RESISTERE PER ROMA
RESISTERE PER ROMA
PARACADUTISTI,
MARO’ E LEGIONARI ALLA DIFESA DI ROMA
L.F.
Il 22 gennaio 1944 gli Anglo-Americani
sbarcavano sul litorale laziale costituendo una testa di ponte ad Anzio,
distante dalla Capitale appena una cinquantina di Km. Roma sembrava,
ormai, a portata di mano. Il Comando Germanico inviò il Maggiore
Paracadutista Walter Gericke a fronteggiare la situazione con un Gruppo
da combattimento formato da sparuti Reparti eterogenei trovati sul posto.
Con essi riuscì a ben contrastare le truppe sbarcate. Successivamente
affluirono Reparti corazzati e la IV Div. Fallschirmjager, che contennero
la pressione dei VI Corpo d'armata statunitense. Le contrapposte posizioni,
tenute dai contendenti, diedero origine a quello che divenne il 'Fronte
di Nettuno'. Pochi giorni dopo, alla Divisione Paracadutisti Germanici
si aggregò - con non poche difficoltà, a causa della diffidenza
tedesca - il Battaglione Paracadutisti 'Nembo', comandato da quel meraviglioso
Soldato che risponde al nome del Capitano Corradino Alvino. Trecento italiani
riprendevano, organicamente, a combattere contro gli invasori Anglo-Americani.
Finiva così, in parte, l'amarezza e la rabbia nel sapere che Roma
era difesa soltanto da truppe straniere. Tedeschi, nostri alleati, ma pur
sempre stranieri. Al Nord la RSI, sorta da appena quattro mesi, faceva
sforzi giganteschi per organizzare, addestrare, equipaggiare, armare e
sopportare logisticamente le centinaia di migliaia di volontari che accorrevano
ai vari Reparti in via di costituzione, tutti protesi e ardentemente desiderosi
di combattere contro gli invasori del suolo italico. Ritenendo, questi
ultimi, i soli nemici avverso i quali l'Italia si era battuta onorevolmente
per trentanove mesi, sino al tradimento settembrino ordito da certi figuri
in combutta con quel Savoia che non seppe morire come un vero re. Per gli
avvenimenti che si erano susseguiti tra luglio e settembre, i Tedeschi,
ovviamente, non si fidavano più di noi, anche se, alla data dell'8
settembre, in Patria e fuori dei confini, 180.000 uomini erano rimasti
al loro fianco. Non fosse altro per non macchiare -nei secoli a venire-
l'onore della nostra razza. La Xa Flottiglia MAS, le Camicie Nere della
M.V.S.N. e Paracadutisti non ammainarono la bandiera della Patria. Mentre
l'Esercito regio si dissolveva e la Flotta da battaglia alzava a riva il
'pennello nero' -segno che contraddinse i pavidi, gli inetti, gli ignavi
e i furbastri 'benpensanti'- a Porta S. Paolo, in quel di Roma, il Generale
Gioacchino Solinas, con i suoi Granatieri, oppose resistenza agli USA.
Per non consegnare loro le armi. Altro che eroismo contro il 'nazifascismo':
Solinas e i suoi uomini aderirono alla Repubblica Sociale Italiana.
Successivamente, il Generale
prestò servizio presso lo Stato Maggiore dell'Esercito repubblicano
e, dal giugno '44, comandò il Centro Complementi destinati alle
Divisioni dell'Esercito di Mussolini. La falsa retorica antifascista si
è appropriata di eroismi e benemerenze, inserendoli nella sua vacua
storiografia. Come nel caso del Vice brigadiere Salvo D'Acquisto che, da
Carabiniere in servizio sul territorio della RSI, viene camuffato da eroe
resistenziale.
La battaglia per Roma, iniziata
il 22 gennaio, continuò per quattro mesi, sino al 4 giugno. Per
gli eserciti 'alleati' non fu davvero una semplice passeggiata nonostante
l'enorme potenziale bellico messo in campo. In quei 134 giorni d’inferno,
i Paracadutisti di Alvino, di Rizzatti e di Sala, i Marò di Bardelli,
di Mataluno, di Nesi, i Legionari di Degli Oddi, gli Aerosiluranti di Faggioni
e Marini stupirono amici e nemici, coronando in un alone di gloria l’olocausto
delle giovani vite di migliaia di Caduti. Il primo Reparto a raggiungere
il Fronte di Nettuno fu, come accennato,il Battaglione “Nembo” di Alvino.
Aggregato alla IV Divisione Fallschirmjager il “Nembo” entrò in
linea l’8 Febbraio. Il 16 partecipò a un contrattacco germanico,
con tale irruenza e combattività da suscitare l’ammirazione incondizionata
e il compiacimento dei Parà tedeschi che, in fatto di guerra seriamente
combattuta, non erano certo degli sprovveduti. Il “Nembo”, in continui
combattimenti, si coprì di gloria, mettendo in grossa difficoltà
gli Anglo-Americani che pagarono un prezzo altissimo perdite umane. Il
Battaglione venne citato nel bollettini di guerra dell'Alto Comando Germanico.
I tedeschi erano strabiliati dell'ardore e dell'aggressività dei
nostri al punto che, anch'essi, attaccavano le postazioni avversarie al
grido di 'Nembo'. Al fosso della Moletta, gli uomini di Alvino diedero
i meglio di se stessi. Le perdite superarono i due terzi degli effettivi.
Un mese dopo l'arrivo al Fronte il Battaglione, ridotto a una Compagnia,
prese il nome di Cmp. 'Nettuno-Nembo' e tornò in linea combattendo
sino al giorno 4 e poi ripiegando, ancora, fino al 30 di giugno.
