I due volti del Liberalismo
Qualche tempo fa ci siamo occupati di un articolo apparso sulla rivista online “Il Dubbio”
che attribuiva a Julius Evola la natura di vero e proprio “libertario”,
un’indole che sarebbe stata nascosta sotto l’etichtta di “fascista” e
“reazionario”, notoriamente affibiatagli. Oltre che a rinviare a quanto
da noi osservato al riguardo nell’apposito editoriale, ed oltre che a rimandare agli approfondimenti contenuti nel capitolo III (“Personalità – libertà – gerarchia”) de “Gli Uomini e le Rovine”
, riproponiamo quest’articolo dove sinteticamente, ma in modo
decisamente chiaro, Evola precisava determinate posizioni in materia di
libertà, liberalismo e dintorni.
***
di Julius Evola
(tratto da Il Borghese, n. 41, Roma, 10 ottobre 1968)
Una coalizione delle forze di Destra,
se già da tempo in Italia sarebbe stata auspicabile, al giorno d’oggi,
dato il crescente deteriorarsi della situazione interna, dovrebbe
presentarsi come una esigenza imprescindibile a chiunque abbia un senso
di responsabilità politica e morale. L’unità nei termini di un movimento
nazionale complessivo, che dovrebbe cercare di guadagnare gradatamente a
sé strati sempre più ampi della popolazione, sarebbe la prospettiva
migliore. Ma vi è da considerare anche l’intesa di quei partiti politici
che oggi vengono genericamente chiamati di Destra, per il peso che
avrebbe una loro coalizione anche semplicemente tattica, ma ben
concertata, nella lotta politica da svolgere nel quadro democratico
parlamentare.
Gli
ostacoli che, tuttavia, incontra ancora questa stessa unità
semplicemente tattica e pragmatica non possono che accusare la
prevalenza di interessi particolari, spesso anche personali, e di punti
di vista assai ristretti, rispetto ad un più alto, impersonale, comune
interesse. Qui non considereremo questo aspetto strettamente
politico del problema. Vorremmo invece intraprendere una breve analisi
dal punto di vista dottrinale. Anche se essa allo stato
presente delle cose potrà apparire inattuale e soltanto accademica, pure
non mancherà forse di presentare un certo interesse per una discussione
delle idee e per un orientamento.
Ci proponiamo, cioè, di vedere
quali elementi validi potrebbero essere raccolti da ciascuno dei partiti
che oggi sono indicati come di Destra, epperò quale sarebbe il
contributo che essi ideologicamente, in via di principio, potrebbero
dare alla definizione e alla costruzione di un vero Stato, di uno Stato
di Destra.
I partiti che entrano in questione sono quello Liberale, quello di Unità Monarchica e il Movimento Sociale Italiano. Non esiste, in Italia, un partito conservatore
(un tale carattere non lo si può di certo riconoscere alla DC, il cui
scialbo tradizionalismo borghese clericaleggiante sta ormai dando luogo
ad una decisa apertura alle forze di sinistra). Del resto, nell’Italia vi sarebbe ben poco da «conservare».
A prescindere dal periodo fascista, resterebbe quel periodo
post-risorgimentale nel quale la cosiddetta Destra storica fu ben lungi
dal rappresentare qualcosa di paragonabile, come significato, a ciò che
sono stati i partiti conservatori, soprattutto nell’Europa centrale, in
parte anche in Inghilterra.
Cominceremo con l’esame del liberalismo.
Ha qualcosa di sintomatico e quasi di umoristico il fatto che esso oggi
da noi si presenti come un partito di Destra, mentre nel precedente
periodo gli uomini di Destra videro in esso la bestia nera, una forza
sovvertitrice e disgregatrice proprio come attualmente vengono
considerati (anche dagli stessi liberali) il marxismo e il comunismo. In
effetti, a partire dal ’48, il liberalismo, il nazionalismo
rivoluzionario e l’ideologia massonica antitradizionale appaiono, in
Europa, strettamente collegati, ed è sempre interessante sfogliare le
antiche annate di Civiltà Cattolica per vedere come ci si esprimeva nei riguardi del liberalismo di quel tempo.
