga già studia­to nel corso della loro precedente "villeggiatura" a Cinecittà. Dopo aver svitato con un coltello trafugato la griglia dell'aeratore sul soffitto della cella, strisciando nel tubo dell'aria Kummer e Zanelli riuscirono infatti a calarsi nella "stanza dei microfoni" (ove si registravano le conversazioni fra i detenuti), che non aveva reticolati alle finestre, e di qui scapparono di notte, ultimando con successo le loro mirabolanti avventure.
    Arrestati dagli inglesi nel 1945, verso la fine della guerra, Kummer e Zanelli vennero trattenuti "per punizione" nel campo speciale di concentramento di Rimini fino all'estate 1947, quando gli inglesi, lasciando l'Italia, furono costretti a liberarli.
    II S. Ten. Aladar Kummer è ora un attivo componente ed un valido collaboratore della Federazione di Bergamo dell'U.N.C.R.S.I..
 
 



VITTORIOSISSIMI I MARINAI DELLA DECIMA, PERCHE' HANNO REALIZZATO TUTTI I LORO PROPOSITI
da DECIMA! - GLI ENNEPI' SI RACCONTANO.  Sergio Bozza
 
    "PER L’ONORE"
    "Riscattare la dignità del soldato italiano, vendicare l’inganno perpetrato alla nostra flotta, frenare la tracotanza dei tedeschi"
    Obiettivi raggiunti, Capitano!
     
    I nostri sacrifici sfortunati?
    Perché sfortunati?
    Non è retorica. Racconto:
    In una notte di settembre del 1943, di ritorno da una sfibrante "Missione di ricupero" (di armi, munizioni, vestiario, viveri, attrezzature, ecc., tutte merci che scoprivamo, sequestravamo, o pagavamo a mercato nero) ci si trovava nella caserma del Muggiano, intenti a mangiucchiare quanto un cuciniere assonnato ci aveva ammannito, quando inaspettatamente comparvero Junio Borghese, comandante della Decima Mas e il maggiore Umberto Bardelli, all’epoca suo braccio destro. Il Principe con la mano ci fece cenno di stare seduti e ci ascoltò sull’esito della missione.
    "Buon lavoro, gente!" (in marina gli equipaggi sono chiamati "gente") ci disse alfine "Ora riposatevi perché ci sarà ben altro da fare".
    I due stavano allontanandosi quando, chissà perché, un allievo ufficiale, Giuseppe Mainenti, disse ad alta voce: "Comandante, vinceremo!". Borghese si fermò, e solo dopo qualche istante, girandosi con una delle sue famose occhiate a Bardelli, tornò ad avvicinarsi lentamente alla nostra tavolata.
    Alla fioca luce che a malapena illuminava la vasta e silenziosa mensa ci guardò attentamente, uno per uno; mise un piede sulla panca e, sporgendosi in avanti appoggiato a un ginocchio, ci disse: "Se siete qui è perché siete degli uomini e a questi uomini io dico di ascoltarmi attentamente e di ricordare sempre". (Non so se avete mai sentito Borghese, ma quando il Comandante parlava, inchiodava l’uditorio con il suo periodare, breve e secco com’era). "Non ci sarà nessuna vittoria, perché la guerra è perduta, definitivamente perduta da quando gli USA sono entrati nel conflitto".
    "Non avete la minima idea di quale sia la loro vera capacità industriale. Io lo so. Perciò nessuna illusione di vittoria. Noi siamo qui, e andremo fino in fondo, perché all’ombra della nostra bandiera dobbiamo batterci a ogni costo per riscattare l’onore del soldato italiano, perché dobbiamo vendicare l’infame inganno perpetrato nei confronti della nostra flotta, perché dobbiamo difendere - capitemi chiaramente - la nostra terra e le nostre genti dalla jattanza e dalla prevaricazione dei tedeschi. Sarà difficile, sarà duro, correrà sangue, ci saranno immensi sacrifici, ma se manterremo questi propositi - solo questi propositi - e li realizzeremo, allora sì che avremo vinto".
    Con una fredda inquisitiva occhiata a ognuno di noi, di scatto, si rizzò e senza aggiungere altro se ne andò col taciturno Bardelli.
    Cari, tristi pessimisti: Gli NP, gli uomini della Decima (con tutti i soldati della RSI) hanno mantenuto l’impegno prospettato dal Comandante, lo hanno realizzato e quindi:
    "Noi abbiamo vinto".
    I nostri sacrifici sono stati sfortunati?
    Al contrario: fortunatissimi.
    Compreso a fondo il significato dell’onore delle armi riconosciuto alla Decima dagli inglesi?
    Viste le dichiarazioni di Eisenhower?
    È il massimo!
    E inoltre: lo scomodo alleato tedesco è stato tenuto a bada e non ha fatto vendette sull’Italia. Innocue furono rese le ciurmaglie politiche. Funzionarono le ferrovie, gli approvvigionamenti alimentari, gli assegni familiari per un milione di prigionieri, le scuole di ogni tipo, la vigilanza contro i ladri, l’agricoltura che molto produsse e il lavoro dei civili che non mancò mai. Tutto, e al meglio, fino al penultimo giorno, 24 aprile 1945. Che si voleva di più?
    Possiamo andare fieri a rapporto:
    "Abbiamo vinto, comandante!"
    Nella Storia, quella con la "S" maiuscola, il silenzio dei vinti molte volte vale di più del clamore dei vincitori.
    Decima!
    Dal Nieppi
    ex allievo uff.
    II compagnia "NP"
 