Artiglieri italiani della Flak sul Fronte di Anzio.
A fine febbraio, intanto,
da La Spezia partiva per Nettuno il Btg. Fanteria Marina 'Barbarigo'
della XI Flottiglia MAS, agli ordini del Capitano di Corvetta FM Umberto
Bardelli. Dopo molte richieste e insistenza, millecento Marò riuscirono
a coronare il loro sogno: quello di vedere in faccia il nemico invasore.
A Nettuno, tra il lago di Fogliano, il canale Mussolini, Borgo Piave, Cerreto
Alto e Borgo Sabotino, ebbe origine il mito di 'Barbarigo'. Esso ci tramanda
le imprese e il valore dei Marò, l'abnegazione dei Sottufficiali,
l'eroismo indomito degli Ufficiali di questo straordinario Battaglione.
Di questo mito vanno fieri i protagonisti superstiti e inorgoglisce tutto
il combattentismo repubblicano. Quei 'mille' giovani, anzi giovanissimi,
del 'Barbarigo', superarono epicamente i 'mille' di Leonida alle Termopili.
A Nettuno, articolati nelle Compagnie (la 'Decima', 2a 'Scirè',
3a 'Iride', 4a 'Tarigo' e 5a Cannoni), unitamente al Gruppo Artiglieria
Xa 'S. Giorgio' aggregato al 'Barbarigo', gli uomini di Bardelli furono
tutti eroi. Gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno, videro l'accanita
resistenza e l'estremo sacrificio di tutte le compagnie. La 1a a Borgo
S. Michele e Borgo Pasubio, la 4a, ultima a lasciare il Fronte dopo aver
contrattaccato gli americani all'arma bianca. Fogliano, Gorgolicino, Norma,
Colleferro, difese zolla dopo zolla, metro dopo metro. E Cisterna, dove
non rimane in piedi un solo uomo del II' Plotone/2a Cmp. Il Comandante
Tenente Sandro Tognoloni per il suo eroismo, verrà decorato di Medaglia
d'oro al V.M. Ancora il 2, 3 e 4 giugno, l'indimenticabile Ten. di Vascello
FM Giulio Cencetti, con una Compagnia di Formazione -l'Ultima- fronteggia
gli 'alleati' alle porte di Roma che lascia, transitando per Piazzale di
Ponte Milvio, alle ore 13.30 dei 5 giugno '44. Al Labaro del 'Barbarigo'
venne concessa la Medaglia di Bronzo VM con questa motivazione: 'Armato
essenzialmente di fede e di coraggio chiedeva di essere inviato al Fronte
di Nettuno per riscattare l'Onore della Patria tradita. A fianco dell'Alleato
fedele, in tre mesi di lotta asperrima contendeva fino all'estremo alle
orde travolgenti dei nuovi barbari il possesso di Roma immortale dando
luminose prove di strenuo valore e consacrando col sangue dei migliori
il sacro diritto d'Italia alla vita e alla rinascita. Fronte di Nettuno
- Roma. 4 marzo-4 giugno 1944'. Il Gruppo di Artiglieria XII 'S. Giorgio'
affiancò il 'Barbarigo' che da poco era entrato in linea a Nettuno.
Il Gruppo, al comando del Capitano Renato Carnevale, era ordinato su due
Batterie cannoni da 105 m/m e una Batteria da 75 m/m. Gli uomini
del 'S. Giorgio' si impegnarono nel durissimo compito, opponendo le loro
bocche da fuoco ai terrificanti cannoneggiamenti e bombardamenti provenienti
dalle linee avversarie e dal mare e dal cielo. Quotidianamente, senza
sosta, con tiri di accompagnamento, di interdizione, di alleggerimento,
di contro batteria, contrastando animosamente ed efficacemente la pressione
nemica. Il 'S. Giorgio' in linea a tutto il 3 giugno, sparando sino
all'ultimo proiettile.
Genieri italiani della RSI sul fronte di Anzio.
La Xa concorse alla difesa
di Roma anche con i suoi Reparti navali. A Fiumicino venne costituita -meglio
dire: creata- la 'Base Sud' dei Mezzi d'assalto di superficie. Il
comando venne assunto dal Ten. di Vasc. Domenico Mataluno. Tra mille
difficoltà di ogni tipo, innumerevoli furono le uscite in mare dei
Mezzi in dotazione, alla ricerca di naviglio nemico. Notti insonni, attese
snervanti, spesso con mare forte. Il 20 febbraio venne scoperto,
attaccato e colpito con siluro un cacciatorpediniere. Il 28 dello stesso
mese venne affondata una corvetta. Stessa sorte subì l'incrociatore
inglese 'Penelope'. L'ultimo eroico Comandante fu il Ten. di Vasc. pilota
Sergio Nesi -Medaglia d'argento al V.M. sul campo per aver attaccato e
colpito una corvetta nemica. La 'base Sud', al suo comando, operò
sino al 4 giugno '44. In aprile entrò in linea, sul Fronte di Nettuno,
il II' Btg. del I' Rgt. SS italiana, al comando del Ten. Col. Federigo
degli Oddi. Per il valoroso comportamento nei combattimenti e per l'aggressività
dimostrata in ogni circostanza, il Labaro del Btg. fu decorato con la Medaglia
d'argento. Soldati eccezionali che si imposero all'ammirazione per
l'indiscusso valore ed audacia. Vale ricordare, tra i tanti, l'episodio
nel quale dieci Legionari tennero un settore del Fronte, lungo 400 metri,
contro reiterati attacchi di forze di gran lunga superiori e che non portarono
ai risultati sperati. Un altro caposaldo, nella notte tra il 27-28 aprile,
difeso da sette giovani Legionari, venne investito dall'attacco di due
Compagnie fucilieri appoggiate da carri armati e fuoco d'artiglieria. Dopo
dura resistenza la posizione fu, giocoforza, abbandonata. La notte successiva,
un pattuglione di trenta Legionari riconquistarono, con azione irruente
e decisa, il caposaldo. Nel mese di maggio, anche il Battaglione 'Debica'
della Legione SS italiana raggiunse il Fronte schierandosi tra S. Marinella
e Fiumicino. Il 'Debica' in ogni azione fu all'altezza delle aspettative,
coprendosi di gloria e lasciando sul terreno oltre il 50% degli effettivi.
