I dieci “effetti” del ’68 che ancora ci portiamo dietro. Riflessioni politicamente scorrette di Marcello Veneziani
Sono passati cinquant’anni dal ’68, ma gli effetti di quella nube tossica così mitizzata si vedono ancora. Li riassumo in dieci eredità che sono poi il referto del nostro oggi.
Sfascista
Per cominciare, il ’68 lasciò una formidabile carica distruttiva: l’ebbrezza di demolire o cupio dissolvi, il pensiero negativo, il desiderio di decostruire, il Gran Rifiuto. Basta, No, fuori, via, anti, rabbia, contro, furono le parole chiave, esclamative dell’epoca.
Il potere destituente. Non a caso si chiamò “contestazione globale” perché fu la globalizzazione destruens, l’affermazione di sé tramite la negazione del contesto, del sistema, delle istituzioni, dell’arte e della storia.
Lo sfascismo diventò poi il nuovo collante sociale in forma di protesta, imprecazione, invettiva, e infine di antipolitica. Viviamo tra le macerie dello sfascismo.
Parricida
La rivolta del ’68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre. Inteso come pater familias, come patriarcato, come patria, come Santo Padre, come padrone, come docente, come autorità. Il ’68 fu il movimento del parricidio gioioso, la festa per l’uccisione simbolica del padre e di chi ne fa le veci.
Ogni autorità perse autorevolezza e credibilità, l’educazione fu rigettata come costrizione, la tradizione fu respinta come mistificazione, la vecchiaia fu ridicolizzata come rancida e retrò, il vecchio perse aura e rispetto e si fece ingombro, intralcio, ramo secco. Grottesca eredità se si considera che oggi viviamo in una società di vecchi.
Il giovanilismo di allora era comprensibile; il giovanilismo in una società anziana è ridicolo e penoso nel suo autolesionismo e nei suoi camuffamenti.
Infantile
Di contro, il ’68 scatenò la sindrome del “bambino perenne”, giocoso e irresponsabile. Che nel nome della sua creatività e del suo genio, decretato per autoacclamazione, rifiuta le responsabilità del futuro, oltre che quelle del passato.
La società senza padre diventò società senza figli; ecco la generazione dei figli permanenti, autocreati e autogestiti che non abdicano alla loro adolescenza per far spazio ai bambini veri. Peter Pan si fa egocentrico e narcisista. Il collettivismo originario del ’68 diventò soggettivismo puerile, emozionale, con relativo culto dell’Io.
La denatalità, l’aborto e l’oltraggio alla vecchiaia trovano qui il loro alibi.
Arrogante
“Arrogante”, che fa rima con “ignorante”. Ognuno in virtù della sua età e del suo ruolo di “contestatore” si sentiva in diritto di giudicare il mondo e il sapere, nel nome di un’ignoranza costituente, rivoluzionaria.
Il ’68 sciolse il nesso tra diritti e doveri, tra desideri e sacrifici, tra libertà e limiti, tra meriti e risultati, tra responsabilità e potere, oltre che tra giovani e vecchi, tra sesso e procreazione, tra storia e natura, tra l’ebbrezza effimera della rottura e la gioia delle cose durevoli.
Estremista
Dopo il ’68 vennero gli anni di piombo, le violenze, il terrorismo. Non fu uno sbocco automatico e globale del ’68, ma uno dei suoi esiti più significativi. L’arroganza di quel clima si cristallizzò in prevaricazione e aggressione verso chi non si conformava al nuovo conformismo radicale.
Dal ’68 derivò l’onda estremista che si abbeverò di modelli esotici: la Cina di Mao, il Vietnam di Ho-Chi-Minh, la Cuba di Castro e Che Guevara, l’Africa e il “Black power”. Il ’68 fu la scuola dell’obbligo della rivolta; poi i più decisi scelsero i licei della violenza, fino al master in terrorismo.
Il ’68 non lasciò eventi memorabili, ma avvelenò il clima; non produsse rivoluzioni politiche o economiche, ma mutazioni di costume e di mentalità.
