25 Luglio '43: la lunga notte di Mussolini
Dopo 9 ore di riunione si decide di restituire l'incarico al re
Il Gran
Consiglio del Fascismo, alle 2 e 40 del mattino, approva con 19 voti a
favore e solo 7 contrari l'ordine del giorno Grandi. L'ultima parola
spetta a Vittorio Emanuele III. E' la fine del Ventennio e del Duce come
Primo Ministro.
“Signori, con quest’ordine del giorno avete
provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”. Sono le 2 e 40 del
mattino, il Gran Consiglio del Fascismo è riunito da oltre nove ore
quando Benito Mussolini e gli altri membri del Governo lasciano la
grande sala del Pappagallo. Mancano ancora due anni alla fine del Duce,
ma il “Ventennio” si conclude li.
Il 25 luglio 1943 è una di quelle date che ha segnato la storia del ‘900. A ripensarci, settant’anni dopo, viene da domandarsi cosa sarebbe successo se, nel pomeriggio del giorno precedente, non fosse iniziata la discussione dell’“ordine del giorno Grandi”. Quasi sicuramente l’Italia non avrebbe tradito il suo alleato storico, la Germania, per cercare di conquistare una vittoria abortita al fianco dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti. Troppo facile ipotizzare con il senno di poi. Più difficile è dare ai fatti il vero significato ed il vero peso che hanno avuto per il popolo che li ha vissuti.
Le Idi di marzo del Duce Roma, 24 luglio 1943. Ore 17, 14. La città è avvolta da un’afa opprimente, fanno più di 30° all’ombra. Ma la vera morsa che attanaglia il Paese è un’altra. Due settimane prima gli americani sono sbarcati in Sicilia. Mussolini ha provato a tranquillizzare la Nazione, ma non gli hanno creduto neppure i suoi gerarchi. La guerra è persa. Forse la resa non sarà immediata, di sicuro i tedeschi cercheranno di impedire che Roma cada. Ma da quando il primo soldato statunitense poggia il piede sulle bianche spiagge di Lampedusa, tutti capiscono che è iniziata la fine. La fiducia del Duce del fascismo e dell’Impero, quella che riempiva di una folla adorante piazza Venezia appena 3 anni prima, sembra essere volatilizzata. Gli italiani sono stanchi del conflitto mondiale e della povertà dilagante. La nazione è sull’orlo del collasso. Perfino Roma, nonostante sia stata dichiarata “Città aperta” viene bombardata il 19. Così, anche quelli che erano stati fedelissimi a Mussolini fin dalla primissima ora, cominciano a vedere un futuro senza il Duce. Forse è questo che spinge Dino Grandi, ex Ministro degli Esteri e attuale Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il gerarca che con Galeazzo Ciano era il più ostile ad Adolf Hitler, presenterà un ordine del giorno che può rimescolare le carte in tavola. Un documento la cui bozza gira già da diversi giorni
In quella caldissima mattina d’estate, il Duce si deve sentire un po’ come Giulio Cesare alle Idi di marzo. Sa benissimo che se aprirà la seduta del Gran Consiglio, il suoi “fedelissimi” potrebbero rivoltarsi contro di lui. La moglie, Donna Rachele, deve aver avuto lo stesso presentimento che, qualche secolo prima, aveva avuto anche la moglie del condottiero romano. Lo prega di non andare alla sala del Pappagallo. Non c’è verso di convincere il Duce. Mussolini esce per l’ultima volta dalla spoglia ed immensa sala del Mappamondo, a palazzo Venezia, nel primo pomeriggio. Sono finiti i tempi delle amanti ricevute proprio li. Della folla festante sotto il balcone. Ora c’è solo la guerra e la disfatta sembra molto vicina.
L’ordine del giorno La seduta del Gran Consiglio si apre con un quarto d’ora di ritardo. Nel pomeriggio del 24 viene ufficialmente chiesto ai membri del Governo di votare la richiesta di riattribuzione al Sovrano del comando supremo delle forze armate. L’ultima parola, poi, spetterà al re, così come è ancora previsto dallo Statuto Albertino. Il Sovrano infatti, può revocare l’incarico affidato al Primo Ministro in ogni momento, se questi non ha più l’appoggio del suo Gran Consiglio. Sì, perché per quanto Mussolini abbia agito da dittatore durante il corso dei suoi venti anni al potere, non ha mai pensato da dittatore. Non ha quasi per nulla modificato la carta costituzione. Lasciando così al Sovrano la teorica possibilità di destituirlo.
