domenica 1 marzo 2020

I SEI MILIONI DI MARTIN HENRY GLYNN & C.


 
 
Spigolature olocaustiche tra Impero Romano e XX Secolo  
 
I SEI MILIONI DI MARTIN HENRY GLYNN & C.
 
di Caile Vipinas
 
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Costituzione della Repubblica Italiana, art. 21
 
Un amico mi scrive e m'invia un articolo, pregandomi di commentarlo. È tratto dal periodico The American Hebrew (L'Ebreo Americano) e scritto da tale Martin Henry Glynn, un editore di un giornale locale statunitense, l'Albany Times Union, entrato in politica con i democratici, e divenuto nel 1913 governatore dello Stato di New York a seguito dell'impeachment e della rimozione dall'incarico del suo predecessore William Sulzer. Nell'articolo, dal titolo suggestivo The crucifixion of Jews must stop (la crocifissione degli ebrei deve finire), viene ripetutamente indicata (precisamente sette volte) la cifra di sei milioni di ebrei in pericolo di vita per la mancanza di beni di prima necessità, mentre 800 mila bambini piangono disperatamente per un tozzo di pane.
L'ex governatore (nella sua biografia in wikipedia.org è indicato come primo governatore di N.Y. di origine irlandese e di fede cattolica[1]), in perfetta sincronia con gli schemi letterari utilizzati dall'editoria propagandistica delle centrali ebraiche, sembra usare qui l'arma del pietismo più sottile ed emotivamente più coinvolgente e quella della terribilità apocalittica per promuovere una raccolta di fondi fra gli americani a favore dei sei milioni e passa di cui sopra («E così nello spirito che trasformò in argento l'offerta votiva di rame della povera vedova, e da argento in oro quando essa fu posta sull'altare di Dio, allo stesso modo il popolo di questo paese è invitato a santificare il proprio danaro donando 35 milioni di dollari nel nome dell'umanità di Mosè a sei milioni di affamati»[2]), ripetendo fino allo sfinimento psicologico del lettore che sei milioni di uomini e donne e 800 mila bambini ebrei stanno morendo per la fame e l'indigenza «a causa di una guerra che ha gettato il potere autocratico nella polvere e ha dato alla democrazia lo scettro del Giusto».[3]
Indi, con una visione quasi millenarista, che sembra precorrere certa "teologia" giudaizzante di stampo cristianista degli attuali neocon d'America, il nostro predicatore, il cui discorso parrebbe intriso fino all'ultima virgola di umanitarismo massonico, non risparmia anatemi e premonizioni invocando il tribunale del Dio della resa dei conti contro quanti restano insensibili di fronte - attenzione al termine usato - a tale «incombente olocausto della vita umana» (threatened holocaust of human life).
Secondo l'illuminato irlandese «le nostre necessità fisiche e corporali sono impiantate in ognuno di noi dalla mano stessa di Dio, prima di ogni fede religiosa, dovuta in parte a un fattore ereditario, in parte all'ambiente in cui si nasce e in parte alla capacità raziocinante di ogni individuo».[4] Di conseguenza, chi, uomo o donna che sia, «può ma non vuole prestare orecchio al grido degli affamati, chi può ma non vuole prendersi cura dei lamenti dei morenti, chi può ma non vuole porgere la propria mano per aiutare quanti affondano fra le onde delle avversità, ebbene costui o costei è un assassino degli istinti più elevati della natura, un traditore della causa della famiglia umana, un rinnegatore della legge naturale, scritta sulle tavole di ogni cuore umano dal dito stesso di Dio».[5]
Insomma, alla pari di un gran maestro di loggia, l'ex governatore dello Stato di N.Y., richiamando qui implicitamente persino il concetto di Dea-Natura, parla in maniera quasi esoterica e cabalistica del gran costruttore dell'Universo, quel Dio pronto a colpire chi nega il proprio aiuto agli oltre sei milioni di ebrei, uomini, donne e bambini.
La parte finale del suo articolo storicizza in un certo qual modo il racconto apocalittico, presentando la situazione dal punto di vista militare e imputando alla guerra la causa dell'incalzante olocausto del popolo eletto.
In altre parole si dice che «in quella guerra per la democrazia» (è questa una definizione che ricorre ossessivamente nel testo) 200 mila giovani ebrei combatterono sotto la bandiera a stelle e strisce. Le gesta eroiche della 77.ma divisione, in cui militarono 14 mila di loro, con la cattura di uomini e materiali tedeschi nella foresta delle Argonne, viene qui mitizzata da Glynn che paragona «i ragazzi ebrei americani che combatterono per la democrazia [si noti ancora una volta la ripetizione maniacale di guerra democratica] a Giosuè che combatté contro gli Amaleciti nella pianura di Abramo».[6]
Leggendo, dunque, di un probabile "olocausto" di oltre sei milioni di Ebrei, il più distratto fra i lettori e a digiuno di cronologie storiche avrà probabilmente qui dedotto trattarsi di un chiaro riferimento alle vicende della II Guerra Mondiale che, secondo la letteratura ufficiale, avrebbero causato l'olocausto del popolo ebraico.
Uno spinosissimo argomento, divenuto nel tempo un campo minato, con tanto di divieto sacrale di contraddittorio, per coloro i quali, seppur timidamente, osano soltanto avanzare dubbi, rifacendosi a una ricca messe di ricerche storico-scientifiche ben documentate che correggono la versione "ortodossa" della cosiddetta “shoah”. Quella che il noto scrittore, saggista e docente universitario ebreo-americano, Norman G. Finkelstein, nel suo celeberrimo e demonizzato saggio di fama mondiale, ha definito, "industria dell'olocausto", denunciando la «strumentalizzazione della sofferenza, un'arma ideologica impiegata in un vero e proprio racket estorsivo per arricchire le lobby ebraiche».[7]
Spiace però deludere chi aveva già tirato le conclusioni, che in questo caso sono del tutto errate. Sì, perché l'articolo in questione di Martin Henry Glynn porta la data del 31 ottobre 1919.
Proprio così: siamo nell'anno 1919; e la cifra di "sei milioni" e lo stesso termine "olocausto", qui utilizzati dal Glynn per descrivere la condizione degli ebrei europei dopo la fine del I conflitto mondiale, saranno ripresi, pedissequamente, nella redazione ufficiale che, a partire dal 1945, ma soprattutto negli anni '60, dopo il rapimento in Argentina, da parte del Mossad, di Otto Adolf Eichmann, responsabile di una sezione del Reichssicherheitshauptamt (l'Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich) e il suo trasferimento forzato in Palestina, dove fu condannato a morte, inizierà a mutarsi in dogma, assumendo una dimensione quasi religiosa.
 
Dalla Palestina romana alla Russia zarista. Primogeniture olocaustiche
Scrive Maurizio Blondet in un suo articolo di qualche anno fa dedicato alla questione dell'olocausto ebraico: «Nel Talmud (Gittin 57b) si attesta che i Romani, nella sola città di Bethar, trucidarono 4 milioni di ebrei, diconsi 4.000.000, in una città che aveva in tutto, forse, meno di 50 mila abitanti. E non basta: sempre il Talmud (Gittin 58a) dichiara che sempre i romani, in una delle loro ferocissime persecuzioni al povero popolo, avvolsero nei rotoli della Torah e bruciarono vivi 16 milioni di ebrei. Diconsi 16.000.000! Questa è pura verità storica, signori, attestata dal testo più sacro e indubitabile che esista. Guai a contestarla, sareste negazionisti e vi espellerebbero da ogni Paese civile (l’Argentina ad esempio), nonché dalla Chiesa cattolica apostolica romana».[8]
A onor del vero, su quest'ultima cifra, leggendo il "Folio 58a" del Trattato Gittin (Talmud di Babilonia), tradotto in inglese da Maurice Simon sotto la direzione del Rabbino I. Epstein, si apprende che «nella città di Bethar esistevano ben 400 sinagoghe; ogni sinagoga aveva 400 maestri e ogni maestro aveva sotto di se 400 alunni». Tirate le somme, abbiamo un totale di 160.000 insegnanti e di nientepopodimeno che 64.000.000 di scolari. Quando il nemico entrò nelle sinagoghe, recita sempre il racconto talmudico, essi furono trafitti con bastoni e «quando il nemico prevalse e li catturò, furono avvolti nei rotoli [della Torah] e arsi». Tali cifre sono talmente assurde e inverosimili, del tutto simboliche ovviamente (indice, altresì, di quanto possa essere attendibile il Talmud anche dal punto di vista storico e non solo in fatto di numeri) che anche gli stessi autori della traduzione si sono affrettati a chiosare il passo con una semplice noterella: «This is obviously a conventional expression for 'very many'».[9]
Dalla Palestina alla Russia, la nostra panoramica prosegue soffermandoci in modo particolare sulla storia del giudaismo russo e sul contributo concreto e fondamentale che buona parte degli ebrei russi diedero all'affermazione dell'ideologia sionista e alla vittoria della rivoluzione bolscevica (in particolare l'elemento giovanile), con l'olocausto di milioni di Russi. Ne abbiamo preziosa, ampia e dettagliata testimonianza nell'opera dello scrittore russo Aleksandr Solgenitsin, Due secoli insieme[10], a iniziare dall'espansione della popolazione ebraica in Russia, formatasi e sviluppatasi in Polonia tra i secoli XIII e XVIII, e che nel XX secolo sarebbe divenuta "la frazione più importante del giudaismo mondiale".[11]
L'autore analizza le condizioni degli ebrei in Russia a partire dalla fine del XVIII secolo, ricordando nel contempo, come premessa, le guerre tra la Russia e i Cazari, l'antica popolazione turcomanna (non di ceppo semitico, dunque, convertitasi al giudaismo, da cui originò l'ideologia sionista avversata dalla componente, ormai minoritaria, di autentico ceppo ebraico - i discendenti degli ebrei della diaspora per intenderci) che si insediò tra il Caucaso e il Volga e il cui impero cadde dopo la sconfitta del 967 subita ad opera del principe Sviatoslav di Kiev. Come giustamente afferma Paolo D'Arpini nel suo recente articolo "Le radici dell'ebraismo e la devianza sionista": «il sionismo nasce da elementi non ebraici. [...] Il sionismo sorge in un contesto razziale diverso da quello ebraico.[...] Infatti per i veri ebrei, quelli nati e vissuti secondo la tradizione, il sionismo viene visto come una sorta di devianza, una eresia»[12] (si veda ad esempio la componente ebraica dei Neturei Karta di cui si tratta a nota 31).
