domenica 11 gennaio 2015

LA CULTURA FASCISTA -- (IMPORTANTE

      
                                   
  PARTITO NAZIONALE FASCISTA
                                                     TESTI PER I CORSI
                                           DI PREPARAZIONE POLITICA

LA CULTURA
FASCISTA
LA LIBRERIA DELLO STATO          

ANNO XIV E. F.
CONTENUTO
I. Idee generali sulla cultura fascista . Pag. 3
II. La letteratura…….….….….………….» 8
III. Le arti figurative….……………..….…» 15
IV. La stampa………….……..…..….….…» 22
V. Teatro, cinema e radio……….….….….» 29
VI. Gli istituti culturali………………….…» 37
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I.
IDEE GENERALI SULLA CULTURA FASCISTA
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LA NOZIONE espressa dalla parola «cultura» non è in generale ben definita. A parte il
significato che la stessa parola ha nell'uso tedesco — in cui ha la completa estensione che ha la
parola «civiltà» e comprende quindi tutte le manifestazioni della vita di un popolo, comprese quelle
della vita materiale — nell'uso nostro «cultura» ora significa quel complesso di conoscenze che
sono patrimonio di un uomo «colto», ora il complesso delle forme di attività spirituale della
Nazione, in contrapposizione a quelle della vita pratica. Il primo significato è in sostanza quello
della parola «istruzione» e si suole applicare agli individui, la «cultura animi» di Cicerone e di
Orazio. Ma è solo nel secondo significato che la parola «cultura» può essere intesa, quando sia
applicata ad un popolo o a un'epoca.
«Cultura», in questo senso è l'attività propriamente creatrice di un popolo nel dominio dello
spirito; attività che si estrinseca propriamente nei domini del conoscere scientifico e della creazione
artistica.
Questo è il significato che il Fascismo fa proprio in conformità alla sua concezione che il
conoscere non rappresenta un modo di essere nell'individuo, ma un «modo di agire». Secondo la
dottrina fascista difatti, l'elevamento dello spirito, che deriva certo dall'ampiezza delle conoscenze e
dall'autoeducazione, non è raggiunto sino a quando esso non si traduca in potenza di azione, in
costruzione. Mentre, nel senso liberale, la cultura è ornamento dell'intelletto, che l'individuo ricerca
per suo intimo ed egoistico godimento, e quanto più è intellettuale tanto più è apatico e assente dalla
vita, per il Fascismo la «cultura» è la forma più informata e più piena con cui l'uomo manifesta la
sua azione sociale, spirituale, storica. Analogamente, quando si parla di «cultura» di un'epoca, il
Fascismo vuole che si consideri il complesso delle sue creazioni, l'apporto che tale epoca ha dato al
lento e faticoso procedere degli uomini verso la conquista della spiritualità. Non è più una
concezione edonistica, individualista come si ha nel liberalismo, ma è invece concezione etica ed
universale, che riflette l'anelito del Fascismo verso la potenza, come liberazione delle forze morali
dell'uomo. Il DUCE ha detto: «Intendo l'onore delle Nazioni nel contributo che hanno dato alla
cultura dell'umanità».(1) Questo contributo che una Nazione o un'epoca dà all'umanità è la sua
cultura.
Il complesso della civiltà di un'epoca è certamente condizionato dalle condizioni fisiche in cui
essa si svolge. Ma quello che le da il carattere propriamente differenziale è il motivo spirituale che
la domina; un motivo umano che informa di sé tutte quante le manifestazioni della vita e si rivela
con maggiore vigore nel dominio delle creazioni dello spirito.
La potenza del motivo predominante crea anzitutto una concezione della vita. Ed è questa
concezione della vita che si riflette in tutte le creazioni e determina il carattere unitario di un'epoca e
di una civiltà. Non c'è dubbio che la vita spirituale del popolo italiano ha una fisionomia
assolutamente non confondibile con quella di altri popoli. Non c'è dubbio che anche nello sviluppo
storico del popolo italiano ci sono diverse fasi improntate a una diversa maniera di concepire le
cose. Per questo motivo il Rinascimento italiano si distingue come complesso spirituale dell'epoca
dei Comuni. Per lo stesso motivo il romanticismo italiano è una cosa intimamente e profondamente
diversa dal romanticismo tedesco.
Il Fascismo ha una sua concezione della vita ed è ineluttabile che questa concezione si debba
tradurre anche in attività, in creazioni dello spirito. Se la dottrina fascista è una concezione della
vita nuova e originale che si contrappone nettamente a tutto il mondo animato dalla concezione
liberale, se i motivi umani che il Fascismo riconosce e pone in valore sono profondamente diversi
da quelli su cui si fonda l'interpretazione positivista e materialista della realtà, è ineluttabile che esso
debba prendere forme concrete non soltanto nelle esigenze della vita pratica, ma anche in quelle
delle attività superiori dello spirito.
La cultura di un'epoca è costituita dalle sue creazioni sia nel dominio del conoscere scientifico,
sia in quello della creazione artistica. Di fronte a queste due forme di attività spirituale il Fascismo
ha già netta e precisa la sua posizione. Sin da oggi possono definirsi quali sono, e più saranno
nell'avvenire, i caratteri tipici della cultura fascista.
Di fronte alle scienze cosiddette morali la posizione del Fascismo deriva nettamente dai
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postulati etici della sua dottrina. Poiché per il Fascismo il bene è tutto ciò che guida l'uomo alla
conquista della continuità storica che si traduce in conquista spirituale — e difatti tutto ciò che
dell'uomo veramente sopravvive come opera e come pensiero è bene, mentre è male ciò che induce
l'uomo ad esaurirsi nella morta gora dell'egoismo — nel giudizio dell'attività umana in tutte le sue
forme esso ha un sicuro punto di riferimento.
La valutazione, quindi, dell'attività molteplice degli uomini, nel passato come nel presente, non
può essere che valutazione etica. Storia in senso fascista è dunque valutazione etica dei fattori
dell'azione; e questa concezione si applica non soltanto nella valutazione dell'azione individuale che
è propriamente quella creatrice di storia, ma anche al complesso di tutte le attività che costituiscono
la vita degli uomini. C'è dunque per la dottrina fascista la possibilità di stabilire una gerarchia di
valori rispetto ai quali si debbono giudicare tutti i fattori della storia.
Nell'azione storica individuale, il nostro conoscere deve particolarmente cercare ciò che è
veramente costruttivo, ciò che porta l'umanità ad un progresso. Con ciò non s'intende che la storia
degli uomini debba essere considerata come una storia di successi. Ci sono delle disfatte che
rappresentano già una conquista, perché in esse gli uomini hanno mostrato un vigore spirituale, e
una dedizione di sé che nobilita la stessa sconfitta. Errore, elemento negativo nella storia è soltanto
ciò che è puramente arbitrio del singolo, cioè volontà di un'affermazione egoistica, non
interpretazione per dir così sinergetica di tutte le forze palesi e occulte che muovono la vita delle
nazioni e dei popoli nelle loro varie fasi.
Per quanto concerne dunque la storiografia, il Fascismo esige che essa si ispiri al mondo morale
che è suo contenuto. Non c'è dubbio che la storia del passato in tutte le sue molteplici forme sarà
riveduta dalla storiografia fascista.
Mentre è ovvio che un criterio morale e politico debba guidare nella valutazione e nella
interpretazione dell'azione politica di individui e di nazioni, sembra assai più difficile informare la
ricerca scientifica nel campo della natura ad un criterio analogo. Nel passato il ricercatore, lo
scienziato è stato considerato come l'apostolo, il sacerdote di una religione, quella della scienza: una
religione che non conosce limiti di nazionalità ed è dominata dal desiderio incontaminato di
affermare la potenza della ragione umana nello scoprire i meccanismi che regolano i processi
naturali. La religione della scienza fu caratteristica del periodo positivista e materialista ed anche
oggi quei popoli e quei regimi che improntano la loro vita e il loro mondo spirituale a criteri
positivisti, danno alla religione della scienza un posto in quei loro templi dai quali hanno bandito il
Dio del popolo. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che, riducendosi la vita dell'uomo ad un puro
fatto economico, la conoscenza dei misteri della natura può giovare al miglioramento dei fattori
materiali della vita. Esasperata, questa concezione ha dato origine alla cosiddetta religione della
scienza. Il Fascismo considera la ricerca scientifica come una delle più nobili attività alle quali si
possa applicare lo spirito umano. Ritiene tuttavia che la ricerca scientifica ha la sua vera giustificazione
se viene considerata, non come una religione che ha i suoi misteri ed i suoi sacerdoti, ma
una delle attività preminenti che possono contribuire a liberare l'uomo dalle esigenze propriamente
materiali per affermarne la natura spirituale; e che come tale la scienza deve essere subordinata alle
stesse necessità che regolano le altre attività dell'uomo sociale. In altre parole la scienza che viene
professata da uomini i quali vivono in comunità storielle dominate da bisogni particolari e aventi
fini determinati, deve rispondere in maniera concreta a tali bisogni e a tali scopi, non deve in altri
termini essere un'esercitazione, per quanto nobilissima delle facoltà indagatrici ed inventive
dell'uomo, ma deve mirare a realizzazioni concrete e a conquiste utili per la propria nazione e per
l'umanità. Ha detto il DUCE: «Le applicazioni pratiche della scienza, — diventate ormai
innumerevoli in ogni campo — accompagnano l'uomo moderno in ogni istante della sua attività e
ne moltiplicano le energie. Niente di più razionale e di più necessario dell'applicazione sistematica
al lavoro umano dei ritrovati della scienza».
Il DUCE il 15 febbraio 1926, inaugurandosi la Prima Mostra del Novecento italiano, poneva a sé
stesso, in un lampo di improvvisa e veggente rivelazione, le basi di partenza di tutta la politica
artistica e culturale del Fascismo. Nessuno, crediamo, sino allora aveva formulato, nemmeno
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grossolanamente, la possibilità di una gerarchia tra la politica e l'arte. Anzi, sulla corrente
dell'estetica moderna — e ne vedremo più innanzi le principali programmazioni teoretiche — i più
opponevano le varie e spesso nebulose definizioni dell'«arte pura», onde proclamare l'assoluta
libertà e individualità dell'artista, qualsivoglia esso sia — poeta, narratore, pittore, scultore, cineasta,
ecc. — e quindi implicitamente negare una possibile funzione politica dell'arte.
Anzitutto, sopra questo argomento, fecondissimo di facili confusioni, è giusto premettere che il
parlare di gerarchia tra la politica e l'arte, non significa affatto confondere i concetti classici che si
hanno sia dell'una e sia dell'altra, e nemmeno intravedere immediate funzioni pratiche in quelle
attività spirituali, le quali hanno per fine supremo la bellezza. L'arte, in funzione diretta della
politica, è certamente la negazione di sé stessa; ma, se l'arte può avere, come effettivamente ha ed
ha avuto attraverso i secoli, una funzione civile, questa civiltà non può trovare corrispondenza che
nelle caratteristiche politiche del tempo in cui essa è fiorita. Per ciò, è assurdo pretendere che l'arte
si manifesti completamente estranea ai tempi e ai climi morali in cui essa vive, e da cui essa trae
alimento, senza subire di questi tempi e di questi climi influenze ambientali e soprattutto spirituali.
Se, come afferma il DUCE, «la politica lavora sullo spirito degli uomini», l'influenza che un dato
regime politico può avere sugli artisti e sull'arte non può essere discussa. La politica non agisce, né
lo potrebbe, programmaticamente sull'arte; non impone che l'arte assuma forme pedagogiche e
pratiche; non insinua elementi estranei e contingenti; ma agisce sulla generalità e sulla totalità dello
spirito, forgiandone le caratteristiche fondamentali: quelle caratteristiche che danno i diversi rilievi
e i diversi significati dei secoli letterari. L'arte, così, anche nelle sue più pure e più alte espressioni,
rappresenta molte volte il documento più completo e più persuasivo del tempo in cui essa,
maturandosi, s'è fissata in forme estetiche. Vive di sé, ma nello stesso tempo riflette la spiritualità di
quel mondo esterno, donde essa quasi inconsciamente sorse.
Infatti, di codesta influenza di tempo e di clima politico, il DUCE, sempre nel discorso
pronunciato alla Prima Mostra del Novecento, fissò alcune verità, che è bene ricordare.
«Mi sono domandato se gli avvenimenti che ognuno di noi ha vissuto — guerra e Fascismo —
hanno lasciato tracce nelle opere qui esposte. Il volgare direbbe no, perché salvo il quadro «A noi»,
futurista, non c'è nulla che ricordi o — ohimè — fotografi gli avvenimenti trascorsi o riproduca le
scene delle quali fummo in varia misura spettatori o protagonisti. Eppure il segno degli eventi c'è.
Basta saperlo trovare. Questa pittura, questa scultura, diversifica da quella immediatamente
antecedente in Italia. Ha un suo inconfondibile sigillo. Si vede che non è il prodotto di un mestiere
facile e meccanico, ma di uno sforzo assiduo, talora angoscioso. Ci sono i riverberi di questa Italia
che ha fatto due guerre, che è diventata sdegnosa dei lunghi discorsi e di tutto ciò che rappresenta lo
sciattume democratico, che ha in un venticinquennio camminato e quasi raggiunto e talora
sorpassato gli altri popoli: la pittura e la scultura qui rappresentate sono forti, come l'Italia d'oggi è
forte nello spirito e nella sua volontà. Difatti nelle opere qui esposte vi colpiscono questi elementi
caratteristici e comuni: la decisione e la precisione del segno, la nitidezza e la ricchezza del colore,
la solida plasticità delle cose e delle figure».
Così, portando questa illuminante e particolare constatazione del DUCE sopra un piano generale,
si può affermare che la politica, qualsivoglia politica, ma in special modo quella fascista,
suscitatrice e animatrice di tutte le attività spirituali, può e deve informare di sé la cultura, sia essa
poesia, scienza e filosofia. Ma ciò — e il Fascismo lo dimostra ogni qualvolta agisce a favore del
rinnovamento spirituale dell'arte italiana — non potrà mai avvenire meccanicamente, cioè agendo
dal di fuori, sulle mere forme e sugli atteggiamenti esteriori; ma invece incidendo profondamente e
spontaneamente l'intimità e lo spirito degli artisti e d'ogni altro uomo che viva in piena sincerità e
dedizione di sé l'alta e pura vita della cultura.
Prima del Fascismo l'intellettuale, forse troppo orgoglioso di sé, o mentalmente portato a
rinserrarsi entro le ragnatele di una frigida teorica, ostentava il proprio isolamento in un mondo di
carta. Il suo agnosticismo politico, come la sua indifferenza davanti a qualsivoglia problema di vita
e di pratica politica, dimostravano l'errato concetto che la massima parte degli intellettuali d'allora
avevano sia dell'arte sia della cultura. Pareva quasi che ogni artista, ogni uomo colto, in nome di
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quest'arte e di questa cultura, avesse il diritto di vivere al di fuori, o addirittura al di sopra, della
società, dello Stato, della Nazione. Ciò trascinava l'artista a vivere appunto nella turris eburnea
della propria spiritualità astratta: turris eburnea che finiva per essere l'osservatorio di un mondo e di
una società irreali o falsi. Eppure ogni artista, prima d'essere tale, è uomo e cittadino. Ed ogni uomo,
ogni cittadino ha, secondo il DUCE, il dovere imprescindibile e assoluto di «impegnarsi politicamente
», operando nella realtà, e assumendo quella responsabilità delle proprie azioni che ogni
uomo, ogni cittadino deve assumersi dinnanzi allo Stato. È naturale quindi che il trionfo dell'io,
base alla concezione individualistica ed egocentrica della cultura, e che portava a un'arte apolitica e
neutra, debba scomparire dinanzi alla concezione totalitaria che il Fascismo ha della vita nazionale.
Arte e politica quindi non possono esistere in sudditanza diretta l'una dell'altra, bensì in quella
naturale gerarchia che lo spirito dell'homo sapiens crea allorché vive nello spirito della razza, della
patria, dello Stato, della Nazione. E quando la patria, lo Stato, la Nazione s'identificano con la
politica, come oggi appunto s'identificano con il Fascismo, la zona ideale, in cui l'artista lavora e
crea, non può specchiarsi che nelle attività spirituali promosse dal regime politico. L'intellettuale
quindi deve sentirsi parte dello Stato, cittadino, né esistere ai margini di quei multipli problemi della
vita umana, i quali formano l'attività politica.
Che il Fascismo, nella sua essenza spirituale, abbia agito sull'arte e sulla cultura italiana, è
verità già provata. Oggi, gli intellettuali, i creatori, hanno ripreso contatto col tempo, adeguandosi a
quella «maniera di vita», vita esemplarmente spirituale, che le parole mussoliniane hanno
risvegliato in ogni coscienza italiana, dall'uomo colto al contadino. Il Fascismo non è soltanto una
dottrina politica, ma è soprattutto, un tipo di civiltà, e come tale sa suscitare correnti d'idee, lampi di
fede, balenamenti di passione, e, ricordiamolo, lieviti di umanità. È, come disse MUSSOLINI, «una
parola di vita», «un modo di concepire e di vivere la vita»; è «giovinezza, quindi bellezza e ardore e
armonia».
1) E. LUDWIG, Colloqui con Mussolini, Milano 1932, p. 199.
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II.
LA LETTERATURA
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ALL'AFFERMARSI e potenziarsi del Fascismo come regime, come Stato, corrisponde nella
nostra letteratura un periodo singolarmente laborioso e importante, nel quale comincia a delinearsi
la fisionomia di una nuova arte.
Naturalmente questo rapporto tra Fascismo e letteratura non va inteso in maniera semplicistica,
come influsso strettamente «politico» dell'uno sull'altra; ma va colto e inteso in maniera affatto
intima, come problema di nessi spirituali, come concordanza tra quella che è l'essenza del Fascismo,
la sua dottrina, la sua concezione della vita, politica nel senso più ampio della parola, e quella che è
l'essenza della nuova letteratura.
