Oltre 70anni passati dalla tragica primavera italiana del 1945 sono
ormai un tempo sufficiente, se non per affermare verità storiche, per lo meno
per ricercarle. Decine di opere editoriali sono venute alla luce in questo
periodo per rievocare eventi storici; alcune, in modo particolare quelle di
Giampaolo Pansa, cercando di capire le ragioni dei perdenti ed il dramma vissuto
nei giorni della “Liberazione” ma molte, ancora troppe, celebrano una
guerra civile, volendo ignorare le ragioni, i contenuti ideali, presenti anche
nella parte perdente, pur sapendo che , per logica e per natura, quelle ragioni
e quei contenuti sono insiti in tutti gli atti umani, in ogni momento della
storia dell'umanità?
Ci si compiace, e si ritiene che questo possa avere validità storica, di
indicare gli sconfitti della guerra civile puramente e semplicemente come “turpe
nemico”, come il “servo del tedesco invasore”, rendendo così
agiografiche e stucchevolmente retoriche, tutte le rievocazioni delle gesta dei
vincitori.
Al di là di ogni intenzione di ricercare noi la verità storica per
stabilire cosa furono in effetti la Resistenza italiana e l'epilogo del Fascismo
italiano, questo numero di ADSUM vuole essere semplicemente la cronaca degli
ultimi giorni della guerra civile in Italia. In quei giorni si evidenziò una
carica d'odio, nell'Italia del Nord, che provocò un bagno di sangue, e
rappresentò la sola realtà storica della primavera italiana del 1945.
E allora la ricerca storica ci aiuta a capire il movente dei fatti
verificatisi oltre 70 anni fa e soprattutto la struttura umana di coloro che
vollero quel bagno di sangue. Non per ribadire la condanna dei persecutori, né
per beatificare le vittime, ma per dare un contributo, sia pure modesto, alla
ricerca della verità.
Alla fine del mese di marzo del 1945, le armate russe hanno ormai
superato il fiume Oder, l'ultima linea di resistenza della Germania nazista.
Scompare, praticamente, in termini di rilevanza bellica, l'esercito
tedesco ad oriente.
In coincidenza con questi eventi, resa della Rhur ad occidente.
L'incalzare ormai inarrestabile delle armate barbare anglo-americane, annuncia prossimo
il crollo del Terzo Reich.
E' in questo quadro che si schiude la scena dell'ultimo atto della guerra
sul fronte italiano. La vittoria anglo-americana in Italia è corollario alla
sconfitta della Germania in Europa e ciò puntualmente si verifica nei primi
giorni del mese di aprile.
Cadono i contrafforti della linea gotica, inizia l'azione d'aggiramento
dalla sponda adriatica al cuore dell'Emilia, cedono le ultime resistenze
tedesche e italiane in Garfagnana e sul versante tirrenico.
Forse ci si illude che sia ancora possibile riorganizzare una linea di
resistenza sul Po, ma il 21 aprile l'occupazione di Bologna decreta la fine di
ogni organizzata resistenza italo-tedesca anche sul fronte italiano.
Gli eventi bellici, da quel punto e da quel momento, sono nel susseguirsi
di episodi di sistematica ritirata, nello straripare di armate anglo-americane
nell'Italia del Nord, consistono in una pura e semplice operazione di
occupazione militare.
Questo epilogo sul fronte italiano ha avuto il suo presupposto nella
assoluta supremazia dei mezzi alleati su quelli dell'apparato militare tedesco,
sorretto solo dallo sforzo militare che la Repubblica Sociale era riuscita a
realizzare, dopo il “tradimento” del Re d’Italia.
E' in questo quadro che si inseriscono gli eventi della cosiddetta
insurrezione partigiana.
Cosa fu l'insurrezione partigiana nei limiti di un'effettiva
visualizzazione storica è lapidariamente descritto dal Comandante Supremo
Alleato, Maresciallo Alexander, che così pubblicava nella “London Gazett”
nel giugno 1950: “Vi fu, beninteso, l'insurrezione del 25 aprile '45; ma
ciò avvenne dopo che gli eserciti tedeschi erano stati distrutti in battaglia a
sud del Po, dopo che essi avevano intavolato trattative per la resa e appena una
settimana prima della loro formale capitolazione finale”.
Per una attenta analisi di quei giorni occorre valutare la realtà del
movimento di resistenza nell'Italia del Nord dagli ultimi mesi del 1944 al
febbraio del 1945.
Nell'estate del 1944 si era consolidato il fronte italiano, una volta
arrestatasi l'offensiva alleata a sud dell'Emilia, fra l'Adriatico e il Tirreno,
da Rimini a La Spezia.
Ebbero allora inizio le grandi azioni antipartigiane condotte dalle
formazioni fasciste e dai reparti italo-tedeschi col risultato di eliminare,
come entità operative, pressoché tutti i focolai partigiani di montagna. In quel
momento il Comando interalleato del Mediterraneo rivolge precisi ordini alla
resistenza italiana di sciogliersi, disimpegnarsi, nelle montagne e nelle città.
Cosa era rimasto nell'inverno '44 e sino al febbraio '45 di tutto
l'apparato di guerriglia partigiana, sono gli stessi storici resistenziali a
precisarlo: sopravviveva soltanto la capacità organizzativa del Partito
Comunista, essendo questo riuscito a salvare sia i quadri delle formazioni
partigiane garibaldine, che quelli delle Sap e dei Gap, vere e proprie
organizzazioni terroristiche di città. Nel febbraio dei 1945, nel momento in cui
l'epilogo del conflitto è prevedibile come imminente, in Italia si configura una
nuova strategia del Partito Comunista. Esso persegue lo scopo predominante, se
non esclusivo, di proiettare il nostro Paese nell'area dell'Impero Sovietico.
Dopo l'inverno del '44 sono i quadri della resistenza comunista l'unica
realtà operativa storicamente accertabile.
In montagna sono le formazioni garibaldine del Partito Comunista che si
riorganizzano, mentre in città riesplode il terrorismo delle Sap e dei Gap. Oggi
gli storiografi dell'antifascismo parlano anche di sopravvissute e restaurate
altre forze politiche: storicamente di costoro non esiste traccia.
Nel tentativo di storicizzare fatti insignificanti o addirittura
inesistenti, nella rievocazione si è caduti nel ridicolo.
L'obiettivo delle formazioni partigiane di montagna e di città, in quel
momento, non è quello di coadiuvare in qualche modo lo sforzo militare degli
Alleati per sconfiggere i tedeschi e i fascisti, ma, quello di assicurare al
Partito Comunista il controllo dei grandi centri urbani dell'Italia
Settentrionale e il conseguente insediamento dei comunisti nei posti di potere
più importanti. In questa visuale il Partito Comunista si colloca al di sopra e
al di fuori e, se necessario, contro lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale
Alta Italia. Con la direttiva numero 15 i comunisti, nel febbraio-marzo 1945,
stabiliscono quale obiettivo dei triumviratí provinciali e regionali della
resistenza l'Insurrezione Partigiana.