 
da DECIMA! - GLI ENNEPI' SI RACCONTANO.  Sergio Bozza


lunedì 2 maggio 2022

L'ECCIDIO DEI 7 FRATELLI GOVONI

 

L'ECCIDIO DEI 7 FRATELLI GOVONI

.


Nel mese di Maggio dell'anno 1945 nella zona di Cento e di Pieve di Cento, furono “prelevate” dai partigiani ben 128 persone.
.
Questi sventurati, dopo essere stati portati via dalle loro case, non vi fecero mai più ritorno.
.
Di loro non si seppe più niente, tranne che per una metà, di cui sono stati trovati i corpi in alcune fosse comuni.
.
Sulla sorte di molte di queste vittime innocenti è calato un tragico velo, cupo e misterioso, con la complicità di chi aveva ed ha, evidentemente, molti punti di connivenza e di convergenza ideologica con gli esecutori dei massacri.
.
Nella fossa comune scoperta ad Argelato furono rinvenuti ben 17 cadaveri, di cui sette erano fratelli.
.
Si tratta dei fratelli Govoni, la cui mamma è stata per decenni derisa dagli stessi aguzzini che le avevano ucciso i figli.
.
Non usciva più di casa poiché gli infami assassini le canticchiavano “bandiera rossa”, a indicare l’odio che ancora oggi anima i seguaci della “falce e martello”.
.
Dei sette figli, solo uno mostrava segni di pallottole, mentre gli altri avevano tutti le ossa spezzate e il cranio fracassato.
.
Al momento del sequestro la sorella Ida stava allattando il figlioletto, ma ciò non impedì agli aguzzini comunisti di torturarla e ucciderla.
.
Ecco un resoconto dell’accaduto, tratto liberamente dal sito :
.
.
"… Si era sparsa, frattanto, tra i partigiani della 2ª brigata Paolo e delle altre formazioni, la voce che stava per incominciare una “bella festa” nel podere del colono Emilio Grazia.
.
Dapprima alla spicciolata, poi sempre più numerosi, i comunisti cominciarono a giungere alla casa colonica dove erano già prigionieri i sette Govoni.
.
Non è possibile descrivere l’orrendo calvario degli sventurati fratelli.
.
Tutti volevano vederli e, quel che è peggio, tutti volevano picchiarli.
.
Per ore nello stanzone in cui i sette erano stati rinchiusi si svolse una bestiale sarabanda tra urla inumane, grida, imprecazioni.
.
L’indagine condotta dalla Magistratura ha potuto aprire solo uno spiraglio sulla spaventosa verità di quelle ore.
.
La ferrea legge dell’omertà instaurata dai comunisti nelle loro bande ha impedito che si potessero conoscere i nomi di quasi tutti coloro, e furono decine, che quel pomeriggio seviziarono i fratelli Govoni.
.
Si accertò, quando dopo molti anni furono scoperti i corpi, che quasi tutte le ossa degli uccisi presentavano fratture e incrinature.
.
Chi erano gli insensati esecutori dei fratelli Govoni e suoi sfortunati compagni ?
.
La risposta :
.
trattasi della famigerata e fantomatica “brigata Paolo”, ignota fino allora, non era probabilmente altro che un gruppo della 7ª GAP (Gruppi d’azione patriottica).
.
I partigiani della «2ª Brigata Paolo» infierirono con una crudeltà e un sadismo veramente inconcepibili su ogni prigioniero.
.
Ida, la mamma ventenne, che non aveva mai saputo niente di Fascisti o di partigiani, morì tra sevizie orrende, invocando la sua bambina.
.
Quelli che non morirono tra i tormenti furono strangolati ;
.
e quando le urla si spensero definitivamente erano le ore ventitré dell’undici maggio.
.
prelevati, mentre quelli di scarso o nessun valore furono gettati in un pozzo dove, anni avanti, saranno rinvenuti mentre si svolgeva l’indagine istruttoria.
.
I corpi delle vittime furono sepolti subito dopo in una fossa anticarro, non molto distante dalla casa colonica.
.
Per anni interi, sfidando le raffiche dei mitra degli assassini, sempre padroni della situazione, solo i familiari delle vittime cercarono disperatamente di fare luce su quanto fosse accaduto, nella speranza di poter almeno rintracciare i resti dei loro cari, primi fra tutti, i genitori dei fratelli Govoni.
.
Fu una ricerca estenuante, dolorosissima, ma inutile.
.
Nessuno volle parlare, nessuno volle aiutarli ;
.
molti li cacciarono via in malo modo, coprendoli d’insulti.
.
Ci fu anche chi osò alzare la mano su quella povera vecchia che cercava solo le ossa dei suoi figli.
.
A Cesare e Caterina Govoni, sopravvissuti al più inumano dei dolori, lo Stato italiano, dopo lunghe esitazioni, decise di corrispondere, per i figli perduti, una pensione di 7.000 lire mensili : 1.000 per ogni figlio assassinato !
.
Anche se per quest’orrendo crimine ci fu un processo che si concluse con quattro condanne all’ergastolo, la giustizia non poté fare il suo corso perché gli assassini “rossi”, così come in altri casi, furono fatti fuggire oltre cortina e di loro si perse ogni traccia ;
.
successivamente, il crimine fu coperto da amnistia !
.
La vicenda della famiglia Covoni è narrata anche a pagina 294 del libro di Marco Pirica : “1945/1947 - Guerra civile - La rivoluzione rossa”.

.
.
.
.