La seduta si apre con l’appello dei partecipanti. Si comincia con i quadrumviri che hanno fatto la marcia su Roma: Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi. Poi si passa ai presidenti delle Camere: Dino Grandi e Giacomo Suardo ed al segretario del Pnf Carlo Scorza. Segue l’elenco di tutti i componenti del Governo: Giacomo Acerbo, Umberto Albini, Giuseppe Bastianini, Carlo Biggini, Tullio Cianetti, Alfredo De Marsico, Carlo Pareschi, Gaetano Polverelli). Alla fine è la volta del presidente dell’Accademia d’Italia (Luigi Federzoni), il capo della milizia (Enzo E. Galbiati), il presidente del Tribunale speciale (Antonino Tringali Casanova), nonché gli esponenti del collateralismo fascista: Giovanni Balella, Annio Bignardi, Ettore Frattari e Luciano Gottardi. Per ultimi vengono chiamati i camerati che hanno “ben meritato” il privilegio di sedere al tavolo del Massimo organo consultivo: Dino Alfieri, Giuseppe Bottai, Guido Buffarini Guidi, Galeazzo Ciano, Alberto De Stefani, Roberto Farinacci, Giovanni Marinelli e Edmondo Rossoni.
Il Duce apre la seduta. Ricorda ai presenti che sono tutti vincolati al segreto. Parla per un’ora e mezzo, elencando tutti i problemi del Paese. Poi si siede. Tocca ai due quadrumviri, favorevoli a Grandi prendere la parola. Sono le 19,36. Mussolini ascolta la discussione. È dilaniato dai bruciori di stomaco che lo accompagnano da diversi anni. È in divisa. Con la mano sotto la giacca si preme sull’addome. Sembra un po’ come Napoleone dopo la sconfitta di Lipsia. Sa che ha davanti a sé due possibilità, l’esilio, la lontananza dalle stanze del potere che lo hanno reso grande. O, nel peggiore dei casi, la morte. Arriverà anche la sua Waterloo, ma mancano ancora due anni alla disfatta completa. Glielo avevano anche fatto leggere, qualche giorno prima, l’ordine del giorno. Il Duce, però, non voleva e non vuole pensare che quella proposta si possa concretizzare. Mussolini è il Fascismo. Ed il Fascismo senza Mussolini non ha motivo di esistere.
Le 19 pugnalate Alle due e mezza del mattino del 25 luglio ’43, Mussolini ammette la votazione per l’ordine del giorno Grandi. I presenti sono 28. Il Duce, ovviamente, non si può esprimere. Il primo a votare è Scorza. Urla forte il suo “no”. Poi è la volta di Suardo, il presidente del Senato si astiene. È in lacrime. La votazione prosegue. Tocca a Galeazzo Ciano, il genero del Duce, il marito di Edda. Dalla sua bocca esce il “sì” tipico dei codardi, di chi si schiera sempre con la maggioranza. È il tradimento più eclatante.
Alla fine saranno in sette ad aver votato contro l’ordine del giorno: Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali Casanuova. I sì sono quelli di: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti (che ritirerà la sua firma solo successivamente), Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi e Rossoni.
Per Cesare furono fatali le coltellate del figlio adottivo Bruto, inferte sotto la statua dello storico rivale Gneo Pompeo. A Mussolini sono necessarie le 19 pugnalate, i 19 voti contrari di 27 dei membri del suo Governo per cadere. La parte di Bruto, questa volta, la interpreta il genero.
Alle 2 e 40 la seduta è tolta. La scioglie lo stesso Mussolini. Dino Grandi vincola espressamente al Duce il compito ad andare a dare la notizia della sua “sfiducia” al re.
Quando torna a casa, a villa Torlonia è notte fonda. Rachele lo aspetta sveglia. Capisce al volo che cosa è successo. Il Duce è curvo su se stesso, ha il volto scuro di chi si sente tradito, più che sconfitto. Il problema non è tanto come sia andata la votazione. Ma proprio che sia stato presentato l’ordine del giorno Grandi. Quando lo vede entrare, la moglie gli dice solo una frase “spero tu li abbia fatti arrestare tutti”. Benito le risponde con un filo di voce: “no, ma lo farò domani”. Non ne avrà il tempo, né la possibilità.
La “badogliata” Mussolini è ancora sicuro di poter convincere Vittorio Emanuele. Non crede assolutamente che possa rimuoverlo dal suo incarico. Ma il Sovrano, chiamato “piccolo re”, non ha quel soprannome solo per la statura. È proprio un piccolo re. Umanamente e politicamente.