Al quale fine giova anzitutto rimeditare le parole, come sempre chiarissime e chiarificatrici,
dette dal DUCE inaugurando nel febbraio 1926, a Milano, la Prima Mostra d'arte del Novecento: «Mi
sono domandato se gli avvenimenti che ognuno di noi ha vissuto — Guerra e Fascismo — hanno
lasciato tracce nelle opere qui esposte. Il volgare direbbe di no, perché salvo il quadro «A noi!»,
futurista, non c'è nulla che ricordi o —ohimè — fotografi gli avvenimenti trascorsi o riproduca le
scene delle quali fummo in varia misura spettatori o protagonisti. Eppure il segno degli eventi c'è.
Basta saperlo trovare. Questa pittura, questa scultura, diversifica da quella immediatamente
antecedente in Italia. Ha un suo inconfondibile sigillo. Si vede che è il risultato di una severa
disciplina interiore. Si vede che non è il prodotto di un mestiere facile e mercenario, ma di uno
sforzo assiduo, talora angoscioso. Ci sono i riverberi di questa Italia che ha fatto due guerre, che è
diventata sdegnosa dei lunghi discorsi e di tutto ciò che rappresenta lo sciattume democratico, che
ha in un venticinquennio camminato e quasi raggiunto e talora sorpassato gli altri popoli: la pittura e
la scultura qui rappresentate sono forti come l'Italia d'oggi è forte nello spirito e nella sua volontà.
Difatti nelle opere qui esposte ci colpiscono questi elementi caratteristici e comuni: la decisione e la
precisione del segno, la nitidezza e la ricchezza del colore, la solida plasticità delle cose e delle
figure... Osservate talune « nature morte», taluni paesaggi, talune figure di uomini e di donne. Io
guardo e dico: questo marmo, questo quadro mi piace. Perché mi allieta gli occhi, perché mi da il
senso dell'armonia, perché quella creazione vive in me ed io mi sento vivo in lei, attraverso il
brivido che dà la comunione e la conquista della bellezza».(1)
Severa disciplina interiore, dunque; decisione e precisione di segno, cioè di visione spirituale:
non puntuale o, peggio, fotografica rispondenza di immagini a fatti, di figure a documenti,
dell'invenzione alla cronaca o alla storia. Distinzione di grande verità e importanza: che, per es., il
ritratto di un Balilla, o un quadro che raffiguri un episodio della Rivoluzione, possono anche non
recare il segno del nuovo clima affermatosi con il Fascismo, se improntati da uno spirito, da un
gusto, cioè da una cultura e da una forma mentis che appartengono al passato; mentre possono
recarlo, quel segno, opere in apparenza lontane dai «fatti», dalle vicende del Fascismo, da
argomenti in stretto senso fascisti, come appunto una «natura morta», o un paesaggio, ma che da
quel passato siano ormai fuori. Donde consegue che un'opera d'arte tanto più assolverà un suo
nobile compito di propaganda, quanto più sarà arte, cioè quanto più intrinsecamente risentirà del
nuovo spirito. E s'intende che ciò che vale per le arti figurative vale anche per le altre arti, e quindi
per l'arte della parola: nella quale è da badare a quell'atteggiamento spirituale, a quella tendenza che
è al centro di tutte le esperienze, i tentativi, i «movimenti» letterari d'oggi, quali che siano i loro
programmi ed etichette, e quali che siano i loro contrasti apparenti; unica, quanto quelli e questi
sono molteplici.
Ora la tendenza fondamentale della letteratura d'oggi, la sua aspirazione intima, anche se non
sempre ben consapevole di sé, dei suoi modi e dei suoi fini, è il realismo: un particolare realismo.
Un realismo che vuoi essere negazione d'ogni forma di simbolismo e d'ogni deformazione o
coercizione intellettualistica del sentimento; che vuol essere coscienza unitaria di vita di fronte al
frantumio delle sensazioni e alla ridda delle immagini vagabonde; che vuoi essere restaurazione, di
contro all'esasperato soggettivismo o egocentrismo, d'un senso concreto della collettività, della
società, per cui l'artista riconosce e celebra nella propria umanità l'umanità di tutti; che vuol essere
sintesi di romanticismo e di classicismo. Realismo, pertanto, che non contrasta con i principi di
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quello spiritualismo che è la conquista del pensiero contemporaneo; ma anzi di esso costituisce
l'attuazione più vera, in quanto considera l'uomo, e l'umana esperienza, come fondamento di tutte le
cose e quindi come incremento incessante di se medesimo. Realismo, perciò, che è l'opposto del
positivismo e determinismo scientifico della fine dell'Ottocento, dacché non presuppone allo spirito
una realtà bell'e fatta, contro cui questo non può, dopo titaniche quanto vane ribellioni, che
soccombere; né presuppone un «vero», da documentare o imitare passivamente: ma la realtà
concepisce come l'opera stessa dell'attività spirituale. Donde un senso profondamente religioso della
vita — anche là dove sembrerebbe a tutta prima allignare una tal quale stanchezza o indifferenza —
e la fede nelle proprie forze, si contrappongono al fatalismo e alla cupa tristezza propri del
naturalismo. Realismo — a volerlo definire con una sola parola — «spiritualista».
Ma un realismo siffatto — ed ecco quel nesso profondo tra letteratura e politica, che dicevamo
— è strettamente affine, anzi è tutt'una cosa con il realismo onde è animata la concezione fascista
della vita e dello Stato: anche se nella letteratura propriamente detta esso, per mancanza di
personalità altissime di artisti, non abbia sinora avuto quella integrale e armonica espressione, che
ha invece trovata in politica grazie al genio di MUSSOLINI.
E come tutte le esperienze e le esigenze vitali della storia dell'Italia moderna (e, attraverso
queste, di tutta la storia d'Italia) confluiscono nel Fascismo, che di esse è insieme l'inveramento e il
superamento; così tutte le esperienze in qualche modo vive della letteratura del primo ventennio
circa del Novecento, preparano questo nuovo orientamento letterario, ne costituiscono la necessaria
propedeutica.
La letteratura del primo ventennio, infatti, in tutti i suoi vari aspetti e momenti:
crepuscolarismo, futurismo, impressionismo, frammentismo, fu reazione agli spiriti e alle forme
della letteratura dell'ultimo Ottocento, massime della verista e della dannunziana, considerata questa
non tanto in sé quanto nel complesso dei suoi riecheggiatori e imitatori a vuoto; e fu insieme
tentativo di instaurare, attraverso questa stessa reazione, una nuova sintesi della vita, un nuovo
gusto, una nuova civiltà artistica. Ma come era venuto ormai a mancare ogni profondo ideale, e
quella fede nel vero, quell'amore alla natura che avevano alimentato gli artisti dell'ultimo Ottocento
erano ormai scossi, e scossa nel dilagante scetticismo pur quella certezza di sé, quella volontà che
sorreggeva ancora il D'Annunzio; così quel tentativo rimase in gran parte tale, anche se il lato più
propriamente polemico e dialettico di esso, avvalorato da quel criticismo che ormai si diffondeva
sempre più col diffondersi della nuova estetica idealistica, cominciava a dare i suoi frutti: se non
altro facendo tabula rasa di certi vecchi schemi e vecchi pregiudizi. Un desiderio, un'ambizione era
al centro di questo movimento: l'ambizione di essenzialità lirica, di «liricità» come allora si diceva.
Ma poiché unica, vera realtà per questi scrittori che, non riuscendo a sentire la vita nella sua
pienezza, si sforzavano o s'illudevano di evadere da essa e dalla razionalità che la governa,
rimaneva la sensazione, l'impressione del momento; accadde che la liricità, l'essenzialità fu confusa
con questa sensazione e impressione, e anche l'arte in genere fu confusa con essa.
Nacque così una letteratura strettamente autobiografica, una letteratura di «confessioni liriche»,
cioè di sensazioni, di brevi e labili stati d'animo, di illuminazioni improvvise, che se era ormai
lontana dal verismo, non era però egualmente lontana dal dannunzianesimo; una letteratura in
sordina, ancorché spesso clamorosa e scintillante nei suoi aspetti esteriori; un'arte minore, anche se
qua e là sincera, perché anguste e unilaterali erano le visioni su cui sorgeva, e contaminata di
cerebralismo. Una letteratura, un'arte che, per la loro stessa modestia, per la pochezza delle cose da
dire, lasciarono il fare sostenuto, l'andamento legato della poesia «classica», e in parte della stessa
poesia dannunziana, per una poesia libera e anzi eslege; e lasciarono ogni forma costruita di prosa
per le notazioni staccate di diario o di taccuino, per la pagina in sé, per il frammento. Il quale andò
sempre più diventando il «genere» dominante di questa letteratura già intrinsecamente
frammentaria; anzi, tra l'avvicinarsi sempre più deciso della poesia alla prosa, e l'allontanarsi non
meno deciso del romanzo e della novella da ogni unità e intima continuità di racconto, finì col
diventare un che di mezzo tra prosa e poesia: una prosa poetica o poesia in prosa, mista di lirismo e
di riflessione critica. Che era, più che qualcosa di nuovo, indizio di un qualcosa che veniva
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maturando. Del resto, anche quegli scrittori che non erano più giovanissimi; che anzi, per
formazione e per cultura, appartenevano all'Ottocento, quali il Panzini, il Pirandello, la Deledda, e
che da forme ottocentesche avevano preso le mosse: anche essi, risentendo delle esperienze e del
travaglio critico-lirico dei giovani, se in apparenza si mantennero fedeli a tali forme, in realtà
finirono col frantumarle. Ma — e questo è un punto importante, che li riscatta in parte dalla
decadenza, e li fa in certo modo precursori — nei migliori tra i giovani, cioè in parecchi di quelli
che più o meno direttamente facevano capo alla rivista fiorentina La Voce (1908-1916), era pure,
sotto il predominante impressionismo sensuale, un problemismo di carattere morale e persin moralistico;
sotto l'intellettualismo, un'ansia di concretezza, di umanità; sotto quell'astrattismo una
pungente nostalgia di realismo, di costruzione: e si ricordino un Boine, uno Slataper e per qualche
lato anche un Serra (morti, questi ultimi due, combattendo), sofferenti, per quanto in diversa misura,
della loro perplessità; si pensi, per es. ad un Soffici, che sarà tra i primi a trovare, nell'esperienza
della guerra, una sua unità, e a bandire il «richiamo all'ordine»; si pensi, infine, per quanto in
apparenza isolato da ogni «movimento» o «scuola», a Federigo Tozzi, l'artista forse più dotato fra i
giovani di questo periodo: al Tozzi che è appunto tutto in codesto sforzo di uscire dal frammentismo
etico-estetico nel quale si sente tuttavia radicato.
Quella nostalgia di realismo, come superamento di ogni sperimentalismo, di ogni deformazione
intellettualistica o, come anche si diceva, «metafisica» della realtà, cioè di quella che è l'umana
visione che l'artista ha del mondo; quella nostalgia, dunque, ravvisabile già in alcuni degli scrittori
d'anteguerra, s'intensifica durante la guerra, quando da tanto spasimo mortale nasce l'amore, la fede
nella vita, condizione prima al rinnovarsi delle coscienze. La nostra letteratura di guerra ha infatti,
rispetto alle altre letterature, questo particolare carattere di meravigliato ritrovamento, da parte dello
scrittore, della comune umanità, della concretezza della vita e, attraverso esse, di un più vero se
stesso. Il Diario di guerra di MUSSOLINI, ancorché libro politico, ma d'un uomo che la politica
aveva vissuta in profondità, come somma di problemi non solo politici e sociali, ma morali nel
senso più alto della parola, e che quindi nel trattarne sapeva riuscire concretissimo scrittore; il diario
mussoliniano è appunto testimonianza preziosa di questa ritrovata umanità.
Ritrovamento, richiamo all'ordine che, dopo la guerra — sopitasi quella vampata di relativismo
che, in un momento di depressione degli spiriti seguita all'immane tensione, aveva minacciato di
travolgere ogni gerarchica valutazione delle cose —, sbocca in un moto di reazione, che si può dire
«classica», intendendo la «classicità» come disciplina spirituale, come misura interiore, equilibrio,
armonia; in una reazione a quel romantico soggiacere agl'influssi stranieri, a quel deteriore esotismo
— ravvisabile anche nella sciatteria della lingua, ibrida di barbarismi o addirittura di locuzioni
forestiere — caratteristico di parecchia letteratura d'anteguerra, I più degli scrittori d'allora si erano
rifatti ai decadenti francesi: ora il gran modello diventa Leopardi. La rivista La Ronda, uscita in
Roma nel 1919, esprime appunto, per quanto con maggiore o minore chiarezza, e con quelle
incongruenze e intemperanze che sono proprie d'ogni movimento letterario, queste nuove esigenze
spirituali. Il suo merito pratico di contrastare, con un esempio costante di probità letteraria, a quella
pseuodoletteratura tra oscena e comunistica che pullulò in Italia subito dopo l'armistizio, e che dal
suo centro editoriale fu detta «milanese»; il suo merito pratico diventa di secondaria importanza
rispetto al merito di avere raccolto e valorizzato il meglio dell'esperienza letteraria, del primo
quindicennio del secolo. La parola va finalmente riacquistando in questi scrittori, e in altri di tendenza
affine, dopo mantrugiamenti, scomposizioni, ricomposizioni e «chimismi» di ogni genere, un
suo suggello spirituale; e la prosa cerca di contemperare le esigenze del sentimento lirico con quelle
del pensiero logico, ampliandosi di «frammento» in «saggio», dove la notazione già si articola in
discorso, e l'autobiografia, il pronome «io» — che sono ancora in primo piano — tendono a
scomparire in una rappresentazione distaccata, obiettiva. Anzi, con il risorgere di questa umanità, di
questa humanitas, risorge il bisogno del canto: ed ecco la poesia tentare di distaccarsi nuovamente
dalla prosa e mirare ancor essa, sia pure con molte titubanze, a una sua intensità di respiro e di
ritmo.
Certo, in tutte queste prove e questi sforzi sono ancora tracce parecchie di romanticismo: e basti
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pensare al gusto della confessione personale, del particolare per il particolare, con i suoi
adescamenti e le sue insidie. Gli è che la coscienza, se ha ritrovato se stessa, non è però ancora
divenuta coscienza universa di vita.
Il travaglio di questa coscienza da una posizione, per così dire, individuale, verso una posizione
universale, è ciò che caratterizza appunto la letteratura più recente, quella che si viene affermando
nel clima spirituale del Fascismo. I nuovi scrittori, scaltriti dalle esperienze durate dai loro
predecessori nella lenta, faticosa e spesso contraddittoria conquista di un modo espressivo consono
al rinnovantesi mondo dello spirito, tentano, come abbiamo accennato, la sintesi tra romanticismo e
classicismo: tentano un'arte che pur mantenendosi, come ispirazione e come linguaggio, nel cerchio
dell'esperienza personale e della vita quotidiana, appaia con caratteri di impersonalità e obiettività; e
che, pur osservando gelosamente quelle esigenze circa l'autonomia dell'arte che la critica italiana è
appunto venuta chiarendo nella sua lunga elaborazione, esca dalle forme raffinate, dalle «scuole» e
dai «cenacoli» in che sinora si era costretta, e acceda a forme più ampie, più distese, più
profondamente umane: più popolari, insomma.
E con l'amore per una obiettività così intesa; con l'affermarsi di questo particolare realismo,
ecco risorgere dalla descrizione e dalla enumerazione care ai frammentisti, la narrazione: ma con
caratteri e accento affatto singolari, non confondibili — almeno per chi non s'arresti alla superficie
delle cose — con quelli della letteratura dell'Ottocento. Il personaggio, centro del romanzo e della
novella ottocenteschi, qui tende ad animarsi al contatto con le cose e gli elementi, che a loro volta si
animano a quel contatto; a fondersi, per essi e con essi, in «clima», in «atmosfera»: a divenire nota
d'un coro. Vero protagonista è dunque, in certo senso, questo coro, questa atmosfera, ch'è atmosfera
naturale e morale al tempo stesso. L'uomo si riconosce nel tutto, e in questo riconoscersi si rasserena
ogni interiore tumulto. Dallo scetticismo d'un tempo va pertanto sorgendo, attraverso
inevitabili dubbi e perplessità, una sana aspirazione all'ottimismo; dall'amor di vita, sensuale,
estetizzante e però parziale, un amore totale di vita. L'analisi ancora tiene il campo: ma è un'analisi
ormai sveltita e scaltrita, in funzione del tutto. La grande aspirazione dei primi anni del secolo è
dunque più che mai stretta da presso: siamo veramente alle soglie di una nuova sintesi artistica.
In questa tendenza narrativa, intrinsecamente costruttiva, rientrano pertanto tutti gli scrittori in
prosa, siano romanzieri e novellieri propriamente detti, siano scrittori — come essi stessi si
definiscono — «evocativi», «saggisti». Che il «saggio» è andato allontanandosi da quel tanto
di compassato o accademico, e soprattutto da quella descrittività che spesso riteneva presso gli
scrittori della Ronda, per accostarsi sempre più a una narrazione distesa, continua. Solo che presso i
saggisti predomina il paesaggio, l'atmosfera naturale, specchio, s'intende, di quella umana, morale;
mentre presso i romanzieri e novellieri accade il contrario: ma lo spirito che pervade queste forme è,
nel fondo, il medesimo. E se quelli sembrano più condensati e sintetici, e questi più analitici e
diffusi; quelli più lirici e questi più discorsivi; se gli uni si rifanno specialmente all'esempio dei
rondeschi, ed hanno una parola in genere equilibrata e serena, e gli altri invece si rifanno
particolarmente al Pirandello, allo Svevo, al Proust, ai grandi romanzieri russi dell'Ottocento, ed
hanno talvolta una parola eccitata o convulsa; tuttavia la differenza è più apparente che sostanziale,
anche se tra l'una e l'altra tendenza siano avvenute polemiche vivaci, come quella intorno a «forma»
e «contenuto». Ricorrendo a un paragone pittorico, si potrebbe dire che nei quadri degli uni
(evocativi) la macchia originaria di colore (quella che è tutt'una cosa con l'ispirazione) è suddivisa
principalmente in arabeschi, mentre nei quadri degli altri (romanzieri, ecc.) è suddivisa in figure:
ma la qualità del colore, generalmente parlando, è pur quella. Gli uni e gli altri insomma, dai più o
meno giovani ai giovanissimi, tendono a tradurre in «drammatico» — per quanto più
accentuatamente i narratori veri e propri che non gli evocativi — il proprio empito lirico. Donde il
risorgere, insieme col romanzo e col racconto, del teatro, o almeno del desiderio di cimentarsi nel
teatro. Il quale, se è vero che col Pirandello e con i vari autori di «grotteschi» e di «avventure
colorate» è venuto affrancandosi dal teatro borghese dell'Ottocento e dal teatro «poetico», anzi dal
poema drammatico dei dannunziani (che volevano, a loro volta, con quei conati di poesia, reagire
alla piattezza del dramma naturalista), e preparando le condizioni migliori alla propria rinascita; è
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anche vero che da parecchi anni, a causa di quel generale orientarsi della letteratura verso la
confessione autobiografica e l'essenzialità lirica, non ha dato — tolti quegli scrittori, e poche altre
eccezioni — frutti cospicui. Crisi di produzione (aggravata dalla crisi degli attori, delle compagnie
drammatiche, dello spettacolo): che non può esservi vero teatro, comunione ampia di spiriti, là dove
l'autore attenda ad ermetici soliloqui o badi a parlare per pochi iniziati, o si abbandoni ad ogni sorta
di astruserie, di acrobazie intellettuali. Niente di più borghese di codesto preteso antiborghesismo.
