Il video ha cominciato a circolare nel pomeriggio di martedì 24 marzo e in men che non si dica è diventato virale. È un estratto di Tg Leonardo, l'unico telegiornale scientifico italiano, trasmesso dalla Rai nel novembre 2015. Parla di un "supervirus" creato in laboratorio, una “chimera” costruita unendo un coronavirus del pipistrello Ferro di cavallo cinese con il virus della Sars modificato per infettare i topi.
Una ricerca realizzata in Cina, spiega l'autore del servizio, potenzialmente assai pericolosa, per il rischio che il patogeno possa sfuggire al controllo (qui dal minuto 4,55).
La fonte è attendibile, le tessere del puzzle sembrano tutte al loro posto (il coronavirus, i pipistrelli, la Cina…). È possibile che il Sars-CoV-2, il coronavirus causa della pandemia di Covid-19, sia uscito, per negligenza o per dolo, da un laboratorio? La voce, d’altra parte, sta circolando da oltre un mese.
Il dubbio appare legittimo ma, in realtà, è totalmente infondato. Per capirlo bisogna per prima cosa recuperare lo studio originale, pubblicato il 9 novembre 2015 da Nature Medicine, una delle pubblicazioni scientifiche più affidabili e conosciute. La ricerca è lì, liberamente consultabile da tutti. Il titolo “A Sars-like cluster of circulating bat coronaviruses shows potential for human emergence”, si potrebbe tradurre come “un gruppo di coronavirus simili a quello della Sars, attualmente presenti nei pipistrelli, ha le potenzialità per diffondersi anche tra gli uomini”.
Siamo andati a leggerla e abbiamo scoperto una serie di cose interessanti. Per esempio che la ricerca non è nemmeno stata fatta in Cina. Ecco tutta la storia.
Dove è stato fatto l’esperimento?
Dal paper scientifico si capisce che la ricerca non è stata condotta in Cina bensì negli Stati Uniti. Basta scorrere l’elenco degli autori per accorgersi che è stata realizzata e coordinata dall’Università della North Carolina di Chapel Hill, sotto la guida del professor Ralph S. Baric, uno specialista in Epidemiologia, Microbiologia e Immunologia. Del team di studio hanno fatto parte anche esperti della Food and Drugs Administration statunitense, dell’Università di Harvard e dell’Istituto di Microbiologia di Bellinzona, affiliato al Politecnico di Zurigo. Nonché due ricercatori del Key Laboratory of Special Pathogens and Biosafety di Wuhan, che fa parte dell’Institute of Virology dell’Accademia Cinese delle Scienze. Una struttura di ricerca nata nel 2013 per studiare i virus che ciclicamente si originano nell’Estremo Oriente (come la Sars nel 2003). Forse l’equivoco sull’origine cinese dello studio nasce da qui. O dalla citazione del pipistrello Ferro di cavallo cinese (Rhinolophus sinicus) usato per lo studio.

In nessun paragrafo, neppure in quello dedicato ai metodi usati, il lavoro scientifico pubblicato su Nature Medicine dice in maniera esplicita dove siano stati condotti gli esperimenti che hanno portato alla creazione del nuovo virus chimera. Forse dipende anche da una questione di riservatezza, visto il tipo di esperimento. Quello che è certo è che sono stati fatti in un laboratorio con livello di sicurezza 3 (Bsl-3), cioè uno di quelli che possono manipolare virus con alta pericolosità e che sono dotati di tutte le attrezzature che garantiscono la sicurezza per chi ci lavora e verso l’esterno (l’Università della North Carolina ha un laboratorio di questo tipo, ma anche il Key Laboratory cinese). Nell’articolo si spiega anche come tutta la parte che ha riguardato il lavoro e l’osservazione sui topi è stata condotta negli Stati Uniti, all’interno di un laboratorio specializzato dell’Università della North Carolina di Chapel Hill. E si dice chiaramente che tutto è avvenuto nel rispetto delle norme di sicurezza dei laboratori statunitensi, stabilite tra l’altro dai National Institutes of Health, un poco l’equivalente del nostro Istituto Superiore di Sanità. Il comunicato stampa di presentazione dei risultati pubblicato il 9 novembre del 2015 dall’Università statunitense per annunciarla non menziona neppure il laboratorio di Wuhan.