Al tempo di Caterina II (1729-1796) «gli ebrei in Russia ricevettero di primo acchito la libertà individuale di cui i contadini russi resteranno privati ancora per ottanta anni. E, paradossalmente, agli ebrei toccò in sorte una libertà persino più grande di quella dei commercianti e dei borghesi russi».[13]
Il suo successore, Paolo I, è lodato dalla stessa Enciclopedia Giudaica[14] per le sue azioni verso gli ebrei che «manifestano un atteggiamento tollerante, di benevolenza nei confronti della popolazione ebrea [...] quando gli interessi degli ebrei e dei cristiani entravano in conflitto, Paolo I non prendeva affatto la difesa dei cristiani contro gli ebrei» [...] e contro le comunità cristiane di alcune città stabilì che «gli ebrei vi hanno ogni libertà di dominare i cristiani».[15]
Con lo zar Alessandro I, nei primi anni dell'Ottocento, si riconfermarono tutti i diritti degli ebrei, soprattutto in fatto di libertà individuale, e ciò strideva enormemente con lo status di milioni di contadini russi che non fruivano di questa libertà essendo "sottoposti alla servitù". L'ostilità nei loro confronti doveva maturare alla luce di questi privilegi che, incredibilmente, discriminavano gli autoctoni russi.
Un'analisi impietosa e puntuale della condizione di privilegio goduta dalle comunità ebraiche, del loro settarismo, del loro monopolio nei commerci e nelle speculazioni finanziarie, della loro ostilità verso i cristiani, dello sfruttamento esercitato nei confronti dei contadini e dei cosacchi, ma anche di attività illecite come il contrabbando, da loro praticato nelle zone di confine e denunciato dai governatori locali, fu realizzata da Pavel Ivanovic Pestel, un rivoluzionario e ufficiale russo aderente al decabrismo, un movimento politico che anelava al rovesciamento dell'autocrazia e al varo delle riforme sociali e dell'abolizione della servitù della gleba.[16] Interessanti sono le soluzioni della questione ebraica che l'ufficiale propone nella sua Русская Правда: l'integrazione degli ebrei, da loro sempre rifiutata, con la popolazione cristiana oppure la creazione di uno stato ebraico in Asia Minore. Come osserva a ragione Solgenitsin qui c'è l'anticipazione della soluzione sionista, che, com'è tristemente noto, si concretizzò decenni più tardi con l'occupazione della Palestina a danno della popolazione autoctona palestinese.
Nella prima metà dell'Ottocento la situazione doveva però mutare a sfavore degli ebrei, soprattutto per la tenace lotta che il governo zarista di Nicola I Romanov, salito al trono nel 1825, aveva intrapreso contro il contrabbando monopolizzato dagli ebrei, la cui evasione delle imposte dovute al fisco, a differenza dei cristiani tenuti a pagare fino all'ultimo copeco, aveva assunto proporzioni preoccupanti per l'erario dello Stato russo, tanto che un apposito decreto aveva ingiunto «categoricamente di espellere tutti gli ebrei da una zona-cuscinetto di cinquanta chilometri di profondità prossima all'Austria e alla Prussia». La mobilitazione del giudaismo internazionale non si fece attendere, riuscendo addirittura a muovere la regina Vittoria d'Inghilterra, che inviò un suo emissario in numerose città della Russia densamente popolate da ebrei per perorare la loro causa contro ogni limitazione e costrizione legislativa che li potesse danneggiare.[17] Ma il risentimento, se non l'odio, contro gli ebrei doveva invece montare dopo la rivelazione da parte di un ebreo russo convertitosi al cristianesimo, Jacob Brafman, sull'esistenza di un'organizzazione segreta ebraica denominata Kahal, che regolava direttamente la vita della comunità secondo i precetti talmudici, esercitando su di essa un potere assoluto (amministrativo, giudiziario ed esecutivo) da parte del gruppo ristretto ai vertici di questo che costituiva l'organo direttivo della comunità ebraica. In pratica si trattava - parafrasando l'affermazione attribuita al poliedrico letterato tedesco Friedrich Schiller («Die Juden bilden einen Staat im Staate») - della "creazione di uno stato nello stato" da parte della comunità ebraica, e che Brafman stesso riportò sul frontespizio del suo libro.[18] Vani furono gli sforzi di alcuni autori ebrei di bollare con il marchio dell'erronea interpretazione o addirittura della falsificazione di alcuni documenti pubblicati dal Brafman. Afferma Solgenitsin: «Un secolo più tardi (1976) la Nuova Enciclopedia giudaica ha nondimeno confermato che "i materiali utilizzati da Brafman erano proprio autentici, e le sue traduzioni piuttosto esatte". Ancor più recentemente, l'Enciclopedia giudaica russa reputa, nel 1994, che "i documenti pubblicati da Brafman sono una fonte preziosa per lo studio della storia degli ebrei in Russia alla svolta dei secoli XVIII e XIX"».[19]
L'ostilità nei confronti degli ebrei doveva sfociare negli anni Ottanta del XIX secolo nei disordini e nelle violenze popolari conosciuti come pogrom, il più delle volte enfatizzati dalla propaganda antizarista, come nel caso dei disordini nelle città ucraine di Balta e di Odessa. Disordini che lo stesso governo russo e il fratello dello zar Alessandro III Romanov (figlio di Alessandro II assassinato il 1° marzo 1881) stigmatizzeranno con forza, denunciando alla delegazione dei notabili ebrei ricevuta dallo zar e capitanata dal barone Ginzburg che «come il governo ha ora scoperto, i disordini non hanno affatto origine in un'insurrezione diretta esclusivamente contro gli ebrei, ma nella volontà di alcuni di creare torbidi a qualunque costo». Interessante a questo proposito è la testimonianza di uno scrittore russo che Solgenitsin cita per la sua nota "imparzialità e serietà" e che non poteva certamente essere accusato di essere "reazionario" o "antisemita". Si tratta di Gleb Uspenski, che, nella sua opera "Власть земли" (la potenza della terra), una serie di racconti basati sull'osservazione diretta della vita rurale nella provincia russa, proprio riferendosi ai fatti drammatici succitati scriveva: «Gli ebrei sono stati aggrediti precisamente perché approfittavano della miseria altrui, invece di guadagnarsi il pane col sudore della loro fronte; bastonato, frustato, il popolo ha sopportato tutto - e i tatari, e i tedeschi - ma quando l'ebreo ha cominciato a spillargli i suoi ultimi quattrini, allora non l'ha più sopportato!».[20] A nulla valevano gli sforzi del governo zarista per promuovere l'assimilazione degli ebrei con la popolazione cristiana, anche attraverso l'attenuazione delle limitazioni dei diritti degli ebrei stessi e della repressione delle sollevazioni popolari contro di loro. Un rapporto del ministro dell'Interno Ignatiev denunciava, infatti, lo sfruttamento da parte degli ebrei della popolazione definita "di ceppo", "di preferenza le classi più povere", attraverso l'accaparramento delle attività commerciali e persino dei fondi agricoli.[21]
È a iniziare dagli anni Sessanta/Settanta che i giovani ebrei, soprattutto quelli all'interno della scuola rabbinica di Vilnius, daranno la loro adesione al movimento rivoluzionario. Interessante come la cifra dei sei milioni di ebrei sia ricorrente anche per quanto riguarda la popolazione della Russia. La si trova infatti nella dichiarazione che il ministro delle Comunicazioni russo Sergej J. Witte fece durante un incontro col fondatore del sionismo Theodor Herzl. Egli ribadì a questo proposito che gli ebrei in Russia, pur costituendo solo il 5% della popolazione - sei milioni su 136 milioni - la loro presenza in seno al movimento eversivo non era inferiore al 50% dei rivoluzionari.[22] Molti autori che contribuiranno alla stesura della famosa raccolta del 1924 Россия и Евреи (La Russia e gli Ebrei), fra cui I. O. Levin e V. S. Mandel, documentano la convinta partecipazione del giudaismo russo alla rivoluzione. Levin in particolare dice che «l'infatuazione per la rivoluzione si era impadronita della società ebrea a tutti i livelli» (intellettuali, commercianti, artigiani, professori universitari, dentisti), ceti sociali accomunati da una peculiare ricettività «verso le teorie materialistiche» che li porteranno «ad aderire a dottrine come quella del marxismo rivoluzionario» fino alla completa corresponsabilità come «quadri attivi del regime sovietico». Mandel sottolinea invece l'aspetto "soteriologico" che il giudaismo bolscevico attribuiva alla rivoluzione, vista come «un passo in avanti verso l'instaurazione del Regno dei cieli sulla terra». Cita inoltre un passo, a dir poco delirante, tratto dal libro del naturalista tedesco Fritz Kahn, pubblicato a Berlino nel 1920: «Mosè, milleduecentocinquanta anni prima di Gesù Cristo ha, per primo nella Storia, proclamato i diritti dell'uomo […] Il Cristo ha pagato con la sua vita la predicazione di "manifesti comunisti" [sic] in uno Stato capitalista […] nel 1848 è sorta per la seconda volta nel firmamento la stella di Betlemme […] ed è sorta di nuovo al di sopra dei tetti della Giudea: Marx».[23]
La nascita del sionismo è caratterizzata dal rifiuto dell'assimilazione degli ebrei con gli altri popoli. Lo ribadisce con forza, agli albori del movimento sionista in Russia, nel suo pamphlet "Auto-emancipazione", il medico e pubblicista ebreo Lev Pinsker, tra i più attivi propugnatori dell'ideologia sionista e fondatore del movimento "Amanti di Sion". Costui ribadisce con forza che gli ebrei non possono «assimilarsi ad alcuna nazione e, di conseguenza, non possono essere tollerati da alcuna nazione». La meta della Palestina era già ben chiara all'interno di alcuni movimenti sionisti russi, anche se gli ambienti della tradizione religiosa ebraica consideravano il ritorno in Palestina un «attentato alla fede nel Messia; lui soltanto deve riportare gli ebrei in Palestina».[24] Col tempo la dicotomia tra sionisti e antisionisti si attenuerà e assisteremo al trionfo del sionismo europeo di Theodor Herzl sancito nel famoso congresso di Basilea del 1897, nonostante l'accesa opposizione dell'ala antisionista russa guidata da Ahad Haam. Quando nel 1903, in occasione del VI congresso sionista, Herzl propose di accettare la proposta britannica di colonizzare l'Uganda e non la Palestina, proprio l'ala sionista russa insorse, ribadendo con determinazione «che il sionismo era inseparabile da Sion e che niente poteva sostituirla» (come ricorda lo stesso Solgenitsin, saranno proprio gli ebrei russi a costituire l'avanguardia dei fondatori dello Stato di Israele). Il sionismo rimase, comunque, diviso tra chi propugnava esclusivamente la Palestina come terra da "colonizzare" e chi auspicava invece «una colonizzazione di massa ad opera degli ebrei ovunque fosse possibile».[25]
In Russia le attività economiche in mano agli ebrei erano rilevanti: dall'industria (zuccheriera, tessile, molitoria, estrazione dell'oro con a capo il barone Orazio Ginzburg, il cui nome ricorda lo scandalo delle miniere della Lena, dove lo sfruttamento degli operai era a livelli inimmaginabili) al commercio (grano, legname, pellicce, bestiame, ecc.), per finire col fiore all'occhiello dell'attività bancaria e finanziaria, con la fitta rete di banche commerciali e d'investimento (Banca commerciale Azov-Don, Banca Poliakov, Credito fondiario di Mosca, Banca fondiaria del Don, Banca di Siberia, Banca Ginzburg, ecc.). Insomma, una struttura economica e finanziaria poderosa e capillare che faceva il paio con la potente e tentacolare organizzazione ebraica americana.