Il valore dei Legionari fu ricompensato con ben quarantacinque Croci di
Ferro e cinquantasette Promozioni per merito di guerra. Dopo 'NETIUNO'
i Legionari della SS italiana furono autorizzati a fregiarsi delle mostreggiature
nere anziché rosse. Parificazione di alto valore morale. A
fine maggio, raggiunse il Fronte di Nettuno anche il Reggimento Paracadutisti
italiani. Gli arditi dei cielo combatterono strenuamente a Castel
Porziano, Ardea, Castel di Decima e all'Acquabona, dove cadde, eroicamente,
il Comandante del Rgt. Maggiore Mario Rizzatti Medaglia d'Oro alla Memoria.
Ai Paracadutisti venne affidato il compito di costante retroguardia del
Fronte in fase di ripiegamento. Questo significò il quotidiano
contatto con un nemico mille volte più numeroso e dotato di mezzi
e volume di fuoco inestinguibili.
Per l'eroico comportamento
dei Paracadutisti, lo schieramento italo tedesco potè effettuare
un regolare sganciamento dalla pressione della Va Armata USA. Le perdite
superarono il 60% dell'organico reggimentale. Il Gagliardetto del Btg.
'Folgore' fu insignìto di Medaglia di Bronzo. Le decorazioni individuali
furono: Tre Medaglie d'Oro VM alla Memoria, Dodici d'Argento alla Memoria,
Diciassette d'Argento VM sul campo, Sedici di Bronzo e Dodici Croci di
guerra al VM. Nei mesi in cui fu combattuta la battaglia per la difesa
di Roma, fu presente, su quel Fronte, anche l'Artiglieria Contraerea e
la risorta Aeronautica della RSI. In particolare, le ali repubblicane parteciparono
con il Gruppo Aerosiluranti, costituito dal valoroso Capitano AA Carlo
Faggioni. Un mese dopo avere giurato fedeltà alla RSI, sette aerosiluranti
entrarono in azione di guerra, al largo di Nettuno, colpendo due navi nemiche.
Era la prima vittoria dell'A.N.R. Subito dopo gli aerosiluranti attaccarono
a Capo Circeo, dove colpirono un cacciatorpediniere, un grosso piroscafo
e tre navi trasporto. La notte del 10 aprile, con un altro attacco,
furono silurate tre navi nemiche. In questa azione cadeva il Comandante
Faggioni. Il 4 giugno, mentre Roma veniva occupata dalle armate 'alleate',
il Gruppo Aerosiluranti, al comando dei Capitano AA Marino Marini -che
aveva sostituito Faggioni- alle ore 21, con dieci SM 79, attaccava la munitissima
base di Gibilterra, mettendo a segno tutti i siluri su altrettante navi
nemiche.
La battaglia in difesa di
Roma è entrata nella Storia d'Italia tingendola con l'azzurro di
questo inestimabile medagliere. Alle Bandiere: - Medaglia d'Argento
VM al Labaro del II/I Rgt. SS italiana. - Medaglia di Bronzo VM al Labaro
dei Btg. 'Barbarigo' della Xa - Medaglia di Bronzo VM al Labaro del
Rgt. Paracadutisti Italiani Individuali: - 3 Medaglie d'Oro
VM alla Memoria - 15 Medaglie d'Argento VM alla memoria - 2 Medaglie di
Bronzo VM alla Memoria - 1 Medaglia d'Oro VM sul campo - 75 Medaglie d'argento
VM sul campo - 28 Medaglie di Bronzo VM sul campo - 37 Croci di guerra
VM sul campo - 94 Croci di Ferro
Granatieri Repubblicani reduci dal Fronte di Cisterna a Sud di Roma.
L'epopea dei Paracadutisti, dei Marò,
dei Legionari, degli Artiglieri, degli Aerosiluranti e dei Mezzi d'assalto
della Xa Flottiglia MAS è patrimonio che viene onorato e si perpetua
nel Campo della Memoria di Nettuno.
NUOVO FRONTE N. 154-155. Maggio-Giugno
1995. (Indirizzo e telefono: vedi
PERIODICI)
LA BATTAGLIA
DI ROMA
Mario Tedeschi
Il "Barbarigo" andò
al fronte nella notte fra l'uno e il due marzo del 1944, quando i millecentoottanta
che formavano il Battaglione vennero trasportati dai Tedeschi fino a Sermoneta.