A che cosa serviva lo studio?
Ma perché i ricercatori hanno pensato di creare questo virus chimera? Lo spiegano molto chiaramente, scrivendo che «studi recenti di metagenomica (cioè di analisi del Dna estratti da un campione nell’ambiente, e non in laboratorio) hanno individuato virus simili a quelli della Sars in circolazione all’interno di popolazioni di pipistrelli cinesi». Virus che potrebbero costituire una futura minaccia per l’uomo, come in effetti si sta drammaticamente dimostrando in questi giorni.

«Ma – continuano gli autori – i dati di sequenze genetiche, da soli, forniscono solo indicazioni minime» per identificare nuovi possibili virus capaci di causare una pandemia e per prepararci a una simile eventualità. Quindi, per esaminare la capacità di questi virus dei pipistrelli di infettare l’uomo è necessario, spiegano, un approccio di tipo diverso: creare un virus reale, con caratteristiche specifiche dei coronavirus dei pipistrelli, per verificare se avrebbe potuto essere pericoloso per l’uomo.
Il team di studio decide quindi, per dirla molto grossolanamente, di prendere un pezzo del coronavirus dei pipistrelli e di aggiungerlo al virus della Sars. Il pezzo non è scelto a caso: è la proteina “spike”, che riesce a penetrare le nostre cellule e a rendere infettivo anche per noi un virus di origine animale. Si chiama “spike”, cioè “punta”, proprio perché fa parte delle punte che rendono il coronavirus simile proprio a una corona. In realtà, la procedura è molto più complicata e prevede di inserire nel codice genetico del virus della Sars le istruzioni perché il virus produca anche questa proteina.
I risultati: salto di specie e farmaci inefficaci
Ebbene, la ricerca dimostrò che la proteina spike usata (si chiama SHC014), inserita su un virus Sars modificato per colpire i topi, riusciva sia a infettare cellule dell’epitelio respiratorio dell’uomo “in vitro”, cioè in provetta, sia gli animali usati per il test. E ci riusciva legandosi proprio al recettore ACE-2, quello anche oggi considerato la chiave (anzi la serratura) che permette al Sars-CoV-2 di entrare nelle nostre cellule. Il virus creato in laboratorio non si dimostrò letale con i topi giovani infettati, che guarirono tutti, ma produsse invece una mortalità del 20% su quelli più “anziani”, oltre i 12 mesi. Ciò che all’epoca stupì i ricercatori, e li fece preoccupare, è che la proteina spike utilizzata per la chimera riusciva a infettare cellule umane anche se aveva una struttura diversa da quella del virus della Sars. Era un chiaro avvertimento a tutta la comunità scientifica che suonava più o meno così: «Fate attenzione, perché là fuori esistono coronavirus di pipistrelli che potrebbero di nuovo fare il salto di specie, come è avvenuto per la Sars nel 2003, ed essere la causa di un’epidemia a livello mondiale». Infatti i coronavirus modificano abbastanza facilmente il proprio codice genetico, in modo casuale o usando pezzi di altri virus, e in questo modo si adattano a nuovi animali e li colpiscono: è questo, detto in breve, ciò che viene chiamato «salto di specie».
Un’altra parte dello studio dimostrò poi che con questo nuovo virus chimera i farmaci antivirali utilizzati per curare la Sars non erano efficaci, così come i vaccini testati sui topi che fino a quel momento avevano dato buoni risultati. Era quindi evidente come la ricerca di nuovi farmaci fosse necessaria in previsione di una possibile nuova epidemia provocata da un virus simile alla Sars.
A che cosa servì davvero lo studio
Due avvertimenti profetici, che però sono caduti nel vuoto. La comunità scientifica, all’epoca, notò lo studio soprattutto per i suoi risvolti di etica della ricerca, e si divise sull’opportunità o meno di modificare i virus in laboratorio. Il rischio che la cosa potesse sfuggire di mano, in effetti, era stato avanzato da alcuni studiosi, per esempio da Simon Wain-Hobson, virologo del Pasteur Institute di Parigi il quale, in un commento su Nature Medicine, aveva avvertito che «se il nuovo virus scappasse, nessuno potrebbe prevederne il cammino», soprattutto considerando il fatto che «si sviluppa molto bene». La comunità scientifica aveva discusso sui vantaggi di ricerche di questo tipo rispetto al rischio che potrebbero rappresentare. E anche il servizio di Leonardo si concentrò su questa preoccupazione e la rilanciò.