Ma i giovani anelano d'uscire dal chiuso degli esperimenti, di proiettare fuori di sé il proprio
travaglio; di parlare nuovamente alle folle. Segno che quella crisi è stata in fondo salutare: crisi di
crescenza e non crisi mortale come i superficiali sùbito sentenziarono; che il teatro, in quanto
espressione d'un particolare ma eterno atteggiamento dello spirito, non può morire né può rimanere
offuscato dalla presunta concorrenza di altre arti. Ora il «teatro per ventimila» auspicato da
MUSSOLINI ha appunto un tale significato tutto intimo, spirituale: teatro non che emuli lo stadio o
l'arena, ma che sia in grado di parlare — cioè di dire, attraverso l'arte, una parola di vita — a tutti. E
certo, a giudicare dai primi tentativi, i buoni risultati neppure in questo campo potranno tardare.
Quanto alla poesia, anch'essa partecipa, pur nella sua gelosa soggettività, di questo carattere
oggettivo: l'autobiografismo della poesia d'un tempo è riassorbito e diffuso nel quadro, nel
panorama evocato; la sensazione, l'impressione tendono ad organarsi in pensiero. È una poesia
anch'essa d'atmosfera, nel senso sopra chiarito; una poesia evocatrice, più che d'altro, di paesaggi, di
nature aspre, realistiche, tormentate, specchio del tormento spirituale del poeta nella conquista o
riconquista del proprio mondo; una poesia già più dispiegantesi in canto che non la precedente, più
musicale, anche se d'una musicalità tutta interiore. Le parole (come del resto quelle della prosa)
sono precise, consuete, quotidiane; nessuno sforzo vocabolaristico, nessuna belluria esteriore;
parole, si direbbe, trite dall'uso, e pur ravvivate e rinnovate dal respiro lirico. Il simbolismo,
l'oscurità della poesia d'un tempo tendono a scomparire, senza che peraltro si ricada nella
discorsività e sciatteria d'un tempo; il periodo lirico torna a coincidere col periodo logico, così come
il metro torna, di eslege, tradizionale: d'una tradizione, s'intende, rinnovata ancor essa
intrinsecamente. Anche la critica, infine, si muove in questa direzione intimamente costruttiva.
Dopo un lungo periodo di frammentismo, risoltosi e appagatosi nella distinzione di ciò che è poesia
da ciò che poesia non è, e quindi nella indicazione antologica delle pagine e dei passi liricamente
«puri» ; e dopo un periodo di predominante formalismo — naturale degenerazione, del primo —
studioso del suono delle parole e delle sillabe, dei toni, delle pause, dei silenzi e insomma della
«tecnica» ; ecco che la nuova critica, pur tenendo conto delle conquiste del pensiero estetico
contemporaneo, si rifà al De Sanctis (o meglio, ripensa attraverso queste la critica desanctisiana) e,
mossa da un'esigenza profonda di unità e di storicità, porta quella distinzione di poesia e non poesia
da un piano astratto nell'ambito della personalità dell'artista, di cui traccia con rigore di metodo
l'intima storia, in accordo con la storia della cultura e dello spirito del suo tempo. Il nuovo ordine
etico, Volendo configurarsi anche come ordine estetico, chiede, fuori dei vecchi schemi, nuove
risoluzioni ai suoi nuovi problemi.
Giacché la caratteristica saliente del tempo fascista è appunto questa: che tra politica, cultura e
vita morale corrono nessi strettissimi, al punto che l'una non può pensarsi se non come potenziata
via via dalle altre, e insieme di esse potenziatrice. L'unità, aspirazione somma del nostro tempo, è
appunto in tale continua, perenne identificazione.
Cosciente di questa unità, da lui stesso affermata e instaurata, il Fascismo è venuto prendendo
per la letteratura, gradatamente intensificandole e perfezionandole, tutte quelle provvidenze che ad
uno stato totalitario sono consentite: provvidenze che vanno dalla tutela morale e pratica degli
scrittori, alla agevolazione, all'incoraggiamento, all'incremento, nei limiti del possibile — che l'arte
è pure un fatto individuale, che non può nascere quando e come piaccia — della loro attività.
Restringendoci qui alle principali provvidenze, ricorderemo anzitutto la legge sui diritti d'autore,
che, riparando a una grave ingiustizia della precedente legislazione, restituisce all'opera dell'ingegno
il valore di perenne patrimonio, che quella materialisticamente le negava. Poi — oltre, s'intende,
l'Accademia d'Italia, che accoglie in un'apposita classe gli scrittori di più larga fama — va ricordata
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l'istituzione, presso l'Accademia stessa, di premi annui per le opere letterarie più significative, o per
le attività comunque meritevoli d'appoggio; e il contributo concesso ad altri premi (per esempio, a
quello di Viareggio) istituiti da enti o da privati. E ancora: il nuovo ordinamento e il nuovo impulso
dato alle biblioteche, strumenti preziosissimi di lavoro; — le celebrazioni annuali, in questa o in
quella regione, dei più insigni scrittori (e artisti e statisti) del passato, a culto e insieme a monito
della continuità ideale di un popolo; — i Littoriali della cultura e dell'arte, che mentre saggiano per
tempo le tendenze, le capacità, le forze spirituali delle nuove generazioni educate nel clima del
Fascismo, le orientano verso quelli che sono i problemi vivi della cultura e dell'arte d'oggi; — e
infine, non meno importante, l'Ispettorato del Teatro, che, primo passo verso l'auspicato Teatro di
Stato, disciplina e armonizza i rapporti fra autori, attori e registi, fra produzione e spettacolo,
segnala le forze nuove nei vari campi, le conforta del proprio aiuto morale e materiale, le avvia
soprattutto all'esperienza della ribalta: condizione fondamentale per la rinascita del nostro teatro. E
sarebbero ancora da ricordare i numerosi concorsi connessi con l'attività del Dopolavoro, specie
quelli drammatici per il Carro di Tespi; le conferenze d'indole letteraria tenute presso i vari istituti
di cultura o presso le sedi dei Fasci, in Italia e all'estero; le mostre e la propaganda del nostro libro
all'estero, e le annuali Feste del libro in Italia; la varia, fervida attività dei «Guf», e le manifestazioni
dei Sindacati autori e scrittori, ecc.: ma il già accennato basta a far comprendere l'importanza
eccezionale di queste provvidenze, che volute e attuate dal DUCE, pongono finalmente la figura
dello scrittore al posto che le compete nel quadro della vita nazionale.
1) Scritti e Discorsi, V, pp. 281-82.
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III.
LE ARTI FIGURATIVE
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NON v'è mondo maggiormente sensibile, capace di prodigiose azioni e di dannose reazioni, del
mondo dell'arte. In esso i confini fra materia e spirito, i rapporti fra tecnica e forma, i nessi fra
estetica e vita sono difficilissimi a precisare, tanto che i filosofi da secoli si affannano nella
soluzione di tali problemi. Per questo il Fascismo ha agito con la massima prudenza, evitando di
stabilire schemi preconcetti ed obbligatori per le espressioni artistiche e cominciando la sua azione
col creare una nuova atmosfera che conquistasse a poco a poco l'elemento fondamentale del
processo artistico, l'uomo.
Preparate così le basi, il Fascismo s'è messo in condizione di svolgere con successo la sua opera
di propaganda, diretta a conquistare all'Italia ed all'umanità l'ideale di un'arte possente, ricca di
ispirazioni e di linfa, e materiata di solido pensiero. Arte piena di vita, che come quella dell'età dei
Comuni e del Rinascimento parli al cuore delle folle.
Valutata nel suo complesso, l'opera del Fascismo nei riguardi delle arti, di quelle figurative in
ispecie, appare da una parte scrupolosamente rispettosa delle libertà individuali, che sono il
fondamento stesso della vita artistica, dall'altra parte tenacemente applicata, senza fretta e senza
perder tempo, a realizzare l'idea di un'arte sempre più profondamente umana e fascista.
La vita degli artisti s'era lasciata crescere, nei cessati regimi, come una pianta selvatica che non
ha bisogno delle cesoie del potatore e della zappa che dissoda il terreno. Le bastava l'aria libera, il
sole, l'urto dei venti, l'alternarsi delle stagioni. Anche le male piante intorno, residui delle passate
vegetazioni, non le erano tolte, che anzi l'aiutavano a salire più libera ed a scapricciarsi nelle fronde.
Di fronde infatti ne produsse moltissime e i rami capaci di germinare s'intricarono coi rami secchi.
Ma i frutti apparvero sempre più grami ed insipidi.
La libertà per cui tanto s'era combattuto contro l'accademia tirannica e scolastica dell'Ottocento
era divenuta, nella vita artistica, come in quella politica, origine di confusione e d'anarchia. Il
Fascismo, contrapponendosi alle forze di disgregazione della vita nazionale, non poteva ignorare
che quelle forze agivano, residui della mentalità ottocentesca, anche nel campo dell'arte. In quanto
fondatore dello stato corporativo, non poteva e non doveva tralasciare dal comprendere
nell'inquadramento generale delle energie della Nazione anche quelle degli artisti. La storia d'Italia,
alla quale volentieri il Fascismo ricorre per suggerimenti e conferme, dimostrava non solo che le
corporazioni delle arti e dei mestieri non nuocciono allo sviluppo libero dell'arte, ma che anzi al
fiorire della vita corporativa in Italia aveva corrisposto uno dei più fiorenti e gloriosi periodi
dell'arte nostra.
L'inquadramento sindacale degli artisti è uno dei più coraggiosi atti compiuti dal Fascismo
nella volontà di rinnovare e coordinare la vita nazionale. Si trattava, quando fu deciso, di andar
contro ad un concetto di libertà astratta, a qualunque costo, dimostratosi assurdo e nocivo nella vita
politica, ma tenacemente radicato nella vita intellettuale per la vecchia convinzione che gli artisti
non siano cittadini come tutti gli altri e che l'attività del loro ingegno sia un frutto del capriccio e di
una specie di fatale indisciplina della loro esistenza. Si trattava quindi di dimostrare coi fatti, ciò che
era vero del resto nella storia, che non soltanto l'arte è libertà, ma anche dura disciplina, come ogni
altra attività dello spirito umano, e che, anche per gli artisti, il sentirsi partecipi della vita totale della
Nazione e in essa ordinatamente inquadrati, non nuoce affatto alla libertà del loro spirito. E siccome
lo Stato si assumeva con ciò l'impegno di proteggere la loro categoria al pari di tutte le altre, doveva
anzi, dalla partecipazione alla vita corporativa, scaturire per gli artisti un maggior senso di sicurezza
dell'esistenza materiale, capace di liberare meglio le energie destinate alla creazione delle opere
d'arte.
Se chiara è la teoria, non altrettanto agevole è l'applicazione pratica. La vita corporativa degli
artisti è all'inizio della sua affermazione. Appunto perché la loro classe è stata per oltre un secolo
ritenuta non suscettibile d'inquadramento sindacale come le altre categorie dei cittadini,
l'applicazione è più delicata. Ma i risultati raggiunti sono già imponenti e tali da dare sicuro
affidamento per l'avvenire.
La categoria di artisti che più prontamente ha ricevuto un saldo ordinamento corporativo è
quella degli architetti. Tutti sanno in che discredito fosse caduta non soltanto la professione ma il
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titolo stesso di architetto. La ragione precipua di tale fenomeno risiedeva nel fatto che i così detti
architetti non erano che semplici disegnatori d'architettura, istruiti nelle Accademie di belle arti
senza alcuna seria preparazione tecnico-scientifica, peggio ancora con il presupposto che
l'architettura fosse un'arte di semplice disegno esteriore senza alcun rapporto coi metodi e i sistemi
della costruzione, con il carattere e la funzione degli edifici.
Il Fascismo comprende sùbito che in un Paese gloriosamente architettonico come l'Italia non si
poteva continuare in tale stato di cose e creò quelle Scuole superiori d'architettura che hanno dato
risultati ancora molto superiori alle speranze in virtù del loro saggio e pratico ordinamento, nel
quale le esigenze della tecnica e quelle dell'arte sono armoniosamente equilibrate. Tali scuole,
elevate in seguito al rango di Istituti superiori per equipararle ai Politecnici o scuole d'ingegneria,
sono divenute oggi facoltà universitarie, come era giusto e logico che avvenisse.
Non soltanto i giovani accorsero nei nuovi istituti, testimoniando il bisogno che si aveva della
loro creazione, ma da poco più d'un decennio s'è andata formando una falange di giovani architetti,
eccellentemente preparati, animosi, tenuti al corrente dei più moderni metodi della costruzione,
capaci di attuare quel rinnovamento architettonico di cui parleremo. Conseguenza pratica di tutto
ciò è stata una immediata rivalutazione del titolo di architetto, prima confuso con quello di
disegnatore o di ingegnere, oggi portato con fierezza da coloro che ne sono ben degni.
In tal modo l'inquadramento sindacale degli architetti è stato facile e spedito perché la
professione era ben definita dal diploma, il quale dava diritto all'iscrizione nell'albo e quindi
all'esercizio della professione. E per coloro che da almeno cinque anni facevano l'architetto senza
averne conseguito la laurea perché ancora le scuole superiori d'architettura non erano state
costituite, speciali commissioni giudicarono se essi avessero la capacità e la pratica sufficienti per
essere equiparati nel titolo e nell'iscrizione all'albo.
Dato l'ordinamento delle Accademie di Belle Arti non era altrettanto agevole procedere
all'ammissione dei pittori e degli scultori nei sindacati degli artisti. Preoccupava sopra tutto la
presenza di numerosi autodidatti, i quali avevano dato pure eccellenti prove delle loro capacità. Non
si poteva cioè ricorrere ad un diploma come titolo per l'iscrizione e si doveva cautamente procedere
alla riforma degli istituti di istruzione artistica i quali, per riconoscimento unanime, continuavano a
vivere in ordinamenti e sistemi d'insegnamento non più adeguati ai tempi nuovi. Come si sa anche
questa riforma è in corso d'esecuzione. Ma intanto gli artisti non potevano essere esclusi dal
generale inquadramento delle forze vive della Nazione. Perciò le ammissioni nei sindacati degli
artisti avvennero con criteri di grande larghezza, specialmente in base ai saggi che essi davano della
loro capacità nelle varie esposizioni di pittura e di scultura.
Una selezione era dunque ritenuta necessaria, anche per una preoccupante invasione di
dilettanti che si rivelava sempre più dannosa agli interessi ed al prestigio stesso della classe degli
artisti. E siccome l'unico mezzo per procedere alla indispensabile selezione era quello di giudicare
gli artisti in base alle opere presentate nelle esposizioni si cominciò a mettere ordine nel grande caos
delle varie mostre d'arte che pullulavano in Italia o come stracchi residui di quelle organizzate dalle
varie società promotrici o come frutto di iniziative individuali. Una legge tipicamente fascista stabilì
una gerarchia fra le varie esposizioni partendo dal principio d'una selezione graduale. Raggruppati i
sindacati per provincie o per gruppi di provincie, ogni Sindacato ebbe, fra gli altri, il compito
d'organizzare mostre sindacali o interprovinciali nelle quali avvenisse una prima selezione degli
artisti e delle opere. Fu istituita quindi una esposizione quadriennale d'arte nazionale che fosse
capace di scegliere, riassumere, presentare al pubblico il meglio della produzione artistica del
quadriennio già saggiata nelle mostre sindacali. E siccome fioriva la gloriosa istituzione delle
Biennali veneziane, unica grande rassegna periodica dell'arte contemporanea internazionale
che esista nel mondo, fu riserbato alle Biennali il compito di presentare, in una ulteriore selezione, il
meglio dell'arte italiana al confronto immediato di quella straniera. Da ciò nacque spontaneamente
l'opportunità di profittare dell'ottima ed esperta istituzione veneziana per appoggiare ad essa
l'organizzazione delle mostre d'arte italiana all'estero, sotto la vigilanza del Ministero per la stampa
e la propaganda.
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Non v'è dubbio alcuno che la vita degli artisti italiani abbia già largamente risentito benefici da
un tale ordinamento delle esposizioni, tanto più che il Regime fascista non si è soltanto preoccupato
del problema puramente organizzativo, ma ha istituito premi, promosso concorsi, interessato enti e
categorie di cittadini, incoraggiato in ogni modo l'acquisto delle opere d'arte con una larghezza di
mezzi, con una liberalità di criteri che non ha riscontro in nessun'altra nazione del mondo.
Affermata la necessità di immettere gli artisti, con tutta la dignità della loro alta funzione, nella
vita corporativa dello Stato fascista, costituiti i sindacati degli architetti e degli artisti, regolate le
esposizioni, promossi gli scambi con l'estero, l'ordinamento sindacale, pur nella sua fase formativa,
ha dimostrato quanto esso sia capace di costituire una protezione ed una difesa della categoria,
giungendo fino alla costituzione di speciali casse d'assistenza per alleviare il grave disagio
economico che la crisi mondiale ha prodotto particolarmente in una classe di cittadini che risente
più di molte altre gli effetti della situazione generale.