Col nuovo secolo la comunità ebraica russa, che aveva subìto episodi di pogrom, come quello di Kichinev, intraprese a sua volta la strada della violenza e della vendetta, attaccando senza pietà, come nel caso della città di Gomel, persino vecchi, donne e bambini, al grido «forza ebrei! [...] questo è il pogrom dei russi». La mattanza della popolazione cristiana russa da parte degli ebrei durò fino a sera e fu interrotta soltanto con l'arrivo di un contingente militare. Era la risposta a quello antiebraico di Kichinev.[26]
Dai moti rivoluzionari e dagli atti di puro terrorismo (tra i terroristi ebrei celebri furono Abraham Gotz e Piëtr Rutemberg) dell'ottobre 1905 che videro la partecipazione attiva e massiva della gioventù ebraica, allontanatasi sempre di più dal tradizionalismo religioso giudaico restato invece fedele al regime zarista, all'episodio celebre della corazzata Potiomkin nella città di Odessa, dove gli ebrei «erano gli oratori principali, e chiamavano all'insurrezione aperta e alla lotta armata»[27], la storia degli ebrei in Russia avrebbe poi avuto la sua conclusione, tragica per il popolo russo, nella militanza piena e attiva della componente sionista nel nuovo regime sovietico e nell'organizzazione dell'olocausto a danno del popolo russo, soprattutto nel periodo della presa del potere da parte del bolscevismo. Gradatamente, si avvicinava l'epoca del terrore, quello del biennio 1905-1907, prima attraverso gli episodi di pogrom antiebraici scoppiati, dopo Odessa, in numerose altre città della Russia, come risposta brutale popolare all'intransigenza, all'aggressività e alla violenza indiscriminata degli ebrei rivoluzionari contro la popolazione e il regime zarista[28]. Successivamente, a partire dall'ingresso di esponenti ebraici nel collegio dei grandi elettori alla Duma, a seguito della riforma che apportò delle limitazioni all'autocrazia zarista e fino all'assassinio del «primo capo del governo russo [Piëtr Arkadevič Stolypin] ad aver onestamente posto e tentato di risolvere, malgrado le resistenze dell'Imperatore, la questione dell'uguaglianza per gli ebrei» caduto, come afferma acutamente Solgenitsin, «ironia della Storia!, sotto i colpi di un ebreo»[29], si sarebbe sempre più delineata l'insanabile frattura all'interno della società russa che avrebbe portato alla catastrofe della prima guerra mondiale, all'isolamento della Russia, grazie anche alla martellante propaganda antirussa dell'ebraismo internazionale, e alla vittoria del bolscevismo, supportato dalle potenze occidentali e dalla finanza ebraica statunitense. In questo lasso di tempo, sempre in Russia, si assiste allo sviluppo dell'ideologia sionista, grazie anche all'apporto di intellettuali ebrei come Vladimir Jabotinski, fondatore del movimento Betar e della Legione Ebraica durante la I guerra mondiale. Questi, negli anni successivi al biennio maledetto 1905-1907, dipingeva in modo apocalittico la condizione degli ebrei in Russia. Ecco allora apparire - si badi bene siamo nel primo decennio del Novecento -  la "cifra profetica" dei sei milioni, citata dal saggista ebreo russo in questi termini: «sei milioni di esseri umani brulicanti in una fossa profonda [...], una tortura lenta, un pogrom infinito».[30]
E il caso volle che nel 1907 un altro luogo comune - "l'antisemitismo" - che sarebbe successivamente divenuto, fino ai giorni nostri, una temibile arma di pressione a livello internazionale e di condizionamento di qualsivoglia critica al sionismo, persino proveniente dallo stesso ambiente ebraico[31], si materializzò in un circolo letterario russo contro lo scrittore Eugenii Chirikov, autore di un'opera teatrale dal titolo Gli Ebrei. Fu accusato di antisemitismo dallo scrittore ebreo Sholem Asch, che chiese con quale diritto Chirikov aveva osato trattare della vita degli ebrei in Russia.
Sintomatiche, realistiche e attualissime a tal riguardo furono le affermazioni dello stesso saggista ebreo Jabotinski in un suo articolo del 1909, dal titolo "L'asemitismo", riguardante lo stesso affare Chirikov in cui lamentava il silenzio fatto calare sulla questione ebraica: «si può essere tacciati di antisemitismo per aver soltanto pronunciato la parola "ebreo" o fatto la più innocente osservazione su questa o quella particolarità degli ebrei [...] Il problema è che gli ebrei sono divenuti un vero tabù che proibisce la critica più anodina, e che sono loro a essere i grandi perdenti nell'affare».[32]
Con tali premesse e con l'approssimarsi dello scoppio della I Guerra mondiale l'attacco alla Russia zarista diviene sempre più massiccio, grazie anche alla pressione della propaganda antirussa da parte del giudaismo nazionale e internazionale, che, come riportò un agente dei servizi segreti militari russi nel dicembre 1915 era esercitata «dagli ebrei che dichiarano apertamente di non augurarsi la vittoria della Russia».[33] Uomo di punta contro la Russia zarista fu il banchiere ebreo Jakob Schiff, della banca Kuhn & Loeb, il quale non solo finanziò il Giappone, nemico della Russia nella guerra del 1904/1905, con 200 milioni di dollari, bensì contribuì, esattamente come il barone Edmond Benjamin James de Rothschild (ramo francese dei banchieri Rothschild), al finanziamento delle organizzazioni rivoluzionarie e terroristiche ebraiche russe e delle attività sioniste o di matrice comunista, comprese banche cooperative, sindacati e kibbutz[34]. Il fuoco di sbarramento delle potentissime e ricchissime lobby ebraiche contro la Russia zarista fu determinante per il rifiuto da parte di Londra e Parigi di concedere aiuti finanziari alla Russia richiesti da una delegazione del parlamento russo nel 1916. Così commentavano dalla Gran Bretagna e dalla Francia i banchieri Rothschild la richiesta russa: «Voi attentate al nostro credito negli Stati Uniti. In America gli ebrei sono molto numerosi e attivi, esercitano una grande influenza, in modo che l'opinione pubblica americana vi è molto ostile».[35]
 
Bolscevismo ebraico e olocausto russo
Un'opinione pubblica, quella americana, suggestionata e pilotata dalla martellante propaganda giudaica che seguiva da presso gli avvenimenti che avrebbero sovvertito e insanguinato la Russia, a iniziare dai moti del febbraio 1917, e dove proprio gli ebrei sarebbero stati parte direttiva nell'organizzazione, nell'economia, nell'amministrazione e persino nella cultura del nascente Stato sovietico. La formula dei sei milioni di ebrei perseguitati è impiegata dall'intellighenzia giudaico-sionista per enfatizzare la condizione degli ebrei prima della rivoluzione. Tra il profluvio di attestazioni di autocommiserazione, di vittimismo e di esaltazione della Russia rivoluzionaria (ancor prima della presa del potere da parte del bolscevismo), di contro a quella zarista, si distingue in particolare la dichiarazione dell'avv. O. O. Grusemberg: «Se lo Stato russo era stato prima della Rivoluzione una prigione mostruosa per le sue dimensioni [...], la cella più puzzolente, più crudele, la peggiore galera era stata riservata a noi, popolo ebreo di ‘sei milioni di anime [...] Gocce di sangue dei nostri padri e madri, gocce di sangue dei nostri fratelli e sorelle si sono deposte nelle nostre anime, accendendo e ravvivando in esse la fiamma inestinguibile della Rivoluzione».[36]Con il costituirsi dei Soviet la rappresentanza dei socialisti ebrei all'interno dei loro Comitati Esecutivi era talmente elevata da suscitare diffidenza e ostilità non solo tra il ceto popolare bensì persino all'interno dello stesso apparato rivoluzionario. La popolazione, costretta a fare interminabili code per approvvigionarsi dei generi alimentari che scarseggiavano e sempre più stretta nella morsa delle necessità quotidiane per la sopravvivenza, si scagliava contro gli ebrei, definendoli: "Banda di mascalzoni!...Sono ovunque...Fanno gli arroganti con le loro auto...Non ci sono ebrei nelle code, non ne hanno bisogno, nascondono il pane in casa!". Nelle città di Pietrogrado e Poltava, dopo la scoperta di scorte di derrate alimentari ammassate presso i magazzini di alcuni mercanti ebrei, esplode la collera popolare al grido: "Saccheggiate i negozi dei giudei! È colpa dei giudei!" Nemmeno l'intervento dei Soviet degli operai, in difesa degli ebrei, riesce a placare l'ira della folla, tanto che anche loro sono presi a botte.[37] Nel fatidico ottobre 1917, stando alle affermazioni dell'ex segretario generale del governo provvisorio V. Nabokov, l'assemblea dei capigruppo parlamentari, in cui gli ebrei erano in larga maggioranza, «poteva senza esitazioni essere definita sinedrio’».[38]