Il 25 luglio il Duce si presenta a villa Savoia. Ha un completo blu. È stato espressamente invitato a non presentarsi in divisa. Sarà Vittorio Emanuele terzo a riprendere il comando delle forze armate ed a conferire l’incarico al nuovo Primo Ministro. Sono passati quasi 21 anni dall’ultima volta che il Sovrano ha esercitato questo potere.
Vittorio Emanuele riceve il suo Primo Ministro uscente vestito da Primo Maresciallo dell’Impero. Guarda Mussolini in faccia e gli dice semplicemente: “l’Italia era in tocchi e l’esercito moralmente a terra”. Un colloquio breve. Giusto il tempo sufficiente per consentire all’autista personale del Duce di andarsene e far arrivare i Carabinieri. All’uscita dall’incontro Mussolini viene arrestato. È invitato a prendere posto (per “motivi di sicurezza”) in un’autoambulanza della Croce Rossa e portato in un paio di caserme, prima di essere trasferito sul Gran Sasso.
Da li, poi, riuscirà a fuggire con l’aiuto dei tedeschi. Si vendicherà dei suoi traditori. Anche e soprattutto del genero Galeazzo Ciano. Verranno i mesi durissimi della Repubblica Sociale e della guerra civile. Ma quella è tutta un’altra storia.
Poco dopo aver fatto arrestare il Duce, il “piccolo re” nomina il marchese Pietro Badoglio Primo Ministro. L’uomo che era entrato trionfante ad Addis Abeba, il Generale in capo alle truppe che avevano conquistato l’Abissinia, lo stesso che tradirà l’alleanza con la Germania, scegliendo di passare dalla parte dei vincitori. In meno di due mesi si arriverà all’armistizio di Cassibile, alla fuga del re al sud. In due parole, all’8 settembre. C’è un motivetto che ricorda proprio questa scelta. E si chiama, logicamente, “Badoglieide”: “gli squadristi li hai richiamati/gli antifascisti li hai messi in galera/la camicia non era più nera/ma il fascismo restava padron”. Ma anche questa, è tutta un’altra storia.
Al tramonto del 25 luglio si conclude il giorno più lungo di Benito Mussolini. In meno di ventiquattr’ore è passato da Duce a carcerato. La stessa gente che fino a qualche mese prima lo acclamava, adesso sputa sulle sue immagini e insulta il suo nome. È l’eterno ritorno dell’uguale. Quell’incoerenza figlia della naturale inclinazione di un popolo che tende naturalmente al tradimento. E che forse ha dimenticato le parole, non sue,che Mussolini amava molto ripetere: “meglio vivere un giorno da leoni, che cento anni da pecora”. Ma per gli italiani no, non è così. Meglio morire dopo un’esistenza trascorsa nel gregge che rimanere fedeli e coerenti ad un Pensiero, ad un’Idea, all’Onore.
Il 25 luglio 1943 è una di quelle date che ha segnato la storia del ‘900. A ripensarci, settant’anni dopo, viene da domandarsi cosa sarebbe successo se, nel pomeriggio del giorno precedente, non fosse iniziata la discussione dell’“ordine del giorno Grandi”. Quasi sicuramente l’Italia non avrebbe tradito il suo alleato storico, la Germania, per cercare di conquistare una vittoria abortita al fianco dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti. Troppo facile ipotizzare con il senno di poi. Più difficile è dare ai fatti il vero significato ed il vero peso che hanno avuto per il popolo che li ha vissuti.
Le Idi di marzo del Duce Roma, 24 luglio 1943. Ore 17, 14. La città è avvolta da un’afa opprimente, fanno più di 30° all’ombra. Ma la vera morsa che attanaglia il Paese è un’altra. Due settimane prima gli americani sono sbarcati in Sicilia. Mussolini ha provato a tranquillizzare la Nazione, ma non gli hanno creduto neppure i suoi gerarchi. La guerra è persa. Forse la resa non sarà immediata, di sicuro i tedeschi cercheranno di impedire che Roma cada. Ma da quando il primo soldato statunitense poggia il piede sulle bianche spiagge di Lampedusa, tutti capiscono che è iniziata la fine. La fiducia del Duce del fascismo e dell’Impero, quella che riempiva di una folla adorante piazza Venezia appena 3 anni prima, sembra essere volatilizzata. Gli italiani sono stanchi del conflitto mondiale e della povertà dilagante. La nazione è sull’orlo del collasso. Perfino Roma, nonostante sia stata dichiarata “Città aperta” viene bombardata il 19. Così, anche quelli che erano stati fedelissimi a Mussolini fin dalla primissima ora, cominciano a vedere un futuro senza il Duce. Forse è questo che spinge Dino Grandi, ex Ministro degli Esteri e attuale Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il gerarca che con Galeazzo Ciano era il più ostile ad Adolf Hitler, presenterà un ordine del giorno che può rimescolare le carte in tavola. Un documento la cui bozza gira già da diversi giorni
In quella caldissima mattina d’estate, il Duce si deve sentire un po’ come Giulio Cesare alle Idi di marzo. Sa benissimo che se aprirà la seduta del Gran Consiglio, il suoi “fedelissimi” potrebbero rivoltarsi contro di lui. La moglie, Donna Rachele, deve aver avuto lo stesso presentimento che, qualche secolo prima, aveva avuto anche la moglie del condottiero romano. Lo prega di non andare alla sala del Pappagallo. Non c’è verso di convincere il Duce. Mussolini esce per l’ultima volta dalla spoglia ed immensa sala del Mappamondo, a palazzo Venezia, nel primo pomeriggio. Sono finiti i tempi delle amanti ricevute proprio li. Della folla festante sotto il balcone. Ora c’è solo la guerra e la disfatta sembra molto vicina.