Ma noi lasceremo da parte questa congiuntura per dare un breve cenno, necessario ai nostri fini, sulle origini del liberalismo. È noto che tali origini vanno cercate in Inghilterra, e può dirsi che i precedenti del liberalismo furono feudali e aristocratici:
ci si deve riferire ad una nobiltà locale gelosa dei suoi privilegi e
delle sue libertà la quale, facendo corpo nel Parlamento, intese
difendersi da ogni abuso della Corona. In seguito, parallelamente all’avanzata della borghesia, il liberalismo si rflesse nell’ala whig del Parlamento opponendosi ai conservatori, ai Tories. Ma è da rilevare che fino a ieri il partito svolse la funzione di una «opposizione organica», fermo restando il lealismo allo Stato, tanto che si poté parlare della His Majesty’s most loyal opposition
(la lealissima opposizione di Sua Maestà). L’opposizione esercitava nel
sistema bipartitico una semplice funzione di freno e di controllo.
Il fattore ideologico di sinistra non penetrò nel liberalismo che in un periodo relativamente recente,
e non senza relazione con la prima rivoluzione spagnola, tanto è vero
che la designazione originaria dei liberali fu quella spagnola, ossia liberales (e non liberals, come in inglese). Ed è qui che comincia la flessione. È da tener per fermo che il primo liberalismo inglese ebbe un carattere aristocratico: fu un liberalismo del gentleman,
epperò un liberalismo di classe. Non si pensò a libertà che ognuno
potesse rivendicare. Sussiste tuttora in Inghilterra questo aspetto sano
e, in fondo, apolitico del liberalismo: il liberalismo non come una
ideologia politico-sociale ma come l’esigenza che, a prescindere dalla
particolare forma del regime politico, il singolo possa godere di un
massimo di libertà, che la sfera della sua privacy, della sua
vita personale privata, sia rispettata e venga evitata l’intromissione
di un potere estraneo e collettivo. In via di principio, questo è un
aspetto accettabile e positivo del liberalismo, che dovrebbe
distinguerlo dalla democrazia, poiché nella democrazia il momento
sociale e collettivizzante predomina su quello della libertà
individuale.
Ma qui si ha anche il punto di
svolta, perché un liberalismo generalizzato e indiscriminato, assumendo
vesti ideologiche, si fuse, sul continente europeo, col movimento
illuminista e razionalista. Qui venne in primo piano il mito dell’uomo
che, per essere libero e veramente sé stesso, deve disconoscere e
respingere ogni forma di autorità, deve seguire soltanto la sua ragione,
non deve ammettere altri vincoli oltre quelli estrinseci, da ridurre ad
un minimo, senza i quali nessuna vita consociata sarebbe possibile. In
questi termini il liberalismo divenne sinonimo di rivoluzione e di
individualismo (ancora un passo avanti, e si giunge all’idea anarchica). L’elemento primario è visto nell’individuo, nel singolo. E qui vengono introdotte due pesanti ipoteche
nel segno di ciò che Croce doveva denominare la «religione della
libertà» ma che noi piuttosto chiameremmo il feticismo della libertà.
La prima ipoteca è che
l’individuo sia ormai «evoluto e cosciente», quindi capace di
riconoscere da sé o di creare ogni valore. La seconda e che dall’insieme
dei singoli individui lasciati allo stato libero (laissez faire, laissez aller) possa sorgere miracolisticamente un ordine saldo e stabile:
per il che, bisognerebbe però ricorrere alla concezione teologica di
Leibniz della cosiddetta «armonia prestabilita» (dalla Provvidenza),
tale che, per usare un paragone, benché le rotelle dell’orologio vadano
ognuna per conto suo, pure l’orologio funzioni e segni sempre l’ora
esatta. In sede economica, dal liberalismo deriva il
«liberismo», che si può chiamare l’applicazione dell’individualismo nel
campo economico-produttivo, afietto da una uguale utopia
ottimistica circa un ordine che nasca da sé e sia tale da tutelare
veramente la conclamata libertà (dove vada a finire la libertà del più
debole, in regime di una sfrenata e piratesca concorrenza, lo si sa
bene). Ma lo spettacolo offerto dal mondo moderno mostra quanto siano
arbitrario l’una e l’altra assunzione.