L'ordinamento sindacale non è tutto e non può essere tutto ciò che costituisce l'intervento dello
Stato nella vita degli artisti, così come le esposizioni non sono e non possono essere l'unica via per
cui l'arte penetra nella vita della Nazione e vi partecipa. S'è anzi sempre più fatta strada la
persuasione che le esposizioni, residui d'un tempo in cui l'arte era confinata entro l'ambito d'una
cornice o i limiti d'un piedistallo, siano più nocive che utili in quanto incoraggiano un'arte senza
destinazione, abbandonata al capriccio dell'acquirente, non incoraggiata dalla fiducia del
committente. Gli artisti cominciano a sentire quanto sia per loro più soddisfacente pensare la loro
opera per uno scopo ben determinato, per un ambiente in cui essa viva e partecipi in modo
permanente di ciò che le sta attorno e per il quale essa sia stata creata. Torna a rinascere il gusto per
la pittura murale e per la scultura inquadrata nell'architettura, con un felice richiamo a quella unità
delle arti che è stata sempre la fierezza e la gloria della tradizione italiana.
È stato perciò provvidenziale lo straordinario sviluppo del rinnovamento edilizio promosso dal
Fascismo. La trasformazione di molte città ha dato luogo ad un eccezionale fervore di studi
d'urbanistica che è un'arte spesso nascosta sotto apparenze scientifiche ed economiche, ma non per
questo meno delicata e sensibile in quanto è capace di dare un volto alle nostre città, di perfezionare
oppure di guastarne il fascino e la bellezza, consacrati da secoli.
Si può affermare che tutte le città italiane hanno sentito il bisogno di provvedere con ordine alle
esigenze del proprio sviluppo attuale e futuro mediante piani regolatori, studiati partendo dai
risultati d'un concorso nazionale, elaborati poi dagli stessi vincitori del concorso con l'assistenza
degli uffici tecnici comunali. Ed è questa la norma sana per risolvere i complessi problemi, in Italia
assai più ardui che altrove, norma che, dove è stata adottata, ha dato ottimi frutti rivelando una
schiera di giovani urbanisti perfettamente preparati, consci di che cosa sia la sacra bellezza della
maggior parte delle nostre città e capaci di armonizzare il nuovo con l'antico. Né si può dimenticare
la fondazione delle città pontine e sarde, cui presto s'aggiungerà Aprilia, per testimoniare come,
specialmente a Sabaudia, la preparazione urbanistica dei giovani architetti sappia prontamente dare
ottimi esempi di quest'arte che deriva direttamente dalla tradizione dell'Impero romano.
Così l'attività edilizia regolata dall'urbanistica, ha avuto un'influenza enorme sul nascere, sul
crescere e sull'affermarsi dell'architettura italiana moderna, da troppo lungo tempo isterilita dalla
vacua e retorica imitazione degli antichi stili. Recenti accanite polemiche si sono svolte liberamente
mostrando quale fermento d'idee animi le nuove schiere degli architetti italiani in aperto contrasto
con quelle zone grigie dei conservatori che per eccesso di prudenza e deficienza di ardire
vorrebbero lenta evoluzione laddove si manifesta una necessità di rivoluzione. Il DUCE non esitò a
schierarsi dalla parte dei giovani mostrando ancora una volta come l'Italia nuova non abbia timore
di ardimenti, quando questi partano da una maturata coscienza e si mantengano in quel senso di
misura e di equilibrio che è tradizione costante dello spirito italiano.
Ciò che pochi anni or sono sembrava un sogno lontano, l'esistenza d'una viva e rinata
architettura italiana moderna, oggi è una sicura realtà. Essa partecipa evidentemente al movimento
mondiale, sorto dall'uso di nuovi metodi e di nuovi materiali della costruzione, ma accentua sempre
meglio i lineamenti di una propria fisionomia non più adattandosi nella scolastica imitazione degli
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stili del passato, ma ispirandosi ad una continuità ideale della tradizione che non deve e non può
essere dimenticata.
Ormai in edifici pubblici, in quartieri e in case d'abitazione, in fabbriche dell'industria, in ville e
villini, in aeroporti, stazioni, città universitarie, ospedali, stadi, palestre, scuole, case dei Fasci e dei
Balilla, sempre più di frequente e dovunque si afferma l'architettura italiana rinnovata. Lo Stato
vigila questo rifiorire, non soltanto coi propri organi del Ministero dei Lavori Pubblici e di quello
dell'Educazione Nazionale, ma promovendo in larghissima misura i concorsi regolati dal Sindacato
degli architetti, in modo che i termini del bando e i modi del giudizio abbiano ogni possibile garanzia
di serietà e d'imparzialità. Nasce cioè dall'antichissima e sanissima istituzione italiana del
concorso, caduta in discredito durante i tempi della democrazia elettorale, un automatico equilibrio
delle varie tendenze portate al giudizio della pubblica gara. Nasce inoltre, per il fatto che i nostri
architetti operano per la massima parte entro città il cui carattere è l'affermazione d'una lunga
tradizione italiana, una necessità di intonare la moderna architettura a quel carattere, rievocato
naturalmente nello spirito e non nelle forme accademicamente intese.
Ormai si può dire che l'attività edilizia così largamente incoraggiata dal Fascismo in ogni parte
d'Italia ha promosso un fervore creativo, una molteplicità di affermazioni, una verifica delle
tendenze sotto l'impero delle esigenze della realtà, che sono i fattori determinanti d'una sempre più
certa differenziazione dell'architettura moderna italiana da quelle degli altri paesi stranieri.
Una recente disposizione tipicamente fascista ha stabilito che dalla somma totale necessaria per
la costruzione di opere pubbliche sia prelevata una percentuale destinata a opere di decorazione e di
arredamento di quel determinato edificio, in modo da dare lavoro a scultori, pittori, arredatori, così
come si dà lavoro agli architetti. È il riconoscimento del principio per cui lo Stato non ritiene
esaurita la sua funzione rispetto all'arte soltanto col promuovere e regolare le esposizioni, ma
intende ristabilire in tutta la sua efficacia il fatto dell'ordinazione delle opere d'arte, oltre a quello
dell'acquisto. Anche in questo lo Stato fascista si riallaccia ad una lunga, continua, gloriosa
tradizione italiana. Nessun paese del mondo può mostrare una tanto nobile ed imponente
moltitudine di opere d'arte create per la collettività dei cittadini in edifici pubblici d'ogni genere,
quanta ne può mostrare l'Italia. Stato e Chiesa si son sempre serviti dell'arte come di una delle più
alte ed efficaci manifestazioni della propria potenza e del proprio dominio a beneficio materiale e
spirituale dei cittadini e dei fedeli, a cominciare da quando Roma madre piantava archi onorari e
teatri, basiliche e terme, templi e stadi fino agli estremi confini dell'Impero e queste architetture
ornava di statue e di affreschi, di rilievi e di mosaici.
Proprio questa funzione pubblica dell'arte, così tipica della ininterrotta tradizione italiana, ha
fatto sì che l'arte nostra non perdesse mai il suo profondo contenuto di umanità e la sua perfetta
concordanza con la vita, evitando di cadere in astrattismi e in bizantinismi d'origine intellettuale
destinati al godimento di pochi privilegiati oppure in quelle manifestazioni di gusto corrente e
volgare che sono incoraggiate dal mercantilismo privato. Preparare il ritorno dell'arte a questa sua
intima e necessaria comunicazione con la collettività dei cittadini è appunto compito dello Stato; e il
Fascismo ha seguito questa via.
D'altronde le attuali tendenze dell'arte italiana affermano sempre più il bisogno degli artisti di
reagire contro l'impressionismo di marca straniera al quale gli artisti italiani dell'Ottocento avevano
aderito per moventi analoghi a quelli che avevano determinato l'adesione della vita politica italiana
ai principi della democrazia e del liberalismo originati dalla rivoluzione francese. E ciò aveva
prodotto all'Italia, in arte come in politica, evidentissimi danni.
Si vogliono invece oggi, con determinazione unanime, sebbene con libertà d'espressione dei
vari temperamenti, rivalutare gli elementi più caratteristici dell'arte italiana di ogni secolo:
composizione e ritmo, concretezza formale e senso spaziale, aderenza intima alla realtà e necessità
di trasfigurarla. Si ritorna alle antiche tecniche della pittura, dall'affresco al mosaico, agli antichi
temi della scultura, dalla statua al rilievo, per una necessità intima di ristabilire quell'unità delle arti,
architettura, scultura e pittura, che è il vanto supremo della nostra tradizione. Insomma i bisogni
ideali degli artisti, che nella necessità di reagire contro l'arte del periodo immediatamente
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precedente trovano la ragione stessa del riconoscere sé stessi in continuità di spirito con gli antenati,
coincidono coi bisogni reali della Nazione che vuole apparire rinnovata anche attraverso le opere
pubbliche che essa crea. Gli artisti chiedono lavoro, non beneficenza spicciola di sussidi o di
acquisti; e lo Stato lo procura loro per il bene della collettività, affrontando magari immaturità,
imperfezioni, errori inevitabili ed umani, poiché sa che con questo mezzo agisce sulla vita degli
artisti e quindi indirettamente, col migliorare e disciplinare questa vita, sull'arte. Al tempo stesso lo
Stato incoraggia, col proprio esempio, gli enti e i cittadini a rivolgersi con fiducia all'arte, come ad
una delle necessità fondamentali del vivere civile.
È inutile aggiungere che finora nulla di simile si è fatto e si fa all'estero nel campo delle
relazioni fra Stato e arte, come recenti convegni e congressi internazionali hanno chiaramente
dimostrato.
Il Fascismo ha agito anche in un altro campo che ha strette attinenze con l'arte: quello delle
industrie artistiche e dello artigianato. Una grande esposizione milanese, la Triennale
dell'architettura e delle arti decorative, mostra periodicamente i progressi raggiunti, le posizioni
conquistate.
Quando fu fondato l'Ente nazionale per le piccole industrie e per l'artigianato, quando fu
costituita la vasta e numerosa Corporazione artigiana era il caos più disperante, poiché si trattava di
un mondo nel quale sembrava fatale il disordine dell'iniziativa individuale. Un inquadramento
sindacale, un sistema di aiuti, sussidi, incoraggiamenti, suggerimenti, pubbliche mostre e gare, un
lavoro paziente di disciplina e di persuasione, hanno trasformato la situazione, vincendo numerose
difficoltà dipendenti dal periodo della crisi economica.
Per quanto riguarda, nel complesso problema, specialmente l'arte, si è cercato di ristabilire i
contatti fra artisti da un lato e artigiani e piccoli industriali dall'altro. Spessissimo dal centro si sono
diramati, verso gli isolati che vivono lontani dal fervore della creazione artistica, disegni e modelli
che gli artisti, in seguito a dirette commissioni o concorsi, avevano elaborato tenendo conto delle
particolari esigenze della tecnica e dell'economia. Il connubio felicemente istituito nella Triennale
milanese fra architettura e arti decorative ha stimolato le industrie e gli artigianali a rendersi conto
delle esigenze delle abitazioni, dal mobilio alle stoffe, dai metalli alle ceramiche ed ai vetri,
cercando nuovi materiali o nuovi usi di antichi materiali, obbedendo al gusto di semplificazione
delle forme in obbedienza all'architettura, cercando di nobilitare col lato estetico il lato commerciale
e contribuendo così grandemente ad un effettivo miglioramento del gusto. Il fatto stesso che un
artigiano della Sicilia si senta affratellato all'artigiano del Veneto da vincoli corporativi, contribuisce
all'unificazione ed all'aggiornamento del suo gusto, pur mantenendo libera la caratteristica e
individuale capacità di creazione sua propria, l'aderenza ai bisogni della regione in cui opera.
In un paese come l'Italia in cui la varietà di abitudini, di caratteristiche locali, di tradizioni è
permanente da secoli, pur nella generale unità che rende riconoscibile un prodotto italiano da mille
altri stranieri, il lavoro di coordinamento e di inquadramento delle piccole energie è particolarmente
delicato e difficile per il rischio di distruggere quella stessa varietà nell'unità che è tipica nelle
manifestazioni artistiche ed artigiane della nostra Patria. Perciò si deve fare molto assegnamento
anche sulla riforma dell'insegnamento nelle scuole d'arte che è ormai matura, anche nei particolari.
Essa parte dal principio di una graduale elevazione dell'istruzione dei giovani dal mestiere all'arte,
dalle piccole alle grandi creazioni, senza perder di vista né l'addestramento tecnico generale e
specifico di ogni arte, né le superiori esigenze dello spirito creativo. Si ritorna cioè, dopo gli errori
dell'insegnamento accademico e dopo le deviazioni conseguenti al concetto della libertà assoluta
che ha tanto incoraggiato il dilettantismo, a quel serio e severo e paziente addestramento dei giovani
che era, nei più gloriosi tempi dell'arte italiana, l'indizio d'una coscienza artistica matura e che
permetteva, a coloro che non riuscivano nell'arte, di ripiegare sul mestiere e di trovare in esso
soddisfazione e sostentamento. Se si pensa alla falange di spostati che è uscita dalle Accademie di
Belle Arti, appunto perché queste pretendevano di essere incubatrici di geni e non contemplavano il
caso che i giovani da esse istruiti non riuscissero tali e quindi non sapessero come campare, si ha la
misura del come lo Stato possa agire sulla vita artistica della Nazione, anche e specialmente attra21
verso le scuole d'arte.
In queste pagine destinate ai giovani che intendono dedicarsi alla vita politica non si è parlato
per proposito di questa o di quella tendenza d'arte. In uno Stato sano e ben costituito le varie
tendenze non contano; conta la somma delle opere compiute in quanto interpretano i vari aspetti e le
varie aspirazioni della vita della Nazione, contano le singole individualità degli artisti eccellenti in
quanto sono tipiche e inconfondibili espressioni dell'indole della stirpe.
Operando con circospezione, ma con decisione, inquadrando gli artisti nei sindacati, regolando
le esposizioni, favorendo le opere pubbliche col concorso degli artisti, riordinando l'artigianato,
preoccupandosi dell'istruzione nelle scuole d'arte, creando sopra tutto quell'aspirazione ideale e quel
clima spirituale che sono il presupposto d'ogni nascere o rinascere dell'arte, il Fascismo ha assolto e
continuamente assolve il proprio compito. Tutto ciò si andrà svolgendo, integrando, perfezionando,
così come si lavora senza posa il buon terreno che deve dare l'abbondanza dei fiori e dei frutti.
22
IV.
LA STAMPA
23
LA stampa periodica — nel Regime Fascista — è un mezzo dello Stato. Non è un potere
autonomo, che si può esplicare anche all'infuori dello Stato o contro di esso: è un servizio essenziale
della vita moderna che concorre ai fini dello Stato.
In Italia, non abbiamo la stampa di Stato. Il periodico (giornale o rivista) è un organismo
pienamente responsabile, che agisce in armonia con la dottrina e con gli interessi statali.
La legge fascista, disciplinando la stampa periodica, ha creato quella effettiva libertà di stampa
(la sola possibile), che consiste nell'affrancamento della stampa dalla soggezione agli interessi
particolari.
In Italia la stampa è perfettamente libera, perché non può essere strumento degli interessi di un
privato, o di una azienda, o di un gruppo finanziario. Nessun'altra concezione della libertà di stampa
è ammissibile. La devozione della stampa allo Stato non può essere considerata come menomazione
di libertà, perché corrisponde a un dovere generale, indiscutibile a un interesse collettivo altrettanto
assoluto.
Il criterio di libertà nei riguardi della stampa, come d'altronde in quelli di qualsiasi opera o
azione, è stato identificato dal Regime fascista con il criterio di responsabilità.
Non esiste, infatti, una censura preventiva, ma la legge prevede e punisce con interventi di
polizia o con interventi giudiziari, tutte quelle manifestazioni giornalistiche che possano, in
qualsiasi maniera e misura, nuocere moralmente o materialmente al costume nazionale e agli
interessi e ai fini dello Stato.
Perché questo criterio di responsabilità, posto a base della funzione giornalistica nell'Italia
fascista, si precisasse in un senso legale, il Regime ha disciplinato la professione del giornalista,
istituendo l'albo professionale.
Era infatti del tutto incomprensibile che si richiedesse l'iscrizione in un albo per ogni libero
professionista (medico, avvocato, ingegnere, ragioniere, ecc.), e non per chi ha nelle mani uno degli
strumenti più delicati della vita sociale.
L'iscrizione all'albo è garanzia di moralità e costituisce perciò il fondamento del decoro della
professione giornalistica. Nessuno, in Italia, può esercitare questa professione se non è iscritto
all'albo. Per l'iscrizione sono richiesti i certificati da cui risulti la piena onorabilità morale e politica
e il sufficiente livello intellettuale del giornalista, che, sul principio della professione (e per i 18
mesi successivi) è iscritto col titolo di «praticante». Giornalista professionista è soltanto chi eserciti
esclusivamente la professione, ritraendone la sussistenza. In apposito elenco sono iscritti i
pubblicisti, ossia le persone, che, pur esercitando una attività giornalistica di qualche importanza,
non ne fanno la loro professione esclusiva. Qui si deve notare che la tutela morale e finanziaria del
giornalista italiano, nel campo sindacale, è quale non esiste in nessun altro Paese. L'Italia ha anche
il primato della previdenza a favore dei giornalisti.
L'albo professionale è una delle basi del criterio di responsabilità che il Regime ha posto a
presidio della funzione della stampa. L'altra base è l'istituto legale della «gerenza».
Qualunque pubblicazione periodica deve essere preventivamente autorizzata dall'autorità
politica. Ogni giornale o rivista deve avere un «gerente responsabile», riconosciuto dall'autorità
giudiziaria.
Anteriormente alla legislazione fascista, il gerente responsabile era un «uomo di paglia», un
prestanome, un espediente per eludere effettivamente, da parte dei proprietari, degli ispiratori, dei
direttori e redattori di un periodico, la responsabilità legale. La materia, pur così grave, era regolata
(come tutta la posizione giuridica della stampa) da un vecchio editto piemontese del 1848.
Si riconosceva la gerenza, con palese irrisione alla legge, a una qualunque persona,
sostanzialmente estranea all'attività morale e politica del periodico: spesso a un rivenditore di
giornali, che, legalmente, era chiamato a rispondere, anche in giudizio, d'ogni reato compiuto
dall'organo di cui aveva la rappresentanza contro la società, e di ogni offesa privata.
