La morte del Duce e le tante invenzioni:
UNA CATTIVA ABITUDINE DURA A MORIRE!
UNA CATTIVA ABITUDINE DURA A MORIRE!
di Giannetto Bordin
Nota della Redazione:
Giannetto Bordin ha partecipato all'inchiesta condotta dal Camerata
Giorgio Pisanò avente ad oggetto la morte del Duce. Ciò portò ad una
preziosissima opera: "Gli Ultimi cinque secondi di Mussolini". Il Dott.
Bordin dopo aver letto la recensione del libro tra le pagine del ns.
sito vuole integrarla a dovere in quanto diretto interessato. A lui il
nostro infinito ringraziamento. - La Redazione -
Sono
trascorsi già parecchi anni da quando è stato dato alle stampe il
libro conclusivo dell’inchiesta di Giorgio Pisanò sulla morte del
Duce e di Claretta Petacci, “Gli ultimi cinque secondi di
Mussolini” (Ed. Il Saggiatore 1996) che, da subito, ottenne un
grande successo di vendite e di critica.
Nonostante le documentate rivelazioni del suddetto libro, vi è ancora chi, cieco e sordo anche davanti all’inoppugnabile e mai smentita testimonianza oculare e alla serietà dell’indagine svolta, continua pervicacemente a dare, di quel tragico evento, la falsa versione dei fatti propalata dal PCI, con la quale per decenni si è voluto far credere che Mussolini e la Petacci vennero “fucilati” a Giulino di Mezzegra davanti al cancello di Villa Belmonte poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile 1945 da tale Walter Audisio, alias “colonnello Valerio”. Senza colpevolmente tenere in alcun conto gli storici e i giornalisti più attenti (da Bandini a Pisanò, da Zanella al partigiano Urbano Lazzaro) i quali, pur avanzando legittime ipotesi basate sulle loro conoscenze del momento in cui ne riferivano nei loro scritti, sono unanimi nell’escludere tale versione.
In ogni occasione in cui l’argomento viene trattato, sulle modalità e la dinamica di quell’assassinio, anche su alcuni periodici maggiormente diffusi nell’area di “destra”, si insiste a volte riproponendo al lettore la versione cara alla storiografia ufficiale imposta dal PCI.
Ciò sovente è dovuto a una purtroppo diffusa ignoranza in materia o ad un incomprensibile rifiuto di riconoscere fatti ormai accertati. Ma anche a una sorta di ingiustificabile pigrizia mentale.
Coloro che non avessero letto il suddetto libro/documento di Pisanò (sarebbe sconsolante constatare tra costoro pseudo storici, direttori e redattori di giornali, anche se solo saltuariamente s’interessano della materia) sappiano che, in seguito a quella laboriosa e molto difficoltosa ma appagante inchiesta, è emerso che l’assassinio di Benito Mussolini – perché di un vero e proprio assassinio a sangue freddo si trattò – avvenne tra le ore 09.00 e le 10.00 (cioè ben sei o sette ore prima di quanto afferma la versione “ufficiale”) nel cortile della casa abitata dalla famiglia De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, con Mussolini legato per un braccio al catenaccio della porta della stalla. Claretta invece venne falciata da una raffica di mitra che la raggiunse alla schiena dopo circa due ore, nella stessa via del Riale, a pochi metri dall’abitazione della famiglia Mazzola mentre, piangente e disperata, seguiva i due partigiani che trasportavano il cadavere del Duce sostenendolo in modo da far credere a chi vedeva la scena che si trattasse di persona ferita ma ancora viva.
Ciò è quanto emerso dalla testimonianza di Dorina Mazzola, a quel tempo una ragazza di 19 anni intelligente sveglia ed attiva e, al momento delle sue dichiarazioni - febbraio 1996 – un’anziana settantenne dalla mente lucidissima la quale, dal cortile della sua abitazione, protetta da materiale ferroso, oggetto di commercio del padre, ebbe modo di assistere a quanto accadeva, fatti che poi confidò alle pagine di un suo diario (copia del quale in possesso di chi scrive) con la minuziosa descrizione di quanto ebbe la ventura (o la sventura) di vedere in quel triste mattino del 28 aprile 1945.
Una testimonianza oculare, ma soprattutto “disinteressata”, che nessuno sinora ha potuto smentire o inficiare.
In seguito alla sua testimonianza, Dorina Mazzola, per questo suo coraggio, ebbe a ricevere dimostrazioni di solidarietà e di approvazione da parte di molte persone della zona, come lei a conoscenza delle stesse cose, che si sentivano finalmente “sollevate” dal peso oppressivo del silenzio loro imposto con la minaccia di gravi ritorsioni se ne avessero parlato.
