La dittatura perfetta avra´ la sembianza di una democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitu´ dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitu´.
Ogni popolo ha conosciuto durante la sua storia, vittorie e
sconfitte, ma è proprio nelle difficoltà, nella sorte più avversa, che
cittadini, comandanti e soldati cementano la loro unità e danno
battaglia fino all’ultimo respiro per difendere l’onore e la dignità del
Paese. Anche nelle sfide sportive di fronte a una disfatta ci si batte
per il punto della bandiera, in Italia invece dopo l’8 settembre ’43 si
verificò qualcosa di pazzesco, vergognoso che risulta incredibile ancora
oggi. Oramai è risaputo, per chi vuole saperlo, che il tracollo
dell’esercito e la ignominiosa fuga che seguì non avvennero certo per
salvare il paese dai tedeschi, quella scelta così infelice fu
conseguenza della incapacità e della vigliaccheria di chi volle non solo
salvare la pelle, ma sopravvivere alla guerra come classe dirigente. Mussolini era il solo nemico da abbattere e ne avevano l’occasione,
il solo unico e vero rivoluzionario che aveva cambiato il paese dalle
fondamenta in una lenta e radicale metamorfosi del sistema che avrebbe
distrutto quelle categorie, quelle lobbyes come le chiamiamo oggi, che
da lui erano state colpite e che avrebbero lentamente trovato la
fine. La vecchia casta si era così sottratta all’oneroso impegno di
combattere e avrebbe avuto la possibilità di ridare vita, con l’appoggio
degli alleati, a quel sistema liberal-capitalista che Mussolini aveva
messo sotto scacco durante gli anni del suo governo, attuando le riforme
sociali e del lavoro, combattendo duramente mafia e massoneria. Mentendo a tutti, Italiani, Tedeschi e Alleati, il Re ebbe così il
tempo di organizzare indisturbato la fuga insieme alla sua corte di
vigliacchi. Indimenticabile è la corsa all’imbarco sulla corvetta
“Baionetta” che doveva portare in salvo fino a Brindisi “l’allegra
comitiva dei satrapi”, ma sulla quale riuscirono a salire a spintoni, in
quello che ironicamente venne definito “l’assalto alla baionetta”, solo
parte dei ministri e dignitari presenti al porto di Ortona. Gli altri
rimasti a terra, fra grida e insulti verso il Re e Badoglio, cercarono
poi di svignarsela abbandonando le loro cose sul molo, questa fuga gettò
nel panico e nel caos più completo non solo l’esercito, ma l’intera
nazione. Quei generali che in buonafede, pensavano di compiere il loro dovere
eseguendo gli ordini del Re e del nuovo capo del governo e che, in
quelle ore di confusione totale, morirono combattendo contro i tedeschi,
non seppero mai che la loro morte non fu gradita da nessuno. Basti ricordare l’inutile sacrificio di tante giovani vite che
avvenne a Cefalonia e a Corfù tra il 24 e il 25 settembre 1943. Soldati
italiani che sono stati anch’essi, per anni, volutamente dimenticati
dalla storia perché rappresentavano una scomoda verità e cioè che, in
rispetto a ordini precisi del governo e del Re, animati dai valori
trasmessi da vent’anni di fascismo, si batterono pensando di salvare
l’onore d’Italia, mentre invece il re era fuggito e non combatteva con
loro. I soldati della divisione Acqui risultarono penalizzati anche dopo
la guerra, infatti non ricevettero certo gli onori che sono stati
tributati ai Partigiani in Patria. A tal riguardo ebbe a dire Indro
Montanelli delle due resistenze: “Una quotata in borsa come tale perché