Il malcontento popolare contro il potere degli ebrei all'interno della società russa, che veniva gradatamente a indossare la nuova veste sovietica, portò a un risveglio ineluttabile di ostilità e di odio contro gli ebrei. Il primo congresso dei Soviet approvò, infatti, all'unanimità la lotta contro l'antisemitismo, bollato come "attività controrivoluzionaria". «Ciò nonostante[annota Solgenitsin] non ci fu un solo pogrom antiebraico durante il 1917».[39] Anche Lenin condannò senza appello l'antisemitismo e in un apposito decreto emanato nel 1918 lo definì: «un pericolo mortale per l'intera rivoluzione e una minaccia per gli operai e i contadini». Ed Engels, che considerava la lotta contro l'antisemitismo un dovere primario del movimento internazionale dei lavoratori, scriveva sul quotidiano dei socialisti austriaci Arbeiterzeitung: «dobbiamo molto agli ebrei [...] Marx era di puro sangue ebraico, Lassalle era ebreo, tantissimi dei nostri migliori compagni sono ebrei».[40] Il colpo di Stato bolscevico di ottobre, alla guida del quale si distinsero gli ebrei Trotzkij[41] e Tchudnovski (ricordiamo che il nonno materno di Lenin[42], Israel Davidovic Blank, era ebreo, poi divenuto cristiano-ortodosso, assumendo il nome di Alessandro, per poter accedere all'Accademia medico-chirurgica), mise fine al governo provvisorio di febbraio e diede l'avvio alla repressione. Se alla sua vigilia era visto con diffidenza all'interno dell'ebraismo, ben presto tra le file dei bolscevichi vittoriosi brillarono per ferocia e fedeltà al nuovo messianismo comunista, soprattutto tra i ranghi dell'esercito[43], un numero copiosissimo di ebrei. Molti di loro, addirittura, «proclamavano alto e forte il legame genetico tra il bolscevismo e il giudaismo»[44] e andarono gradatamente a occupare posti di comando e di potere all'interno dell'apparato politico, militare, sociale, economico e poliziesco (inquisitorio e repressivo) della nuova Russia sovietica, dichiarata ufficialmente nel dicembre 1922 (Comitati provinciali, regionali, Comitato Centrale del PC, Komintern, Profintern, Internazionale della Gioventù, Consigli rivoluzionari di guerra, Commissariati politici, finanziari, commerciali, Comitato al Vettovagliamento, Armata Rossa, Ceka, ecc.). Afferma Leonard Schapiro, citato da Solgenitsin: «Migliaia di ebrei si unirono in massa ai bolscevichi, vedendo in loro i difensori più accaniti della rivoluzione e gli internazionalisti più affidabili».[45] Talmente affidabili che si distinsero anche nei tentativi di rivoluzione comunista, tra il 1918 e il 1919, in Baviera e in Ungheria, e nel 1920 in Polonia. Attesta I. O. Levin: «In Baviera, troviamo tra i commissari gli ebrei E. Levin, M. Levin, Axelrod, l'ideologo anarchico Landauer, Ernst Toller. [...] La percentuale di ebrei che hanno assunto il comando del movimento bolscevico in Ungheria è del 95%».[46]
Un altro autore menzionato sempre da Solgenitsin, il ricercatore americano John Müller, afferma nel suo saggio del 1990, Dialettica della tragedia: l'antisemitismo e il comunismo nella Russia centrale e orientale, a proposito dell'insurrezione di Monaco di Baviera guidata dall'ebreo Kurt Eisner, che, dopo la sua morte, fu istituito «un nuovo governo di intellettuali ebrei di sinistra che proclamarono la ‘Repubblica sovietica della Baviera». Tale governo durò una settimana perché fu soppiantato «da un gruppo ancora più radicale», alla guida del quale si distinse il socialista rivoluzionario ebreo Eugenio Levin. Questi istituì la «Seconda Repubblica sovietica della Baviera». Lo stesso autore documenta la situazione ungherese in questi termini: «Ma se, in Russia e in Germania, il ruolo degli ebrei nella rivoluzione è stato molto netto, in Ungheria è stato decisivo [...] Sui 49 commissari popolari, 31 erano ebrei». Tra questi Solgenitsin ricorda Bela Kun, che «un anno e mezzo più tardi annegherà la Crimea nel sangue».[47]
Fondamentale fu poi anche il sostegno ebraico all'establishment bolscevico per l'assassinio della famiglia imperiale, per la persecuzione del clero ortodosso e per la distruzione delle chiese. A questo proposito scrive nel 1941 Sergej Nikolaevič Bulgakov, scrittore, filosofo e teologo russo (citato sempre da Solgenitsin), a proposito della persecuzione dei cristiani nella Russia Sovietica: questa «ha superato in violenza e ampiezza tutte le precedenti persecuzioni conosciute attraverso la Storia. Certo, non bisogna imputare tutto agli ebrei, ma non bisogna nemmeno minimizzare la loro influenza».[48]
In sostanza, nel bel mezzo di quello che sarebbe divenuto, da lì ad alcuni anni dopo, "l'olocausto" del popolo russo, e per le condizioni di vita e per le massicce repressioni del periodo definito del Terrore Rosso, si distinsero gli ebrei alla guida della macchina repressiva dell'apparato sovietico e per i privilegi sociali da loro goduti, dei quali beneficiarono anche parenti e amici. Abbiamo già parlato delle campagne di raccolta fondi dell'ebraismo americano (e ne torneremo a trattare più avanti) e dei loro appelli "tear-jerking" sulla condizione degli ebrei dell'est Europa, vittime di privazioni e di scarsità di generi alimentari. Si trattava naturalmente di carestie auto-generate dallo stesso fallimentare sistema economico messo in atto dal bolscevismo nella sua folle guerra alla cd. controrivoluzione e allo Stato borghese. Raccolta fondi, crediti e finanziamenti furono allora messi a disposizione di Lenin dai banchieri ebrei americani per supportare il sistema comunista già in difficoltà agli albori della sua esistenza. E mentre la restante popolazione russa pativa la fame o soffriva per la repressione e la persecuzione del periodo del Terrore Rosso, durante la terribile carestia degli anni 1921-1922, l'American Relief Administration forniva agli ebrei - che avevano occupato i sontuosi appartamenti siti nei palazzi dell'aristocrazia dell'epoca zarista - provvidenziali pacchi dono di generi alimentari a base di "caviale, formaggi, burro, storione affumicato [...] e nella loro scuola modello, la mensa [...] serviva colazioni americane: riso al latte, cioccolata calda, pane bianco e uova al tegame". Quei condomini di lusso "con tutto il fior fiore sovietico" erano stati il frutto della trasformazione di edifici celebri quale l'Hotel Nazionale (divenuto Prima Casa dei Soviet), dove alloggiavano solo ebrei, o al Metropoli (Seconda Casa dei Soviet) o addirittura nel Seminario di Via Bojedomski (Terza Casa dei Soviet) e nei palazzi di Via Mokhovaia/Vodzvijenka (Quarta Casa dei Soviet) e di Via Cheremetievski (Quinta Casa dei Soviet).[49] Secondo quanto riportano alcuni autori dell'antologia La Russia e gli Ebrei, grande fu "la partecipazione zelante degli ebrei al martirio imposto a una Russia esangue dai bolscevichi".[50] La repressione attuata subito dopo il colpo di Stato di ottobre fu durissima e sanguinosa. La parola d'ordine era reprimere ed eliminare fisicamente ogni resistenza, un vero e proprio olocausto perpetrato contro il popolo russo. Nei tre anni di guerra civile che insanguinò la Russia, massiccia fu la «partecipazione degli ebrei all'amministrazione bolscevica e alle atrocità da essa commesse. [...] Nel febbraio 1921, ci furono a Mosca scioperi operai con la parola d'ordine: "Abbasso i comunisti e gli ebrei"».[51] Operai, contadini, artigiani, giovani, donne, vecchi furono l'inumano bersaglio della polizia politica segreta, la famigerata Vetceka (per contrazione Ceka, che nel 1922 fu soppiantata dall'altrettanto famigerata Ghepeù, e poi nel 1934 trasformata in NKVD) durante il periodo del Terrore Rosso.
Solgenitsin riporta alcuni passi significativi dell'opera dello storico e pubblicista Sergei Petrovich Melgunov, Il Terrore Rosso in Russia 1918-1923[52]. Autore contemporaneo degli avvenimenti da lui descritti, Melgunov documenta tutta la potenza distruttiva del bolscevismo comunista: «Non si trattava più di guerra civile, ma dell'annientamento di chi era stato nemico. [...] Si prendono i prigionieri a gruppi interi per fucilarli tutti [...] A colpi di mitragliatrice, essendo le vittime troppo numerose per fucilarle una ad una; si mettono a morte ragazzi di 15-16 anni e vecchi di 60 anni e più. [...] I villaggi dei cosacchi e i borghi che danno rifugio ai Bianchi e ai Verdi [gli anticomunisti] saranno distrutti, tutta la popolazione adulta fucilata, tutti i beni confiscati. [...] La Crimea fu soprannominata il ‘cimitero panrusso’. [...] A Sebastopoli non ci si accontentava di passare per le armi, si impiccava, e non a decine, ma a centinaia; la prospettiva Nakhimov rigurgitava di impiccati [...] arrestati per strada e giustiziati senza processo». Secondo il ricercatore storico L. Iu. Kritchevski, che nel 1999 fu uno dei coautori dell'opera Gli ebrei nell'apparato della Vetceka-Oguepeu negli anni Venti, citato da Solgenitsin, scrive: «tra i giudici istruttori incaricati della lotta con la controrivoluzione - di gran lunga la sezione più importante nelle strutture della Vetceka - la metà era composta da ebrei».[53]
La violenta e sanguinaria repressione cekista contro il popolo russo (commercianti, operai, contadini), spesso comandata da ebrei al vertice di questa struttura poliziesca (si veda l'elenco dei cekisti ebrei pubblicato dall'Enciclopedia giudaica russa riportato nel tomo II dell'opera di Solgenitsin alle pp. 156-158), manifestò tutta la sua furia omicida colpendo persino alcuni stessi ebrei colpevoli di non aver ottemperato alle direttive emanate dal governo bolscevico. Così, ad esempio, «un commerciante (chiamato Iuckevic), nel distretto di Maloarkhanghelsk, per non aver pagato le imposte, è stato messo da un distaccamento comunista sulla piastra di una stufa portata a incandescenza. Nella stessa regione, i contadini che non avevano aderito alle requisizioni forzate furono sottoposti a immersioni prolungate in pozzi dove li si faceva scendere all'estremità di una corda, se non addirittura ancora, per il mancato pagamento dell'imposta rivoluzionaria, si trasformava la gente in statue di ghiaccio (sistema adoperato da chi si mostrava più inventivo nella repressione)». L'adesione e l'allineamento della comunità ebraica alla nuova fede bolscevica determinò la scelta di restare nel Paese e di non fuggire dal marasma della guerra civile, in cui gli ebrei erano inevitabilmente associati dagli anticomunisti al bolscevismo trionfante.