Ed è proprio per questo scopo che i triumvirati sono stati organizzati.
Pietro Secchia così riferisce: “Per coordinare la lotta politica delle masse
lavoratrici .... fin dal giugno 1944 il PCI aveva provveduto a costituire in
ogni regione occupata dai tedeschi un triumvirato insurrezionale composto da
tre, dirigenti le organizzazioni politiche e militari. Questi triunmvirati, pur
di assicurare la vittoria all'insurrezione nazionale, dovevano operare anche nel
caso in cui gli organismi unitari (i CLN) al momento decisivo non avessero
funzionato o fossero stati paralizzati da dissensi interni”.
E’ il PCI che fa tattica e strategia, nell'ultima fase della guerra
civile, rifiutando qualsiasi conclusione del conflitto che prescinda
dall'insurrezione partigiana. Si rifiuta qualsiasi ipotesi di
trasmissione indolore dei poteri tra la Repubblica Sociale Italiana e il governo
del Sud, tra la Repubblica Sociale Italiana e lo stesso Comitato di Liberazione
Alta Italia.
Su una eventuale pacificazione nazionale che potesse sorgere dall'una o
dall'altra parte, dopo tanto sangue fraterno versato, i comunisti sono spietati
e irremovibili. Ecco come si esprime il più autorevole compagno del nord, Luigi
Longo: “Nessun lasciapassare, nessun ponte d'oro a chi se ne va, ma guerra di
sterminio ... “. E ancora Longo che così redarguisce i pacifisti del CLN:
per il successore di Togliatti alla guida del PCI, in quel momento il disegno da
attuare è chiaro: “Muoiano della morte dei traditori i turpi fascisti e i
plutocrati profittatori”.
Ora non si parla di sterminio dei soli fascisti, ma anche dei “plutocrati
profittatori”. E il partito comunista che ritiene necessario che la cerchia
degli eliminandi debba essere allargata a tutti quelli che in qualche modo
potranno contrastare la prospettiva politica post bellica del comunismo.
Alla direttiva numero 15 sopra ricordata, il 10 aprile fa seguito la
direttiva insurrezionale numero 16, ovvero quanto occorreva fosse fatto “per
predisporre e scatenare vere e proprie azioni insurrezionali”
E proprio Pietro Secchia, alter ego di Luigi Longo, nel fomentare e
dirigere la guerra civile in Alta Italia, a dichiarare la necessità di: “respingere
decisamente tutte le manovre tendenti a evitare e far fallire l’insurrezione
nazionale (comunista)”
Gli storici seri hanno riconosciuto, trenta e più anni or sono, su “Civiltà
Cattolica” che “Sul piano storico la resistenza si compendia in
un'Italia piena di memorie tragiche e grandi ma che fu lotta fratricida che ha
lasciato strascichi dolorosi negli animi degli italiani, una ferita non ancora
rimarginata: una guerra civile combattuta con spaventosa violenza che ha portato
le parti in lotta - partigiani, tedeschi e fascisti - ad efferatezze, ad eccidi,
a rappresaglie e vendette terribili”.
Ci si domanda oggi perché quella terribile lotta fratricida dovesse per
forza proseguire dopo la fine della guerra e sfociare in un ulteriore bagno di
sangue conseguente alla insurrezione partigiana?
Ovvia la risposta.
Il Partito Comunista
allora maestro di reapolitik, sapeva che non vi era spazio in Italia per una
svolta rivoluzionaria. Aveva ben appreso dal suo “padrone” e ispiratore
moscovita che lo schieramento internazionale dopo l'incontro di Yalta e gli
accordi tra russi, americani e inglesi, non dava spazio in Italia ad un evento
che consentisse la trasformazione della società italiana in senso comunista.
Ma se non era
possibile al PCI la conquista tout court del potere, lo scopo poteva essere
raggiunto più tardi, previa la eliminazione fisica del maggior numero possibile
di fascisti o comunque anticomunisti, la liberazione, cioè, della piazza da
ogni seria opposizione al neo regime filosovietico.
Ed è su questo
presupposto che si verifica la mattanza della primavera '45, che è l'unico
concreto risultato dell'insurrezione partigiana del 25 aprile. Eliminazione
fisica dei fascisti o “presunti tali”
allora, mistificazione storica poi, per spezzare sul piano psicologico il
retaggio di valori ideali che le generazioni future avrebbero potuto acquisire
dalla parte perdente.
Vediamo cosa accadde, per esempio, a Genova, a Milano e a Torino.
Nella riunione del Partito Comunista che ebbe luogo a Milano nei giorni
11 e 12 marzo 1945, Longo e Secchia impartivano direttive secondo quanto
indicava Ercole Ercoli (Palmiro Togliatti), da Roma: una decisa opposizione a
qualsiasi tentativo, che potesse essere accettato dalle altre componenti del
Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di addivenire a “tregue”,
a “patti di non aggressione”. Opposizione assoluta, quindi,
all'alternativa di una conclusione indolore della guerra civile , ed
eliminazione fisica dei fascisti e degli anticomunisti.
Queste direttiva per l'insurrezione a qualsiasi costo, sono consacrate
nel messaggio inviato sempre da Ercole Ercoli alle 16,30 del 13 aprile al
compagno Gallo (Luigi Longo). In questo messaggio Togliatti riconferma che il
disegno politico della insurrezione deve essere attuato anche in contrasto o
addirittura in opposizione alle direttiva del comandante americano Clark, il
quale aveva in pratica ordinato alle formazioni partigiane di attendere che le
grandi città fossero occupate dagli Alleati.
Testualmente il 13 aprile alle ore 16,30 Togliatti comunicava a Longo:
“Per il compagno Gallo. Il nuovo ordine del giorno
del Generale Clark è stato emanato senza l'accordo né del governo, né nostro.
Tale ordine del giorno non corrisponde agli interessi del popolo. E' nostro
interesse vitale che il popolo si sollevi in un’unica lotta per la distruzione
dei nazifascisti prima della venuta degli Alleati. Questo è indispensabile
specialmente nelle grandi città come Milano, Torino, Genova, ecc., che noi
dobbiamo fare il possibile per liberare con le nostre forze ed epurare
integralmente dai fascisti”.
Ecco quindi, dedotto dal testo originale, il leit motiv, lo scopo
politico dell'atto insurrezionale che si vuol attuare: “epurare integralmente
dai fascisti”.
Sta per cominciare la giostra della insurrezione che ha per obiettivo la
strage dei vinti.
Dall'altra parte, dalla parte fascista, qual è l'orientamento, quali sono
i propositi in quei giorni di tragica vigilia?