avvallata dai partiti politici, l’altra esclusa dal listino dei titoli,
perché quelli, a cui si intestava la Patria e la Nazione, erano ormai
scaduti” Va inoltre smentito il dogma tanto caro all’ “ideologia
resistenziale”, secondo cui i sopravvissuti al massacro di Cefalonia, si
riversarono verso i primi nuclei partigiani. In realtà, molti di loro,
una volta resisi conto del tradimento perpetrato anche alle loro spalle
aderirono al contrario alla Repubblica Sociale. Ricordiamo uno su tutti Mario Merlini, originario della provincia di
Cremona, volontario pluridecorato nella guerra d’Etiopia e nella guerra
di Spagna, rimessosi dalle ferite partecipò con onore anche alla
campagna di Russia. L’8 settembre lo sorprese a Cefalonia, sopravvissuto
miracolosamente e resosi conto che la responsabilità morale del
massacro era da attribuire all’ignavia e alla viltà della congrega
badogliana, partecipò attivamente a varie operazioni con la RSI fino al
25 aprile ’45. In quei giorni, gravemente ferito, fu ricoverato in
ospedale, il 30 dello stesso mese, nonostante fosse oramai morente, fu
prelevato dai partigiani, trascinato in piazza e vigliaccamente finito a
raffiche di mitra. Il generale Carboni, pensando di rispettare il suo giuramento fatto
alla monarchia, fu il solo a difendere a Roma dopo la fuga del regnante e
del suo seguito, per 48 ore riuscì a tenere impegnati i Tedeschi in una
strenua difesa della città. In seguito quando capì cosa fosse veramente
successo, deluso e amareggiato ebbe a scrivere “gli Italiani non hanno
ancora compreso cosa sia stata la fuga di Pescara, presi e frastornati
come si sono trovati dalla massiccia propaganda monarchica e badogliana,
sviluppatasi indisturbata poiché in essa parecchie correnti politiche
hanno potuto pescare elementi di tornaconto partitico. Molti credono
ancora che Badoglio e il Re, la mattina dell’8 settembre 1943, siano
scappati soltanto per rendere operante l’armistizio” Un altro vergognoso avvenimento fu la resa incondizionata della Regia
Marina. In “trent’anni di vita italiana” di Pietro Caporilli si legge
“L’aspetto più mortificante della resa italiana fu la consegna della
flotta al domicilio del nemico(…) giacché è tradizione di tutte le
marine del mondo di affondare la propria nave ma mai di consegnarla al
nemico e meno ancora portargliela a casa!” Il mattino del 10 settembre, le navi dislocate a Taranto raggiunsero
Malta, dove l’ammiraglio italiano Da Zara comandante della nostra
flotta, seguendo gli ordini ricevuti da Badoglio, si arrese
presentandosi all’ammiraglio Cunningham nella fortezza britannica. Nei
giorni successivi furono seguiti dalla corazzata Giulio Cesare e da
altre unità minori e ausiliarie salpate dai porti dell’Adriatico.
Contemporaneamente le torpediniere e le corvette del Tirreno andarono
nel porto di Palermo, occupato dagli statunitensi. Uno degli episodi più tragici conseguenti al tradimento del re fu
l’affondamento, da parte di bombardieri tedeschi, della corazzata Roma,
avvenuto al largo della costa sarda, mentre si andava a consegnare agli
alleati. La triste vicenda portò alla morte 1393 uomini. Parlerò in altri appuntamenti dei Marinai che invece scelsero di proseguire la guerra a fianco dei Tedeschi. Carlo Fecia di Cossato, medaglia d’Oro, asso dei sommergibilisti
atlantici, eroe coraggioso, pur con grande difficoltà aveva obbedito
agli ordini e non aveva esitato ad attaccare l’alleato del giorno prima.