Scrive G. A. Landau nella già citata antologia La Russia e gli Ebrei: «Siamo stati afferrati da ciò che ci si attendeva di trovare meno in ambito ebraico - dalla crudeltà, il sadismo, la violenza che sembravano essere estranei a un popolo distante da ogni via guerriera; quelli che, ieri, ancora non sapevano maneggiare il fucile, si sono allora ritrovati nel novero dei tagliagole e dei carnefici».[54] Tra questi, primeggiavano per zelo criminale Rebecca Plastinina-Maizel, «famosa per la sua crudeltà nel nord della Russia [...] bucava le nuche e le fronti; di propria mano ha fucilato più di cento persone. O, ancora, quel Bak che, per la sua giovane età e la sua crudeltà, era soprannominato il ‘garzone del macellaio’». Così nella durissima repressione dei contadini di Tambov, nella Russia centrale, messa in atto dal comitato regionale locale, i responsabili erano in buona parte ebrei: Raivid, Pinson, Eidman, Schlikhter, Goldin, Levin, Margulin (quest'ultimo si era distinto in particolare per la fustigazione dei "contadini recalcitranti" e per l'impegno nelle condanne capitali). Emblematico resta l'episodio di Kiev del 1919 dove la Ceka locale aveva allestito un capannone adibito alle esecuzioni. In quest'ambiente «il boia faceva entrare la sua vittima completamente nuda e le ordinava di mettersi bocconi, poi, con un colpo di pistola alla nuca, lo giustiziava. Le esecuzioni avvenivano a colpi di revolver [...] La vittima successiva era condotta allo stesso modo e si allungava accanto [...] Quando il numero delle vittime superava [...] le capacità del capannone, le nuove vittime erano sistemate sopra i corpi di quelli che erano stati uccisi precedentemente, oppure erano giustiziate all'ingresso del capannone». Solgenitsin ricorda che gli appartenenti alla commissione cekista di Kiev, che decideva la sorte degli arrestati, erano in numero di venti. Quattordici erano ebrei. [55]
Con l'ascesa di Stalin, fino all'epoca della famigerata purga degli anni 1937/1938 in cui anche molti notabili ebrei caddero vittime della repressione (non si trattò comunque di «un'offensiva contro gli ebrei sul piano della loro nazionalità: gli ebrei sono finiti nel tritatutto perché occupavano in gran numero posti eminenti»[56]), la nomenclatura ebraica all'interno dell'apparato dirigenziale comunista continuò ad alimentare il motore della dittatura sovietica. In occasione dell'VIII Congresso dei Soviet del 1936, Stalin rilasciò la seguente caramellosa e significante dichiarazione in favore degli ebrei, letta dal suo portavoce Molotov: «I nostri sentimenti fraterni nei confronti del popolo ebreo derivano dal fatto che questo popolo ha dato alla luce il genio che ha concepito l'idea della liberazione comunista dell'umanità - Karl Marx - dal fatto che il popolo ebreo, al pari delle nazioni più sviluppate, ha dato al mondo uomini eminenti negli ambiti della scienza, della tecnica e delle arti, eroi valorosi della lotta rivoluzionaria [...] e nel nostro paese ha promosso e promuove sempre nuovi dirigenti e organizzatori notevoli che esercitano i loro talenti in tutti i rami dell'edificazione e della difesa della causa del socialismo».[57]
 
La letteratura olocaustica del Novecento
Certamente non si può spiegare l'arcano dei sei milioni dell'articolo del Glynn, dal quale siamo partiti per la nostra ricerca, liquidando il tutto con la semplice e puerile affermazione che si tratterebbe soltanto di una "straordinaria coincidenza e nulla di più" («remarkable coincidence and nothing more»[58]). Non lo si può sostenere unicamente perché dietro tali formule e citazioni, dietro questo progetto catastrofista (olocausto, persecuzione, sterminio degli ebrei, o di indicazioni di cifre: 5/6/7 milioni e via dicendo) c'è, come abbiamo in parte già avuto modo di constatare, un'incredibile vasta letteratura precedente, che inizia già agli albori del XX secolo e prende consistenza soprattutto negli anni a cavallo tra lo scoppio della I Guerra Mondiale e quelli successivi all'iniquo trattato di pace di Versailles, con un'acme parossistica nel 1926.
Articoli, dichiarazioni, libri, atti ufficiali dell'American Jewish Congress e dell'American Jewish Committee che provano, in maniera inconfutabile, non solo quanto vasta e soffocante fosse l'influenza esercitata sui governi e sulla politica estera americana dalle potenti e ricche lobby ebraico-sioniste (industriali, bancarie, finanziarie) statunitensi e internazionali (Engelman, Warburg, Marshall, Schiff, Lowenstein, Morgenthau, Lehman, Rothschild, Kuhn & Loeb, Wise, Ochs, Sulzberger, Weizmann), alcuni membri delle quali esercitarono in prima persona importanti incarichi di potere all'interno dell'amministrazione americana, bensì anche quali dimensioni e condizionamenti sulla società statunitense ebbero la pressante opera di propaganda e le campagne di raccolta fondi (buona parte di essi servirono poi per interventi economici in terra palestinese sui quali si impiantò il primo nucleo del cosiddetto "focolare" ebraico) a favore delle comunità ebraiche, soprattutto dell'Europa dell'Est, con lo scopo di promuovere «the physical saving of millions of Eastern European Jews»[59] e di fornire aiuti diretti ai «sei o sette milioni di ebrei sofferenti» nelle zone dove si combatteva la I Guerra Mondiale, in particolare in Polonia, Russia e Galizia.[60] Come scrive acutamente Eugene Michael Jones, in uno dei suoi numerosissimi saggi sul rapporto a senso unico tra cattolicesimo ed ebraismo, proprio riguardo alla "conquista" dell'America da parte del giudaismo: «La storia ha inizio nel 1880, quando circa due milioni di ebrei abbandonano il territorio russo ed emigrano negli Stati Uniti. [...] Quando gli ebrei cominciarono ad arrivare, l'America era protestante; entro la fine del XX secolo l'America era stata "ebraicizzata", anche se gli ebrei erano meno del 2% della popolazione totale degli Stati Uniti».[61]
L'American Jewish Congress, fondato nel 1918, ebbe in origine lo scopo «di provvedere agli aiuti umanitari in favore degli ebrei europei che avevano sofferto nella carneficina della guerra e alla ricostituzione dello Stato di Israele in Palestina».[62] E su quest'ultima questione ci sembrano particolarmente importanti le dichiarazioni di due eminenti esponenti del giudaismo sionista. La prima, pronunciata dal rabbino Stephen S. Wise, eminente personaggio dell'American Jewish Congress, nel suo incontro col presidente Wilson, asseriva che «la riedificazione di Sion sarebbe valsa come riparazione di tutta la cristianità per i torti subiti dagli ebrei».[63] La seconda è attribuita agli inizi degli anni '20 a Chaim Weizmann, presidente del comitato dei sionisti britannici, il quale affermava con grande spocchia e lungimiranza che la Palestina sarebbe diventata «ebraica come l'Inghilterra è inglese».[64]
Argomenti di straordinaria importanza che, a dispetto di una storiografia "ufficiale" omertosa e spesso taciturna, sono stati trattati nel magistrale e molto ben documentato saggio di Don Heddesheimer, dal titolo The first Holocaust, già citato a nota 40.
Ha ragioni da vendere l'autore del volume in questione quando afferma che: «la storia dell'olocausto di sei milioni e passa di ebrei non ha avuto origine con la II Guerra Mondiale. Infatti, una sceneggiatura molto simile a quella, anche se in qualche modo meno appariscente, è stata sviluppata proprio durante il I conflitto mondiale e nel periodo immediatamente successivo. Dopo la I Guerra Mondiale furono fatte circolare notizie che tra i cinque e i sei milioni di ebrei in Europa si erano ammalati o stavano morendo in una sorta di olocausto della fame, o a causa di epidemie terribili, o ancora per una malevola persecuzione. Il seguito si concentrerà specialmente sulle manifestazioni che durante la I Guerra Mondiale saranno promosse per la raccolta di fondi. Queste campagne mirate, organizzate dai maggiori gruppi ebraici di supporto, possono, già di per sé, fornire sia un significato storico sia essere associate all'industria dell'olocausto post II Guerra Mondiale. Il termine "olocausto" appartiene dunque alla I Guerra Mondiale e fu utilizzato durante e dopo la I Guerra Mondiale per descrivere cosa stava accadendo in Europa e ciò che presumibilmente accadde agli ebrei europei durante e dopo quel conflitto. E mentre le storie che si raccontano oggi sono conosciute come "L'olocausto", durante e persino nei decenni successivi la II Guerra Mondiale non furono mai apostrofate con tale termine. La parola "olocausto" fu utilizzata durante e dopo il primo conflitto mondiale, un conflitto paragonato per l'appunto a un olocausto e denominato anche la più grande tragedia e la più grande miseria che il mondo abbia mai conosciuto».[65]
L'autore riporta una serie cospicua di esempi, una documentazione rigorosa e incontrovertibile (tra cui il pezzo in questione dell'ex governatore Glynn oggetto del nostro articolo) che dimostra che, assai prima del cd. "Processo di Norimberga" sui crimini del Nazionalsocialismo, la cifra di sei milioni di ebrei fu utilizzata dalla propaganda ebraico-sionista durante il primo conflitto mondiale e negli anni seguenti.