La principale preoccupazione di tutti, dal capo ai gregari, era quella di
conservare la struttura dello Stato Repubblicano fino al passaggio dei poteri
allo Stato Italiano, che rappresentava legalitariamente la parte vincente.
Questa sembrava a Benito Mussolini la naturale conclusione degli eventi. Ci si
illudeva che la conclusione del conflitto in Europa potesse coincidere con la
fine della guerra civile in Italia, che dopo i giorni dell'odio si potesse
guardare oltre, perché a quegli eventi sopravvivesse il popolo italiano tutto
essendo figli di una stessa terra.
Questo è il senso delle trattative di resa offerte da Mussolini, tramite
il figlio Vittorio agli Alleati e , tramite il Cardinale Schuster, al CLNAI.
Ed ecco l'affannarsi organizzativo del Partito Comunista per l'insurrezione, una
insurrezione a freddo promossa da calcolo politico, non certamente da volontà di
popolo.
Non gli alleati
anglo-americani, dice il Partito Comunista, devono liberare le grandi città del
nord, ma l'insurrezione partigiana.
E gli eventi, nella realtà storica, dimostrarono poi che le grandi città
non furono liberate da azioni insurrezionali, ma occupate dalle
formazioni comuniste nel momento in cui le forze fasciste e tedesche le
abbandonarono, sotto l'incalzare delle colonne anglo-americane dilaganti
ormai, oltre la linea del Po.
Genova, Milano, Torino: l'atto insurrezionale si verifica con 24 ore, al
massimo con 48 ore di anticipo sull'arrivo delle truppe alleate.
E l'insurrezione,
chiamiamola cosi, facilitò almeno l'evolversi della situazione militare?
No di certo, se è
vero che la guerra non ha più storia del momento in cui l'esercito rinunciò ad
ogni resistenza sulla linea del Po.
E la linea del Po significa 22 aprile, mentre il timido inizio del primo
fatto insurrezionale - quello di Genova - risale al 24 aprile.
Addirittura il 24 aprile è la vigilia della formale capitolazione
militare tedesca agli alleati presso il Quartier Generale di Caserta.
Ma chiarificatore della necessità per il PCI, di precedere di almeno
24-48 ore l'arrivo degli alleati, è il documento relativo alla seduta del 14
marzo 1945 del Comitato di Liberazione Nazionale Lombardia. Si legge
testualmente nel resoconto verbale (vedi Documenti inediti a cura di Pietro
Secchia, Feltrinelli 1971) che in quella seduta si puntualizzò “per quanto
riguarda l'opera di giustizia, il comando alleato si disinteressa di quanto
verrà fatto ai fascisti nel periodo che precederà l'assunzione dei potere da
parte dell'AMG”.
Cos'è l'assunzione
del potere da parte dell'AMG, Governo militare alleato?
E’ l’occupazione
delle città da parte delle truppe alleate.
Ecco allora la necessità, nel disegno politico comunista di anticipare di
24 ore almeno l'occupazione alleata, onde consentire ai comunisti, appunto, la
pulizia etnica sulla pelle dei fascisti veri e presunti. Ed è Palmiro Togliatti
che dà conferma di tutto questo. Nel discorso del 19 maggio 1945 a Milano
affermerà: “L'obiettivo di liberare l'Italia dai traditori fascisti è stato
raggiunto anche se non tutto quello che avrebbe dovuto è stato possibile farlo”.
Ma, per buona pace del compagno Togliatti, siamo solo al 19 maggio; quello che
non si era potuto fare sino a quel punto verrà fatto nei mesi seguenti dalle
volanti rosse e da quel simulacro di giustizia che furono le Corti di Assise
straordinarie. E' Togliatti, alias Ercoli, il fuoriuscito arrivato dalla Russia
ai primi del 1944 nell'Italia del sud, che nell'ultimo atto diviene il
coordinatore feroce ed implacabile della giustizia comunista.
E Togliatti di queste cose, abbiamo detto, se ne intendeva. Aveva già
fatto esperienza di cinico curatore delle più atroci epurazioni staliniane negli
anni precedenti.
Nessuna sorpresa,
pertanto, se l'architetto delle “radiose giornate” fu il Migliore.
Gli ultimi atti politici delle autorità di Governo della Repubblica
Sociale Italiana e del vertice del Partito Fascista Repubblicano si inquadrano
nella situazione, che appare ormai globalmente compromessa con l'occupazione di
Bologna da parte degli Alleati, tra il 20 e il 21 aprile; Bologna, che per 24
ore almeno fu alla totale mercé delle bande partigiane comuniste prima che il
grosso delle armate alleate, dopo le avanguardie, entrasse in città. Le notizie
che il vertice della RSI riceve da Bologna fanno apparire evidente che ormai non
ha più senso la speranza di trapasso indolore dei poteri, una tregua per
concordare la resa del Governo della RSI e delle forze armate fasciste
Repubblicane, con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.
A Bologna è già in
corso la strage indiscriminata dei fascisti, o meglio degli anticomunisti, così
come la vuole il Partito Comunista Italiano. La giustizia partigiana che non dà
spazio ad alcun anelito di pacificazione.
Lo storico inglese Kirkpatrik cosi testimonia: “Il giorno 23 aprile
dappertutto era in corso la caccia ai fascisti, che vengono uccisi senza pietà”.
Il 24 aprile: a Milano le autorità della RSI e Benito Mussolini hanno ormai
netta la percezione, per quanto apprendono dai territori appena occupati, che la
grande strage è incominciata.
La giornata del
25 aprile vede a Milano l'ultimo tentativo operato al massimo livello per un
trapasso di poteri dalla Repubblica Sociale Italiana al CLNAI quale
rappresentante del governo del Sud. Mussolini
che si reca all’Arcivescovado e alla presenza dei Card. Schuster incontra alcuni
dei principali esponenti del Comitato di Liberazione Alta Italia.
Un tentativo teso
ad evitare altri spargimenti di sangue, altre inutili stragi.
La risposta è
chiara. Nessuna trattativa, nessun passaggio di poteri, nessuna tregua, nessuna
capitolazione secondo le leggi dell'umana convivenza, ma soltanto resa
incondizionata. Mussolini, prima ancora di recarsi all'Arcivescovado forse
prevedeva questo rifiuto, ma ciò che soprattutto lo convinse dell'inutilità del
tentativo fu l'assenza all'incontro del responsabile del Partito Comunista
Italiano.
Mussolini aveva elementi certi per sapere che l'unica seria e bene
organizzata formazione partigiana di montagna e di città era quella del Partito
Comunista; la sua assenza, quindi, era di per sé eloquente. Mussolini lascia
l'Arcivescovado alle ore 17 circa del 25 aprile e prende atto che nulla servirà
ad evitare l'ultimo atto della tragedia.