A questo punto si può venire ad alcune conclusioni. Il
liberalismo ideologico, nei termini or ora accennati, è evidentemente
incompatibile con l’ideale di un vero Stato della Destra. Non può essere accettata la premessa né la fondamentale insofferenza per ogni superiore principio di autorità. La
concezione individualistica ha un carattere inorganico; la presunta
rivendicazione della dignità del singolo si risolve, in fondo, in una
menomazione di essa per via di una premessa ugualitaria e livellatrice.
Così nei tempi più recenti il liberalismo non ha avuto nulla da ridire
circa il regime del suffragio universale della democrazia assoluta, dove
la parità di qualsiasi voto, riducente la persona ad un semplice
numero, è una grave offesa all’individuo nel suo aspetto personale e
differenziato. Poi, in fatto di libertà, si trascura l’essenziale distinzione fra la libertà da qualcosa e la libertà per qualcosa (ossia per fare qualcosa).
Ha poco senso essere tanto gelosi della prima libertà, della libertà
esterna, quando non si sanno indicare ideali e fini politici superiori
in funzione dei quali l’uso di essa acquisti un vero significato. La concezione di base di un vero Stato, di uno Stato di Destra, è «organica», non individualistica.
Ma se il liberalismo,
rifacendosi alla sua tradizione pre-ideologica e pre-illuminata, si
limitasse a propugnare la massima libertà possibile della sfera
individuale privata, a combattere ogni abusiva o non necessaria
intromissione in essa di poteri pubblici e societari, se esso servisse
da remota alle tendenze «totalitarie» in senso negativo e oppressivo,
se difendesse il principio di libertà parziali (ma esso dovrebbe
difendere anche l’idea di corpi intermedi, dotati appunto di parziali
autonomie, fra vertice e base dello Stato, il che lo condurrebbe verso
un corporativismo), se fosse disposto a riconoscere uno Stato omnia potens ma non omnia facens
(W. Heinrich) ossia esercitante una superiore autorità senza
intromettersi dappertutto, il contributo «liberale» sarebbe senz’altro
positivo.
Specie data la situazione attuale
italiana, potrebbe essere anche positiva la separazione, propugnata dal
liberalismo ideologico, della sfera politica da quella ecclesiastica,
sempreché ciò non implichi la laicizzazione materialistica della prima.
Qui s’incontrerebbe però, verosimilmente, un ostacolo difficile da
superare, perché il liberalismo ha una fobia per tutto ciò che
può assicurare all’autorità statale un fondamento superiore e spirituale
e professa un feticismo per il cosiddetto «Stato di diritto»: uno
Stato, cioè, della legalità astratta, quasi che la legalità
esistesse fuori dalla storia, e diritto e costituzione cadessero belli e
fatti dal cielo, con carattere di irrevocabilità.
Lo spettacolo della situazione a
cui ha condotto la partitocrazia in regime di masse e di demagogia,
dovrebbe poi far riflettere sull’antica tesi liberale (e democratica),
che il pluralismo disordinato dei partiti garantisca la libertà.
E in quanto alla libertà rivendicata ad ogni costo su altri piani, ad
esempio su quello della cultura, oggi varie precisazioni sarebbero
opportune, se non si vuole che tutto vada definitivamente e velocemente
alla deriva. Si vede bene di che cosa l’uomo moderno, divenuto
finalmente «adulto e cosciente» (secondo il liberalismo e la democrazia
progressista) si è reso capace nei tempi ultimi con la sua «libertà»,
che spesso è stata quella di produrre sistematicamente bacilli
ideologici e culturali che stanno portando alla dissoluzione un’intera
civiltà.
Ma a tale riguardo il discorso sarebbe
lungo e porterebbe fuori dal quadro del nostro esame. Supponiamo che con
queste note, sia pure in modo estremamente sommario, ciò che di
positivo e ciò che di negativo può presentare il liberalismo dal punto
di vista della Destra, sia stato messo in evidenza.
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