Maurizio Blondet, nel suo articolo I sei milioni di prima, a proposito di questo computo di vittime ebraiche, cita il Congresso Sionista Mondiale del 1911, in cui Max Nordau - riguardo alla situazione in Germania dove gli ebrei tedeschi, molto ben inseriti e integrati nella loro realtà nazionale, erano contrari alla soluzione sionista - affermava: «Questi governi così solleciti del diritto, così nobilmente e industriosamente attivi nel preparare la pace universale, stanno preparando il completo annichilimento di sei milioni di persone». Commenta Blondet: «Sei milioni. Nordau già prevedeva l'esatto numero di sei milioni nel 1911».[66] In realtà l'affermazione di Nordau giunge tardiva rispetto alla stupefacente preveggenza del rabbino Stephen Wise. Infatti, in occasione di un raduno sionista del 1900, il religioso ebreo dichiarava al N.Y. Times: «ci sono 6 milioni di argomenti viventi, sanguinanti e sofferenti a favore del sionismo».[67]
Tale propaganda dipingeva la condizione di estremo pericolo in cui si trovavano gli ebrei d'Europa, ai limiti del totale annientamento, e utilizzava parole chiave come "sterminio", "olocausto" e la cifra di "sei milioni", divenuta oggi verità assoluta e tabù sacro. Parallelamente, come abbiamo già detto, si promuovevano grandi manifestazioni a sostegno della raccolta di fondi in funzione umanitaria, somme (abbiamo visto l'appello del Glynn per la raccolta di 35 milioni di dollari) che in parte erano veicolate anche ad esempio per sovvenzionare colonie agricole ebraiche nella Russia sovietica. Come precisa Don Heddesheimer: «La Joint Distribution Committee iniziò a finanziare gli insediamenti agricoli ebraico-sovietici in Ucraina e in Crimea. Alcuni di questi insediamenti, fondati dall'Agro-Joint, erano colonie sioniste abitate da persone che consideravano la Crimea prima tappa sulla strada verso la Palestina. Tredici di queste colonie avevano nomi ebraici. [...] Nel 1928 la Crimea contava ben 112 colonie fondate e operanti grazie alle generose sovvenzioni della JDC. Dato che il governo sovietico reputava che gli ebrei erano stati in precedenza un'etnia perseguitata e oppressa, conformemente allo schema di autonomie adottato dal nuovo governo sovietico, furono riconosciuti in queste regioni distretti autonomi retti dalla comunità ebraica. Scuole, collegi, tribunali, forze di polizia e il loro intero apparato di governo furono retti in lingua yiddish [...] Nella primavera del 1927 Felix Warburg [principale finanziatore, assieme a Rothschild, di tali insediamenti n.d.r.] visita l'Unione Sovietica, viaggiando da Vladivostok a Mosca e affermando di aver visitato 40 colonie Agro-Joint in Crimea e Ucraina. [...] Pose anche la prima pietra per l'erezione di un edificio scolastico a suo nome». Al suo ritorno in America, in una manifestazione promossa a Chicago per raccogliere fondi disse: «[...] In nessun paese che abbiamo visitato non siamo mai stati così liberi da formalità e non ci è stata mai concessa libertà assoluta come in Russia. [...] Il nostro lavoro in Russia è stato di grande successo, non soltanto dal punto di vista sentimentale ma anche dal punto di vista finanziario».[68] E talmente influente e potente fu l'Agro-Joint delle colonie ebraiche sovietiche che, agli inizi degli anni Trenta, allorquando fu introdotta la collettivizzazione forzata, tale organizzazione intervenne presso il governo e il partito comunista locali, ottenendo la modifica alle restrizioni di legge e l'esonero dalla sua applicazione alle stesse colonie ebraiche[69].
Accuse contro la Joint Distribution Committee d'impieghi impropri di tali fondi in Polonia, mosse da alcuni stessi esponenti del giudaismo, furono subito criticate e tacitate dai rappresentanti della cupola dell'ebraismo americano (in particolare Louis Marshall e Felix Warburg, il ricco banchiere repubblicano, considerato fra i dieci ebrei più in vista e influenti degli Stati Uniti), dalla stampa sionista e dalla sua quinta colonna: il N.Y. Times.
In queste campagne propagandistiche a favore del giudaismo, che ebbero grande sviluppo e risonanza soprattutto nel 1926, furono coinvolti anche i cristiani d'America. L'American Christian Fund aveva, infatti, inviato una lettera a 150.000 leader cristiani americani informandoli che cinque milioni di ebrei dell'Europa centro-orientale correvano il rischio di morire di fame. Anche in questo caso gli estensori del messaggio sfruttavano all'unisono, mutuandolo dai loro suggeritori sionisti, l'immaginario apocalittico: "Dal 1914 i Quattro Cavalieri dell'Apocalisse hanno cavalcato sinistramente su metà della popolazione ebraica che nella guerra mondiale aveva subito peste, fame e morte".[70]
Grancassa principale della propaganda giudaico-sionista per la raccolta fondi fu, senza dubbio, il New York Times. Stiamo parlando del giornale più famoso d'America che nel 1896 fu acquistato dal ricco magnate ebreo Adolph Ochs, in prima linea nella battaglia pro Sion.[71]. In un editoriale del quotidiano suddetto del 6 dicembre 1926 è riportata la notizia del raggiungimento di quota 62 milioni di dollari della campagna raccolta fondi, e di una nuova colletta in atto che avrebbe dovuto "racimolare" altri 25 milioni di dollari.
Più che giustificati e razionali a questo punto ci sembrano gli interrogativi posti dallo Heddesheimer: «le storie olocaustiche del 1926 si sono sviluppate dalle precedenti campagne di raccolta fondi?; tutto ciò faceva forse parte di una sorta di tradizione di tipo caritatevole?; questi appelli fortemente emotivi, che giocavano un ruolo determinante sulle paure o forse anche sulla spiritualità della gente, erano appositamente ideati per raccogliere grandi quantità di denaro?» Iniziative caritatevoli che, come afferma lo stesso autore, «erano gestite da banchieri internazionali, che avevano anche finanziato guerre, rivoluzioni e ferrovie».[72]
 
I sei milioni di dopo
La riproposizione della tematica catastrofistica, potenziata dalla lunga esperienza dell'abbondante trentennio precedente, tornerà in auge, in maniera ancora più incisiva e in perfetta sincronia con gli interessi geopolitici di Francia e Gran Bretagna, alcuni anni dopo il conferimento in Germania dell'incarico di cancelliere ad Adolf Hitler. Ma già nel marzo del 1933, dopo poco più di un mese dall'insediamento del nuovo governo tedesco, il giudaismo internazionale, sotto la guida del già citato Chaim Weizmann, divenuto presidente della World Zionist Organization, e dietro l'impulso del procuratore di New York Samuel Untermeyer, dichiarava guerra alla Germania (l'edizione del Daily Express del 24 marzo 1933 titolava in prima pagina: Judea declares war on Germany). Ciò avveniva prima che il governo tedesco, guidato dal nuovo cancelliere, adottasse misure restrittive di severa e pesante ritorsione e persecuzione contro gli ebrei, e nonostante i leader ebraici tedeschi avessero espresso le loro perplessità sulla posizione intransigente dell'ebraismo mondiale e consigliassero prudenza e avvedutezza nelle relazioni col nuovo governo presieduto dal Cancelliere Hitler. Anche perché, sin dal 1933, ottime erano le relazioni e la collaborazione tra gli ebrei antisionisti guidati da Max Naumann, fondatore della "Lega degli Ebrei Nazionali Tedeschi", e il governo nazionalsocialista[73]. Poco o quasi nulla conosce il grande pubblico, grazie all'omertosa storiografia "ufficiale" (fortemente in imbarazzo di fronte ad una verità così scomoda), sull'Accordo-Haavara (Haavara-Abkommen) che contemplava il trasferimento (in ebraico ha'abhârâh) in massa degli ebrei tedeschi in Palestina; accordo stipulato - si noti bene la data - il 28 agosto 1933 tra Ministero dell'Economia del Reich e l'Agenzia ebraica per la Palestina. In sostanza, come ha evidenziato lo studioso Guido Raimund, in un suo articolo sulla rivista storica The Barnes Review: «the unknown founding father of the state of Israel is none other than Adolf Hitler».[74] E tale affermazione è avvalorata da un'autorevole voce dell'ebraismo: Martin Mordechai Buber, filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano[75]: «Questa fase organica di insediamento in Palestina è durata fino all'epoca di Hitler. È stato Hitler che ha spinto in Palestina delle masse di ebrei e non un'élite che venisse a svolgervi la propria vita e a preparare l'avvenire. Così, ad uno sviluppo organico selettivo è seguita una immigrazione di massa con la necessità di trovare una forza politica che difendesse la sua sicurezza [...] la maggior parte degli ebrei ha preferito imparare da Hitler e non da noi [...]».[76]
Ma, al di là di quella che potremmo definire un'iperbole storica, anche se veritiera nella sostanza, va anche ricordato, sempre a onore della verità e contro le reticenze e le volute omissioni degli storici e accademici embedded, che già dal 1934, sulla nota questione del "focolare ebraico", circolavano proposte indirizzate ai responsabili del sionismo come alternativa alla Palestina, quali il Madagascar o l'est europeo. Ciò a seguito delle mutate situazioni geopolitiche e militari concretizzatesi subito dopo l'occupazione della Francia[77] e l'avanzata dilagante nell'est europeo delle truppe germaniche[78]. D'altra parte l'allontanamento degli Ebrei dalla Germania era stato «il principio ispiratore del programma politico nazionalsocialista e della sua dottrina razziale». Lo si evince in modo inequivocabile dal discorso di Monaco del 1920, "Perché siamo antisemiti?", in cui Hitler dichiarava espressamente che «la conoscenza scientifica dell'antisemitismo doveva tradursi in azione per condurre all'allontanamento degli ebrei dal nostro popolo (Entfernung der Juden aus unserem Volke)».[79]
Chi propose tale "soluzione finale territoriale" del problema ebraico fu, dunque, proprio il regime nazionalsocialista, per volontà del suo capo. Proposte che non piacquero ai responsabili del sionismo (come abbiamo visto la Palestina era divenuta la meta irrinunciabile per la fondazione dello stato sionista), allora in stretto contatto e collaborazione col regime hitleriano, e che optarono fermamente per l'occupazione della Palestina[80]. Nonostante la Germania hitleriana si fosse prodigata in tutti i modi (assistenziali, economici e finanziari) per promuovere l'emigrazione degli ebrei anche verso le democrazie europee, tuttavia tale soluzione trovò notevoli ostacoli proprio da parte di questi Stati, che non gradivano ospitare entro i loro confini gli ebrei perseguitati.