Tossico
Un altro versante del ’68 preferì alle canne fumanti delle P38 le canne fumate e anche peggio. Ai carnivori della violenza politica si affiancarono così gli erbivori della droga. Il filone hippy e la cultura radical, preesistenti al ’68, si incontrarono con l’onda permissiva e trasgressiva del movimento e prese fuoco con l’hashish, l’lsd e altri allucinogeni.
Lasciò una lunga scia di disadattati, dipendenti, disperati. L’ideologia notturna del ’68 fu dionisiaca, fondata sulla libertà sfrenata, sulla trasgressione illimitata, sul bere, fumare, bucarsi, far notte e sesso libero. Anche questo non fu l’esito principale del ’68, ma una diramazione minore o uscita laterale.
Conformista
L’esito principale del ’68, la sua eredità maggiore, fu l’affermazione dello spirito radical, cinico e neoborghese. Il ’68 si era presentato come rivoluzione antiborghese e anticapitalista, ma alla fine lavorò al servizio della nuova borghesia, non più familista, cristiana e patriottica, e del nuovo capitale globale, finanziario.
Attaccarono la tradizione, che non era alleata del potere capitalistico, ma era l’ultimo argine al suo dilagare. Così i credenti, i connazionali, i cittadini furono ridotti a consumatori, gaudenti e single. Il ’68 spostò la rivoluzione sul privato, nella sfera sessuale e famigliare, nei rapporti tra le generazioni, nel lessico e nei costumi.
Riduttivo
Il ’68 trascinò ogni storia, religione, scienza e pensiero nel tribunale del presente. Tutto venne ridotto all’attualità, perfino i classici venivano rigettati o accettati se attualizzabili, se parlavano al presente in modo adeguato.
Era l’unico criterio di valore. Questa gigantesca riduzione all’attualità, alterata dalle lenti ideologiche, ha generato il presentismo, la rimozione della storia, la dimenticanza del passato; e poi la perdita del futuro, nel culto immediato dell’odierno, tribunale supremo per giudicare ogni tempo, ogni evento e ogni storia.
Neobigotto
Conseguenza diretta fu la nascita e lo sviluppo del politically correct, il bigottismo radical e progressista a tutela dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati.
Il ’68 era nato come rivolta contro l’ipocrisia parruccona dei benpensanti per un linguaggio franco e sboccato; ma col lessico politicamente corretto trionfò la nuova ipocrisia.
Fallita la rivoluzione sociale, il ’68 ripiegò sulla rivoluzione lessicale: non potendo cambiare la realtà e la natura ne cambiò i nomi, occultò la realtà o la vide sotto un altro punto di vista. Fallita l’etica, si rivalsero sull’etichetta. Il P. C. è il rococò del ’68.
Smisurato
Cosa lascia infine il ’68? L’apologia dello sconfinamento in ogni campo. Sconfinano i popoli, i sessi, i luoghi. Si rompono gli argini, si perdono i limiti e le frontiere, il senso della misura e della norma, unica garanzia che la libertà non sconfini nel caos, la mia sfera invade la tua.
Lo sconfinamento, che i greci temevano come hybris, la passione per l’illimitato, per la mutazione incessante; la natura soggiace ai desideri, la realtà stuprata dall’utopia, il sogno e la fantasia che pretendono di cancellare la vita vera e le sue imperfezioni…
Questi sono i danni (e altri ce ne sarebbero), ma non ci sono pregi, eredità positive del ’68? Certo, le conquiste femminili, i diritti civili e del lavoro, la sensibilità ambientale, l’effervescenza del clima e altro…
Ma i pregi ve li diranno in tanti.
Io vi ho raccontato l’altra faccia in ombra del ’68. Noi, per dirla con un autore che piaceva ai sessantottini, Bertolt Brecht, ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati. Alla fine, i trasgressivi siamo noi.
Di Marcello Veneziani (da: Il Giornale)
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