L’ordine del giorno La seduta del Gran Consiglio si apre con un quarto d’ora di ritardo. Nel pomeriggio del 24 viene ufficialmente chiesto ai membri del Governo di votare la richiesta di riattribuzione al Sovrano del comando supremo delle forze armate. L’ultima parola, poi, spetterà al re, così come è ancora previsto dallo Statuto Albertino. Il Sovrano infatti, può revocare l’incarico affidato al Primo Ministro in ogni momento, se questi non ha più l’appoggio del suo Gran Consiglio. Sì, perché per quanto Mussolini abbia agito da dittatore durante il corso dei suoi venti anni al potere, non ha mai pensato da dittatore. Non ha quasi per nulla modificato la carta costituzione. Lasciando così al Sovrano la teorica possibilità di destituirlo.
La seduta si apre con l’appello dei partecipanti. Si comincia con i quadrumviri che hanno fatto la marcia su Roma: Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi. Poi si passa ai presidenti delle Camere: Dino Grandi e Giacomo Suardo ed al segretario del Pnf Carlo Scorza. Segue l’elenco di tutti i componenti del Governo: Giacomo Acerbo, Umberto Albini, Giuseppe Bastianini, Carlo Biggini, Tullio Cianetti, Alfredo De Marsico, Carlo Pareschi, Gaetano Polverelli). Alla fine è la volta del presidente dell’Accademia d’Italia (Luigi Federzoni), il capo della milizia (Enzo E. Galbiati), il presidente del Tribunale speciale (Antonino Tringali Casanova), nonché gli esponenti del collateralismo fascista: Giovanni Balella, Annio Bignardi, Ettore Frattari e Luciano Gottardi. Per ultimi vengono chiamati i camerati che hanno “ben meritato” il privilegio di sedere al tavolo del Massimo organo consultivo: Dino Alfieri, Giuseppe Bottai, Guido Buffarini Guidi, Galeazzo Ciano, Alberto De Stefani, Roberto Farinacci, Giovanni Marinelli e Edmondo Rossoni.
Il Duce apre la seduta. Ricorda ai presenti che sono tutti vincolati al segreto. Parla per un’ora e mezzo, elencando tutti i problemi del Paese. Poi si siede. Tocca ai due quadrumviri, favorevoli a Grandi prendere la parola. Sono le 19,36. Mussolini ascolta la discussione. È dilaniato dai bruciori di stomaco che lo accompagnano da diversi anni. È in divisa. Con la mano sotto la giacca si preme sull’addome. Sembra un po’ come Napoleone dopo la sconfitta di Lipsia. Sa che ha davanti a sé due possibilità, l’esilio, la lontananza dalle stanze del potere che lo hanno reso grande. O, nel peggiore dei casi, la morte. Arriverà anche la sua Waterloo, ma mancano ancora due anni alla disfatta completa. Glielo avevano anche fatto leggere, qualche giorno prima, l’ordine del giorno. Il Duce, però, non voleva e non vuole pensare che quella proposta si possa concretizzare. Mussolini è il Fascismo. Ed il Fascismo senza Mussolini non ha motivo di esistere.
Le 19 pugnalate Alle due e mezza del mattino del 25 luglio ’43, Mussolini ammette la votazione per l’ordine del giorno Grandi. I presenti sono 28. Il Duce, ovviamente, non si può esprimere. Il primo a votare è Scorza. Urla forte il suo “no”. Poi è la volta di Suardo, il presidente del Senato si astiene. È in lacrime. La votazione prosegue. Tocca a Galeazzo Ciano, il genero del Duce, il marito di Edda. Dalla sua bocca esce il “sì” tipico dei codardi, di chi si schiera sempre con la maggioranza. È il tradimento più eclatante.