Numerose furono anche le manifestazioni di solidarietà e approvazione, testimoniate dalle molte telefonate e lettere (copie di queste pure in possesso di chi scrive) che a Dorina Mazzola sono giunte da ogni parte d’Italia e dall’estero, per ringraziarla d’avere finalmente squarciato l’ormai inutile velo su di un fatto storico talmente importante e controverso.
Nonostante le documentate rivelazioni del suddetto libro, vi è ancora chi, cieco e sordo anche davanti all’inoppugnabile e mai smentita testimonianza oculare e alla serietà dell’indagine svolta, continua pervicacemente a dare, di quel tragico evento, la falsa versione dei fatti propalata dal PCI, con la quale per decenni si è voluto far credere che Mussolini e la Petacci vennero “fucilati” a Giulino di Mezzegra davanti al cancello di Villa Belmonte poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile 1945 da tale Walter Audisio, alias “colonnello Valerio”. Senza colpevolmente tenere in alcun conto gli storici e i giornalisti più attenti (da Bandini a Pisanò, da Zanella al partigiano Urbano Lazzaro) i quali, pur avanzando legittime ipotesi basate sulle loro conoscenze del momento in cui ne riferivano nei loro scritti, sono unanimi nell’escludere tale versione.
In ogni occasione in cui l’argomento viene trattato, sulle modalità e la dinamica di quell’assassinio, anche su alcuni periodici maggiormente diffusi nell’area di “destra”, si insiste a volte riproponendo al lettore la versione cara alla storiografia ufficiale imposta dal PCI.
Ciò sovente è dovuto a una purtroppo diffusa ignoranza in materia o ad un incomprensibile rifiuto di riconoscere fatti ormai accertati. Ma anche a una sorta di ingiustificabile pigrizia mentale.
Coloro che non avessero letto il suddetto libro/documento di Pisanò (sarebbe sconsolante constatare tra costoro pseudo storici, direttori e redattori di giornali, anche se solo saltuariamente s’interessano della materia) sappiano che, in seguito a quella laboriosa e molto difficoltosa ma appagante inchiesta, è emerso che l’assassinio di Benito Mussolini – perché di un vero e proprio assassinio a sangue freddo si trattò – avvenne tra le ore 09.00 e le 10.00 (cioè ben sei o sette ore prima di quanto afferma la versione “ufficiale”) nel cortile della casa abitata dalla famiglia De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, con Mussolini legato per un braccio al catenaccio della porta della stalla. Claretta invece venne falciata da una raffica di mitra che la raggiunse alla schiena dopo circa due ore, nella stessa via del Riale, a pochi metri dall’abitazione della famiglia Mazzola mentre, piangente e disperata, seguiva i due partigiani che trasportavano il cadavere del Duce sostenendolo in modo da far credere a chi vedeva la scena che si trattasse di persona ferita ma ancora viva.
Ciò è quanto emerso dalla testimonianza di Dorina Mazzola, a quel tempo una ragazza di 19 anni intelligente sveglia ed attiva e, al momento delle sue dichiarazioni - febbraio 1996 – un’anziana settantenne dalla mente lucidissima la quale, dal cortile della sua abitazione, protetta da materiale ferroso, oggetto di commercio del padre, ebbe modo di assistere a quanto accadeva, fatti che poi confidò alle pagine di un suo diario (copia del quale in possesso di chi scrive) con la minuziosa descrizione di quanto ebbe la ventura (o la sventura) di vedere in quel triste mattino del 28 aprile 1945.
Una testimonianza oculare, ma soprattutto “disinteressata”, che nessuno sinora ha potuto smentire o inficiare.
In seguito alla sua testimonianza, Dorina Mazzola, per questo suo coraggio, ebbe a ricevere dimostrazioni di solidarietà e di approvazione da parte di molte persone della zona, come lei a conoscenza delle stesse cose, che si sentivano finalmente “sollevate” dal peso oppressivo del silenzio loro imposto con la minaccia di gravi ritorsioni se ne avessero parlato.
Numerose furono anche le manifestazioni di solidarietà e approvazione, testimoniate dalle molte telefonate e lettere (copie di queste pure in possesso di chi scrive) che a Dorina Mazzola sono giunte da ogni parte d’Italia e dall’estero, per ringraziarla d’avere finalmente squarciato l’ormai inutile velo su di un fatto storico talmente importante e controverso.