Così nell'accomiatarsi dai suoi fedeli alla prefettura di Milano, egli li
scioglie dal giuramento di fedeltà. E' ancora l'inglese Kirkpatrik che dichiara:
“Mussolini era risoluto a non essere causa di uno spargimento di sangue,
non voleva più chiedere fedeltà ai suoi seguaci, eppure il suo istinto rifiutava
di arrendersi. Mussolini decise di allontanarsi da Como. Si preoccupava, come si
era preoccupato a Milano di non coinvolgere la città nella
battaglia...”.
Alla decisione di cui sopra Mussolini aggiunge una frase: “Gli
ordini vi verranno da Pavolini”. E gli ordini saranno quelli di
allontanare dai grandi centri urbani le formazioni fasciste ancora in armi, non
tanto nell'illusorio disegno di giungere la Valtellina, quanto nella speranza di
evitare scontri sanguinosi ed eliminare in tal modo ogni pretesto di
insurrezione da parte dei comunisti.
Si dovevano abbandonare i centri urbani e seguire direttrici di avanzata
degli angloamericani per arrendersi a loro secondo le tradizioni militari. Così
si erano comportate le autorità fasciste di Bologna, e avevano abbandonato con
gli ultimi reparti armati la città. Ne derivò che la giustizia partigiana, a
Bologna, si esercitò subito dopo sugli inermi, gli umili, sulle famiglie dei
fascisti e sugli esponenti della borghesia non fascista, anch'essa obiettivo del
furore insurrezionale, perché ritenuta anticomunista.
Anche da Genova le formazioni fasciste in armi si erano in gran parte
allontanate e quelle rimaste con i presidi tedeschi attendevano, in stato di
tregua, l'ormai imminente arrivo delle armate anglo-americane. Il 18 aprile il
fronte occidentale italo-tedesco, che dalla Garfagnana raggiunge il mar Tirreno
a La Spezia, si dissolve. Le truppe tedesche e quelle dell'armata di Graziani,
anziché retrocedere lungo la tortuosa via Aurelia, attraversano il passo della
Cisa percorrendo la prevista direttrice di ripiegamento lungo la linea del Po.
Questo dà la certezza al Comitato di Liberazione Ligure di poter agire
liberamente senza cioè il pericolo dello scontro con divisioni tedesche e
repubblicane, ma questo significa anche che aperta sarà la strada ad una rapida
avanzata degli americani lungo l'Aurelia verso Genova. Non resta quindi che
attendere le 48 ore necessarie perché gli alleati giungano tranquillamente in
porto. E a questo punto che il CLN di Genova decide di proclamare
l'insurrezione contro i tedeschi e contro i fascisti, giustificandola con la
volontà di salvaguardare gli impianti portuali dalle distruzioni tedesche, dal
momento che necessità di altro genere non ne esistevano. Ora è chiaro, che
eventuali distruzioni di impianti e infrastrutture industriali i tedeschi
potevano effettuarle solo per rappresaglia contro attacchi partigiani, ed è
altrettanto chiaro che l'insurrezione, semmai, rischiava di provocare proprio la
temuta distruzione delle opere portuali da parte dei tedeschi.
Mentre il 23 aprile il CLN di Genova proclamava l'insurrezione per il
giorno dopo, quello stesso giorno le autorità fasciste e tedesche decidevano,
sulla base delle notizie che provenivano dal fronte e degli ordini ricevuti dal
segretario del PFR Pavolini, di iniziare il ripiegamento verso la
Lombardia. Ciò avveniva nella notte tra il 23 e il 24 aprile.
Senza alcun disturbo da parte partigiana, le colonne fasciste al comando
del Federale Falappa, precedute da mezzi corazzati, si attestavano
all'imbocco dell'autostrada per Milano che immediatamente iniziavano a
percorrere.
Le colonne germaniche preferirono invece dirigersi verso la Val
Polcevera, anch'esse senza incontrare alcun ostacolo.
A Genova
erano rimaste, agli ordini del generale Meinhold, truppe di guarnigione,
comandi, uffici e reparti di retrovia. Militarmente efficienti erano soltanto i
presidi dei forti e del porto, alle dirette dipendenze del Comandante di
Marina Max Berningaus.
I punti strategici
del porto erano altresì presidiati da potenti reparti della Xa MAS al comando
della Medaglia d'Oro Arillo.
Italiani e tedeschi
intendevano attendere in armi l'arrivo degli americani.
Ciò si annunciava
più celere del previsto dato che lo stesso 24 aprile si era arreso il 46° corpo
di armata corazzato tedesco incaricato di proteggere la linea di copertura del
fronte Liguria.
E' a questo punto
che scatta l'insurrezione di Genova.
Ma è la stessa storiografia partigiana che ammette testualmente: “Il
24 Genova insorgeva, prima tra le città italiane e il 25 aprile l'insurrezione
si estese ovunque, ma non fu un evento trionfale; i partigiani erano pochi e le
superstiti forze del nemico rappresentavano ancora un'incognita.”
La prima e unica azione partigiana di un certo rilievo fu l'attacco in
piazza De Ferraris ad una colonna di camions in buona parte occupati da
funzionari civili e paramilitari tedeschi.
La colonna tedesca fu distrutta, onde la reazione delle unità germaniche.
Tedeschi e fascisti dai punti presidiati incominciarono a rispondere
all'attacco partigiano. E' in questa fase dell'insurrezione a qualsiasi costo
che si rileva il contrasto delle autorità antifascista e della Curia con il
partito comunista, al quale si era affiancato l'entusiastico “personale
appoggio del democristiano Taviani”,( ex littore fascista per chi non lo
sapesse). Curia e autorità antifascista volevano che altro sangue non si
spargesse a Genova, ma il PCI, naturalmente, era di contrario avviso.
Ciò nonostante a qualche accordo si era pervenuti, se è vero che il
centro della città il 25 aprile fu controllato dalla unità di Pubblica
Sicurezza del tenente Pisano, col consenso tacito dei membri non comunisti del
Comitato di Liberazione Nazionale, della Curia e dello stesso Comando tedesco e
fascista. Ed è perciò contro il tenente Pisano e i suoi uomini, contro la
loro azione pacificatrice, che si scagliano i partigiani.
Certamente la
funzione di questo corpo “franco”, diciamo così, di PS, era quella di
impedire che le bande comuniste assumessero il controllo della città,
ma era anche vero che esso avrebbe potuto benissimo garantire l'ordine pubblico
sino all'arrivo delle forze alleate. Frattanto le formazioni garibaldine
dall'entroterra nella tarda serata del 25 aprile cominciano ad entrare in città.
Il loro primo obiettivo è naturalmente la Pubblica Sicurezza del
tenente Pisano. Questa unità, in breve, è costretta ad asserragliarsi nel
grattacielo, a intavolare trattative con il comando partigiano per essere infine
proditoriamente aggredita e sterminata insieme col suo comandante fatto
precipitare dalla finestra del 12° piano.