Alla fine saranno in sette ad aver votato contro l’ordine del giorno: Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali Casanuova. I sì sono quelli di: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti (che ritirerà la sua firma solo successivamente), Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi e Rossoni.
Per Cesare furono fatali le coltellate del figlio adottivo Bruto, inferte sotto la statua dello storico rivale Gneo Pompeo. A Mussolini sono necessarie le 19 pugnalate, i 19 voti contrari di 27 dei membri del suo Governo per cadere. La parte di Bruto, questa volta, la interpreta il genero.
Alle 2 e 40 la seduta è tolta. La scioglie lo stesso Mussolini. Dino Grandi vincola espressamente al Duce il compito ad andare a dare la notizia della sua “sfiducia” al re.
Quando torna a casa, a villa Torlonia è notte fonda. Rachele lo aspetta sveglia. Capisce al volo che cosa è successo. Il Duce è curvo su se stesso, ha il volto scuro di chi si sente tradito, più che sconfitto. Il problema non è tanto come sia andata la votazione. Ma proprio che sia stato presentato l’ordine del giorno Grandi. Quando lo vede entrare, la moglie gli dice solo una frase “spero tu li abbia fatti arrestare tutti”. Benito le risponde con un filo di voce: “no, ma lo farò domani”. Non ne avrà il tempo, né la possibilità.
La “badogliata” Mussolini è ancora sicuro di poter convincere Vittorio Emanuele. Non crede assolutamente che possa rimuoverlo dal suo incarico. Ma il Sovrano, chiamato “piccolo re”, non ha quel soprannome solo per la statura. È proprio un piccolo re. Umanamente e politicamente.
Il 25 luglio il Duce si presenta a villa Savoia. Ha un completo blu. È stato espressamente invitato a non presentarsi in divisa. Sarà Vittorio Emanuele terzo a riprendere il comando delle forze armate ed a conferire l’incarico al nuovo Primo Ministro. Sono passati quasi 21 anni dall’ultima volta che il Sovrano ha esercitato questo potere.
Vittorio Emanuele riceve il suo Primo Ministro uscente vestito da Primo Maresciallo dell’Impero. Guarda Mussolini in faccia e gli dice semplicemente: “l’Italia era in tocchi e l’esercito moralmente a terra”. Un colloquio breve. Giusto il tempo sufficiente per consentire all’autista personale del Duce di andarsene e far arrivare i Carabinieri. All’uscita dall’incontro Mussolini viene arrestato. È invitato a prendere posto (per “motivi di sicurezza”) in un’autoambulanza della Croce Rossa e portato in un paio di caserme, prima di essere trasferito sul Gran Sasso.
Da li, poi, riuscirà a fuggire con l’aiuto dei tedeschi. Si vendicherà dei suoi traditori. Anche e soprattutto del genero Galeazzo Ciano. Verranno i mesi durissimi della Repubblica Sociale e della guerra civile. Ma quella è tutta un’altra storia.
Poco dopo aver fatto arrestare il Duce, il “piccolo re” nomina il marchese Pietro Badoglio Primo Ministro. L’uomo che era entrato trionfante ad Addis Abeba, il Generale in capo alle truppe che avevano conquistato l’Abissinia, lo stesso che tradirà l’alleanza con la Germania, scegliendo di passare dalla parte dei vincitori. In meno di due mesi si arriverà all’armistizio di Cassibile, alla fuga del re al sud. In due parole, all’8 settembre. C’è un motivetto che ricorda proprio questa scelta. E si chiama, logicamente, “Badoglieide”: “gli squadristi li hai richiamati/gli antifascisti li hai messi in galera/la camicia non era più nera/ma il fascismo restava padron”. Ma anche questa, è tutta un’altra storia.
Al tramonto del 25 luglio si conclude il giorno più lungo di Benito Mussolini. In meno di ventiquattr’ore è passato da Duce a carcerato. La stessa gente che fino a qualche mese prima lo acclamava, adesso sputa sulle sue immagini e insulta il suo nome. È l’eterno ritorno dell’uguale. Quell’incoerenza figlia della naturale inclinazione di un popolo che tende naturalmente al tradimento. E che forse ha dimenticato le parole, non sue,che Mussolini amava molto ripetere: “meglio vivere un giorno da leoni, che cento anni da pecora”. Ma per gli italiani no, non è così. Meglio morire dopo un’esistenza trascorsa nel gregge che rimanere fedeli e coerenti ad un Pensiero, ad un’Idea, all’Onore.
Micol Paglia
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