Le Tappe dell'Inchiesta
Per chi
avesse qualche dubbio sull’impegno e la serietà profusi da
Giorgio Pisanò nel condurre la fase conclusiva di un’inchiesta che
durava da un quarantennio, avendovi con lui collaborato, tenterò qui
di riassumere le varie fasi e le tappe del suo svolgersi.
Durante le nostre “missioni” sul lago di Como, che ci impegnarono per giorni e giorni, distribuite nell’arco di mesi, ogni qualvolta ci trovavamo ad interrogare od anche semplicemente a chiacchierare con qualcuno dell’argomento, ero io stesso che prendevo le annotazioni sul colloquio. Annotazioni che riportavo su foglietti di carta che tuttora conservo. Una volta rientrati dal nostro viaggio potevamo cosi redigere un verbale, che ambedue controfirmavamo, per documentare il lavoro svolto e lasciarne traccia per il libro che poi sarebbe stato scritto.
Naturalmente in questi verbali citavamo solamente i nomi delle persone disposte a confermare in qualsiasi momento quanto dichiaravano, mentre tutto il resto rimaneva riservato nei miei appunti.
Spesso capitava infatti che qualche testimonio ci confidasse di tragici particolari di cui era a conoscenza, accaduti nella zona, ma che rifiutava di sottoscrivere nel timore (dopo oltre mezzo secolo ancora molto diffuso) di provocare ritorsioni nei suoi confronti.
Tali racconti, che spesso esulavano dallo scopo principale della nostra indagine, non sono quindi presenti ne “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini”. Oltretutto avrebbero potuto distogliere l’attenzione del lettore da quello che era lo scopo del libro: dimostrare cioè come avvennero le uccisioni di Benito Mussolini e Claretta Petacci.
Durante le nostre “missioni” sul lago di Como, che ci impegnarono per giorni e giorni, distribuite nell’arco di mesi, ogni qualvolta ci trovavamo ad interrogare od anche semplicemente a chiacchierare con qualcuno dell’argomento, ero io stesso che prendevo le annotazioni sul colloquio. Annotazioni che riportavo su foglietti di carta che tuttora conservo. Una volta rientrati dal nostro viaggio potevamo cosi redigere un verbale, che ambedue controfirmavamo, per documentare il lavoro svolto e lasciarne traccia per il libro che poi sarebbe stato scritto.
Naturalmente in questi verbali citavamo solamente i nomi delle persone disposte a confermare in qualsiasi momento quanto dichiaravano, mentre tutto il resto rimaneva riservato nei miei appunti.
Spesso capitava infatti che qualche testimonio ci confidasse di tragici particolari di cui era a conoscenza, accaduti nella zona, ma che rifiutava di sottoscrivere nel timore (dopo oltre mezzo secolo ancora molto diffuso) di provocare ritorsioni nei suoi confronti.
Tali racconti, che spesso esulavano dallo scopo principale della nostra indagine, non sono quindi presenti ne “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini”. Oltretutto avrebbero potuto distogliere l’attenzione del lettore da quello che era lo scopo del libro: dimostrare cioè come avvennero le uccisioni di Benito Mussolini e Claretta Petacci.
Importanti Testimonianze
Nel corso della nostra indagine ebbimo a raccogliere (oltre a quella conclusiva di Dorina Mazzola che fu di riscontro alle altre) alcune importanti testimonianze.
La prima fu l’incontro con una distinta signora tra i 55 e i 60 anni che un giorno di ottobre del 1995, incrociammo, mentre bazzicavamo intorno alla casa De Maria, incuriosita dalla presenza di quelle tre persone (con noi c’era anche un disegnatore professionista, Gianluca Tirloni) estranee al paese, appresone il motivo, ci precisò che pur non essendo lei del luogo, vi aveva invece abitato la madre. Aggiunse quindi che la stessa era stata per anni in rapporti di amicizia con Lia De Maria, presso la quale si recava sovente in visita.
Alle nostre domande la donna incontrata (che, descritta a Don Luigi Barindelli parroco del paese, questi identificò in certa signora Gilardoni) ci riferì che sua madre le aveva più volte riferito quanto ripetutamente raccontatole dalla De Maria in occasione di quegli incontri, e cioè che in quel mattino del 28 aprile 1945, nella stanza dove erano tenuti prigionieri Mussolini e la Petacci entrarono due o tre persone a lei sconosciute, oltre al partigiano Moretti, dopo di che si verificò un terribile trambusto e furono sparati alcuni colpi di rivoltella. Un racconto che la De Maria aveva ripetuto in più occasioni alla madre della nostra interlocutrice.