Così si esprime, Meinhold nelle sue memorie: “Nel corso del 24
aprile io avevo preso la decisione di mettermi a pied'arm. Mi avevano
determinato a ciò i rapporti recapitatimi sull'avanzata degli americani:
costoro, a sud, avevano già superato La Spezia, a nord i loro mezzi corazzati
erano a Stradella” quindi quasi alle nostre spalle. Un esame preciso della
situazione rilevò che se anche fossimo riusciti ad aprirci un varco e
raggiungere la Pianura Padana, qui lo scontro con i carri armati nemici avrebbe
decimato le nostre truppe. Quanto poco in tutto ciò considerassimo i partigiani,
risulta da quanto detto in precedenza”.
E il 25 aprile alle
ore 9 il Gen. Meinhold si arrende al CLN. A determinare la resa, dunque, non fu
l'insurrezione partigiana, ristretta in una modesta area, ma la valutazione
della situazione militare del fronte anti alleato, insostenibile per i tedeschi.
Per altro, l'accordo stipulato da Meinhold con il CLN non veniva
riconosciuto dalle truppe comandate da Berningaus e nemmeno dai combattenti
della X' MAS.
Ciò detto, non va nemmeno taciuto il fatto che tanto poco aveva inciso
l'insurrezione partigiana sulla reale situazione militare, che, nonostante
l'annuncio via radio alle ore 9 del giorno 26, della conquista partigiana di
Genova alle ore 14 dello stesso giorno, unità navali inglesi dovettero
cannoneggiare le postazioni tedesche e fasciste.
L'unico risultato concreto dell’intervento “garibaldino” fu
l'entrata in funzione dei tribunali del popolo fin dal giorno 25. Ne furono
insediati all'albergo dei Poveri, al Bristol, all'albergo Crespi, a Sestri
Ponente e a Pegli. Quanto auspicavano i comunisti era stato raggiunto. A volere,
per la verità storica, questi democratici tribunali, non furono a Genova
soltanto i comunisti. Ascoltiamo, in proposito, Giancarlo Pajetta nella sua
intervista pubblicata da “Rinascita” il 28 maggio 1966: “Al Nord, nel
CLN, c'era gente che si dichiarava più estremista di noi. Taviani non andava
tanto per il sottile sulle misure da prendere contro i fascisti”.
E Taviani, poveretto, aveva grandissimo bisogno di dimostrare il suo
entusiasmo insurrezionale a fianco dei comunisti. Come avrebbe potuto altrimenti
farsi perdonare i suoi trascorsi littori? Ricrearsi quella verginità
antifascista di cui oggi va orgoglioso? Far dimenticare il suo estremismo in
camicia nera manifestato a Trieste e a Bologna nel 1938? E quanto aveva scritto
nel giugno '36 su “Vita e Pensiero”: “L'Italia oggi in Africa
Orientale ha il suo impero perché attua i principi mussoliniani del vivere
pericolosamente, del credere, obbedire, combattere”? E' proprio Taviani
che annuncia alla Radio di Genova la mattina del 26 aprile la vittoria
partigiana. Ma quanto essa fosse superflua e poco meritata lo dimostrarono il 26
sera le avanguardie della divisione americana Bufalo occupando Nervi.
E' a questo punto che effettivamente ogni resistenza tedesca e fascista
cessò e che tutte le unità si arresero e si consegnarono agli alleati.
Questo accadeva agli uomini in divisa nelle stesse. ore in cui la caccia
al fascista inerme si fa spietata, più o meno come cinque giorni prima era
accaduto a Bologna.
I giustiziati di Genova in quelle giornate, per concorde valutazione
delle due parti, superarono i 2.000.
E fra essi molti furono gli episodi di inaudita ferocia, quali ad
esempio, le sevizie cui furono sottoposte, prima di essere trucidate, Ester
Oliviere e Alidina Parrini, il prof. Giuseppe Eboli, i
fascisti Brunetti e Tonganelli, e le vittime delle stragi di Torriglia e
Masone. Il podestà fascista di Genova, Silvio Parodi, esempio di
esemplare moderazione nei mesi della guerra civile, veniva gettato vivo in una
fornace; il fratello dell'ex segretario del Partito Nazionale Fascista
Vidussoni veniva assassinato solo perché tale.
Fra gli episodi più atroci di quelle ore sono le torture inflitte a
Mario Arzeno, il cui padre Tito è poi obbligato dai partigiani a
scaraventarlo, ancora vivo, dall'arcata del porto di Cornigliano.
E' il Partito Comunista che affida al CLN genovese il compito di
raccogliere i cadaveri, i quali sono tanti che è necessario impartire l'ordine
di adibire le vetture tramviarie alla loro traslazione.
Per rimuovere i cadaveri dei fascisti prelevati nelle carceri di Marassi
e poi fucilati, furono impiegati carri dell'assistenza vaticana, giunti al
seguito delle truppe alleate. Il resto della Liguria in quei giorni cercò di non
essere da meno dei capoluogo. Centinaia furono i fascisti soppressi, così che ai
primi giorni di maggio - è lo storico antifascista Simiani che lo dice -
si erano raggiunte le 3.000 esecuzioni. -
Perché non ricordare le infamie consumate contro le diciassettenni
Ramella e Bosia, soppresse a Imperia in quanto infermiere nei reparti
militari della RSI? Ad Alassio il cap.
Corticelli della Guardia Nazionale Repubblicana fu crocifisso su un
tavolo di osteria; ad Albenga, a Romeo Alamandola e a Cesare Lamposone, prima di
essere fucilati, furono tagliati naso e orecchie.
A quegli assassinii, a quelle stragi in quei giorni terribili seguiranno
poi gli assassinii legati dalle sentenze delle Corti d'Assise straordinarie.
A Genova sembrava ormai che il “vento del Nord” non dovesse
cessare mai.
Altrettanto era successo a Bologna, appena occupata dagli alleati, per
mano dei boia di Stalin, Longo, Togliatti, ecc.
A Milano,
che si volle capitale morale della insurrezione partigiana del Nord Italia, i
giorni 24 e 25 aprile scorrono senza che vi sia traccia di alcun fatto, di
alcuna azione insurrezionale. Il Governo della RSI e il suo Capo continuarono in
quei giorni ad esercitare la loro funzione in assoluta libertà d'azione, tant'è
che Mussolini mantenne il proprio Quartier Generale nella Prefettura in corso
Monforte, sino al momento in cui decise di lasciare la città per Corno. Ciò
avvenne alle ore 20 del 25 aprile 1945. E' indubitato che sino a quell'ora i
fascisti erano liberi nei loro movimenti sia a Milano che nella provincia. Qua e
là si registra, il giorno 25 aprile, qualche scaramuccia con i posti di blocco
fascisti della periferia, e un appena accennato tentativo di occupazione della
Pirelli e di qualche industria nella zona di Sesto San Giovanni vede un ritorno
offensivo dei reparti della RSI che riprendono l'immediato controllo della
situazione.