La legge fascista ha eliminato questo sconcio, prescrivendo che responsabile del periodico
debba essere il direttore o uno dei principali redattori.
Il Fascismo ha dunque moralizzato la stampa, col darle una completa indipendenza
24
dall'interesse particolare al tempo stesso che la investiva di una precisa responsabilità.
È appena necessario ricordare che nei Paesi dove la libertà di stampa viene tuttora intesa come
libero mercato e accaparramento di organi di opinione, si assiste ai più sorprendenti voltafaccia
degli organi medesimi, la cui proprietà trapassa, al pari di quella di un qualsiasi oggetto, in seguito a
maneggi politici o a transazioni commerciali, spesso tutt'altro che oneste e legittime.
Ma la moralizzazione della stampa effettuata in Italia dal Fascismo, non si è limitata
all'impedimento del giuoco degli interessi e delle influenze particolari.
Il Regime ha dato alla stampa italiana una norma di superiore dignità. La cosiddetta «cronaca
nera», che dilagava per pagine e pagine pur nei giornali riputati seri e autorevoli, è stata costretta in
giusti limiti. Lo «scandalo» che è ancora oggi la risorsa principale di tanti giornali stranieri; il
delitto, l'aberrazione non hanno più nella stampa italiana un compiacente strumento pubblicitario.
Anche le cronache giudiziarie sono state ridotte a un succinto notiziario. Tutto ciò che è insano,
morboso, immorale; tutto ciò che è capace di diffondere esempi riprovevoli e suggestioni nocive è
escluso dalla stampa italiana.
Unificata da una sola fede e da una disciplina, la quale non è se non il richiamo costante alla
funzione naturale del giornalismo, la nostra stampa si è anche allontanata da quelle polemiche
personalistiche che, se potevano divertire un determinato pubblico, certo non contribuivano alla
serietà e alla compostezza giornalistica, e rappresentavano, comunque, una dispersione di energie e,
insieme, un motivo di disorientamento.
Come alla «cronaca nera» si son sostituite le cronache delle opere pubbliche, delle grandi
manifestazioni collettive, dell'assistenza sociale; così alle polemiche si è sostituita l'esposizione dei
grandi problemi della vita, colta nei suoi aspetti caratteristici: lavoro, scienza, eticità, lotta,
conquista.
Il Regime, d'altronde, con le sue fondamentali trasformazioni nell'ordine morale, politico,
economico; con le sue grandiose intraprese di rinnovamento e di potenziamento nazionale, ha dato e
dà alla stampa un poderoso alimento.
Il nuovo ritmo, il nuovo fervore, il rapido progresso cui la Rivoluzione fascista ha portato il
Paese, dall'educazione allo sport, dall'arte al costume, dalle armi all'agricoltura, all'industria, sono le
sorgenti da cui il giornalismo italiano ritrae il suo tono dinamico.
La vita moderna impone al giornalismo le caratteristiche della rapidità e della sintesi. Si
potrebbe credere che queste caratteristiche siano connaturali nella stampa periodica; ma l'esempio
dei tardi e prolissi giornali del passato (di un passato anche recente e non dappertutto scomparso) ci
prova che non è precisamente così.
L'evoluzione dei mezzi di comunicazione corrisponde alla evoluzione del giornalismo, la
precede, anzi, l'annuncia e la determina. Ma a questo sviluppo tecnico corrisponde anche lo
sviluppo spirituale. Una tendenza assai spiccata del giornalismo di alcuni paesi stranieri porta a
differenziare e separare il giornale d'informazioni dal giornale d'opinione: è però un distacco
innaturale, e in ogni modo inammissibile nell'Italia fascista. Il giornale fascista considera
l'informazione non come un fine, ma come un mezzo per nutrire, sviluppare e plasmare le
coscienze.
Il giornale fascista ha sempre una base informativa. Da ciò deriva anche il particolare sviluppo
dato dalla nostra stampa quotidiana ai servizi esteri. Questi però sono stati proporzionati ai servizi
interni. Per quanto si possa e si debba interessarsi alle cose straniere, dobbiamo dare il primo posto
alle nostre. Infatti, una delle funzioni sostanziali della stampa periodica, nel Regime fascista, è
l'illustrazione e la valorizzazione delle attività nazionali.
Fra i molti e difficili compiti del giornale moderno, il primo è, senza dubbio, quello di
sostenere la coscienza della Nazione attraverso l'esame quotidiano dei fatti che ad essa si riferiscono
o che possono interessarla. Tuttavia il giornale fascista non trascura la curiosità e il desiderio
ricreativo del lettore, ma, nel soddisfarli, mantiene una misura, un equilibrio e cerca di dare un
indirizzo.
Il giornale è lo strumento ideale, per trasformare la curiosità in un mezzo di conoscenza, ma
25
non deve prestarsi alle curiosità futili e morbose.
Lo stile fascista ha portato la sua agilità e la sua sobrietà anche nel campo giornalistico. Lo
stesso contributo della letteratura al giornalismo (terze pagine) va inteso come una cooperazione al
fine generale educativo che il giornale deve proporsi, sia con l'informazione che col dibattito di
idee.
È facile comprendere che senza una disciplina collettiva, il giornalismo di un Paese, nel suo
complesso, non potrebbe mantenersi su questa via e a questo livello.
La disciplina, quale è stata realizzata, nei riguardi della stampa, dal Regime fascista, non
soltanto garantisce l'indipendenza del giornalismo da ogni passione, pressione, interesse di ordine
particolare, ma conferisce al giornalismo stesso una nuova dignità, investendolo di alcuni dei
compiti superiori che lo Stato etico assolve nell'ambito della nazione.
È infatti, questa disciplina collettiva che consente al giornalismo italiano di interpretare lo
spirito nazionale, e che gli attribuisce l'onore di indirizzarlo verso i suoi giusti obiettivi,
assiduamente chiariti.
La controprova di questa varietà possiamo facilmente trovare in ciò che accade in quei paesi
dove lo Stato, invece di inquadrare la stampa nel disegno generale della sua dottrina e della sua
azione, la lascia in balìa della speculazione privata
O anche dei governi che si succedono, per il giuoco parlamentare, e che, mentre sono in vita, si
accaparrano con influenze varie e con interventi finanziari (fondi segreti) determinati organi, i quali
perciò, cambiano di opinione a seconda delle vicende ministeriali.
Mancando un inquadramento, una disciplina, tutte le deviazioni sono possibili e tutti i traffici
sono praticamente ammessi, o tollerati. Lo stesso freno della legge, per reprimere gli eccessi, gli
abusi, si dimostra, nel maggior numero dei casi, tardivo e inefficace; lo scandalo della corruzione
giornalistica è all'ordine del giorno.
La disciplina della stampa impedisce la corruzione. Il giornale asservito, il giornalista «pagato»
scompaiono. La funzione giornalistica è ricondotta a svolgersi in una atmosfera di purezza.
Pernio di questa disciplina — e fonte, al tempo stesso, d'informazione — è, in Italia, il
Ministero della Stampa e Propaganda, che coordina e controlla, nell'interesse dello Stato, un gruppo
di attività sociali fra loro strettamente legate, come la stampa periodica, la produzione libraria, il
teatro, il cinematografo, la radio, il turismo.
Il Ministero della Stampa e Propaganda è una delle più importanti creazioni del Regime. Esso
dà forma pratica e continuativa all'intervento dello Stato in un vasto e delicatissimo settore della
vita collettiva. Armonizzando molteplici attività affini e cooperanti, il Ministero per la Stampa e
Propaganda realizza una potente concentrazione di energie e dà una norma sicura ai rapporti
vicendevoli fra tutte queste attività, assicurandone lo sviluppo, sulle linee generali dei principi e
dell'interesse dello Stato fascista.
Il Fascismo ha sempre compreso la necessità di una stampa attiva, intelligente, sensibile. È
pieno di significato il fatto che la lotta dal Fascismo combattuta nel dopoguerra contro la vecchia
Italia decadente e contro il sovversivismo, abbia avuto per propugnacolo e bandiera un giornale: Il
Popolo d'Italia.
Questo quotidiano, fondato da Benito MUSSOLINI nel dicembre del 1914 per rischiarare la
coscienza della nazione e condurla a concepire la guerra come l'unico mezzo di afferrare il destino e
di aprire all'Italia un degno avvenire, è da considerarsi il fulcro del nuovo giornalismo italiano.
Il Popolo d'Italia ha assunto il carattere di una istituzione nazionale, e una importanza storica.
La sua stessa esistenza sta a dimostrare il grande posto avuto, e anche attualmente tenuto, dalla
stampa nella Rivoluzione fascista.
Durante quello che può chiamarsi il periodo squadristico della Rivoluzione (marzo 1919 -
ottobre 1922), il Popolo d'Italia dette la parola d'ordine al movimento destinato a trasformare
profondamente il nostro Paese.
Pochi altri organi ebbero un carattere del tutto fascista, mentre la maggior parte della stampa
borghese a base industriale si limitava ad osservare con prudenza gli avvenimenti, o faceva dei
26
giuochi d'equilibrio, o si metteva senz'altro contro il Fascismo.
I Fasci crearono tuttavia, anche in quel periodo, alcuni piccoli giornali di diffusione locale:
fogli di battaglia dalla vita breve e impetuosa sui quali si addestrarono non pochi fra i buoni
giornalisti usciti dalla Rivoluzione.
Dopo la Marcia su Roma, alcuni organi di stampa, già indifferenti o avversi, aderirono al
Regime o furono fascistizzati; altri, con maggiore o minor fortuna, ne sorsero.
Ma la crisi risolutiva dalla quale cominciò l'assetto definitivo della stampa fascista, avvenne nel
periodo che, all'ingrosso, va dal giugno 1924 al gennaio 1925: il famoso periodo delle levate di
scudi e degli scandali, nel quale le forze sovversive e, insieme, i vecchi partiti parlamentari,
spararono le ultime cartucce prima di soccombere e sparire per sempre.
Superata la crisi, il giornalismo italiano trasse nuova vita dalla disciplina stessa che gli veniva
data legalmente dal Regime.
Attorno ai vecchi quotidiani, riscattati dalla Rivoluzione vittoriosa, e a qualche nuovo
quotidiano sorto nei momenti della lotta, si affermarono non pochi settimanali di provincia, cui va
riconosciuto il merito di una grande fede, e, spesso, di uno stile robusto, genuino, rispecchiante
l'entusiasmo rivoluzionario delle masse fasciste, con gli occhi fissi su Roma, con l'anima pronta a
tutti gli ordini del Capo.
Anche questa stampa periodica è stata una palestra di addestramento per i giovani, ai quali il
Regime ha largamente aperto le porte del giornalismo con tutta una serie di disposizioni e di aiuti di
ordine pratico, oltre che con l'avviamento culturale (cattedre universitarie di giornalismo, scuola di
giornalismo, esercitazioni studentesche di giornalismo, ecc.).
Altro e importante settore della stampa fascista è quello delle riviste, alcune veramente
autorevoli ed efficaci ai fini della formazione del clima rivoluzionario, dello sviluppo del pensiero
fascista e dell'azione culturale, o più propriamente educativa, condotta dal Regime. È noto che la
prima delle riviste fasciste, Gerarchia, fu fondata da Benito MUSSOLINI come filiazione del Popolo
d'Italia. Si deve anche aver presente, per rendersi conto del rinnovamento giornalistico in Italia, di
uno speciale ramo della stampa nato dal sindacalismo fascista, e quindi dal corporativismo, per la
trattazione dei problemi dottrinari e pratici del nuovo ordine economico-sociale e per la rassegna
delle attività varie e molteplici di questo campo, in cui si concreta uno dei massimi postulati della
Rivoluzione fascista.
Oggi il giornalismo italiano, che fa parte dei quadri della Rivoluzione, ha una attrezzatura
moderna, che lo mette in grado di corrispondere ai fini generali della stampa periodica e a quelli
speciali dell'azione rivoluzionaria.
Largamente integrato dai servizi della radio, questo strumento di informazione, di formazione,
di propaganda, contribuisce a precisare la fisionomia dell'Italia fascista.
Per il suo carattere sintetico, il giornalismo italiano mira alla sostanza delle cose. Disponendo
di fonti informative assolutamente legittime, ha una serietà e una coerenza che invece mancano, in
molti casi, al giornalismo straniero.
La sua assoluta indipendenza lo preserva — giova ripeterlo — da tutte quelle deviazioni cui è
tanto facile assistere fuori d'Italia. È fatto per il popolo e per lo Stato: per questo indissolubile
binomio. Ciò gli consente di concentrare tutta la sua potenza su un campo d'azione degno e
concreto. Non va a caccia di indiscrezioni, non cerca il «colpo di scena», è astronomicamente
lontano dalla «stampa gialla» che continua ad aver fortuna, speculando su istinti inferiori e su
profondi strati di ignoranza, fuori d'Italia.
Nel pensiero e nella pratica fascista, la stampa, pure assolvendo il suo classico compito di
notiziario, è uno strumento di educazione civile; e il bisogno di spiritualità insito nell'indole
nazionale vi si rispecchia. Effettivamente la stampa italiana fa un posto notevole alle attività
culturali e ai problemi d'ordine morale. Il suo vivissimo interessamento per lo sport rientra
anch'esso, oltreché in un campo principale di informazione moderna, negli interessi dell'educazione
fisica, inseparabile dall'ordinamento educativo fondato e sviluppato dal Fascismo.
La notizia, nel nuovo stile dato dal Regime al giornalismo italiano, diventa breve, nitida, tutta
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sostanza. L'inchiesta sui fatti è compiuta con un impegno di chiarezza, che trascura il particolare
senza rilievo.
Tutti gli argomenti offerti dalla vita quotidiana guadagnano da questa stringatezza, la quale
permette anche di moltiplicare e variare le trattazioni. Le così dette «rubriche fisse» (economia,
arte, divulgazione scientifica, ecc.) acquistano, nella brevità, maggiore vivacità ed evidenza. Il
giornale fascista non è discorsivo, è incisivo.
Per l'insieme dei suoi peculiari caratteri, esso richiede una seria preparazione in chi vi eserciti
una qualsiasi funzione. Gli improvvisatori, i dilettanti, non possono e non debbono trovar terreno
nella stampa fascista, che offre un superiore campo di collaudo alle energie dell'intelletto e del
sentimento.
Questa stampa squisitamente politica, ma anche — e per ciò stesso — squisitamente sociale,
consente l'esplicazione di qualsiasi attitudine all'artista di ogni arte come al tecnico di ogni ramo, al
letterato come allo scienziato. Proprio perché la professione giornalistica è stata nettamente
delimitata, differenziata, tutelata, la stampa italiana è aperta alle più varie espressioni del
temperamento e del gusto, dell'intelligenza e della competenza.
Il «mestiere», nel suo peggior significato, scompare. Il sindacalismo fascista, organizzando
anche il settore giornalistico, lo tutela (col dargli la base morale e legale del professionismo)
dall'invasione di elementi estranei, ma nel contempo — coll'eliminare la possibilità di intromissioni
eterogenee — vi accentua la selezione e la graduazione dei valori, spronata dall'intenso dinamismo
che attorno al giornale si sviluppa e di cui esso riceve il riflesso, nella varietà delle collaborazioni
occasionali o sistematiche.
Una delle maggiori prove fornite dal sindacalismo fascista è quella dell'inquadramento delle
professioni liberali già ritenuto impossibile.
Oggi le associazioni sindacali della stampa sono qualcosa di meglio che sodalizi per la difesa di
interessi collettivi. Il sindacato di stampa realizza in pieno il carattere del sindacalismo fascista, che
è, anzitutto, rappresentanza morale; ed esprime infatti la coesione del giornalismo italiano, non in
un interesse proprio, ma in un'idea, in una fede, in un interesse nazionale.
La stampa, in Italia, è opinione, perché esprime la perfetta armonia della coscienza nazionale
col Regime. È anche — come lo è tutto il Fascismo — «milizia civile a servizio della Rivoluzione».
Il giornalismo in Italia nacque, per circostanze politiche, economiche e anche geografiche,
piuttosto tardi, almeno nel suo aspetto moderno. Dopo il Risorgimento subì non poco, per forza di
cose, l'influsso dei modelli stranieri. Generalmente, il suo orizzonte politico si restrinse all'ambito
elettorale e parlamentare, pur non mancando nobili caratteristiche eccezioni.
Rispecchiò anche il regionalismo, che non poteva scomparire, quando l'unità, raggiunta
all'ingrosso sul terreno politico, era ancora da farsi nel mondo dello spirito.
Questa tendenza ostacolò e ritardò lo sviluppo di grandi organismi giornalistici di diffusione e
risonanza nazionali.
Il giornale locale si moltiplicò all'infinito, contribuendo a tener divisa e disorientata la massa
della popolazione.
Il Fascismo si trovò dinanzi a questo stato di cose, quando intraprese la sua battaglia e quando,
diventato Regime, mise mano alla riforma della stampa. Attualmente, esistono ancora dei giornali
locali, ma non esiste più il giornale di Tizio o di Caio.
Tornando e riflettendo su questo fatto, si può misurare la grandezza dell'evoluzione compiuta,
nel Fascismo e per il Fascismo, dalla stampa italiana.
Da questo fatto è provenuta una vera e propria rigenerazione del giornalismo nazionale.
Scomparso il «mestiere», riconquistata la vera libertà, la stampa ha anche ripreso la sua «missione».
La parola abusata esprime la realtà dell'oggi.
Questa missione è altrettanto difficile che elevata. Ma ad essa il Fascismo offre un clima e un
terreno quanto mai propizi. Le idealità rivoluzionarie, le opere della Rivoluzione sono l'ambiente e
l'orizzonte in cui la stampa italiana è chiamata a vivere e a coprire nuove tappe del suo
perfezionamento.
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Il tono di nobiltà, di lealtà, di forza dato dal Fascismo alla vita della nazione; la grandiosità
degli eventi determinati dal Regime sono il viatico della stampa italiana, le mostrano la via, la
sospingono a diffondere idee, visioni, insegnamenti, in armonia con la potenza di slancio che la
Rivoluzione fascista ha dato al nostro popolo.