Ci parve – come in effetti era- una testimonianza importante, degna d’essere presa in considerazione
Nel frattempo, dalla signora Savina Cantoni, moglie del partigiano Sandrino deceduto nel 1972), avevamo saputo che il marito, a suo tempo, aveva redatto un documento in cui raccontava dettagliatamente quanto era accaduto in casa De Maria quel mattino del 28 aprile 1945.
Ora il nostro scopo primo diventava quello di rintracciare quel documento/testamento che il partigiano “Sandrino” – detto anche “Me ne frego” aveva lasciato (e la moglie ce lo confermò in più occasioni) a futura memoria nelle mani di qualcuno. Un “qualcuno” che si rendeva necessario individuare. In tale documento il Sandrino dichiarava chiaro e tondo come erano andate le cose. Chi furono cioè gli esecutori di Mussolini, come venne ucciso. E probabilmente avrebbe potuto anche esserci scritto cosa esattamente avvenne qualche minuto prima nella stanza dove il Duce con la Petacci erano tenuti prigionieri, e cosa fu a provocare i due colpi di rivoltella che ferirono Mussolini.
Dell’esistenza del documento, pare che altre persone fossero a conoscenza. Per cui doveva pur essere in mano a qualcuno!
Verosimilmente il foglio redatto dal Sandrino (un contadino: scarpe grosse e cervello fino), gli aveva evitato di fare la stessa fine del partigiano Lino che con il Cantoni era montato di guardia alla stanza dove erano rinchiusi Mussolini e la Petacci, ucciso da ignoti mentre attendeva (Bill o Neri) a cui aveva promesso di riferire come erano andate le cose relativamente all’uccisione di Mussolini e quanto era accaduto in quelle ore in casa De Maria. Fatti di cui era stato testimonio, compresa certamente l’identificazione degli autori dell’omicidio!
Una volta eliminato il partigiano Lino la sua bocca era chiusa per sempre, ma nel caso dell’altro guardiano, il Sandrino, se anch’egli avesse prima o poi dovuto subire la stessa sorte, far sapere in giro che aveva lasciato in mani di qualcuno un documento che avrebbe parlato per lui, poteva essere una bella polizza assicurativa.
E’ noto che Sandrino fu per vari anni quasi perseguitato, minacciato e sempre pesantemente “invitato” a non parlare, tanto da doversi recare a lavorare in Svizzera per un certo periodo di tempo. Dal che si può appunto facilmente arguire che se non vi fosse stata la presenza di un documento compromettente, il Sandrino avrebbe certamente fatto una brutta fine.
Nonostante tutti i nostri sforzi comunque la ricerca del documento “Sandrino” fu infruttuosa.
Anche dopo la pubblicazione del libro “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini”, con Pisanò, continuammo a chiederci quale fine abbia potuto fare e dove possa essere finito l’importante documento.
Vediamo ora cosa può essere accaduto.
“Me ne frego”, che sicuramente non aveva molta dimestichezza con la penna, è da presumere che abbia fatto redigere ad altri il documento con il racconto di quanto vide accadere il mattino del 28 aprile 1945. La persona cui Sandrino si rivolse fu un certo commendator Giulini, personaggio molto noto nella zona, persona nella quale riponeva la massima fiducia.
Il Giulini era infatti nella condizione di portare grande riconoscenza al Sandrino che a suo tempo gli aveva salvato la pelle da altri partigiani che avevano deciso di eliminarlo in quanto considerato “fascista” per avere avuto incarichi durante il regime.
In seguito il Giulini aveva a sua volta tratto dai pasticci il Sandrino, fornendogli i quattrini (un milione di lire) da restituire al quotidiano “Il Corriere della Sera” che glieli aveva anticipati per un’intervista che mai concesse. Il danaro fu dato dal Giulini al Sandrino a patto che il documento venisse a lui ceduto in “custodia”, come in effetti avvenne.
Un documento di tale importanza testimoniale che avrebbe potuto in qualsiasi momento essere reso di pubblico dominio, sbugiardando tutti i fantasiosi racconti sinora propinati, lascia supporre che il Sandrino lo abbia volutamente utilizzato come un ideale “giubbotto antiproiettile”, che lo avrebbe salvaguardato dalla stessa cattiva sorte incontrata dal suo antico compagno Lino Frangi.