.
In occasione della commemorazione annuale delle vittime, si è svolta a Casadio di Argelato una cerimonia religiosa, celebrata da Don Alfredo Morselli, a cui è poi seguito un corteo funebre, in ricordo dei sette fratelli a Govoni.
.
Il quotidiano locale “il Resto del Carlino” ha stigmatizzato l’avvenimento, con un articolo a firma Matteo Radogna, in cui si legge :
.
" La storia racconta che l’11 maggio 1945 degli uomini armati bussarono alla porta degli anziani coniugi Govoni, contadini da generazioni, e prelevarono sette dei loro figli ;
.
l’ottava si salvò perché, sposata, si era trasferita altrove.
.
Soltanto Dino (41 anni) e Marino (33) avevano aderito alla RSI (Repubblica Sociale Italiana) senza peraltro essersi macchiati di delitti o soprusi.
.
C’erano poi Emo (32 anni), Giuseppe (30), padre di un bambino di tre mesi, Augusto e Primo (di 27 e 22 anni).
.
Venne presa anche Ida, che aveva vent’anni e stava allattando.
.
Gli uomini con il mitra dissero che si trattava soltanto di un breve interrogatorio, per raccogliere delle informazioni.
.
Ida affidò la piccola ad una famiglia di vicini di casa e seguì i suoi carnefici.
.
I sette fratelli Govoni non tornarono più a casa.
.
Si dice che morirono dopo essere stati torturati per ore."
.
Dal libro “Vincitori e vinti” di Bruno Vespa si legge :
.
" Portato il gruppo nel podere dei Grazia, i capi partigiani, dopo aver lasciato di guardia quattro uomini, andarono a prelevare altri dieci disgraziati a San Giorgio di Piano, tra i quali un ragazzo di 19 anni, Ivo Bonora, con il padre e il nonno, e un tenente di artiglieria, Giacomo Malaguti.
.
Nessuno ebbe la grazia di un colpo d’arma da fuoco, come avrebbe confermato più tardi l’analisi dei resti.
.
Tutti furono torturati e seviziati : molte ossa risultarono spezzate o frantumate.
.
Non ci fu pietà per nessuno.
.
Alcuni morirono sotto le torture, ma i più furono strangolati.
.
I pochi oggetti d’oro prelevati alle vittime, come avrebbe accertato la magistratura bolognese, furono spartiti tra gli assassini."
.
I cadaveri furono sepolti in una fossa comune non lontano dal podere Grazia in cui avvenne l’eccidio, ma per anni, nonostante le ricerche dei parenti, non furono ritrovati.
.
Al processo, uno degli imputati, Gaetano De Titta, accusato di “fare da palo”, ammise che alcuni dei torturati furono sepolti ancora vivi.
.
Uno dei nipoti di nonna Caterina, Cesare, racconta che a volte, oltre al mutismo con il quale si scontravano, dovevano anche fare i conti con la prepotenza di coloro che arrogantemente affermavano di saperla lunga sulla sorte dei fratelli Govoni.