La storiografia della resistenza fissa nel pomeriggio del 25 aprile, con
l'esplosione “dirompente” nella notte tra il 25 e il 26 aprile l'inizio
del moto insurrezionale in Milano. Questo contraddice con la realtà storica, se
si considera che, in esecuzione degli ordini impartiti da Pavolini, oltre
5.000 fascisti, con centinaia di automezzi, decine di mezzi corazzati e blindati
poterono schierarsi, nelle prime ore del mattino del 26 aprile sul centralissimo
itinerario che va da piazza Dante al Castello Sforzesco.
La lunga colonna, ordinata e inquadrata, raggiunse Corno senza alcun
intralcio, a meno che non si voglia considerare tale qualche sporadica
sparatoria, a distanza, all'altezza delle ultime case della periferia.
A Milano a volere
l'insurrezione furono solo i comunisti, il resto del CLN era disposto ad
accettare un pacifico trapasso dei poteri.
Il CLN di Milano
sapeva bene che non c'era alcuna intenzione insurrezionale nelle masse popolari,
se si esclude l'apparato comunista di guerriglia e se vogliamo credere, come noi
crediamo, nelle parole del card. Schuster pubblicate nel libro Gli
ultimi giorni del regime: “contrari, minacciando una frattura nella
compagine del CLN, i comunisti”.
Ed i comunisti, a
Milano, non erano in grado di promuovere alcunché di insurrezionale né contro i
fascisti né contro i tedeschi.
L'unico atto
rilevante, che si può tutt'al più definire una pura e semplice assunzione di
poteri, fu l'occupazione fra il 25 e il 26 aprile della Prefettura in corso
Monforte, dopo che se ne era andato l'ultimo fascista.
A compierla non
furono né i comunisti né altri, ma i
500 uomini della Guardia di Finanza comandati e inquadrati dal
Colonnello Malgeri, in esecuzione di un ordine del Gen. Cadorna, rappresentante
del Governo legalitario del sud presso il Comitato di Liberazione Nazionale Alta
Italia. E del Gen. Cadorna i comunisti non erano per nulla soddisfatti, per
la ragione che lo stesso, anche in ossequio a precise disposizioni comunicategli
dal Comando militare alleato, non assecondava i propositi insurrezionali dei
comunisti.
Sui rapporti tra Cadorna e i comunisti, ad esempio, riferisce lo storico
inglese Collier: “A Milano anche il giorno 26 scorre in sporadici e
limitatissimi scontri tra i partigiani, che si moltiplicano e spuntano anche tra
persone che sino allora mai si erano interessate di resistenza, e piccoli gruppi
di fascisti rimasti in città ad attendere l'arrivo degli anglo-americani.”
Ma abbiamo già
chiarito che il partito comunista per insurrezione intendeva ben altra cosa. Ad
eseguire la quale occorrevano comunisti di provata fede e di cieca obbedienza:
costoro, infatti, si presentarono con le brigate garibaldine di Moscatelli.
E' Pietro Secchia che ce ne informa nel suo libro Aldo dice 26 x
1: “Soltanto alle ore 17 del 27 aprile, la prima colonna di partigiani,
seguita poi da altre, faceva il suo ingresso a Milano”.
Mussolini e i fascisti l'avevano lasciata da più di 36 ore.
E più avanti:
Ma nemmeno le brigate rosse, cui la storiografia resistenziale assegna
tanti eroismi fecero molto, se è ancora Secchia a scrivere: “Comandi
tedeschi asserragliati in edifici trasformati in fortezze, difesi da
reticolati... non cessarono di sparare, dicendo che si sarebbero arresi agli
Alleati ... “.
E cosi fu.
Ma l'arrivo delle brigate comuniste a Milano significò ben altro; ce lo
riferisce lo storico antifascista Simiani: “Ogni paese, ogni più piccolo
borgo voleva la sua brigata. Il nemico era sbaragliato, ma i volontari
continuavano ad affluire a centinaia di migliaia e gli ultimi arrivati, gli eroi
della sesta giornata si dimostrarono i più accaniti, i più violenti, i più
presuntuosi. Si giustiziava dovunque, senza discriminazione; e intanto agli
occhi degli esperti non sfuggiva l'incetta di armi da parte di individui
misteriosi che poi scomparivano. Questa incetta, dal momento che le armi non
dovevano servire più e dopo il chiaro ordine di consegna delle medesime, a quale
scopo mirava? Non c'era paese o località dove non si desse la caccia più
spietata al "repubblichino”".
Anche se si trattava di un povero diavolo che, o per
timore o per bisogno, aveva semplicemente aderito al crollato regime senza aver
mai fatto nulla di male”.
E per esemplificare
il loro stile, non si può dimenticare l'uccisione a freddo del cieco di
guerra Medaglia d'Oro Carlo Borsani.
Questi doveva essere colpito dalla giustizia comunista, perché la sua
predicazione d'amore contro l'odio poteva rappresentare un punto di riferimento
per le future generazioni. Così, colpiti alle spalle, furono assassinati
valorosi combattenti, quale l'asso dell'Aviazione Repubblicana Maggiore
Adriano Visconti, conte di Modrone. Egli della guerra civile sapeva solo per
sentito dire, si era battuto fino all'ultimo nei cieli di Milano e delle città
del nord per difenderle dai bombardamenti terroristici alleati, ma anche lui
doveva essere eliminato secondo la logica comunista perché il suo esempio di
dedizione alla Patria poteva essere un punto di riferimento per i giovani.
A Milano la
giustizia comunista colpiva anche i partigiani che, avendo combattuto sul serio,
non credevano nella necessità dell'insurrezione; fra costoro ricordiamo
Federico Barbiano, giustiziato misteriosamente, insieme a cinque suoi
compagni, da un plotone di esecuzione delle brigate garibaldine nel carcere di
San Vittore il 28 aprile.
Vengono eliminati anche i non fascisti, quegli uomini che avrebbero
potuto in qualche modo contrastare il comunismo. E' così che viene assassinato a
Sesto San Giovanni Ugo Gobbato, dirigente dell'Alfa Romeo, uomo
venuto dalla “gavetta” e che per di più poteva ascrivere a suo merito di
aver salvato gli impianti dalla distruzione e centinaia di operai
dall'internamento in Germania. Sempre a Sesto San Giovanni cadevano i
dirigenti industriali Soliveri, Grazioli, Scotoli e Mazzoli della Breda,
tutti responsabili di anticomunismo. Se vogliamo definire insurrezionali questi
fatti, essi sicuramente lo furono conforme al credo comunista. Ed è ancora
Togliatti che lo precisa, come si legge nel libro di Marcella e Maurizio Ferrara
“Conversando con Togliatti”: “La direttiva della insurrezione
nazionale fu concretamente data e spiegata a tutto il popolo dai comunisti”.