L’accordo, secondo quanto ci riferì Savina Cantoni, vedova di Sandrino, prevedeva che se il Giulini, più anziano del Sandrino, fosse deceduto prima di lui, il documento avrebbe dovuto automaticamente rientrarne in possesso del legittimo proprietario.
Nel caso contrario, il Giulini avrebbe dovuto far sì che alla sua morte il documento venisse consegnato, come da sua disposizione, agli eredi del Sandrino, per i quali avrebbe potuto costituire una fonte di guadagno nel caso di cessione a qualche editore interessato ad un grosso scoop giornalistico.
Sandrino muore nell’ottobre del 1972, e il Giulini trattiene il documento senza restituirlo alla famiglia Cantoni, come stabilito da Sandrino stesso.
In varie occasioni, anche dopo la morte di Guglielmo Cantoni, a persone amiche (tra cui don Bianchi parroco di Gera Lario, la signora Adriana Scuri sua perpetua, e il notaio Casnaghi) il Giulini conferma di essere in possesso del documento "che verrà reso pubblico alla sua morte."
Il Giulini dunque, anche dopo la morte di Sandrino, continua a dichiarare di essere in possesso e continua a conservare il documento. Quando nel 1993 cessa di vivere però, nemmeno allora il documento finisce come dovrebbe, magari attraverso un notaio, nelle mani dei legittimi eredi Cantoni, e nemmeno viene reso pubblico, come il Giulini aveva ripetutamente dichiarato che sarebbe avvenuto, a testimoni insospettabili.
Considerando che il dichiarato possesso del documento da parte del Giulini è un fatto conosciuto da diverse persone, non possiamo certamente escludere che del fatto (ormai un segreto di Pulcinella) ne fossero a conoscenza anche il Moretti e, con gli altri “duri” del PCI, anche l’”apparato”.
Il Giulini muore dunque nel 1993. Il suo erede, Ugo Tenchio, interrogato, dichiara di non saperne nulla.
Il notaio Casnaghi di Como (al quale il Giulini aveva confidato di possedere quel "documento storico” importantissimo, sulla morte del Duce) non ne trova traccia tra le carte del testamento presentategli dal Tenchio per la pubblicazione.
Nemmeno tra i due quintali di documenti del Giulini messi a disposizione dal Tenchio e spulciati ad uno ad uno da Pisanò e Bordin in un gelido garage nei “giorni della Merla” del 1996, il documento viene alla luce.
L'erede Tenchio pare proprio che non ne sia in possesso, anche se Pisanò, contrariamente a chi scrive (vi furono lunghe discussioni tra noi a questo proposito), non ci crede.
Il documento sembra sparito nel nulla.
L'ultima persona certa a possederlo è stato il Giulini.
Cosa può essere accaduto?
Pisanò ipotizza che il Giulini, non ritenendo il Tenchio in grado di farne il giusto uso, lo abbia affidato a qualcuno (Ente o personaggio di sua completa fiducia) che avrebbe provveduto a renderlo noto dopo la sua morte.
Ma a chi avrebbe potuto cederlo? A un Istituto Storico della Resistenza? No di certo. Si sarebbe rivelato un grossolano errore in quanto il Giulini (praticamente un demoscristiano) sapeva benissimo che quegli organismi sono in mano a comunisti ed ex azionisti, proprio quelle forze politiche che conoscono la verità dei fatti e non la rivelano; e quindi mai avrebbero pubblicato il documento.
All'Archivio Storico Statale?
In questo caso potrebbe venir reso noto soltanto dopo molti anni quando, cioè le rivelazioni che contiene non avrebbero più le ripercussioni politiche di oggi (che d’altronde – siamo nel 2008 – vanno sempre più perdendo il loro valore).
Sono due ipotesi ben difficilmente accettabili, anche perché violerebbero le disposizioni testamentarie di chi lo aveva redatto.
L’omessa pubblicazione violerebbe inoltre anche la volontà (almeno quella diffusamente conosciuta) del Giulini il quale sempre andava dicendo che dopo la sua morte il documento sarebbe stato reso noto.
In più bisogna considerare che il Giulini non era uno sprovveduto, per cui sicuramente immaginava che un documento del genere avrebbe potuto fruttargli una cifra considerevole
E allora?
Vi è un’ipotesi che, personalmente, considero come la più verosimile.