.
Uno di costoro, tale Filippo Lanzoni, fu affrontato proprio da nonna Caterina che gli chiese di rivelarle dove fossero sepolti i corpi dei suoi figli, ma questo prototipo di vigliacco comunista e partigiano le rispose sprezzante:
.
"  Procurati un cane da tartufi e và a cercarli. "
.
Caterina reagì all’oltraggio, iniziando a urlare al suo indirizzo, cosicchè " l’eroico " Lanzoni chiamò la propria moglie, e altre donne lì vicino, che si scagliarono contro la donna, settantenne, gettandola in terra.
.
Da questo episodio, scaturì una indagine dei Carabinieri di Pieve di Cento, che avrebbe poi portato al rinvenimento della fossa comune in cui giacevano i corpi dei fratelli Govoni.
.
Il maresciallo dei Carabinieri indagava anche su altre stragi, compiute il 9 e l’11 maggio 1945 e individuò i responsabili dell’eccidio, e cioè i capi e i gregari della Seconda Brigata Paolo.
.
I responsabili furono processati e condannati, ma uscirono dal carcere grazie all’amnistia di Togliatti, e furono accolti dai partigiani comunisti con tanto di banda e bandiere rosse.
.
Gli assassini partigiani furono riconosciuti colpevoli di aver trucidato ben 29 persone :
.
la professoressa Laura Emiliani, i tre Costa (Sisto, la moglie Adelaide, e il figlio Vincenzo), i sette Govoni, gli otto di Pieve di Cento, e i dieci di San Giorgio di Piano.
.
I condannati furono :
.
Vittorio Caffeo, commissario politico della brigata partigiana “Paolo”, di Dino Cipollani e Guido Belletti ;
.
Vitaliano Bertuzzi, vice comandante ;
.
Adelmo Benni, comandante di battaglione, faceva parte del ''tribunale partigiano'' che comminò le condanne a morte delle vittime ;
.
Luigi Borghi, protagonista della spedizione punitiva e capo della ''polizia partigiana''.
.
La condanna fu riconosciuta, solo per questi quattro, e solo per l’omicidio del tenente Malaguti, perché era un antifascista, mentre per tutti gli altri omicidi fu applicata l’amnistia di Togliatti, essendo giudicati delitti “politici”.
.
Una Giustizia a due facce quindi, che ha privilegiato coloro che si sono riconosciuti come seguaci di un emblema, quello della falce e martello, insanguinato e impregnato del dolore di vittime innocenti.
.
La disinformazione comunista ha tentato per decenni di nascondere l’eccidio dei fratelli Govoni, così come altri crimini efferati, per i quali il Comunismo dovrebbe essere identificato oggi come NEMICO DELL’UMANITA’
.
.
Dissenso
.