La famosa conferenza di Evian, che ebbe luogo dal 6 al 15 luglio del 1938, su iniziativa del presidente americano Roosevelt per sostenere l'emigrazione degli ebrei perseguitati, fu un vero fallimento. Precisa a tal proposito Carlo Mattogno: «La difficoltà maggiore fu indubbiamente il malcelato antisemitismo dei paesi democratici, i quali, se da un lato alzavano alte grida contro la persecuzione ebraica da parte nazionalsocialista, dall'altro si rifiutavano di accogliere gli ebrei perseguitati». Tanto che il gerarca nazionalsocialista Joseph Goebbels, alcuni anni dopo, commentava tale fallimento in termini beffardi: «Quale sarà la soluzione del problema ebraico? Si creerà un giorno uno Stato ebraico in qualche parte del mondo? Lo si saprà a suo tempo. Ma è interessante notare che i paesi la cui opinione pubblica si agita in favore degli Ebrei, rifiutano costantemente di accoglierli. Dicono che sono i pionieri della civiltà, che sono i geni della filosofia e della creazione artistica, ma quando si chiede loro di accettare questi geni, chiudono loro le frontiere e dicono che non sanno che farsene. È un caso unico nella storia questo rifiuto di accogliere in casa propria dei geni»[81]
L'inasprimento dei toni da crociata contro la Germania e le minacce di boicottaggio della sua economia ebbero un'impennata nel luglio del 1933, in occasione della conferenza mondiale ebraica tenutasi in quell'anno ad Amsterdam. Un ultimatum diretto ai tedeschi fu lanciato dal palco del meeting ebraico: «Mandate via Hitler, rimettete ogni ebreo nella posizione che aveva, sia comunista o no. Non potete trattarci in questo modo. Noi, gli ebrei del mondo, lanciamo un ultimatum contro di voi» E fu proprio il succitato avv. Untermeyer, capo delegazione degli ebrei americani e presidente della stessa conferenza, a rincarare la dose e a tuonare, al suo ritorno negli USA dai microfoni della CBS, che la mobilitazione giudaica doveva essere considerata una "guerra santa" contro la Germania: «Gli ebrei del mondo dichiarano ora la Guerra Santa contro la Germania. Siamo ora impegnati in un conflitto sacro contro i tedeschi. Li piegheremo con la fame. Useremo contro di essi il boicottaggio mondiale. Così li distruggeremo, perché la loro economia dipende dalle esportazioni». Tale testimonianza riportata nel capitolo 22 del libro di Maurizio Blondet (citato a nota 82), dal titolo "Così parlò Benjamin Freedman", non provengono da un antisemita ma da un ebreo di New York, Benjamin Harrison Freedman. Le diffuse in occasione del suo discorso «nel 1961, al Willard Hotel di Washington ad un’influente platea, riunita dal giornale americano Common Sense». Chi era Benjamin Harrison Freedman (1890-1984)? Ecco il suo biglietto da visita: «Uomo d’affari di successo (era il proprietario della Woodbury Soap Co.), ebreo di New York [poi convertitosi al Cristianesimo, n.d.r.], patriota americano, Benjamin Freedman - che era stato membro della delegazione americana al Congresso di Versailles nel 1919 - ruppe con l’ebraismo organizzato e i circoli sionisti dopo il 1945, accusandoli di aver favorito la vittoria del comunismo in Russia. Da quel momento, dedicò la vita e le sue ragguardevoli fortune (2,5 milioni di dollari di allora) a combattere e denunciare le trame dei suoi correligionari [...] Freedman fondò tra l’altro la "Lega per la pace con giustizia in Palestina", e collaborò con l’americano "Istituto per la revisione storica", il centro promotore di tutto ciò che viene chiamato "revisionismo storico"».[83]
Nel suo appassionato discorso denunciò, dapprima, lo scatenamento della I guerra mondiale contro la Germania, su istigazione dei sionisti tedeschi, in cambio della Palestina: «In questo frangente, i sionisti tedeschi che rappresentavano il sionismo dell'Europa Orientale, presero contatto col Gabinetto di guerra britannico - la faccio breve perché, è una lunga storia, ma ho i documenti che provano tutto ciò che dico - e dicono: "potete ancora vincere la guerra. Non avete bisogno di cedere [nel 1916 la Germania stava vincendo la guerra e aveva offerto all'Inghilterra in difficoltà un negoziato di pace, n.d.r.]. Potete vincere se gli Stati Uniti intervengono al vostro fianco". Gli Stati Uniti non erano in guerra allora. [...] Essi dissero all’Inghilterra: "Noi siamo in grado di portare gli Stati Uniti in guerra come vostro alleato, per battersi al vostro fianco, se solo ci promettete la Palestina dopo la guerra" [...] É assolutamente assurdo che la Gran Bretagna, che non aveva mai avuto alcun interesse o collegamento con quella che oggi chiamiamo Palestina, potesse prometterla come moneta in cambio dell’intervento americano. Tuttavia, fecero questa promessa, nell’ottobre 1916. E poco dopo - non so se qualcuno di voi lo ricorda - gli Stati Uniti, che erano quasi totalmente pro-germanici, entrarono in guerra come alleati della Gran Bretagna. Dico che gli Stati Uniti erano quasi totalmente filotedeschi perché i giornali qui erano controllati dagli ebrei, dai nostri banchieri ebrei - tutti i mezzi di comunicazione di massa - e gli ebrei erano filotedeschi. Perché molti di loro provenivano dalla Germania, e anche volevano vedere la Germania rovesciare lo zar; non volevano che la Russia vincesse. Questi banchieri ebrei tedeschi, come Kuhn Loeb e delle altre banche d'affari negli Stati Uniti, avevano rifiutato di finanziare la Francia o l'Inghilterra anche con un solo dollaro. Dicevano: "finché l'Inghilterra è alleata alla Russia, nemmeno un centesimo!". Invece finanziavano la Germania; si battevano con la Germania contro la Russia. Ora, questi stessi ebrei, quando videro la possibilità di ottenere la Palestina, andarono in Inghilterra e fecero l'accordo che ho detto. Tutto cambiò di colpo, come un semaforo che passa dal rosso al verde. Dove i giornali erano filotedeschi, [...] di colpo, la Germania non era più buona. Erano i cattivi. Erano gli Unni. Sparavano sulle crocerossine. Tagliavano le mani ai bambini. Poco dopo mister Wilson dichiarava guerra alla Germania. [...] Appena noi entrammo in guerra, i sionisti andarono dalla Gran Bretagna e dissero: "bene, noi abbiamo compiuto la nostra parte del patto. Metteteci qualcosa per iscritto come prova che ci darete la Palestina". [...] Questa fu chiamata la Dichiarazione Balfour».[84]
Tornando agli anni Trenta, Freedman completò il discorso con dettagli ben documentati, anche come testimone diretto di molti degli avvenimenti da lui trattati, essendo stato un personaggio di rilievo nella società americana («ero l’ufficiale di Henry Morgenthau Sr. nella campagna del 1912 in cui il presidente Wilson fu eletto. Ero l’uomo di fiducia di Henry Morgenthau Sr., che presiedeva la Commissione Finanze, ed io ero il collegamento tra lui e Rollo Wells, il tesoriere»)
In riferimento alle affermazioni di Untermeyer precisò: «Ora in quella dichiarazione, che io ho qui e che fu pubblicata sul New York Times del 7 agosto 1933, Samuel Untermeyer dichiarò audacemente che "questo boicottaggio economico è il nostro mezzo di autodifesa". [...] gli ebrei del mondo intero boicottarono la Germania, e il boicottaggio fu così efficace che non potevi più trovare nulla nel mondo con la scritta ‘Made in Germany’. Un dirigente della Woolworth Co. mi raccontò allora che avevano dovuto buttare via milioni di dollari di vasellame tedesco; perché i negozi erano boicottati se vi si trovava un piatto con la scritta ‘Made in Germany’; vi formavano davanti dei picchetti con cartelli che dicevano ‘Hitler assassino’ e così via. In un magazzino Macy, di proprietà di una famiglia ebraica, una donna trovò calze con la scritta ‘Made in Germany’. Vidi io stesso il boicottaggio di Macy’s, con centinaia di persone ammassate all’entrata con cartelli che dicevano ‘Assassini’, ‘Hitleriani’, eccetera. Va notato che fino a quel momento in Germania non era stato torto un capello sulla testa di un ebreo. Non c’era persecuzione, né fame, né assassini, nulla. Ma naturalmente, adesso i tedeschi cominciarono a dire: "Chi sono questi che ci boicottano, e mettono alla disoccupazione la nostra gente e paralizzano le nostre industrie?" Così cominciarono a dipingere svastiche sulle vetrine dei negozi di proprietà degli ebrei […] Ma solo nel 1938, quando un giovane ebreo polacco entrò nell’ambasciata tedesca a Parigi e sparò a un funzionario tedesco, solo allora i tedeschi cominciarono ad essere duri con gli ebrei in Germania. Allora li vediamo spaccare le vetrine e fare pestaggi per la strada. Io non amo usare la parola ‘antisemitismo’ perché non ha senso, ma siccome ha un senso per voi, dovrò usarla».[85]
La conseguenza di tale intransigenza da parte del giudaismo internazionale contro la Germania l'ha ben evidenziata anche M. Raphael Johnson, in un suo saggio del 2001: «La guerra economica dichiarata alla Germania dalla dirigenza ebraica non solo portò a determinate ritorsioni da parte del governo tedesco ma mise le basi per un’alleanza politico-economica poco conosciuta fra il regime di Hitler e i leader del movimento sionista che speravano che le tensioni fra i tedeschi e gli ebrei avrebbero portato ad una massiccia emigrazione verso la Palestina. In breve, il risultato fu un’alleanza tattica fra i nazisti e i fondatori dell’odierno stato di Israele. Un evento che molti oggi preferirebbero venisse dimenticato».[86]
Lo stesso Untermeyer, in un'altra conferenza organizzata nel 1937 al Waldorf-Astoria di New York disse con enfasi: «Un'intera nazione di più di tre milioni di anime è minacciata di sterminio». Il tiro fu aggiustato l'anno seguente da Jacob Tarshis, rappresentante dell'American Joint Distribution Committee, il quale ripropose la cifra dei sei milioni di ebrei dell'Europa Centrale in pericolo di vita e, facendo riferimento ad Hitler, affermò che era in reale pericolo «l'esistenza di milioni di ebrei».[87]
Il N.Y. Times, alla data del 9 gennaio 1938 - vale a dire dieci mesi prima della famigerata Kristallnacht avvenuta nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 e che diede inizio alle persecuzioni antiebraiche - titolava già a pag. 12: "Persecuted Jews seen on increase [...] 6.000.000 victims noted".
Due anni dopo, siamo nel giugno del 1940, un nuovo accorato appello contro la Germania, da parte del giudaismo internazionale, fu lanciato da Nahum Goldman, presidente della commissione amministrativa del Congresso Ebraico Mondiale:
«Sei milioni di ebrei sono destinati alla distruzione se la vittoria finale sarà del Nazismo. [...] e gli ebrei europei corrono il pericolo dell'annientamento fisico. Persino i quattro milioni di ebrei sotto il governo sovietico, sebbene non siano sottoposti a discriminazione razziale, non sono al sicuro da un'eventuale vittoria finale del Nazismo».[88]
Chiosa Heddesheimer a proposito delle varie raccolte di fondi correlate alla comparsa per la prima volta del termine "olocausto": «esiste un modello di appelli emotivi che giocano sulle paure della gente con lo scopo di incrementare le raccolte di denaro. Essi avevano bisogno di crisi credibili per convincere i donatori a contribuire con grandi somme di denaro. Erano i leader promotori di questi appelli abbastanza calcolatori e senza scrupoli da inventare tali fatti? [...] Ritengo che queste campagne di raccolta fondi, relative all'olocausto iniziale, forniscano un importante indizio per risolvere il puzzle revisionistico».[89]

Conclusioni
I riferimenti ai primi "olocausti", che abbiamo visto citati sin dagli albori del Novecento, hanno ben presto lasciato il posto, nella memoria storica collettiva, all'unico olocausto che tutti oggi conoscono, quello che viene imputato alla Germania nazionalsocialista negli ultimi anni della II Guerra Mondiale. È noto anche col termine improprio di Shoah, parola ebraica che significa "sventura", "rovina", "catastrofe", tratta dal passo biblico veterotestamentario di Isaia, 47,11.