In pochi mesi, con l’evolversi degli eventi, vide crollare tutte le
certezze per cui aveva combattuto e dopo aver scritto una penosa lettera
alla madre, in cui si coglie la drammaticità di quanto gli era
successo, si tolse la vita. “(…) da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale
in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della nostra Marina, a
cui mi ero rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine
del Re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore
militare (…) Tu conosci cosa succede ora in Italia e capisci come siamo
stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto
ignobile senza alcun risultato…”. La sua tomba si trova a Bologna. All’alba dell’8 settembre 1943 la Marina allineava sei corazzate,
otto incrociatori, quattordici cacciatorpediniere, quattro torpediniere,
una nave appoggio aerei, diciannove corvette, trentadue motosiluranti,
numerose dragamine e unità ausiliarie. L’aviazione comprendeva 266
caccia, 154 bombardieri e 313 velivoli dei servizi ausiliari, tutti in
piena efficienza. L’esercito dislocava uomini sul territorio nazionale, nelle isole
dell’Egeo, in Grecia a Creta, in Albania, Montenegro, Slovenia, Dalmazia
e Francia. In definitiva, comprendendo tutti gli addetti ai servizi, quasi due
milioni di uomini fra forze d’aria, di terra e di mare, quarantotto ore
più tardi di questa imponente organizzazione non restava nulla. Il Re e
Badoglio, senza vergogna, passando dalla parte del nemico, avevano
compiuto un tremendo voltafaccia e avevano trasformato un intero
esercito in traditori scatenando l’ira di Hitler. Kesserling, il feldmaresciallo tedesco dichiarò: “il governo
italiano, nel concludere alle nostre spalle l’armistizio con il nemico,
ha commesso il più infame dei tradimenti(…) Le truppe italiane dovranno
essere invitate a proseguire la lotta al nostro fianco appellandosi al
loro onore, altrimenti dovranno essere disarmate senza alcun riguardo(…)
Non vi è clemenza per i traditori!” La smobilitazione dell’esercito italiano avvenne dunque all’insegna
del tradimento. Furono circa 600.000 i soldati che vennero fatti
prigionieri dai Tedeschi e trasferiti via mare e via treno in Germania,
in campi di lavoro, dove fu riservato loro un trattamento disciplinare
vessatorio. Internati Militari Italiani (italienische Militär-Internierte – IMI) fu il nome dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati.
in quelle ore di angoscia e vergogna, che gruppi
di giovani e meno giovani, decisi a difendere la loro dignità di
italiani e di soldati
Vorrei ricordare a tale proposito, attraverso la testimonianza di
Andrea Baroni, l’esperienza toccata a Giovannino Guareschi, personaggio
divenuto famoso nel dopoguerra per la saga di Peppone e Don
Camillo. Andrea Baroni che, alternandosi al colonnello Bernacca, ci ha
raccontato per tanti anni le previsioni del tempo, lo ricorda come
compagno di prigionia. Racconta che ricevevano acqua calda al mattino.
Poi una sbobba di rape (la domenica fiocchi d’avena) 5 patate lesse e un
pezzo di pane. Il cibo era scarso, ma in due anni, con precisione
tedesca, non è mai saltata una razione. In quanto ufficiali non erano
costretti a lavori forzati, avevano molto tempo libero e, per non
oziare, il grande Guareschi pensò di tenere occupati i prigionieri con
attività di teatro. Racconta Baroni: “A Sandbostel: Giovanni Guareschi
baracca 29, Andrea Baroni baracca 28. Era bravissimo, faceva teatro con i
prigionieri. Un giorno lo fermo: “Potrei recitare anche io?”. Mi
guarda: “Con questa voce dove vuoi andare? Non ci sono gli altoparlanti a
teatro!” E ‘ ovvio che di fronte alle giustificazioni che ci sono per coloro a
cui mancò il coraggio, o che si lasciarono guidare da pavidi
comandanti, cresce il valore di quelli che, al contrario, pur potendo
aspettare che tutto finisse non lo fecero e scelsero di continuare a
combattere a volto scoperto, pronti all’estremo sacrificio, in nome di
un sentimento di onore oggi sconosciuto. Fu infatti in quelle ore di
angoscia e vergogna, che gruppi di giovani e meno giovani, decisi a
difendere la loro dignità di italiani e di soldati, strapparono lo
stemma sabaudo dal tricolore e decisero di continuare a combattere per
l’ onore d’Italia. Da questi nuclei spontanei, sarebbe sorto l’esercito
della Repubblica Sociale Italiana.
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