Dato per scontato il possesso del documento da parte del Giulini,
Acclarato che molte persone erano a conoscenza di questo fatto,
Considerato che sicuramente tra queste persone vi erano anche i personaggi più intransigenti dei partiti più intransigenti, disposti a far rispettare ad ogni costo e con ogni mezzo la versione della finta fucilazione di Mussolini e della Petacci, ma principalmente ad evitare che venissero rivelati i nomi (Longo? Pertini?) sempre taciuti, di chi si macchiò di tale delitto.
Conseguenza logica e naturale è che dell’esistenza dello scottante documento, fossero venuti a conoscenza i vertici del PCI , cosi come quelli del PSI e del P d’ A., alcuni dei loro più alti rappresentanti, erano sicuramente coinvolti nell’assassinio.
In tale situazione vi è un grado talmente alto di probabilità tale da avvicinarsi alla presumibile certezza, che un bel giorno, il Giulini , ancora attivo, vivo, vegeto e in buona salute, sia stato avvicinato da emissari del PCI i quali, prima con le blandizie, poi con le minacce ma, non escluso, anche con l’offerta di denaro, lo abbiano costretto, volente o nolente, a consegnare loro il documento Sandrino.
Di fronte a una “proposta” del genere (della serie di quelle che “non si possono rifiutare”) come avrebbe potuto comportarsi il Giulini?
Inizialmente blandito, poi pressato e quindi velatamente (ma non troppo) minacciato dai suoi interlocutori, era forse in grado di reagire? di opporsi? di appellarsi all'autorità dello Stato per essere tutelato? Forse lo avrebbe potuto fare, ma sicuramente andando incontro a gravi rischi perché, come di regola, testimoni scomodi il PCI non ne lasciava facilmente in vita.
Gli stessi emissari lo avrebbero potuto facilmente liquidare mettendo in atto un piano già certamente predisposto in modo da farlo apparire come una disgrazia (si fa presto, specie su quelle strade, a finire sotto una macchina). E se il documento il Giulini l’avesse consegnato a un notaio, per lui nulla sarebbe cambiato. E il notaio, di fronte a delle minacce, cosa avrebbe potuto fare, l’eroe ? Vi è da dubitarlo.
Quindi, in ultima analisi, al Giulini, tra le cui doti non vi era certamente la vocazione al martirio, né aveva la stoffa dell'eroe, non rimaneva altro che cedere e consegnare il documento agli emissari degli ipotetici mandanti.
Non dimentichiamo che terminato il conflitto e normalizzatasi la situazione il Giulini, che durante il ventennio era stato fascista, non ebbe nessuna difficoltà a vestire i suoi veri panni, quelli cioè del demoscristiano, continuando cosi a rimanere sulla cresta dell'onda.
In buona sostanza, pur riconoscendogli sicuramente doti di umanità e disponibilità verso il prossimo, il Giulini fu indubbiamente anche un opportunista
Dopo aver ceduto (dietro minacce, dietro compenso ?) il documento non poteva certamente lasciar trapelare di non esserne più in possesso. Sarebbe stato molto pericoloso perché avrebbe dovuto confessare dov'era finito. Perciò continuò suo malgrado a sostenere, forse con ancora maggiore insistenza, d'esserne il depositario.
Si potrebbe obbiettare che il Giulini nel testamento avrebbe potuto rivelare dov'era finito il documento.
Ciò avrebbe però compromesso (il Giulini sapeva benissimo che le minacce dei comunisti si estendono sempre anche alla parentela del minacciato.) la tranquillità del suo erede Ugo Tenchio e dei suoi famigliari i quali, anche se legati da un vincolo di parentela non propriamente stretto, lo avevano assistito negli anni della malattia, per cui il Giulini si sentiva legato da un forte sentimento di riconoscenza, tanto da eleggerli, salvo qualche piccolo lascito, a suoi eredi.
Possiamo dunque scordarci il documento di Sandrino, che forse non riusciremo mai a vedere.
Nella migliore delle ipotesi, tra anni, la vera Storia riprenderà il suo ruolo, e dei diretti protagonisti di quei fatti si sarà persa la memoria e ne rimarranno soltanto dei nomi. Allora, quando il PCI, oggi camuffato sotto altre sigle, non sarà più il partito che è stato sinora, cioè una doppia organizzazione, quella ”ufficiale” e quella "ombra" della quale un certo numero di iscritti fa parte all'insaputa della massa, forse allora il documento, a meno che non sia stato distrutto (cosa non improbabile), potrà venire alla luce.
Cosi come forse saranno resi noti altri documenti gelosamente custoditi nei loro archivi, tuttora coperti da segreto, spesso per motivi ignobili.
Giannetto
Bordin
*Collaboratore di Giorgio Pisanò
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