Lì, dopo che Bardelli fu riuscito ad evitare lo smembramento del
reparto, furono distribuiti gli incarichi: la Compagnia subito nelle "buche"
del Canale Mussolini (oggi Canale Italia) a dare il cambio agli sfiniti
soldati germanici nella punta avanzata dello schieramento; altre due Compagnie
schierate dal Lago di Fogliano fino al fosso di Gorgolicino; un'altra ancora
a Sezze per impratichirsi delle armi tedesche (erano entrati in scena da
poco, per esempio, i razzi anticarro, che i Tedeschi chiamavano panzerfaust
e che bisognava imparare ad usare restando sdraiati a terra e lasciando
che il carro si avvicinasse il più possibile, senza cedere alla
tentazione di filarsela a gambe levate).
Nella notte fra il 4 ed il
5 la Compagnia entrò in linea: prima un tratto sulle camionette
germaniche, che correvano silenziose nella notte lungo le strade dell'Agro
Pontino sbrecciate dalle granate ma ancora guarnite dai filari di eucaliptus;
poi, da Borgo Isonzo in avanti, a piedi e in silenzio. Quel ricambio nelle
"buche" avvenne senza che il nemico se ne accorgesse, e fu davvero
una gran bella prova per soldati inesperti, come noi eravamo; ci rendemmo
conto, poi, che le "buche" del nemico erano a poca distanza,
tanto che tutto si poteva sentire.
La battaglia di Nettuno andò
avanti fino al 24 maggio ed ebbe fine, non perché le truppe angloamericane
ammassate nella testa di ponte di Anzio fossero riuscite a sfondare, ma
perché le altre forze alleate, grazie soprattutto ai Polacchi, ai
Marocchini ed alla loro bravura, erano riuscite ad aprirsi un varco a Cassino.
Rischiavamo così di essere aggirati alle spalle e per questo fu
dato l'ordine di ripiegamento. Ma la battaglia, in realtà, durò
fino al 2 giugno per noi del "Barbarigo", che i Comandi tedeschi
lasciarono a piedi con l'ordine di coprire la ritirata ai loro soldati,
e si protrasse fino all'alba del 4 giugno per quanti fra noi, riuscirono
a farsi accettare nella Compagnia volontaria di centodieci uomini spedita
nel pomeriggio del 3 a garantire un'estrema difesa all'ottavo chilometro
fra le vie Appia, Tuscolana e Anagnina. Le inesperte reclute s'erano conquistate,
in tre mesi, il diritto ad essere prescelte per fare da sicherungsgruppe,
secondo la formula in uso nell'Esercito tedesco per indicare chi veniva
abbandonato fino alla fine per salvare tutti gli altri. Alla nostra destra
si sarebbero dispiegati i paracadutisti della "Folgore" che furono
poi quasi tutti massacrati insieme al loro comandante, essendo stati investiti
dai carri armati americani.
Il fatto merita riflessione.
La battaglia di Anzio (indicata in codice dagli Angloamericani come "operazione
Shingle") incominciò con lo schieramento di ben 234 navi di
diverse nazionalità e vide sbarcare, prima 36mila uomini e 3mila
automezzi, poi altri 34mila uomini e 15mila automezzi. Il generale tedesco
Mackensen, comandante della 14a Armata, fu colto di sorpresa, ma organizzò
presto una prima resistenza; poi intervenne il maresciallo Kesselring,
al comando del Gruppo di Armate C. Le perdite da ambo le parti furono altissime.
Basti pensare che il 4° Corpo d'Armata americano, in soli quattro giorni,
fra il 16 e il 20 febbraio, vide morire 5 mila uomini; i Tedeschi, in una
delle ultime controffensive, persero oltre 3 mila 500 uomini. Alla fine,
la sacca era ridotta ad appena due chilometri di profondità e le
forze alleate non furono ricacciate in mare soltanto per due motivi: perché
il maltempo, che durò a lungo e trasformò la piana in uno
sterminato mare di fango, bloccò i pochi carri armati e i semoventi
di cui ancora disponevano i Tedeschi; e perché la Marina da guerra
angloamericana, con i suoi bombardamenti, frantumò, polverizzò
le posizioni germaniche. Fu, insomma, un autentico macello. E in questo
macello il Comando tedesco, arrivati all'ultima battaglia, affidò
ai volontari italiani, cioè a noi del "Barbarigo", ed
ai nostri commilitoni paracadutisti, il compito disperato di ritardare,
anche soltanto per poche ore, l'avanzata nemica. Non fu una scelta dettata
dall'egoismo di chi non voleva sacrificare i propri connazionali e preferiva
ricorrere ad altri come "carne da cannone". In casi del genere,
le scelte si fanno avendo la certezza che i soldati comandati al compito
disperato non si daranno alla fuga e combatteranno fino all'ultimo, come
voluto. Quelle disposizioni dell'ultimo giorno furono, dunque, assai più
importanti d'una decorazione collettiva, d'una citazione sul campo.
Il Comandante Borghese in visita al Fronte di Anzio assieme al Comandante
Bardelli con altri marò del Barbarigo.
Adesso dovrei raccontare della
lunga battaglia, che il "Barbarigo" conobbe tutta, senza risparmio,
dal Canale Mussolini a Fogliano, da Terracina a Borgo Isonzo, da Borgo
Piave a Gorgolicino, da Cisterna a Campo di Carne, da Doganelle a Sezze;
e poi tutti i nostri capisaldi, da "casa Falangola" alla "ridotta
Fracassini", a "Erna" e "Dora". Nomi e località
che nessuno di noi ha dimenticato e di cui in anni vicini siamo andati
vanamente alla ricerca nell'Agro Pontino, dove la ricostruzione ha cancellato
tutto e per i nostri morti non c'è nemmeno un cimitero. Soltanto
alcuni alberi, eucaliptus lungo le strade, palme ad Anzio, sopravvivono,
mostrando antiche ferite; guardandoli, e ricordando cosa fu la battaglia,
si rimane ancora stupiti per la loro forza, eguale soltanto a quella della
memoria dei combattenti.