Va subito detto che, a iniziare dal secondo dopoguerra, di tale fenomeno si è occupata in particolare la ricerca storica revisionistica, che ha indagato ab imis tale questione, penetrando nei suoi più reconditi aspetti e risvolti storico-scientifici, onde chiarire molti dei suoi lati oscuri, delle sue incongruenze e, in parecchi casi, delle sue semplicistiche e fuorvianti conclusioni. Autori più noti del revisionismo storico-scientifico sono: Paul Rassinier [ex deportato a Buchenwald], David Irving, Robert Faurisson, Fred Leuchter, Germar Rudolf, Ernst Zündel, Georges Theil, Horst Mahler, A. Arthur Butz, Barbara Kulaszka, Ahmed Rami, Gerd Honsik, Heinz Koppe, Serge Thion, Thies Christophersen[90], Carlo Mattogno, Andrea Carancini (studioso del revisionismo) e il celebre intellettuale francese, ex comunista e combattente nella resistenza, storico, saggista e studioso di fama internazionale Roger Garaudy (1913-2012)[91], per il quale, in Francia, fu elegantemente "confezionata", nel luglio del 1990, la famigerata legge Gayssot-Fabius. "Una legge che è un insulto a molte libertà, da quella sulla ricerca storica a quella sulla libertà di pensiero; una legge talmente collidente con il buonsenso e con le guarentigie fondanti di ogni democrazia da essere osteggiata da uno schieramento che spacca in due il parlamento francese. Votano contro questa legge Chirac, Toubon (futuro ministro della Giustizia), Simone Weil e 182 parlamentari. [...] La legge destinata a evirare la ricerca storica e a restringere la libertà di pensiero viene presentata all'opinione pubblica alla stregua di un male necessario per chiudere la bocca una volta per tutte agli antisemiti e ai revisionisti bugiardi"[92] Dunque, senza operare le necessarie distinzioni tra ricerca storica seria e becere posizioni di fanatici distorsori e falsificatori della Storia stessa, i suoi detrattori l'hanno tout court maldestramente e capziosamente tacciata di "negazionismo". Ci sembra, a questo proposito, molto sensata e inappuntabile l'osservazione del prof. Michele Ainis, ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l'Università di Roma Tre, espressa nella sua relazione al già citato Convegno (vedi nota 91) di Teramo del 2007: "[...] una verità imposta con tutti i crismi del diritto è una verità debole, che non crede più in se stessa, nelle sue buone ragioni. E a sua volta una parola anestetizzata impedisce per ciò stesso il dialogo, e in ultimo sopisce la forza del pensiero".[93]
Molti dei succitati autori revisionisti (docenti universitari, professionisti, ricercatori, studiosi) hanno subìto e subiscono tuttora in Europa[94] feroci persecuzioni legali ad opera di leggi liberticide appositamente varate, a imitazione della Gayssot-Fabius, per reprimere il revisionismo storico (multe salatissime, carcere e damnatio memoriae)[95]. Stessi iniqui provvedimenti sono stati recentemente approvati anche in Italia con la legge 16 giugno 2016, n. 115 - dopo anni di aspre polemiche e di accesi dibattiti sulla libertà di pensiero, pur nel ribadire la condanna morale di chi nega gli avvenimenti persecutori e criminosi perpetrati contro gli ebrei durante l'ultimo conflitto mondiale - e concepiti come "aggravanti" della legge Mancino.
Come ha ricordato il sito Altalex[96], a commento appunto della summenzionata legge 115, già nel 2013 l'Unione delle Camere Penali Italiane aveva risposto con il comunicato del 16 ottobre “Al negazionismo si risponde con le armi della cultura non con quelle del diritto penale” e nel novembre successivo aveva contestato i fautori della polizia del pensiero con l’appello “Contro il reato di negazionismo”. Sagace affermazione, a questo riguardo, quella dell'avvocato Vincenzo Bellucci, nel suo intervento al Convegno del 7 luglio 2008, "Le opinioni imbavagliate" (Centro Studi Ordine Avvocati di Roma): «È interessante notare che "negazionismo" è etichetta applicata non da chi lo professa, ma da chi vi si oppone (per la precisione: l'uno non intende tanto negare, quanto discutere; l'altro intende inibire non tanto la negazione - che non sempre c'è - quanto la discussione stessa)».[97] Altrettanto perspicace è la precisazione fatta nel 2006 dalla Graphos Edizioni, in uno scambio epistolare con la casa editrice Utet, a proposito del libro di Paul Rassinier, La menzogna di Ulisse: «egli [Rassinier, n.d.r.] si è posto alle origini di un filone di ricerca [quello per l'appunto del revisionismo storico, n.d.r.] del quale si possono non condividere i risultati, ma non se ne può contestare la legittimità sul piano dell’indagine storica».[98] Come non ricordare, poi, la coraggiosa e caparbia battaglia per la libertà di pensiero, d'insegnamento e di ricerca storica del prof. Claudio Moffa dell'Università di Teramo. Nonostante la demonizzazione da lui subita dalle stesse autorità accademiche e la solita e ridicola accusa di "antisemitismo", è da anni che organizza e porta avanti, pur tra mille difficoltà e bastoni tra le ruote, il benemerito Master Enrico Mattei (http://www.iem-red.it/) presso la suddetta università, che vede la partecipazione a livello internazionale d'insigni studiosi, docenti e ricercatori storici. Nel 2010 il docente fu vilmente e falsamente accusato, per una sua lezione sulla Shoah, di vilipendio alle vittime dell'olocausto, ma pienamente scagionato da tale falsa accusa dalla Procura di Pescara con la seguente motivazione: «Dalla lettura degli atti risulta certamente che la lezione del Prof. Moffa non contiene alcuna affermazione lesiva delle vittime dell'olocausto e non effettua neppure alcuna (pur eventualmente legittima, tanto più in sede didattica universitaria) opzione ideologica, limitandosi a sottolineare a degli studenti di un corso di storia l'importanza di un approccio critico a qualsiasi argomento, per "caldo" che possa essere, anzi rappresentando che tanto più "sensibile" risulta un tema storico, tanto maggiore è il pericolo che il "fatto" possa essere strumentalizzato a vari fini e che dunque financo le fonti possano essere manipolate. A parere della scrivente, per quanto qui possa rilevare, la lezione tenuta dal Prof. Moffa appare pregevole e metodologicamente ineccepibile. PM Cristina Tedeschini. Procura di Pescara».
L'altro fatto di grande rilievo è che anche numerosi autori ebrei, insigni rappresentanti della cultura ebraica, hanno, in molti casi, contestato la correlazione tra antisionismo e antisemitismo sfruttata dalla lobby israeliana contro chi critica la politica razzista e repressiva dello Stato ebraico contro il popolo palestinese, e difeso la libertà di pensiero e di ricerca storica contro ogni legge liberticida che intende invece imbavagliare tale diritto fondamentale in ogni democrazia che si rispetti. Ricordiamo in particolare Israel Shamir, scrittore e giornalista israeliano, convinto difensore del revisionismo storico («[...] la storia è stata consegnata alla custodia di sacri guardiani, per assicurare la struttura e, in qualche modo, la continuità del potere»)[99]; Gerard Menuhin, intellettuale tedesco di origine ebraica e convinto antisionista, figlio del celebre violinista Yehudi Menuhin. Fece visita in carcere all'avv. Sylvia Stolz, la professionista tedesca che fu condannata a tre anni e mezzo di carcere in Germania per aver esercitato la sua professione nella causa in cui difese lo storico revisionista Ernst Zündel[100]; Gilad Atzmon, scrittore e celebre musicista di jazz, di posizioni rigorosamente anti sioniste; l'ebreo americano Noam Chomsky, insigne linguista e professore emerito al Massachussetts Institute of Technology, che prese le difese di Robert Faurisson nella prefazione al testo in cui lo storico francese rigettò le accuse di falsificare la storia[101]; il già ricordato Norman Finkelstein, che nel suo bestseller internazionale ha documentato "la strumentalizzazione della ‘nuova minaccia antisemita’ per giustificare l'attuale politica israeliana" (vedi nota 7)
Da ultimo, non possiamo non citare e condividere il pensiero di numerosi altri autori israeliani, citati da Solgenitsin, che sulla tragedia ebraica hanno messo in guardia i loro stessi connazionali e correligionari dall'uso strumentale ed enfatico della Shoah, anche in rapporto con la storia dell'ebraismo in Russia: da Ben Baruch[102] a Uri Avneri[103], da Hannah Arendt a Mikhail Heifets[104].
A conclusione del discorso, ci sembrano, infine, molto appropriate e valide, soprattutto in questa fase storica contemporanea, le affermazioni della biologa, scrittrice e pubblicista ebrea russa Sonja Margolina (dal 1986 residente a Berlino) contenute nel suo saggio, Das Ende der Lügen (La fine delle bugie), pubblicato nel 1992 a Berlino: «Il solido capitale morale accumulato dagli ebrei dopo Auschwitz sembra esaurito, [gli ebrei] non possono più accontentarsi di imboccare i sentieri battuti delle lagnanze verso il resto del mondo. Il mondo di oggi ha riscoperto il diritto di parlare con gli ebrei come con tutti gli altri popoli; la lotta per i diritti degli ebrei non è più progressista della lotta per i diritti degli altri popoli. É venuto il momento di rompere lo specchio e di guardare dietro di sé: non ci siamo solo noi in questo mondo».[]
Dunque, una lezione di saggezza e di onestà intellettuale questa della dott.ssa Margolina; una lezione che ci offre lo spunto per poter concludere che nella storia di ogni etnia, di ogni popolo, di ogni comunità organizzata in Stato, nessun soggetto potrà giammai dichiarare di essere stato immune dalla sindrome di Caino. Allo stesso modo sembrano essere perfettamente appropriate alla tematica in questione le parole di verità del Cristo rivolte agli Scribi e ai Farisei, nel famoso episodio della lapidazione dell'adultera: «Chi tra voi è senza peccato, getti per primo contro di lei la pietra» (Gv. 8, 7-8).

                                                                                                                         



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