Con la stessa logica
e nelle stesse forme si giustiziava a Como, a Legnano, a Brescia, a Pavia, a
Piacenza, a Sondrio, dove interi reparti della RSI,
regolarmente arresisi e perciò prigionieri di guerra, furono proditoriamente
massacrati dopo la consegna delle armi. Come i comunisti volevano, l'odio e la
vendetta si ispiravano ad un preordinato disegno, anche se ad esso si tentava di
applicare la maschera dello sdegno popolare.
Così si comprende lo scempio di piazzale Loreto che risultò lo
scenario meglio curato dalla regia comunista; infatti, doveva servire da monito
a tutti coloro che nutrissero idee e progetti antitetici, appunto, a quelli del
partito comunista. Ecco come ne riferisce ancora lo storico Kirkpatrik: “29
aprile. Un furgone portò i cadaveri dei giustiziati in piazzale Loreto... furono
appesi per i piedi alle traverse di una stazione di servizio ed esposti al
pubblico ludibrio... erano trascorsi appena quattro mesi da quando Mussolini era
stato acclamato nelle strade di Milano.”
Nei giorni che seguirono, gli Alleati finalmente assunsero il controllo
della città e di tutta la Lombardia, ma ciò nonostante la strage continuò.
Per alcuni mesi ancora la stampa del Nord quotidianamente registrerà il
ritrovamento di uno o più corpi di “giustiziati” nelle strade e nei
borghi. Fu adottata la dizione “cadavere di fascista o presunto tale”.
Dovranno passare parecchi anni prima che autorevoli rappresentati della
resistenza abbiano il coraggio di criticare quanto avvenne.
Torino e il Piemonte
furono il terzo degli epicentri del disegno insurrezionale del PCI.
Già tra il 18 e il 20 aprile Torino era stata teatro di un tentativo di
sciopero pre-insurrezionale, che, come è storicamente accertato, fallì e
registrò soltanto una parziale astensione dal lavoro, tant'è che il Comando
Fascista della Piazza e le Autorità provinciali della RSI mantennero facilmente
il controllo della città e i collegamenti con Milano e le altre province del
Nord, fino al 26 aprile.
La presenza di
consistenti forze tedesche a Torino e il dislocamento delle divisioni “Littorio”
e “Monterosa” e della Guardia Nazionale Repubblicana a protezione
della frontiera occidentale contro il pericolo della avanzata gollista verso il
Piemonte, aveva sconsigliato ogni velleità insurrezionale.
E di conseguenza
anche i comunisti nulla osarono in quella vigilia.
E' il 27 Aprile che
anche a Torino le autorità della RSI tentano una consegna pacifica dei poteri al
Comitato di Liberazione Nazionale.
Così riferisce Pietro Secchia: “Verso mezzogiorno, il Comitato
militare per la resistenza in Piemonte riceve una prima proposta dei fascisti
che intendevano trattare per il trapasso dei poteri. Le proposte sono respinte;
ai fascisti il CLN risponde che non intende concordare alcun passaggio di poteri”.
Dinanzi a questa presa di posizione che rivelava un proposito
insurrezionale ad ogni costo, le unità della RSI si riunirono la sera in
prefettura e il comandante della piazza colonnello della GNR Cabras
decise di ritirare dalla città tutte le unità militari efficienti, costituendo
nella notte tra il 27 e il 28 aprile una colonna autocarrata di oltre 20.000
uomini, protetta da reparti corazzati e blindati della “Leonessa” di cui
assunse personalmente il comando.
La colonna lasciò Torino, superò agevolmente ogni tentativo di blocco e
si diresse verso la Valtellina. Solo il 30 aprile, quando ormai gli eventi
bellici si erano risolti, Cabras si arrendeva alle avanguardie americane
incontrate lungo l'itinerario.
A Torino erano rimasti circa 2.000 volontari delle Brigate Nere, al
comando dell'ispettore federale Giuseppe Solaro, per svolgere una azione
di copertura alla partenza della colonna Cabras e il recupero di eventuali
sbandati in ripiegamento dalle valli viciniori.
E' su questi
volontari, sulle famiglie dei fascisti, sugli umili gregari, sugli
anticomunisti, che si scatenò la rabbia partigiana.
Ma anche a Torino
gli ultimi fascisti si comportarono molto diversamente da quello che il mito
resistenziale vuol far credere.
Racconta Del Boca nel libro Ricordi di un partigiano semplice: “I
fascisti aprirono il portone e vennero fuori con due carri armati, credendo di
farci paura. Ma i nostri addetti ai bazooka li lasciarono avvicinare, poi una
grande fiammata e tutto fu distrutto. Visto che eravamo ben armati, alcuni
fascisti cercarono scampo vestendosi in borghese, altri si arresero, i più
scalmanati resistettero gridando "Viva il Duce" e gridando
morirono”.
E ancora si legge: "Da per tutto si vedevano partigiani, i fascisti
sembravano morti. Nelle vie si incontravano spesso i loro corpi crivellati di
colpi". E poi: "La sparatoria continuò finché arrivarono dei
rinforzi che salirono nell'alloggio e riuscirono a farli prigionieri. Erano due
giovani delle Brigate Nere in divisa. Sul berretto avevano disegnato un teschio
e con aria spavalda gridavano 'Viva il Duce'. Li portammo al
comando e li fucilammo".
E così dell'ultimo episodio: “Il fascista alzò le mani gettando
l'arma. Tranquillamente ci seguì e senza una parola si diresse verso un
monumento. Si aggiustò la divisa e il berretto e aspettò la morte. Era da
ammirare. Moriva per il suo ideale”.
Le storie partigiane per oltre 40 anni hanno cercato di denigrare gli
uomini di Solaro, definendoli “franchi tiratori”. Strana
gente questa che, in divisa combatteva, e con la divisa moriva in postazione o
fucilata!
Ma era necessario
definirli “franchi tiratori” per giustificare la “giustizia partigiana”
immediatamente entrata in azione.
Giustizia
partigiana, che sterminò i prigionieri, ignorando ogni legge civile e militare.
E che fosse strana quella giustizia traspare dagli atti ufficiali della
resistenza piemontese, come si legge nella “Storia del CLN regionale”,
edito da Feltrinelli.
“La giustizia dei patrioti agiva rapidamente... anche se
l'inevitabile esplodere dei risentimenti e delle vendette colpiva talvolta con
fatale crudeltà qualche vittima, le cui colpe erano infime”.
In tal modo, fino al 5 maggio, quando finalmente intervennero, armi alla
mano, gli Alleati per porre termine a tanta infamia, nelle vie e nei sobborghi
di Torino caddero 4.000 fascisti o “presunti tali”.