Il lettore non si attenda
da me un racconto epico. Innanzi tutto, perché non ne sarei capace.
In secondo luogo, perché una relazione in tono epico sulla vicenda
del "Barbarigo" fu già scritta da Giulio Cencetti, che
del Battaglione fu anche il comandante nel periodo finale. E infine perché
lo stile e il modo di pensare di tutti noi ("siamo quelli che siamo")
erano diversi e lontani dalla retorica; ed io sto cercando di far capire
come eravamo.
Il "Barbarigo" subì
a Nettuno, in soli tre mesi, perdite altissime: oltre 200 morti, più
di cento dispersi, quasi 200 feriti su un totale di millecentoottanta uomini.
Ciò dimostra che non fummo risparmiati, né ci risparmiammo.
Ma questo era proprio quello che volevamo. Eravamo tutti volontari e di
un buon livello culturale: la grande maggioranza studenti. Avemmo la fortuna
di ritrovarci ufficiali di ottimo livello, scelti con occhio sicuro da
Borghese e da Bardelli. Da loro, noi novellini imparammo subito una cosa:
e cioè che il compito del soldato non è, né quello
di fare l'eroe, né quello di obbedire alle esaltazioni momentanee,
ma più semplicemente, consiste nel 'fare quello che va fatto",
in ogni momento e in ogni situazione, senza stare a tirarla in lungo e
sapendo che tra le cose che "vanno fatte" può rientrare
anche il sacrificio della vita.
Questo era lo spirito dei
primissimi volontari, quelli del fronte di Nettuno, ma anche di quanti
giunsero più tardi dopo la caduta di Roma, provenienti da altri
reparti, per ricostruire il Battaglione, le cui perdite erano aumentate
durante il ripiegamento verso il Nord. E così, il vero "prodigio"
del nostro "Barbarigo" fu quello di amalgamare e trasformare
in autentici soldati tanti ragazzi che, come il povero Spagna, erano entrati
in linea senza nemmeno aver tirato, fino al giorno prima, una bomba a mano.
Non c'è bisogno di essere esperti di cose militari per capire l'eccezionalità
di questo fatto: basta aver visto, in qualcuno degli innumerevoli film
di guerra trasmessi dalla televisione, l'importanza che viene attribuita
all'addestramento. Noi, il tirocinio lo facemmo combattendo, come avevamo
desiderato. E fummo riconoscenti a Valerio Borghese per averci consentito
di realizzare quel desiderio. La storia è tutta qui.
I primi a morire furono, quasi
per un segnale simbolico, due fra i più giovani: Alberto Spagna,
di cui ho già detto, e il guardiamarina Paolo Sebastiani, che era
stato anche l'alfiere del Battaglione. Il 1° aprile del '44 il numero
uno del giornale di reparto, un modesto foglietto stampato a Littoria (oggi
Latina), pubblicava l'elenco dei primi caduti e il saluto del comandante
Bardelli:
Guardiamarina Sebastiani Paolo,
1a Compagnia; 2° Capo Nobili Emilio, 1a Compagnia; Sergente Cortese
Enzo, 3a Compagnia; S.C. Farné Alfonso, 2a Batteria; Marò
Egi Walter, 3a Compagnia; Marò Frezza Emanuele, 1a Batteria; Marò
Mancino Aldo, 2a Batteria; Marò Spagna Alberto, 1a Compagnia.
Ho voluto citare questi nomi,
nel modo stesso in cui furono elencati, per far capire che tutto il Battaglione
fu subito impegnato, compreso il famoso "Gruppo cannoni", che
Bardelli era stato costretto ad inventare lì per lì, vincendo
la scommessa grazie alla bravura del capitano (tenente di vascello) Mario
Carnevale. A nome dei morti, Bardelli scrisse: "Siamo tutti qui per
i vivi, perchè il nostro giovane e puro sangue non sia dimenticato
e dia frutto, perché i compagni che combattono sanno che senza di
noi ogni parola e ogni promessa non sono che vuota retorica".
Parole delle quali, anche
in tempi segnati dalla retorica dell'antiretorica, non è lecito
sorridere, perché non furono scritte a vuoto: molti di quelli che
le lessero allora furono uccisi, lo stesso Comandante che le scrisse morì
combattendo, dopo aver gridato a chi l'aveva preso in imboscata: "Barbarigo
non s'arrende!". Sembra letteratura, cattiva letteratura, a chi legge
con gli occhi di mezzo secolo dopo. Per noi tutti fu vita.
In questo stesso spirito si
svolsero i molti episodi di cui furono protagonisti i soldati del "Barbarigo".
Quando eravamo arrivati a Sermoneta, all'inizio dell'avventura, la piana
che degradava dalla rocca verso il mare bruciava dei mille fuochi della
battaglia e, sullo sfondo, i traccianti delle artiglierie di marina disegnavano
nel cielo fantastici reticoli luminosi. Poi, quando anche noi ci trovammo
immersi in quel macello, la battaglia si frantumò, come sempre avviene
per tutti i soldati. Avemmo di fronte, di volta in volta, Canadesi, Neozelandesi,
Americani; atletici e sportivi i primi, nei pochi casi in cui si riuscì
a farne prigioniero qualcuno dovettero piegarsi a cedere le scarpe.