Il carattere missionario della stampa può rivelarsi, manifestarsi in pieno — all'infuori di ogni
illusione e di ogni demagogica ciarlataneria — soltanto in un Paese in cui esista un simile slancio,
appoggiato su una disciplina interiore, su un ordine effettivo.
Questo carattere è il solo che si debba chiedere alla stampa, anche nel suo lato puramente
informativo; ed è quello dal quale si può giudicare se la funzione della stampa stessa risponda
davvero a un principio di utilità e di bene sociale.
29
V.
TEATRO, CINEMA E RADIO
30
IL teatro, inteso nella sua più generica accezione di «spettacolo», è uno dei fenomeni più
costanti e importanti della vita sociale. Esso accompagna l'evoluzione dei popoli dalle forme più
arretrate a quelle più progredite della civiltà, ovunque e sempre presente come espressione viva dei
concetti, dei gusti, delle aspirazioni delle collettività.
Presso i Greci il teatro tradusse il sentimento religioso, la concezione eroica ed estetica della
vita, il senso critico ed ironico di alcuni aspetti della società, divenendo un formidabile strumento di
propaganda civile e di coesione nazionale. Presso i Romani, pur assumendo un'importanza di gran
lunga minore, il teatro poté essere anche interprete della più alta forma di filosofia esistita prima del
Cristianesimo: lo stoicismo. Procedendo oltre nel tempo, vediamo i popoli medioevali creare
spontaneamente le ingenue rappresentazioni dei misteri, nei quali, con le colorazioni e gli accenti di
una commossa fantasia, sono oggettivate le storie del Signore e dei santi. In tempi più recenti il
teatro esprime volta a volta la suggestione degli esempi classici, il sentimento musicale, la gaiezza e
la frivolità di certi strati sociali, il tentativo d'accedere ad una sfera superiore di poesia, l'amore per
la libertà e per la Patria. Anche limitandoci a considerare le vicende del nostro solo Paese, chi non
ricorda, per esempio, l'azione che hanno esercitato sullo sviluppo del sentimento nazionale i drammi
d'Alfieri, di Niccolini, di Manzoni, le opere di Verdi?
Oggi la tecnica ha aggiunto al teatro tradizionale altre forme di spettacolo e di divertimento,
come il cinematografo e la radiotelefonia; e mentre alcuni supponevano che queste nuove forme
avrebbero soppresso le vecchie, l'esperienza ha dimostrato invece che tutte possono coesistere,
perché rispondono ad esigenze pratiche ed estetiche diverse. Il solo, vero risultato che si è raggiunto
è questo: che oggi tutti i cittadini di una stessa Nazione, anche quelli dimoranti nelle più lontane
campagne, sentono di partecipare ad una comune vita sociale, e nessuno ormai può sottrarsi
all'influenza delle idee e degli esempi propagati dai vari tipi di spettacolo. Il teatro, il vecchio e
tradizionale teatro, conserva tuttora il suo prestigio e la sua influenza, anche politica, sulle folle:
basterebbe ricordare, per esempio, che in tempi vicinissimi a noi, in un paese d'oltr'Alpe, il
Coriolano di Shakespeare è divenuto la bandiera intorno alla quale s'è imperniato un vasto
movimento popolare. È quanto dire che lo Stato fascista non può disinteressarsi d'un fenomeno che
ha tanta importanza per l'evoluzione dei costumi, delle idee, delle aspirazioni d'un popolo. Non si
possono lasciare senza controllo nelle mani di gruppi particolari mezzi così potenti d'educazione e
di propaganda; anche lo spettacolo deve piegarsi alle esigenze d'ordine generale, proponendosi delle
finalità armonizzanti con quelle, superiori, dello Stato fascista. Del resto, questo interessamento
dello Stato non preclude la via alle iniziative individuali, indispensabili per la fioritura dell'arte,
anzi, molto spesso, prende la forma d'aiuti e d'incoraggiamenti. Si viene così logicamente a
considerare anche l'aspetto economico del problema dello spettacolo, che non è senza peso nella
vita di una Nazione. Come il Fascismo abbia inserito il mondo dello spettacolo nell'organizzazione
sindacale e corporativa, adottando per i lavoratori di questo ramo provvidenze analoghe a quelle
vigenti in altri campi, si vedrà meglio più oltre. Qui preme rilevare che il Fascismo non s'è
accontentato d'adattamenti comodi e artificiosi, ma ha inteso risolvere il problema nella sua
integralità.
Tutti ricordano che in Italia, specialmente nel periodo del dopoguerra, hanno imperversato
commedie e altri spettacoli d'origine straniera, spesso imitati anche da noi, che non conoscevano
altro contenuto che il piccolo mondo delle persone tronfie e mediocri che trascinano la loro pietosa
esistenza tra i salotti e i tabarini. Questo mondo è estraneo all'autentico popolo italiano, quello dei
campi e delle officine, delle aziende e dei laboratori, al progresso del quale tende il Fascismo con
tutte le sue forze. Perciò il teatro fascista, come ha detto il DUCE, dev'essere un teatro di «massa».
Questa parola ha dato origine a discussioni e polemiche, nelle quali non è il caso d'entrare. È certo
però che il significato fondamentale dell'espressione «teatro di massa» vale come indirizzo artistico
che si rivolga ai sentimenti più elementari, profondi e nobili dell'anima umana, rendendosi
immediatamente comprensibile alle folle; ciò che non toglie tuttavia che allo stesso concetto non
faccia capo quella politica, oggi in pieno sviluppo, che tende a rendere i teatri accessibili a un gran
numero di persone, sia contemporaneamente con la costruzione di vasti locali, sia gradualmente per
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mezzo della riduzione dei prezzi.
È chiaro dunque quello che il Fascismo attende dal suo teatro: rotto l'incantesimo del mondo
piccolo-borghese, che sembrava il tema obbligato dei commediografi moderni, il teatro fascista
deve portare sulla scena azioni e passioni alte e virili, capaci di scuotere profondamente l'animo
delle folle, risvegliandone le voci migliori. La fede, la passione patriottica, le conquiste del lavoro,
il poema del sacrificio e tutte le altre qualità ed idealità umane che il Fascismo celebra nella sua
dottrina, e ancor meglio nella sua opera quotidiana, sono degno alimento dell'arte compiutamente
fascista. Non diversa è l'ispirazione che ha fatto grandi i drammi di Sofocle, di Seneca, di
Shakespeare, di Corneille, d'Alfieri, i quali hanno superato i secoli perché degli elementi contingenti
non hanno fatto il contenuto della loro arte, ma soltanto l'occasione per attingere le vette del
pensiero e della poesia.
Il Fascismo rifiuta come non suoi, come incompatibili con le esigenze di un'arte vera, e come
dannosi per il gusto del popolo italiano, tutti i tentativi di lanciare un teatro d'ambiente ristretto,
preoccupato unicamente di descrivere con maggiore o minore compiacenza i fatterelli di una società
mediocre, o d'analizzare le involuzioni cerebralistiche di qualche mattoide. La superficialità, il
cerebralismo e il conseguente scetticismo sono quelle tare che la rivoluzione fascista ha già
soppresso da tempo nella vita politica e che non sono più tollerabili nemmeno nel dominio dell'arte,
ove deve entrare lo stesso soffio possente che ha rinnovato la vita nazionale.
Il nostro teatro, che era decaduto per mancanza d'una superiore concezione della vita e d'una
forte fede nazionale, trova ora il terreno adatto per preparare la sua rinascita; il teatro, e ugualmente
il cinema e la radio, possono e devono elevarsi alle sfere superiori dell'arte, distinti dal suggello
inconfondibile della loro italianità.
Il primo passo per dare un'unità economica e spirituale al mondo del teatro fu iniziato dal
Fascismo con l'istituzione della Corporazione del Teatro, alla quale fanno capo due Federazioni. Gli
sviluppi successivi del problema hanno reso poi necessaria la fondazione di un altro organo:
l'Ispettorato del Teatro (1935), che funziona in seno al Ministero per la Stampa e Propaganda.
Prima dell'anno XIII (1935) il Regime non era intervenuto in iniziative artistiche private, se non
in via eccezionalissima, con aiuti singoli. Con l'Ispettorato, il teatro è per la prima volta considerato
come corpus artistico, anima e tecnica, sostanza e forma. Si provvede a risanarlo in toto, con una
serie di provvedimenti per cui arte, educazione, economia, non sono che aspetti connaturati ed
inseparabili d'uno stesso spirito.
Elencheremo qui i provvedimenti in forma schematica, poiché assai spesso essi sono ancora da
attuare e determinabili soltanto nelle grandi linee.
1. - È abolita ogni iniziativa personale di mediazione per l'accaparramento degli artisti ed è
abolito il trust delle commedie straniere. L'Ispettorato ha creato appositi uffici che regolano tanto
l'introduzione dei lavori stranieri, quanto la loro distribuzione alle compagnie, alla cui formazione
l'Ispettorato stesso presiede e concorre finanziariamente.
2. - L'Ispettorato regola il giro delle compagnie (prosa e operette) per le varie piazze, creando
ritmi proporzionati alle risorse locali ed evitando concorrenze e dispersioni. I provvedimento che
coronerà le disposizioni in questo campo sarà il riscatto di tutti i teatri comunali d'Italia, cui il
Regime s'accinge con enorme sollievo di tutte le compagnie, ostacolate nella loro circolazione da
vecchi canoni spesso esosi.
3. - Sono in progetto tre teatri di Stato per la prosa, stabili, le cui compagnie sono ancora da
formare. In via d'esperimento, l'Ispettorato ha creato una Compagnia dei grandi spettacoli, che ha
debuttato con un programma di grandi novità al Lirico di Milano.
4. - È creato il «Sabato Teatrale», una delle più moderne istituzioni, tutta italiana. Questa
permette agli operai e ai piccoli impiegati, per cui i prezzi dei grandi spettacoli erano qualcosa di
proibitivo, un accesso dignitoso ai più insigni teatri di musica e di prosa. Con prezzi minimi (di lire
1 o 2 o 3 o 4 al massimo) operai e piccoli impiegati accedono alle sedie e alle poltrone e ai palchi
di teatri rimasti sempre inaccessibili per gli umili. Questa istituzione è stata creata d'accordo con
l'Opera Nazionale del Dopolavoro, già benemerita della vita teatrale italiana per l'istituzione del
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Carro di Tespi, di prosa e lirico.
5. - Per cura del Ministero dell'Educazione Nazionale, si è riordinata ex novo l'Accademia
«Eleonora Duse», dotandola di vasti locali e d'esperti insegnanti. È una scuola integrale del teatro
(regia, trucco, recitazione, ecc.).
6. - Si è formata anche, per iniziativa dell'Ispettorato, una Compagnia dei Giovani, che ha il
compito di presentare soltanto lavori di giovani.
Nelle giovanili iniziative dei Littoriali, il Regime è intervenuto con fervidi incoraggiamenti.
Com'è noto, il G. U. F. di Firenze s'è segnalato in questo campo per mirabile slancio. È il G. U. F.
che ha creato un vero Teatro Sperimentale, assurto a fama nazionale con la rappresentazione di sette
od otto notevolissime cose.
Il Regime Fascista non ha voluto, come altrove è accaduto, far del cinema un'industria ed un
monopolio di Stato. Ha preferito lasciarlo all'industria privata, dando alla produzione una forte unità
ed una sicura guida.
Istituiva all'uopo, con decreto-legge 28 settembre 1934-XII, n. 1566, la Direzione generale
della Cinematografia presso il Ministero per la Stampa e la Propaganda. A promuovere la
produzione nazionale, la Direzione era ben presto dotata d'un originale congegno finanziario che
merita d'esser visto con precisione.
La concessione di anticipazioni a favore della produzione nazionale è stata decisa dal Consiglio
dei Ministri in data 31 marzo 1935-XIII; il decreto è apparso sulla Gazzetta Ufficiale dell'8 luglio
1935-XIII (legge n. 1143). Per tale decreto il Ministero per la Stampa e la Propaganda è autorizzato
a concedere agli industriali cinematografici che ne facciano domanda, anticipazioni sulla
produzione di pellicole cinematografiche nazionali. Un fondo speciale è costituito a tale fine presso
il Ministero per le Finanze, nella misura di 10.000.000 di lire annui, per 5 esercizi finanziari a
partire dall'esercizio 1935-36. Presso il Ministero è costituita una «Sezione credito
cinematografico» ed un Comitato che decide sulla concessione. La concessione è subordinata
all'approvazione (da parte della Direzione generale per la Cinematografia) del soggetto, della
sceneggiatura, del piano finanziario e del piano di lavorazione, nonché all'accertamento della
idoneità finanziaria e tecnica del richiedente. L'anticipazione non può superare l'importo di un terzo
della spesa direttamente inerente alla produzione della pellicola: ed è corrisposta gradualmente, a
misura del bisogno, dopo che il produttore abbia dimostrato di aver erogato in proprio la quota di
spesa che deve rimanere a suo carico. Le somme introitate per il noleggio, come pure le quote
realizzate con lo sfruttamento della pellicola all'estero, sono anzitutto devolute al produttore sino a
totale reintegrazione della quota di spese da esso sostenuta e successivamente allo Stato fino al
completo rimborso della sua anticipazione. Qualora lo Stato non ottenga l'integrale recupero della
propria anticipazione, la differenza non rimborsata sarà prelevata dai proventi realizzati con altra
pellicola fabbricata dallo stesso produttore, con le agevolazioni previste dal decreto. (Il regolamento
relativo alla attuazione di questo decreto è apparso nella Gazzetta Ufficiale del 30 settembre 1935-
XIII; decreto ministeriale, col numero 3362).
Dei 10.000.000 annui così attribuiti al finanziamento della produzione cinematografica
nazionale, 6 vengono distribuiti annualmente dal Ministero per la Stampa e la Propaganda,
attraverso la Direzione generale per la Cinematografia, e 4 vanno a costituire la metà del fondo del
credito bancario cui si accenna in seguito. Sui finanziamenti concessi attraverso la «Sezione credito
cinematografico» del Ministero Stampa e Propaganda, che hanno forma di anticipazioni, lo Stato
non preleva interesse o beneficio di alcun genere.
Per aumentare ancora le disponibilità a favore degli industriali, si è organizzato poi un credito
bancario. Con decreto 14 novembre 1935-XIV, n. 2504, è istituita presso la Banca Nazionale del
Lavoro una Sezione autonoma per il credito cinematografico (che era già prevista dal decreto
precedente sulle anticipazioni). Tale Sezione è costituita in ente morale, con patrimonio separato e
gestione distinta da quella della Banca Nazionale del Lavoro, ed è sottoposta alla vigilanza del
Ministero delle Finanze, di concerto col Ministero per la Stampa e la Propaganda. La Sezione
esercita il credito cinematografico in forma di mutuo, non eccedente il 60 % del costo globale di
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produzione della pellicola. I mutui sono concessi soltanto a quei film che hanno avuto
preventivamente la autorizzazione del Ministero per la Stampa e la Propaganda, attraverso i
competenti servizi della Direzione generale per la Cinematografia. Qualora il richiedente abbia
ottenuto per la produzione della stessa pellicola anticipazioni a norma del decreto precedentemente
indicato, da parte della Sezione credito cinematografico del Ministero Stampa, l'ammontare del
mutuo concesso dalla Sezione del credito bancario dovrà essere ridotto dell'importo corrispondente
a tale anticipazione. Il fondo di dotazione è costituito da una compartecipazione dello Stato per
20.000.000 da prelevarsi in rate annuali di 4 milioni sui fondi stabiliti dal decreto precedente, e da
un apporto di 20.000.000 della Banca Nazionale del Lavoro, da versarsi in due rate annuali. Il fondo
così costituito per un totale di 40.000.000 di lire, può essere aumentato con conferimento di altre
istituzioni, non inferiori a L. 1.000.000. Gli utili netti della Sezione, detratta una quota non minore
del 20 %, da assegnarsi alla riserva, andranno ripartiti tra lo Stato, la Banca e gli altri eventuali
partecipanti. La quota di utili spettante allo Stato sarà devoluta ad incremento della riserva. (Il
decreto concernente la costituzione di tale Sezione di credito bancario è apparso nella Gazzetta
Ufficiale del 22 febbraio 1936-XIV).
I mutui della Sezione di credito bancario sono concessi ad un determinato tasso di interesse non
ancora fissato dal Consiglio di amministrazione della Sezione stessa. Tale interesse avrà comunque
carattere di favore e sarà estremamente mite.
Infine, la produzione nazionale è incoraggiata da vistosi premi. Con decreto 5 ottobre 1933, n.
1414 (pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale dell'11 novembre 1933-XII) parzialmente modificato con
decreto 20 luglio 1934, n. 1301 (pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale del 16 agosto 1934-XII), il
Ministero delle Finanze, su richiesta del Ministero per la Stampa e la Propaganda, stanzia
annualmente una somma di L. 2.000.000, tratta dagli introiti della tassa di doppiaggio dei filmi
stranieri, fissata in lire 30.000 per film. Tale somma è impiegata per il pagamento di premi alle
pellicole di produzione nazionale, proiettate nelle sale del Regno durante il periodo tra il 1° luglio e
il 30 giugno, corrispondente al periodo dei bilanci statali, che presentino pregi di dignità artistica e
di esecuzione tecnica. Per essere riconosciute come nazionali, le pellicole debbono avere i seguenti
requisiti: a) il soggetto deve essere di autore italiano o ridotto o adattato da autori italiani; 6) la
maggioranza del personale artistico ed esecutivo deve essere italiana; e) gli interni e gli esterni
(salvo particolarissime eccezioni) debbono essere stati girati in Italia. L'attribuzione dei premi viene
fatta da una Commissione nominata per decreto dal Ministro per la Stampa e la Propaganda e
presieduta dal Direttore generale per la Cinematografia. L'assegnazione della somma da destinarsi
in premio ad ogni pellicola è fatta dal Ministero per la Stampa e la Propaganda, sentito il parere
della Commissione.
Con gli stessi decreti legge suindicati si stabilisce che i produttori di pellicole nazionali i quali
eseguano o facciano eseguire in Italia adattamenti supplementari in lingua italiana di pellicole
sonore estere, sono esonerati dalla tassa di doppiaggio, fissata in L. 30.000 per ogni film (con
recente decreto), in ragione di tre adattamenti (doppiaggi) per ogni pellicola nazionale prodotta. Si
tratta, quindi, di un beneficio fisso di L. 90.000 per ogni film prodotto.