Pochissimi, allora, diedero peso invece a quella parte dello studio che annunciava a chiare lettere, già cinque anni fa, il rischio di una pandemia come quella di Covid-19 e che avvertiva sul fatto che non avremmo avuto farmaci adatti per contrastarla. Il governo degli Stati Uniti quell’anno aveva già predisposto una moratoria per questo tipo di esperimenti con i virus e quello condotto dall’Università della North Carolina fu uno degli ultimi ammessi. Un supplemento di ricerca sulla linea avviata da quello studio non fu più possibile.
Nel 2017 il coordinatore della ricerca, Ralph S. Baric, in un’intervista a una rivista sulla sanità pubblica, la Carolina Public Health Magazine, rispose così a una domanda sulle famiglie di virus che riteneva potenzialmente più pericolose per generare un’epidemia catastrofica. «L’influenza è la prima della lista e i coronavirus vengono subito dopo». E riguardo alle difese da predisporre avvertì: «La prima barriera sono le infrastrutture di sanità pubblica: maggiore igiene, strutture mediche più efficienti e un sistema di assistenza in grado di attivarsi velocemente. Abbiamo anche bisogno di rafforzare la ricerca di base e di capire meglio i virus per sviluppare prevenzioni e cure».
Purtroppo i suoi avvertimenti sono caduti nel vuoto. Negli anni successivi si è disinvestito, a partire dagli Stati Uniti ma anche altrove, nella ricerca sui virus. Ironia della sorte, ricercatori che ci avevano messo chiaramente in guardia sui rischi di pandemia, e che avremmo dovuto ascoltare, ora vengono invece sospettati di esserne la causa.
Siamo sicuri che non sia il Sars-CoV-2?
Detto tutto questo, resta da spiegare come sappiamo che il coronavirus creato nel 2015 non sia uscito per errore o per dolo dai laboratori che lo avevano prodotto diventando quello che adesso conosciamo come Sars-CoV-2.

Sempre Nature Medicine ha pubblicato il 17 marzo scorso un articolo sulle origini del Sars-CoV-2, da tutti citato come la prova ufficiale che il virus che sta circolando non è stato creato in un laboratorio. In realtà, l’articolo non è così perentorio, ma precisa, con il linguaggio tipicamente usato dagli scienziati, che l’origine di questo nuovo virus è ancora ignota. Tra tutte le sequenze genetiche conosciute e usate per un confronto ce ne sono due, una ricavata dal virus di un pipistrello e una ricavata dal virus di un pangolino, che sono molto vicine a quelle del virus che circola oggi. Neppure queste due però, appaiono decisive. In ogni caso «è improbabile che Sars-CoV-2 sia emerso attraverso la manipolazione in laboratorio di un virus simile al Sars-Cov», dicono gli autori, e «non crediamo che alcuno scenario basato su un laboratorio sia plausibile».
«Ma soprattutto – commenta oggi Antonio Lanzavecchia, dell’Istituto di Microbiologia di Bellinzona, in Svizzera, che contribuì alla ricerca ed è uno degli autori del paper scientifico pubblicato allora da Nature – l’articolo dello scorso 17 marzo evidenzia come la sequenza genetica di Sars-CoV-2 non sia riconducibile ai virus dei pipistrelli descritti nel 2015». È evidente, dice Lanzavecchia, come Sars-CoV-2 rappresenti «l’emergere di un nuovo virus, probabilmente originato dai pipistrelli, che si è adattato all’uomo per vie naturali». Gli scettici più accaniti, quelli che ancora non sono convinti, potranno sempre confrontare la sequenza del genoma del virus creato dai ricercatori della North Carolina con quello del Sars-CoV-2. Entrambi sono stati codificati e liberamente disponibili.