Noi avevamo ai piedi gli stivaletti
"da franchigia" della Marina, tutto quello che Borghese e i suoi
collaboratori erano riusciti a trovare, e sembravano di cartone, fatti
per impregnarsi d'acqua; loro avevano anfibi comodissimi, impermeabili
e caldi. Chi invece, fra i nostri, fosse caduto prigioniero, ma sì,
anche degli Americani, sapeva che gli conveniva offrire subito l'orologio
e quant'altro di valore avesse indosso, per evitare d'essere ucciso e rapinato.
C'erano anche Americani convinti
del fatto che un prigioniero nemico, nel corso d'una battaglia, è
"res nullius", con tanti saluti alla convenzione di Ginevra.
Debbo aggiungere, a onore
dei miei vecchi commilitoni, che essi ancora oggi preferiscono parlare
del Battaglione, più che di loro stessi. E' tuttora vivo, insomma,
lo spirito che si manifestò tanti anni fa quando l'allora guardiamarina
Enzo Leoncini, che aveva il comando della 3a Compagnia, dopo un'azione
che aveva suscitato ammirazione anche presso i Tedeschi, venne chiamato
al Comando di Battaglione e si sentì dire che sarebbe stato proposto
per una medaglia d'argento. "Allora la date anche ai marò dei
quattordici avamposti, che hanno fatto tutto", rispose Leoncini: "c'ero
anch'io, li comandavo io; ma se non era per loro staremmo ancora correndo
verso Roma con gli Alleati al culo". Quelli del comando non volevano
capire, ma Leoncini non mollò: "Una sola medaglia per me non
fa per noi. O la date a tutti quelli che dico io o non la date a nessuno".
Si addivenne finalmente a un compromesso: "Io", disse Leoncini,
che era romano, "a Roma ho una ragazza, e così buona parte
dei miei uomini. Andiamo in permesso a Roma cinque o sei per volta, per
24 ore, poi torniamo e non se ne parla più". E così
fu fatto.
Marò del Barbarigo in una pausa di battaglia al fronte di Anzio.
Ma lo straordinario "collettivo"
(per usare una definizione d'oggi) che fu il "Barbarigo", forni
anche tanti spunti individuali, che meritano rievocazione. Parlo di quando
il capo di 3a classe Giulio De Angelis, detto "lo Sceriffo",
per esser certo che i suoi giovani marinai durante la notte fossero ben
svegli, ruzzolava fuori dalle "buche" e poi si avvicinava strisciando
alle linee, a rischio di farsi accoppare; e quando trovava qualcuno addormentato
gli calava addosso e cominciava a pestarlo di santa ragione con la bomba
a mano tedesca usata a mo' di randello dicendo: "se era il negro (in
genere gli Americani usavano soldati di colore per le azioni di sorpresa)
a quest'ora era morto". Parlo di Mario Riondino, all'epoca guardiamarina,
che in un'azione di pattuglia guidata da un feldwehbel tedesco (analoga
a quella di cui ho già scritto) alla fine si ritrovò a salvare
lui, sulle spalle, il sottufficiale ferito, dopo che i soldati della Wehrmacht
se l'erano data a gambe, e ricevette per questo anche lui un colpo mentre
rientrava nelle linee; il tutto sottolineato da una croce di ferro di seconda
classe che von Schellerer in persona gli appuntò sul petto. Parlo
di Renato Carnevale, artigliere d'Africa Orientale e d'Albania, che in
poche ore, avendo ricevuto dai Tedeschi nove cannoni da 105/28 (privi peraltro
di reti mimetiche e di altri strumenti, che lo stesso Carnevale dovette
andare a Roma a procurarsi con mezzi di fortuna, viaggiando su una Balilla
sconquassata, denominata "cassa da morto"), mise in piedi il
Gruppo "San Giorgio" e nel giro di tre settimane riuscì
a meritarsi una citazione del Comando di Kesselring. Parlo di Alberto Marchesi
e dell'indomito coraggio che lo spinse, nei giorni del ripiegamento su
Roma, ad avventurarsi in mezzo ai reparti in ritirata per rintracciare
quelli nostri, che erano rimasti senza ordini, abbandonati dai Tedeschi
sulle loro posizioni, dalle quali nessuno intendeva andarsene di sua iniziativa,
sempre per via di quel maledetto 8 settembre e del ricordo ignominioso
delle fughe collettive (ma noi vedemmo anche i Tedeschi fuggire, e in più
d'un caso restammo a coprir loro le spalle).
Parlo di Paolo Posio e degli
uomini della 2a e 3a Compagnia impegnati a Cisterna contro gli "Sherman"
americani che avanzavano aprendo la strada alle fanterie, e che per ore
tennero le posizioni, anche dopo che il Comando tedesco aveva ordinato
di rientrare.