La produzione nazionale è anche favorita da un sistema di provvidenze che riguardano il
cosiddetto «contingentamento» e le condizioni di noleggio. Con legge 13 giugno 1935-XIII, n. 1083
(intervenuta a parziale modifica del decreto legge 5 ottobre 1933 e della legge 5 febbraio 1934), è
fatto obbligo agli esercenti delle sale cinematografiche in tutto il Regno e per tutte le categorie di
cinema, di proiettare, per ogni tre pellicole cinematografiche sonore di produzione non nazionale,
una pellicola cinematografica sonora ad intreccio, di metraggio non inferiore ai 1500 metri, di
produzione nazionale, secondo i principi precedentemente stabiliti nei confronti dei premi. Le
pellicole da proiettarsi per effetto di questo decreto, debbono essere prodotte interamente nell'ultimo
biennio: ad evitare che tornino in circolazione vecchi filmi, in frodo alla legge. In ogni caso
dovranno essere proiettate per ogni trimestre non meno di tre pellicole nazionali aventi i requisiti
sopraccennati. Il Ministero per la Stampa e la Propaganda potrà variare con suo provvedimento la
proporzione delle pellicole nazionali da proiettarsi obbligatoriamente rispetto a quelle straniere, in
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relazione allo sviluppo della produzione cinematografica nazionale.
Con lo stesso decreto si stabilisce che le condizioni di noleggio delle pellicole nazionali non
possono essere meno favorevoli di quelle che si praticano per le pellicole di produzione estera di
pari importanza, e che con uno stesso contratto non potranno essere noleggiate insieme pellicole
nazionali e pellicole di produzione estera.
Da questo grandioso e ingegnoso sistema di provvidenze, la produzione nazionale è avviata
verso un degno avvenire di cui è simbolo la Città cinematografica che sta sorgendo nelle immediate
vicinanze di Roma: il più vasto «insieme» di teatri e di laboratori che abbia oggi l'Europa.
Ed è sorta intanto, a cura della Direzione generale, anche una fiorente scuola integrale
cinematografica, col nome modesto di «Centro sperimentale di cinematografia». Questa scuola,
originale modello, avrà tra poco una vasta sede propria e comprende già i seguenti corsi: Regia e
Recitazione - Estetica cinematografica - Tecnica ottica - Tecnica sonora - Scenografia e Corsi
complementari - Dizione - Direzione di produzione - Musica - Trucco - Storia del costume - Storia
della cinematografia - Legislazione - Educazione fisica.
La scuola è già frequentatissima, poiché il cinema nazionale attrae sempre più le giovani
energie dell'Italia fascista. Di quest'attrazione è già un'insigne prova anche nell'attività dei Cine-
GUF, mirabile per qualità e per quantità, come ha dimostrato la classifica dei filmi a passo ridotto
presentati alla Mostra cinematografica internazionale di Venezia dell'anno XIII-1935. I Cine-GUF
formano ormai, nel loro insieme, un vivaio nazionale di cineasti.
Nel campo internazionale l'Italia occupa una posizione preponderante per l'assistenza fornita
all'Istituto internazionale di cinematografia educativa, che ha sede in Roma. Il compito della
propaganda e della documentazione nazionali spetta all'Istituto L. U. C. E., del quale tutti gli Italiani
conoscono l'attività. Una sezione dell'Istituto segue attualmente le vittoriose campagne dei nostri
soldati in Africa Orientale.
Creata dal genio inventivo d'un grande Italiano, la radio deve al Regime fascista il suo sviluppo
e il suo potenziamento.
In poco più che un decennio (la prima stazione, quella di Roma, fu attivata nell'ottobre del
1924) è diventata la più rappresentativa voce della civiltà nazionale. Affidata all'Ente Italiano
Audizioni Radiofoniche (Eiar), essa ha nello Stato fascista l'animatore ed il moderatore ad un
tempo.
Lungi dal poter dirsi perfetta, questa voce cerca ancora la pienezza dell'estensione ed il segreto
della profondità. Merita quindi d'essere studiata particolarmente dai giovani, poiché rappresenta un
mondo nuovo, che offre ancora immense regioni ai pionieri dello spirito, dell'arte, della tecnica. Gli
estetizzanti che la disprezzano non vedono le cose che in superficie. La radio, una volta acquistata
una sicura, tecnica e stilistica nozione delle sue possibilità, evolverà secondo una estetica autonoma:
avrà una propria creatività non meno artistica e non meno originale che quella del cinema.
Nel nostro paese, senza l'intervento del Regime, sarebbe ancora al caos, perché, abbandonata a
sé stessa, non avrebbe mai trovate le forze per progredire e neppure per sostenersi. I molti milioni
d'abbonati che altri Paesi han dato alla radio nazionale, son mancati alla nostra, che languirebbe
ancora se non fosse stata sorretta per tempo dall'iniziativa generosa di privati e dall'illuminata
volontà del Ministro Costanzo Ciano. Ad un anno appena da quella di Roma, nel 1925, era
inaugurata la stazione di Milano, e le altre si susseguivano con tal ritmo che nell'anno XII la rete
radiofonica italiana contava già quattordici impianti trasmittenti, con una potenza complessiva di
190 kw-antenna: e aveva già in progetto altre grandi stazioni, come quella di Bologna.
La rete radiofonica può essere ormai compresa fra le opere potenti e squisite dell'Italia fascista
e tra quelle destinate a più fiorente sviluppo. «Tale rete — notava l'Annuario Eiar dell'anno XIII —
che è suscettibile d'essere collegata con quella musicale europea attraverso i cavi di Tarvisio,
Chiasso e Modane, sta per essere completata mediante gli allacciamenti di Bolzano a Milano e di
Napoli a Palermo, il primo dei quali, in mancanza di cavi telefonici adatti, è stato effettuato per
mezzo di un impianto telefonico musicale con correnti ad alta frequenza, convogliate su linee
aeree».
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Uno degli impianti esemplari, che meritano d'essere visitati per la meravigliosa complessità, è
quello per la trasmissione mondiale ad onde corte da Roma-Prato Smeraldo. «Portata la potenza a
20 kw-antenna, questa stazione trasmittente ha oggi la possibilità di fare le trasmissioni con quattro
diverse onde, in guisa da poter raggiungere i vari continenti, nelle varie stagioni, scegliendo o l'una
o l'altra delle onde. Degli aerei direzionali fanno convergere l'energia irradiata verso l'America del
Nord o del Sud, il Sud Africa e l'Estremo Oriente».
Lo spettacolo di queste antenne direzionali, che da Roma segnano ed aprono alle onde le vie
del cielo, è uno dei più originali che l'Italia nuova possa offrire a fantasia di poeta.
Il DUCE ha particolarmente favorito cotesto accentramento dei grandi impianti in Roma, e dei
più vivaci organi della propaganda radiofonica. Egli ha voluto che la Radio italiana diventasse
sempre più educatrice all'interno e dominatrice all'estero. «Con questa mole d'impianti —
concludeva l'Annuario dell'Eiar per l'anno XIII — che porteranno la potenza installata complessiva
a 450 kw-antenna, e particolarmente con le caratteristiche dei nuovi potenti trasmettitori di Roma-
Santa Palomba, non solo risulteranno notevolmente migliorate le ricezioni in ogni punto della
Penisola, ma sarà data la possibilità agli ascoltatori di fare uso di apparecchi riceventi semplici e di
basso costo. E la voce di Roma potrà raggiungere i più lontani paesi e continenti, con potenza
pienamente adeguata all'importanza che, per l'impulso e la guida del DUCE, essa ha assunta nel
mondo».
Ed ora che abbiamo dato un'occhiata agli impianti, vediamo gli organi culturali più
caratteristici, creati o sviluppati dal Regime. Innanzi tutto il Regime, con legge 15 giugno 1933,
anno XI, n. 791, creava la Radio Rurale, ente statale che funziona in seno al Ministero delle
Comunicazioni, alle dirette dipendenze del Segretario del Partito, e con la stretta collaborazione dei
Ministeri dell'Educazione Nazionale e dell'Agricoltura e Foreste.
«Il villaggio deve avere la radio» aveva ammonito il DUCE in un articolo sul Popolo d'Italia: e,
per merito del DUCE, la Radio Rurale non è soltanto nata ma ha anche avuto uno straordinario
impulso. In ogni Comune, per disposizione del Segretario del Partito (Fogli di disposizioni: n. 202 e
286) il Segretario politico, mettendosi d'accordo con le autorità locali, politiche, scolastiche,
agricole, ha il compito di suscitare e di coordinare le iniziative nell'intento di assicurare a tutte le
scuole rurali del Comune la disponibilità d'un apparecchio ricevente, e di riferire al Segretario
federale da cui dipende sui risultati ottenuti. La radio sta conquistando la campagna gradualmente,
attraverso uno sforzo metodico e intensivo, cui partecipano, come si vede, tutti gli organi, centrali e
locali, del Regime.
Il Ministero Stampa e Propaganda ha dato ora la spirituale unità ai vari organi della Radio,
intensificandone e coordinandone le funzioni politiche e culturali. È nella memoria di tutti
l'imponente adunata del 2 ottobre 1935-XIII, nella quale il popolo italiano dichiarava alta al mondo
la sua volontà di affrontare la lotta per assicurare il proprio destino. Mentre una emissione speciale
era creata per gli Italiani del bacino del Mediterraneo, altre emissioni di propaganda in lingue
straniere erano ideate per l'Europa continentale e per le Americhe. La radio è diventata così un
vivido centro mondiale d'irradiazione: il più vasto e sensibile strumento di divulgazione, che il
nuovo Ministero abbia in suo potere. Dopo aver cominciato, una diecina d'anni or sono, con
un'umile rubrica educativa, il «Cantuccio dei bimbi», la radio finiva col trovare la più vigorosa voce
di propaganda politica nelle «Cronache del Regime». Il più rappresentativo fra i nuovi organismi
radiofonici, il «Giornale Radio», passava da Milano a Roma, sotto il diretto controllo del Ministero,
ed è oggi affidato, per la direzione politico-artistico-culturale, all'Ispettorato del Teatro, che gli sta
dando nuova vita.
Il «Giornale Radio» s'è venuto costituendo come un vero e proprio grande organismo
giornalistico, con una originale fisionomia e peculiari funzioni informative ed educative. Ha anche
creato, attraverso una rete di corrispondenti e collaboratori specializzati, rubriche geniali, come «Le
voci del Mondo». Quest'ultima, ch'è la radiofonica per eccellenza, ed ha, come tale, un grande
avvenire, ha aperto alla radio il cosmo delle voci naturali e delle sociali, come un unico immenso
teatro. Abbiam potuto discendere, con la radio italiana, nel cratere del Vesuvio, ed udire il rantolo
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sommesso dello «sterminator Vesevo». «Con il trillare degli uccelli è stato raccolto il pianto dei
neonati, con il rombare delle macchine le melodie delle foreste; con i balbetti dei selvaggi le parole
degli illuminati. Voci! Canti! Poesia! Tutta poesia. La radio, per chi sta ad ascoltarla, cioè per chi sa
astrarsi dalla mediocre realtà che è in tutte le cose umane, trasforma, ricercandone e svelandone
l'essenza, ogni voce del mondo, se schietta e sincera, in poesia».
Si è polemizzato, in Italia, su i caratteri e i limiti del «Giornale Radio». Qualcuno ha sostenuto
che la radio è, di per sé, tutta un giornale, cui si tratterebbe di dare una peculiare impronta artistica.
Altri ha sostenuto che un giornale radiofonico ha un compito informativo ed uno stile suoi propri,
inconfondibili. L'esperienza ha dimostrato quanto delicato e singolare sia il compito
dell'informatore radiofonico e quanto sia difficile educare un vero radio-reporter.
L'esperienza ha dimostrato (e la cosa ha un particolare interesse per le iniziative artistiche del
GUF) che il cronista radiofonico, quand'è un semplice narratore o commentatore d'avvenimenti
estemporanei e non lascia pervenire al radiouditore la loro voce naturale, finisce col diventare, per
quanto dotato di virtù oratorie, inefficace e noioso. Il fatto deve parlare insieme con la voce del
narratore, approfondendola e vivificandola nella spirituale realtà. Il cronista radiofonico è non lo
spettatore ma il protagonista d'un dramma sinfonico.
S'apre dunque con la radio, all'iniziativa dei giovani, tanto una drammaturgia narrativa quanto
una drammaturgia documentaria pura, che fa d'una voce umana lo spirituale centro interpretativo
d'una sinfonia naturale o sociale. Il Giornale Radio ha già promosso documentari di questo genere,
illustrando «la Casa delle locomotive», «la Giornata del Soldato», «l'Opera Maternità e Infanzia».
Il «Giornale Radio» è insomma in isviluppo anche da questo lato artistico-documentario. Oltre
il notiziario vero e proprio, comprende conversazioni e rubriche di carattere politico, letterario,
scientifico ecc. anche se queste, per ragioni d'ordine pratico e per non appesantire le varie emissioni,
vengono distribuite in altri momenti e non fanno «corpo» col giornale stesso. Molte di queste
rubriche sono state istituite direttamente per interessamento del Regime: altre sono da esso
controllate.
In conclusione, la Radio appare ogni giorno più come una fusione originale d'un giornale sui
generis con un teatro sui generis: e le «ore» radiofoniche esperimentate da qualche GUF hanno, di
solito, perfettamente intuito questa funzione geniale della Radio nella cultura nazionale, che la
televisione sta per rendere ancor più complessa.
È indubitabile che la funzione artistica educativa della rappresentazione ottenuta dal concorso
dei mezzi che possono portarla dinanzi a grandi masse di popolo sarà incomparabilmente più grande
che per il passato. Più grave e ancor più nobile sarà il compito di chi dovrà creare il vero «teatro» di
domani.
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VI.
GLI ISTITUTI CULTURALI
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UNA profonda azione di rinnovamento ha esercitato il Fascismo nei riguardi degli studi storici.
In questo campo agivano numerosissimi organismi specializzati, molti dei quali avevano preceduto
e accompagnato la formazione della nostra unità nazionale. L'opera da essi svolta, pur ragguardevole
per mole e per serietà scientifica, era tuttavia menomata dalla eccessiva difformità di
ordinamenti e dall'isolamento regionalistico. La necessità di un coordinamento era sentita già da
lungo tempo; la fondazione dell'Istituto storico italiano nel 1883 venne infatti incontro a tale
desiderio, ma non corrispose alle aspettative, perché l'Istituto, organo di un regime demoliberale,
non poté essere dotato d'autorità sufficiente a vincere le resistenze. L'Istituto storico, rinunciando ad
ogni azione organizzativa, si limitò al compito scientifico, che assolse ottimamente colla
pubblicazione delle fonti storiche del medioevo. Il Fascismo trovò dunque la situazione immutata,
anzi resa sempre più confusa dal fatto che nel frattempo erano sorte altre numerose istituzioni che
venivano ad aumentare la già eccessiva varietà di quelle preesistenti.
L'opera definitiva di sistemazione, che non poteva più essere procrastinata, fu iniziata dal
ministro Ercole e condotta a termine dal suo successore De Vecchi, che vi si è dedicato con
particolare attenzione. Alla sommità della gerarchia è stata posta una Giunta centrale per gli studi
storici, di undici membri, scelti fra le persone più competenti nel campo degli studi e
dell'organizzazione scientifica. Organi della Giunta sono quattro istituti che abbracciano nella loro
attività tutta la storia nostra dalle epoche primitive all'età contemporanea. Essi sono il R. Istituto
italiano per la storia antica, fondato nel 1935; il R. Istituto storico italiano per il medioevo,
proveniente dalla trasformazione dell'antico Istituto storico italiano; il R. Istituto storico italiano per
l'età moderna e contemporanea, fondato nel 1934; il R. Istituto per la storia del Risorgimento
italiano, proveniente dalla fusione e nuova organizzazione del Comitato nazionale per la storia del
Risorgimento e della Società nazionale. Altra creazione notevole ed originale dell'età fascista sono
le scuole storiche aggregate agli istituti, delle quali fanno parte professori di ruolo, od anche
persone estranee all'amministrazione, che abbiano dimostrato di possedere particolari attitudini nel
campo degli studi storici. Ai quattro istituti storici accennati è stato aggiunto di recente un quinto, il
R. Istituto italiano di numismatica, fondato col R. decreto-legge 3 febbraio 1936-XIV, n. 223. Esso
ha il compito di «promuovere gli studi di numismatica e di sfragistica, nonché l'incremento delle
pubbliche raccolte relative, in collaborazione con le regie Sovraintendenze artistiche ed
archeologiche». Ricordiamo anche, così di sfuggita, che lo stesso decreto-legge preannunzia il
prossimo riordinamento di tutte le società numismatiche del Regno. Agli istituti fanno capo gli
organi periferici, e cioè le regie Deputazioni di storia patria ed i Comitati provinciali per la storia
del Risorgimento.
Le Deputazioni hanno subito un radicale riordinamento nel 1935. Per quanto riguarda la parte
istituzionale, esse sono state ridistribuite con un criterio compartimentale: cioè ogni regione italiana,
all'incirca, forma l'ambito dell'attività di una deputazione. Naturalmente in alcuni casi è stato
necessario procedere a delle divisioni (regia Deputazione per le antiche Provincie e la Lombardia,
scissa nelle quattro Deputazioni per il Piemonte, la Lombardia, la Liguria e la Sardegna); in altri
casi a delle nuove creazioni (regie Deputazioni napoletana, per le Puglie, per la Calabria, ecc.); ed
in altri ancora a delle soppressioni o fusioni (Deputazioni per il Friuli, per le Provincie modenesi e
per le Provincie parmensi, ecc.). È utile però osservare che in generale le nuove creazioni sono state
poggiate su Enti o società preesistenti, e che le soppressioni sono in realtà delle trasformazioni,
poiché gli organismi interessati continuano ad esistere con figura giuridica di «sezioni» delle regie
Deputazioni. In totale le Deputazioni sono diciassette, comprese le due nuovissime create per Rodi
e per Malta, le quali hanno una speciale organizzazione poiché la loro opera culturale si svolge in
un settore che interessa particolarmente anche nazioni e studiosi stranieri.