Per la loro somiglianza al colonnello Cabras, tre innocenti furono
assassinati.
Morirono in quei giorni per vendette personali dirigenti e tecnici delle
fabbriche invisi ai comunisti, morirono tanti innocenti per le sentenze emesse
dai Tribunali del Popolo, dei quali il più attivo fu quello insediato nel
carcere giudiziario di Torino, donde, per festeggiare il I° maggio, vennero
prelevati e fucilati in Corso Vittorio Emanuele, angolo Corso Inghilterra, 17
fascisti. Le donne a Torino e in Piemonte pagarono un alto prezzo la “colpa”
di essere madri, sorelle, spose, fidanzate di fascisti.
A decine i corpi
delle Ausiliarie seviziate e massacrate, vennero raccolti sul greto dei Po, tra
il 1° e il 5 maggio.
Nel cuneense, nel
novarese, a Saluzzo, caddero a centinaia gli appartenenti ai reparti della RSI,
alpini, paracadutisti, camicie nere, che, credendo nella buona fede degli
avversari, avevano sottoscritto formale atto di resa e consegnato le armi.
Dinanzi a tanto
scempio, anche la coscienza di alcuni partigiani si ribella. E' il caso del
comandante della 105a brigata Alberto Polidori il quale, al Rondò della
Furca, tenta inutilmente, a rischio della propria vita, di salvare 5 giovani
Ausiliarie.
Il martirio di
Giuseppe Solaro trascinato appeso alla corda su un autocarro per le strade di
Torino, che guarda con volto sereno i carnefici, è un atto di fede e di amore
che onora in quella ora tristissima il Piemonte e l'Italia.
Ora, non sarebbe seria la ricerca storica, se non si ricordasse, a
parziale conforto di tante angosce, l'esempio di civiltà che diedero le genti
della Val d'Aosta. In Val d'Aosta non un solo fascista fu giustiziato;
anzi, i partigiani non comunisti ebbero cura di garantire salva la vita ai
soldati della RSI che a loro si erano arresi. In questo modo gli autentici
combattenti della libertà, interpretarono il sentimento popolare di gratitudine
verso quei soldati che sulle montagne, ai confini della Francia, avevano difeso
il Piemonte dall'occupazione dei gollisti francesi, preceduti dai marocchini.
Chi avrebbe altrimenti salvato quelle povere donne dalle turpi violenze
impartite alle ciociare un anno prima?
Quella primavera del '45 sembrava non dovesse finire mai. A mano a mano
che le città passavano sotto il controllo alleato e poi italiano, si tentava di
ricostituire una parvenza di autorità per cercare di contrastare il disegno,
ormai evidente, della epurazione fisica ad oltranza voluta dal PCI.
Se qualcosa si riusciva a fare nelle più importanti città, col disarmo
imposto dalle truppe anglo-americane, non altrettanto accadeva nelle province.
Ancora nella prima decade di giugno, la polizia partigiana, tutta inquadrata da
elementi di fiducia dei PCI, proseguì la sua azione insurrezionale. E' di quei
primi giorni la vicenda atroce delle corriere, dei mezzi di trasporto di
fortuna, che riportavano dalle province del Nord alle loro residenze quanti
erano stati sorpresi dagli eventi bellici.
Corriere e mezzi di fortuna, che venivano intercettati dalla polizia
partigiana al momento dell'attraversamento del Po o poco oltre.
Una volta fermati e perquisiti, i passeggeri, che credevano di essere
sulla via della salvezza, finivano nelle caserme partigiane, vere bolge
dantesche. Basterebbe ricordare quanto avvenne a Concordia, nel modenese, dove
nel '71, l'indagine giudiziaria, condotta dalla Procura della Repubblica di
Bologna, che prosciolse per amnistia i responsabili, accertò che il maggiore
problema che avevano dovuto risolvere gli “eroi della insurrezione partigiana”,
fu quello di coprire con gli altoparlanti ad altissimo volume le urla dei
prigionieri torturati prima di essere consegnati al plotone di esecuzione.
Lo scoprimento di fosse comuni con i resti di centinaia di persone prima
seviziate e poi soppresse continua tuttora nei cosiddetti “triangoli della
morte”. Dei quali, uno dei più tragici, è quello circostante il ponte della
Bastia, all'incrocio delle province di Ravenna, Bologna e Ferrara, dove per anni
i “compagni” hanno ucciso e nascosto le loro vittime.
Gli orrori delle “radiose
giornate” (tali furono definite dal “Migliore”) in un secondo tempo,
si cercò di legalizzare con le sentenze delle Corti di Assise straordinarie.
Poco o nulla
importava che le testimonianze fossero, o no, attendibili e le accuse più o meno
fondate; fatto sta che il risultato era invariabilmente la condanna a morte. Con
le eccezioni a conferma della regola.
A conclusione di
questa sintetica analisi è bene ricordare che dove non si era riusciti con
l'eliminazione fisica si è cercato di ottenere con la più spudorata e
asfissiante mistificazione storica del fascismo, presentato agli ignari come un
concentrato di idiozia e di violenza, quasi che i più illustri antifascisti, a
babbo morto, non siano stati, nei cosiddetti “anni del consenso” i più
fieri apostoli del fascismo.
Ma la storia, grazie
a Dio, è fatale giustiziera e la verità, quando che sia, verrà alla luce.
Fu quello delle “radiose giornate” un odio senza speranza, proprio
perché si esercitò sulla pelle dei vinti, padri, figli, spose, fratelli che
fossero.
La Spagna franchista, vent'anni dopo la fine della guerra civile eresse e
consacrò al culto degli spagnoli, il monumento della “Valle dei Caduti”,
dove fraternamente sono raccolti, dimenticati gli anni del furore, i caduti
dell'una e dell'altra parte.
L'Italia della storiografia resistenziale, ancora alla fine degli anni
'90 ha scoperto fosse comuni con i miseri resti dei vinti.
Questo disprezzo per i Morti, tanta empietà nei comportamenti,
emblematicamente consegna alla storia uomini e classi dirigenti che la storia
fatalmente condannerà, o nel più benevolo dei casi, ignorerà. Ricordate, al
riguardo, la lettera inviata 38 anni fa da Alberto Giovannini alla tredicenne
figlia Marzia?
Concludiamo con ciò che Cesare Pavese, pubblicò nel 1949:
"Ho visto i nostri morti, ma ho visto anche i
morti sconosciuti, quelli del nemico, quelli "repubblichini" sono questi che mi
hanno svegliato qualcosa... Il nemico, anche vinto, è qualcuno, e dopo averne
sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare
chi l'ha sparso. Ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione. Al
posto di un nemico nostro potremmo essere noi e non ci sarebbe differenza. Per
questo ogni guerra è una guerra civile. E dico, se vogliamo ritornare a sperare
e vivere, pietà, pietà anche per il nemico ucciso".