Parlo, infine, di Alessandro
Tognoloni che, sempre a Cisterna, benché ferito non accettò
di ritirarsi e si gettò contro i carri nemici avanzanti armato soltanto
della pistola e d'una bomba a mano. Scomparve nel polverone della battaglia,
fu dato per morto e si ebbe, per quel fatto, una medaglia d'oro alla memoria,
che avrebbe meritato comunque. Nemmeno lo stile ampolloso di cui i ministeriali
erano specialisti in casi del genere (e tali rimasero su entrambi i lati
del fronte durante la guerra civile, tali sono ancor oggi; come se la guerra
e gli atti di valore non si potessero raccontare con le parole d'ogni giorno),
riuscì a velare il coraggio di Tognoloni: "Ufficiale comandante
di un plotone fucilieri inviato di rinforzo a reparto duramente provato,
riusciva con i propri uomini a contenere per molte ore la straripante pressione
avversaria. Invitato dai superiori a ritirare il plotone ormai duramente
provato, insisteva ancora una volta nel condurlo al contrattacco. Ferito,
a chi tentava di portargli aiuto, ordinava di non pensare a lui. Trascinatosi
nelle linee italiane e vista la situazione ormai insostenibile, dopo aver
con grande freddezza dato ai pochi superstiti disposizioni per il ripiegamento
ed essersi assicurato che il ripiegamento si effettuava con il salvataggio
di tutte le armi, si scagliava contro il nemico irrompente con la pistola
in pugno e lanciando bombe a mano, fino a quando veniva travolto dalle
forze corazzate avanzanti. Meraviglioso esempio di cosciente eroico sacrificio"
Riporto per esteso questa
motivazione, non soltanto perché il fatto è autentico e la
decorazione ben meritata, ma perché Sandro Tognoloni in realtà
non morì; fu raccolto ferito dagli Americani e portato prigioniero
negli Stati Uniti. Di dove tornò, e il 30 luglio del 1951 si vide
giungere, dal Comando del Distretto militare di Roma, protocollo 22/C7525,
indirizzata al sottotenente di complemento di fanteria Tognoloni Alessandro
una lettera che recava in oggetto la dicitura "partecipazione punizione"
ed era così formulata: “prestava circa 7 mesi di servizio in una
formazione della X Mas. Il 21/5/44 gravemente ferito a Cisterna, veniva
catturato dagli americani. Per il suo comportamento veniva decorato della
medaglia d'oro al V.M. Condonata in virtù del D.L.P. 24/6/46 n.
10”.
Mirabile esempio di militarburocratese,
dove non si capisce bene se il Governo di questa Repubblica abbia condonato
l'indisciplina di Tognoloni o la sua medaglia d'oro.
Ma anche a questo, alla guerra
burocratica che avrebbe voluto cancellarci per sempre ed arrivò,
per tal fine, addirittura a cancellare il nostro servizio militare nella
Repubblica Sociale, come se non fosse mai esistito, come se non avessimo
mai combattuto, siamo riusciti a sopravvivere.
Tre mesi, durò la battaglia
di Nettuno per il "Barbarigo". Quella per Roma durò soltanto
una notte. L'ultima notte. Quella del sabato 3 alla tarda mattinata della
domenica 4 giugno 1944 quando, in pochi superstiti, ce ne andammo, ultimo
reparto organizzato ad uscire dalla città, per la via Flaminia,
sotto gli attacchi dei caccia americani.
Roma era stata per mesi alle
nostre spalle, muta ed ostile. Ma, al fronte, questo era permesso anche
ignorarlo. La gente, quando alla sera si chiudeva nelle case e spegneva
le luci, tendeva l'orecchio ai tonfi lontani, dove eravamo noi, e cercava
di capire. Capire quanto avremmo resistito ancora, perché soltanto
questo importava. Per quanto tempo la città avrebbe dovuto continuare
a sopportare una difesa che non voleva.
Più i tonfi erano vicini,
forti e continui, più la gente era lieta. Lieta della sua viltà,
fra le pareti calde e le finestre ben chiuse, unita nel desiderio di cibo,
che la spingeva a contare con gioia i nostri morti; non tanto per odio,
quanto perché essi erano l'indice più sicuro della progressiva
paralisi nostra. Roma non ci odiava né ci amava: voleva soltanto
che ce ne andassimo, per poter finalmente ritrovare le "abboffate".
Del resto, era pur sempre la città che pochi mesi prima, il 25 luglio
del 1943, aveva salutato la caduta del fascismo inalberando cartelli con
la scritta "Viva Badoglio che ci dà l'olio". Ideologie,
onore militare, amor patrio, come dicono a Roma "nun sò cose
che se magneno". Così era andata, ripeto, e nessuno di noi,
lontano, se n'era reso conto veramente. Ma quando, alla sera del 3 giugno,
ripartimmo da Roma per raggiungere l'ottavo chilometro dell'Appia e distenderci
come sicherungsgruppe, il dubbio non era più possibile per nessuno.
E per questo dico che allora, e solamente allora, noi combattemmo la vera
Battaglia per Roma.
Il Battaglione era tornato
due giorni prima, dopo aver combattuto per tutto il ripiegamento insieme
a pochi reparti di copertura della 7351 Divisione tedesca. Battaglia dura,
combattuta passo per passo da gente sorretta unicamente dal desiderio di
spuntarla. Il ripiegamento era cominciato, come ho già detto, il
24 maggio e, da allora, ci eravamo fermati soltanto il 2 giugno, entro
le mura del Distaccamento Marina.
La città accolse distratta
e indifferente la nostra banda cenciosa e sporca, come sempre quando i
soldati vengono dalla battaglia. Se tutti quei partigiani antifascisti
di cui negli anni successivi si è tanto favoleggiato fossero esistiti
veramente, avrebbero potuto attaccarci e, forse, anche sopraffarci. Ma
non si vide nessuno. La città era calma, i tram circolavano; Roma
pensava ad altro. Pensava a quelli che ormai stavano arrivando, ragionava
obbedendo alle spinte dei ventri vuoti e della paura continua. Noi, che
ci stavamo a fare ancora? Non eravamo che fantasmi.