Per quanto riguarda la parte costituzionale le Deputazioni hanno ricevuto un ordinamento che
presenta i caratteri tanto degli organismi di tipo associativo libero quanto di quelli a numero limitato
di membri. Gli appartenenti alle Deputazioni si distinguono infatti in due categorie principali ben
distinte: deputati e soci. I primi sono di nomina ministeriale, hanno l'obbligo di partecipare
attivamente alla vita della deputazione e non possono eccedere un certo numero; i secondi sono
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ammessi invece in numero illimitato e non hanno obblighi particolari. La direzione è affidata a dei
presidenti responsabili, che sono assistiti da consigli direttivi, e sono nominati dal Re su proposta
del Ministro dell'Educazione Nazionale; essi alla loro volta possono nominare alle cariche esecutive
persone di loro fiducia.
Le minori società di studi storici esistenti nella giurisdizione d'una deputazione sono divenute
sezioni di essa, partecipando alla sua personalità giuridica; tuttavia sono state stabilite varie norme
che salvaguardano la loro libertà scientifica ed amministrativa.
I Comitati per la storia del Risorgimento, a differenza delle deputazioni, sono provinciali e
quindi molto più numerosi.
Tale ordine si spiega per il fatto che essi svolgono un'azione che ha una rispondenza più vasta
nell'animo del popolo, il quale vibra sempre al ricordo degli eroi e dei martiri del Risorgimento.
L'attività della Giunta centrale rispetto alle Deputazioni ed ai Comitati si esplica tanto nel
campo scientifico che in quello amministrativo; essa ha infatti il compito essenziale di approvare i
piani di lavoro ed i bilanci finanziari degli organi da essa controllati, piani e bilanci che devono
essere presentati annualmente in via preventiva ed in sede consuntiva.
La Giunta centrale ha inoltre una funzione molto importante, costituita dai rapporti che essa
mantiene con il Comitato internazionale di scienze storiche, ch'è la massima organizzazione
internazionale in questo campo. Il Comitato, fondato nel 1926, promuove gli studi storici d'interesse
generale per mezzo di numerose commissioni, delle quali fanno parte membri d'almeno cinque
Nazioni; sollecita dalle Autorità governative dei vari Paesi le informazioni ed i provvedimenti più
utili per il progresso delle scienze storiche; organizza infine ogni cinque anni i congressi
internazionali, che hanno una vasta risonanza nel mondo degli studiosi. L'Italia ha partecipato
sempre attivamente ai lavori delle commissioni e dei congressi internazionali per mezzo di un
apposito Comitato nazionale, il quale è stato recentemente (1935) assorbito dalla Giunta Centrale.
Considerata nel suo complesso, la nuova organizzazione degli studi storici in Italia appare
come una costruzione snella ed armonica. La concezione unitaria e la visione dei fini nazionali che
sono alla sua base, come la pratica semplicità del suo funzionamento, sono i segni inconfondibili
che le ha impresso il genio del Fascismo.
Nella sua squisita sensibilità rivoluzionaria il Fascismo ha sentito subito la necessità di avere a
sua disposizione organi che potessero svolgere un'attività d'alto valore morale, politico e scientifico
tra il pubblico colto, senza barriere o impedimenti di alcun genere. Son sorti così numerosi gli
Istituti fascisti di cultura, che sostituiscono le vecchie e caotiche università popolari. Il loro centro
coordinatore è l'Istituto nazionale fascista di cultura che ha sede in Roma e svolge la sua attività per
mezzo della sua rivista Civiltà Fascista, di una serie di pubblicazioni e di conferenze.
Altri enti di notevole importanza sono l'Istituto italo-germanico, l'Istituto nazionale del dramma
antico, l'Istituto di diritto internazionale, l'Istituto per il medio ed estremo Oriente.
Troppo tempo e spazio richiederebbe stabilire una lista completa di tutte le altre istituzioni
culturali create dal Fascismo.
L'Istituto di studi romani, fondato nel 1925, promuove ed organizza, le ricerche e le
divulgazioni scientifiche in tutti i campi del sapere che interessano Roma e la civiltà latina. Tra le
attività sue più notevoli sono da citare l'organizzazione dei congressi, i corsi di conferenze, la
fondazione di una biblioteca romana, la creazione d'uno schedario centrale di bibliografia romana,
la preparazione di una monumentale Storia di Roma. L'Istituto ha fondato varie sezioni in Italia ed
anche all'estero.
Allo scopo di diffondere il libro in più vaste masse di popolo, il Fascismo ha creato l'Ente
nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche (1932). Il suo compito è d'assistere ai fini del
buon funzionamento le biblioteche popolari e scolastiche e di favorirne l'istituzione nei Comuni che
ne fossero privi. Esso promuove, con l'autorizzazione del Ministero dell'Educazione, conferenze e
corsi d'istruzione per formare personale adatto a tale tipo di biblioteche, ed incoraggia la
pubblicazione di libri di carattere educativo.
Anche l'Associazione fascista della scuola, benché abbia delle finalità essenzialmente politico40
sindacali, svolge una azione culturale; basterà ricordare, ad esempio, la pubblicazione della serie
«Enciclopedia del Libro» da essa intrapresa.
Particolare importanza riveste il R. Istituto d'archeologia e di storia dell'arte, il quale funziona,
per quanto riguarda l'archeologia, da sezione del R. Istituto Italiano per la storia antica. È fornito
d'una ricca biblioteca specializzata.
La Commissione nazionale italiana per la cooperazione intellettuale (1928) promuove, coordina
e disciplina, d'accordo col Ministero degli Affari Esteri, iniziative e manifestazioni di natura
culturale e d'interesse internazionale; essa è aderente alla analoga Commissione Internazionale.
Un'azione di carattere internazionale è svolta anche dallo Istituto interuniversitario, creato al
fine di stabilire cordiali rapporti di collaborazione fra le università italiane e quelle straniere.
Infine può dirsi che lo spirito e lo stile del Fascismo siano entrati in tutti gli altri istituti già
vecchi d'anni e d'esperienza; è questo il caso dell'Istituto coloniale fascista, della quasi centenaria
Società italiana per il progresso delle scienze e dei numerosissimi altri organismi che lavorano di
lena e con chiara coscienza delle necessità e del prestigio nazionali.
Come più volte è stato notato, la funzione delle accademie, lungi dall'esaurirsi nel nostro tempo
fascista, è divenuta sempre più necessaria e rispondente a degli scopi precisi. È un fatto che la
forma associativa è la sola ormai che possa offrire agli studiosi i mezzi necessari per approfondire i
problemi della scienza e per divulgare i risultati ottenuti; ed è chiaro inoltre che un tale compito non
può essere affidato all'università, la quale ha una sfera d'azione troppo vasta e complessa. Quello
che si è potuto rimproverare fin qui alle accademie non è stato dunque il principio associativo ch'è
alla loro base, ma il modo col quale detto principio è stato attuato. Era impossibile tollerare ancora
che in una Nazione che si è data un regime corporativo, espressione di gerarchia e di responsabilità,
sopravvivessero organismi retti dalla decrepita prassi democratica delle elezioni e degli
autonomismi: prassi che a lungo andare poteva divenire pericolosa, perché costituiva il maggiore
ostacolo alla penetrazione delle nuove idee della Rivoluzione. Ad evitare quindi che le accademie e
le società scientifiche potessero isolarsi come compartimenti stagni nel grande moto di
rinnovamento nazionale, sono intervenuti in questi ultimi anni alcuni provvedimenti legislativi, i
quali hanno applicato anche in questo settore i principi fondamentali del Fascismo.
Delle innovazioni ricorderemo solo le più importanti. Le assemblee degli istituti di maggiore
rilievo devono limitarsi a designare i nuovi membri da eleggere; la nomina è fatta dal Re, o dal
Ministro dell'Educazione Nazionale, a seconda dei casi. I membri effettivi hanno l'obbligo della
residenza e devono partecipare attivamente alla vita del sodalizio. Se non lo possono a causa della
loro salute o dell'età divengono membri «emeriti»; se a causa del cambiamento di residenza, sono
messi in soprannumero. Tanto nell'uno che nell'altro caso essi devono lasciare il proprio posto a dei
membri effettivi. Se poi si dimostrano indegni della carica avuta, il Ministro dell'Educazione può
revocare la loro nomina. Sono previste anche altre categorie di membri, gli onorari e i
corrispondenti, che hanno funzioni molto più limitate. Le cariche accademiche di presidente e di
vice-presidente vengono conferite con decreto reale o ministeriale alle persone designate dal
Ministro. Responsabili dell'andamento dei rispettivi sodalizi sono i presidenti, i quali alla fine di
ogni anno accademico sono tenuti a presentare al Ministero una relazione sull'attività svolta: per
dare un significato pieno a questa responsabilità sono stati conferiti ai presidenti poteri ampi ed
effettivi, che vanno dalla direzione degli atti accademici all'amministrazione. Quest'ultima tuttavia è
soggetta a revisione posteriore ed a varie limitazioni, dirette a garantire una regolare gestione.
Un'altra innovazione è quella che riguarda l'obbligo della presidenza di consegnare annualmente al
Ministro dell'Educazione l'elenco dei premi da conferire in virtù di legati o di fondazioni, come pure
la copia delle relazioni delle commissioni giudicatrici dopo avvenuto il conferimento di essi. Tale
provvedimento tende ad eliminare l'inconveniente, già più volte verificatosi, di premi non conferiti
per la mancanza di concorrenti idonei, dovuta ad una insufficiente pubblicità.
Da tutto quello che precede risulta chiaramente che il Fascismo ha dato una struttura agile,
elastica e robusta alle vecchie accademie, mettendole all'unisono colla vita nazionale e rendendole
atte ad assolvere il compito che loro incombe nel delicato settore dell'alta cultura. Durante il lavoro
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di riordinamento qualche soppressione è stata necessaria, come per la Pontaniana di Napoli, che è
stata assorbita dalla Società reale; ma nel complesso la fisionomia esterna delle accademie non ha
subito sensibili variazioni, fatto che dimostra che s'è proceduto colla massima prudenza. D'altra
parte molte istituzioni scientifiche e culturali sono state erette in enti morali a riconoscimento
dell'importanza della loro attività.
Un avvenimento che esige il più grande rilievo nella nuova sistemazione dei corpi accademici è
l'inquadramento d'alcuni di essi nei corrispondenti sindacati fascisti. Tale è il caso dell'Accademia
medica chirurgica d'Ancona, della R. Accademia medica di Genova, dell'Accademia Lancisiana di
Roma, della Società italiana d'ortopedia di Roma, della Società piemontese d'igiene di Torino,
dell'Associazione medica triestina. È il forte carattere professionale di queste istituzioni che ha
suggerito il provvedimento, il quale trova la sua ragione in un principio di schietta originalità
rivoluzionaria, quello che attribuisce alle associazioni professionali il dovere di promuovere
l'educazione e l'istruzione, particolarmente la istruzione tecnica, dei loro rappresentati (Carta del
lavoro, articoli XXIV e XXX). Un principio simile sarebbe un'eresia in un qualunque stato
demoliberale del mondo, dove le funzioni sindacali non sono ammesse che nello stretto ambito
degli interessi economici della categoria; è invece per noi la conseguenza logica della dottrina che
afferma l'eticità dello Stato fascista. Questa eticità si realizza necessariamente attraverso gli organi
dello Stato, i quali, per assicurare ampiezza e continuità alla loro opera, devono svolgere anche
un'azione educativa: questa non interferisce con quella condotta dal Partito e dalla scuola, ma la
integra e la valorizza in alcuni campi determinati.
Anche per gli istituti accademici, come per quelli storici, s'è posto più volte il problema di un
coordinamento. Esiste certamente un'Unione accademica nazionale, ma essa raggruppa soltanto i
dieci maggiori enti italiani ed esclusivamente allo scopo di partecipare ai lavori prestabiliti
dall'Unione accademica internazionale. D'altra parte la necessità di un coordinamento è molto meno
sentita per le attività accademiche nel campo degli studi filologici, storici e letterari che per quelle
nel campo delle sciente esatte, e ciò perché queste ultime non sono soltanto una ragione di prestigio,
ma costituiscono anche il fondamento delle applicazioni che interessano l'economia, la vita sociale,
la difesa stessa della Patria.
Queste ragioni hanno indotto il Governo fascista a fondare, nel 1923, il Consiglio nazionale
delle ricerche. È questo il supremo organo tecnico dello Stato, che esercita la consulenza legislativa
in materia scientifico-tecnica, che coordina le varie attività nazionali negli studi scientifici e nelle
relative applicazioni, che ha il controllo tecnico dei prodotti nazionali e la vigilanza sugli istituti, gli
stabilimenti e i laboratori scientifici dello Stato. Il Consiglio, suddiviso in numerosi comitati e
commissioni, ha già fornito una grande mole di lavoro, benché abbia cominciato a funzionare in
pieno solo da pochi anni. Il suo insediamento è avvenuto infatti soltanto il 2 febbraio 1929, ad opera
del DUCE, il quale pronunciò, fra le altre memorabili parole, le seguenti: «La ricerca scientifica deve
svolgersi senza il vincolo e la preoccupazione dell'insegnamento. La ricerca scientifica deve servire
alla scienza e alle esigenze nazionali. Non deve servire a creare nuove cattedre e nuovi
insegnamenti. Il Consiglio deve essere un organismo all'unisono con la vita della Nazione, e quindi
a contatto con gli industriali, con gli agricoltori, con i commercianti, con le amministrazioni. Di qui
la necessità di un coordinamento e di un collegamento fra le Confederazioni sindacali e il Consiglio
nazionale delle ricerche.
«Le Confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori devono sentire e comprendere che le
ricerche scientifiche si traducono in miglioramento ed aumento della produzione e, in definitiva, i
risultati delle ricerche scientifiche e le indagini a tale uopo compiute servono ad esse. Perciò le
organizzazioni sindacali devono concorrere, in conformità del resto al 1° articolo della legge del 3
aprile 1926, n. 563, al mantenimento del Consiglio delle ricerche scientifiche».
A coronamento dell'opera svolta in favore della cultura nazionale, il DUCE ha voluto fondare nel
1926 l'Accademia d'Italia, espressione sintetica dell'altezza alla quale sono giunte in Italia le
supreme manifestazioni dello spirito. La sua ragione d'essere, i suoi compiti, la sua struttura sono
definiti appieno nel discorso pronunciato dal DUCE il 28 ottobre 1929, giorno della solenne
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inaugurazione in Campidoglio, data fondamentale per la storia della cultura italiana.
«Quattro anni fa — ha detto il DUCE — si chiese, e oggi si ripete: perché un'altra Accademia?
L'interrogativo esige una risposta. Nessuna delle Accademie attualmente esistenti in Italia compie le
funzioni assegnate all'Accademia d'Italia. O sono Accademie limitate nello spazio, o ristrette nella
materia. Talune di esse sono celebri, e quasi tutte, anche le minori, sono rispettabili, ma nessuna ha
il carattere d'universalità dell'Accademia d'Italia, Questa nasce dopo due avvenimenti destinati a
operare formidabilmente nella vita e nello spirito di un popolo: la guerra vittoriosa e la Rivoluzione
fascista. Nasce mentre sembra esasperarsi, nel macchinismo o nella sete di ricchezza, il ritmo della
civiltà contemporanea; nasce quasi a sfida contro lo scetticismo di coloro i quali da molti, sia pure
gravi, sintomi, prevedono un'eclissi dello spirito che sembra ormai rivolto soltanto a conquiste di
ordine materiale.
«Questo carattere dell'Accademia d'Italia appare, sotto altri aspetti, evidente. Non è
l'Accademia d'Italia una vetrina di celebrità arrivate e non più disputabili; non vuole essere e non
sarà una specie di giubilazione degli uomini insigni o un riconoscimento più o meno tardivo dei loro
meriti; non sarà soltanto questo. Voi vedete tra gli accademici delle quattro categorie uomini di
origini, di temperamenti, di scuole diverse; uomini rappresentativi di un dato momento sono al lato
di uomini rappresentativi di un momento successivo, o attuale o futuro. L'Accademia è
necessariamente eclettica, perché non può essere monocorde.
«Nell'Accademia passa così la vita dello spirito, la quale è continua e complessa, e unitaria:
dalla musica alla matematica, dalla filosofia all'architettura, dall'archeologia al futurismo.
Nell'Accademia è l'Italia con tutte le tradizioni del suo passato, le certezze del suo presente, le
anticipazioni del suo avvenire.
«L'importanza di un'Accademia nella vita di un popolo può essere immensa, specialmente se
essa convogli tutte le energie, le scopra, le disciplini, le elevi a dignità. Si può immaginare
l'Accademia come il faro della gloria che addita la via e il porto ai naviganti degli oceani inquieti e
seducenti dello spirito. La sorte di questi naviganti è varia: taluno naufraga alle prime tempeste,
qualche altro finisce nelle secche della mediocrità e del mestiere, i più dotati e i più tenaci — il
genio è anche metodo e pazienza — talvolta approdano mentre il crepuscolo già discende sulla loro
vita, e qualche altro è colpito dal destino alla vigilia del trionfo: vi è, infine, chi tocca la meta
nell'età giovanile e virile, ma questo fortunato immortale non può a lungo sostare! Egli ha il dovere
di levare le ancore e di spiegare le vele per altri itinerari e per nuove conquiste».
L'Accademia d'Italia ha voluto corrispondere alla fiducia ed alle direttive del DUCE mettendosi
alacremente al lavoro. Tra le molte iniziative da essa promosse o patrocinate sono da ricordare i
convegni internazionali, le spedizioni scientifiche e alcune serie di pubblicazioni, tra le quali
prenderà posto il «Vocabolario della lingua italiana»; l'Accademia conferisce inoltre ogni anno
quattro premi di 50 mila lire, intitolati a Benito MUSSOLINI, che si aggiungono ad altri numerosi
premi minori ascendenti a mezzo milione di lire.
L'Accademia è posta alle dipendenze della Presidenza del Consiglio e il suo presidente
partecipa, a causa delle sue funzioni, al Gran Consiglio del Fascismo. L'immenso prestigio e le
multiformi attività di questo supremo organo scientifico costituiscono oggi la più sicura garanzia
per la tutela ed il progresso della cultura nazionale.




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