Così, quando alla sera
del sabato 3, insieme all'ordine di evacuare Roma entro le 24, il comandante
Bardelli ebbe quello di formare una Compagnia volontaria (e fu chiamata
poi "L'Ultima") da mandar giù all'ottavo chilometro, verso
Cinecittà, per creparci tutti se necessario, centodieci uomini si
offrirono in un minuto. Questo sa di retorica, forse, e può suonare
falso; ma è così. Eravamo centodieci, comandati da Mario
Betti, che da anni faceva il soldato e proveniva dal Decimo Arditi e che
poi, a guerra finita, scoprii essere un professore di flauto. E Betti aveva
con sé, come ho già detto, Giulio Cencetti, Paolo Posio,
Mario Cinti e Claudio Cicerone come ufficiali subalterni. Centodieci, con
i piedi piagati dalle lunghe marce del ripiegamento, le divise sporche
e la testa in subbuglio per il dolore e la rabbia; mandati contro gli "Sherman"
con i soli mitra e le bombe a mano, su due camion che non ci avrebbero
aspettato perché, tanto, secondo le previsioni del Comando tedesco,
non sarebbero serviti. A Via Veneto, quando passammo, la gente era ai caffè,
ed era tanta, perché molti erano scesi a Roma per "farsi liberare"
(altri ne trovammo poi a Firenze, dello stesso tipo). Dall'alto delle macchine
urlammo loro le ingiurie più oscene che mai soldati abbiano gridato,
sbattendole su quei visi pallidi, che non volevano guardarci.
Tutti urlammo e imprecammo,
contro loro e le loro madri, e odiammo Roma con tutte le nostre forze,
perché non voleva essere difesa. Finalmente trovammo il posto, e
ci spiegammo in ordine mentre i due camion tedeschi ripartivano verso Roma
alla svelta. Fu bravo Cencetti a bloccarne uno e ad imporre all'autista
di mollare almeno la motrice, agganciando il rimorchio a quello del primo
automezzo. Non c'era più nessuno e per la strada venivano giù,
a rotta di collo, i superstiti degli ultimi gruppi di guastatori che erano
rimasti indietro a far saltare ponti e strade. Ora toccava a noi, e fra
breve anche quel piccolo transito alla spicciolata sarebbe finito. Tra
le canne degli orti venivano avanti i marocchini, armati di lunghi coltelli:
loro erano pronti a sbudellare chiunque gli si parasse di fronte, noi dovevamo
rallentare l'avanzata. E così cominciò. Ignoravamo che alla
nostra destra i paracadutisti, investiti direttamente dai corazzati nemici,
erano stati tutti sopraffatti, insieme al comandante Rizzati, morto, in
testa ai suoi, da quel bravo soldato che era.
Paracadutisti della Nembo.
Albeggiava quando una macchina
con a bordo tre ufficiali tedeschi arrivò correndo, da destra; si
vedeva che venivano dalla battaglia. "E voi che fate qui?". "Sicherungsgruppe",
fu la risposta. "No, andate via, andate via; ormai tutto kaput. Andate
via, tra poco qui arrivano gli Americani..."
Così ricominciammo
il ripiegamento, puntando ancora una volta verso Roma, al Distaccamento
Marina. Facemmo un giro largo, dalla parte del Verano, perché sapevamo
che il nemico sarebbe entrato dal lato opposto, come in effetti avvenne.
Arrivammo a Maridist e trovammo
la caserma già invasa da civili che stavano rubando tutto il possibile.
Nella furia del saccheggio uno di loro era stato addirittura spinto giù
dalle scale ed era morto; chissà se saranno riusciti a farlo passare
per caduto in guerra e far avere ai suoi una pensione. Sparammo qualche
colpo in aria e i saccheggiatosi scapparono, ma senza allontanarsi troppo;
rimasero nei pressi, come corvi, in attesa di poter ricominciare. Sapevano
che dovevamo andarcene, e presto. E qui venne il bello.
Infatti, grazie al sacrificio
dei paracadutisti, i calcoli del Comando germanico erano risultati sbagliati
e noi eravamo riusciti in buon numero a sopravvivere. Una sola motrice
non ci bastava per andarcene. Così una pattuglia, fu spedita verso
la Flaminia e tornò avendo sequestrato un autocarro con rimorchio
appena arrivato in città e destinato alla borsa nera. A bordo, scarpe
di cartone e alcuni sacchi di quelle piccole, caccolose pseudo-caramelle
che circolavano allora. Staccammo il rimorchio, scaricammo le scarpe, tenemmo
qualche sacco di caramelle (non avevamo nulla da mangiare) e puntammo verso
nord.
A piazzale Flaminio, la gente
s'era assiepata per vedere i Tedeschi che se ne andavano; ed era uno spettacolo
davvero, perché il soldato tedesco, quando ha la sensazione che
il comando abbia mollato, pensa soltanto a salvare la pelle. I primi reparti
germanici organizzati li avremmo rivisti sotto Viterbo, quando incrociammo
una colonna di carri della "Hermann Góring" che scendeva
controcorrente.
Noi arrivammo, con le nostre
due motrici, verso le tredici, quando dall'altra parte della città,
a San Paolo, la folla era già in strada ad applaudire i soldati
anglo-americani. Eravamo, come ripeto, l'ultimo reparto inquadrato, cioè
con ufficiali al comando e uomini che obbedivano agli ordini e non pensavano
solamente a scappare. La gente ci vide, ci riconobbe. Fu un attimo di gelo.
Poi un marò, e non sono mai riuscito a sapere chi fosse, ebbe un
colpo di genio: affondò una mano in un sacco di caramelle e cominciò
a lanciarle alla folla. Altri lo imitarono. Fu un successo travolgente:
la gente si accapigliava per raccogliere le caramelle e batteva le mani.
Fu così che uscimmo
fra i battimani da quella Roma che non ci amava e per la quale ci eravamo
battuti, senza che lei ce lo avesse mai chiesto.
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