giovedì 29 gennaio 2015

CRISI DEL LAVORO: LA SOLUZIONE E' NELLA SOVRANITA'





 ECONOMIA 2015
Crisi del lavoro: la soluzione è nella sovranità

di Fabrizio Fiorini (*)
 
Correva l’anno 2010 e il vecchio, glorioso, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale aveva già da tempo avviato le procedure telematiche dei propri servizi. Decine di migliaia di lavoratori dipendenti, che fino a poco tempo prima avrebbero dovuto sopportare estenuanti attese presso gli uffici dei Patronati o dello stesso Istituto per conoscere il proprio estratto conto contributivo ed avere quindi una sorta di proiezione di quello che sarebbe stato il proprio assegno pensionistico, si videro assegnato un pin, una parola chiave con cui accedere al sito internet dell’Inps e consultare quindi in tempo reale la personale situazione previdenziale.

Erano però anche i tempi in cui la cosiddetta «precarizzazione» procedeva a gonfie vele sulla sua strada, sospinta dal vento di una produzione normativa che smantellava a «forza di legge» un sistema di tutele sociali e un ordinamento giuslavoristico che aveva regolato per decenni, e nonostante una guerra perduta, il lavoro nazionale.

Man mano, la tipologia contrattuale classica, quella del lavoro dipendente a tempo indeterminato, andava perdendosi sempre più nei meandri normativi criminosamente architettati da un potere legislativo di stampo liberista che si baloccava con strampalati e interessati concetti di «flessibilità», «competitività», «modernizzazione».

La forma contrattuale con cui all’epoca sempre più lavoratori venivano inquadrati, privandoli delle tutele sociali proprie del lavoro dipendente, era quella dei co.co.co. o co.co.pro., presunte «collaborazioni coordinate e continuative» o «a progetto», attraverso le quali i datori di lavoro potevano impiegare manodopera de facto dipendente senza che del lavoro dipendente avessero le incommoda(1) quali le ferie, i permessi, le mensilità supplementari, il trattamento di fine rapporto, e così via.

Tuttavia, nonostante tale anomala forma di inquadramento lavorativa fosse oramai ampiamente diffusa, ai «collaboratori continuativi» e ai «collaboratori a progetto» (tecnicamente definiti «parasubordinati») l’Istituto di previdenza non estese la possibilità di accedere, con una semplice procedura telematica, all’estratto conto contributivo e a conoscere dunque quale sarebbe stato, una volta cessato il rapporto di lavoro, l’entità del proprio trattamento di pensione. Interpellato sulla questione, l’allora presidente dell’INPS, quel pluri-incaricato e remuneratissimo Antonio Mastrapasqua non ancora vittima delle tribolazioni giudiziarie che lo vedranno in seguito protagonista(2), lasciò libera una «voce dal sen fuggita»: «se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati – disse – rischieremmo un sommovimento sociale».

Naturalmente, per affermare la colpevolezza o l’innocenza del vecchio presidente dell’INPS dalle molteplici accuse che gli sono rivolte si dovrà attendere l’esito dei procedimenti giudiziari; tuttavia, una colpa evidente può essergli rinfacciata senza dover attendere la sentenza dei tribunali: quella di aver peccato di eccessivo ottimismo. Se infatti le ragioni per un «sommovimento sociale» davvero avrebbero ragione di sussistere, certo è anche che questa nazione, questo popolo, sembrano essere ancora privi dello slancio, della volontà, finanche della mera rabbia che sarebbe necessaria per vedere finalmente i nostri concittadini ribellarsi dinanzi a un sistema di sfruttamento e di smantellamento dei diritti dei lavoratori che si manifesta quotidianamente in tutta la sua furia distruttrice.

Nelle pagine che aprono questo numero de l’Uomo libero, Mario Consoli ha descritto con precisione gli effetti devastanti che la precarizzazione e liberalizzazione del lavoro (che oggi non a caso è più esaustivamente definito «mercato del lavoro») hanno avuto sul tessuto sociale della nazione. Non si tratta solo di un problema, pur estremamente rilevante, di certezza del reddito, di sopravvivenza, di conservazione dell’ordine sociale: siamo altresì di fronte alla morte civile di una nazione, all’annichilimento degli uomini sia nei termini di realizzazione individuale sia in quelli di partecipazione alla comunità di popolo.

Ma come si è giunti a tale scempio? Come si è arrivati alla morte del lavoro nazionale? Quale disegno criminoso si cela dietro l’operato degli amministratori della cosa pubblica degli ultimi lustri, quali sono gli strumenti utilizzati per mettere in atto una mattanza sociale dalle simili proporzioni?

 Inizialmente, si preparò il terreno dal punto di vista strutturale e dell’indottrinamento di massa. Correvano i primi anni Novanta del Novecento, gli anni delle privatizzazioni, delle crociere sul panfilo Britannia, della moralizzazione interessata di «Mani Pulite», della necessità, strombazzata ai quattro venti, di smantellare un sistema politico che – pur nella sua innegabile corruzione e marcescenza – aveva garantito una relativa stabilità socioeconomica alla nazione grazie alla effettiva, pur se parziale, continuità col periodo pre-bellico nei termini di partecipazione statale, diffusa previdenza sociale, economia mista.

Ma i «tempi moderni» bussavano alle porte, e da ogni parte – sulla stampa, nella propaganda partitica, dalla magistratura – si levavano appelli affinché un sistema vecchio, corrotto e burocratico fosse abbattuto. Il pubblico impiego, in quel frangente, subì un colpo mortale. Non solo a causa delle privatizzazioni(3) che dismisero la gran parte delle partecipazioni statali nell’apparato produttivo e industriale della nazione, ma anche il pubblico impiego nel senso più stretto del termine finì per dover subire la degradazione da «servizio allo Stato», da missione sociale adempiuta da funzionari in nome di un servizio alla collettività, a mero «impiego» privatisticamente gestito nel nome della competitività economica e del concetto liberista di «Stato minimo».

Concetti quali quelli di mobilità, di ingresso dei privati, di riduzione delle garanzie, di regolamentazione privatistica dei rapporti di lavoro, di cancellazione della «funzione pubblica», facevano il loro mortifero ingresso nella sfera del pubblico impiego. Un’azione legislativa mirata(4), sostenuta dalle velleità di «rinnovamento» imposte alla pubblica opinione da una martellante propaganda, agiva per definire i contorni di questa abdicazione dello Stato. L’Italia, in quegli anni, vide definitivamente scomparire quei burocrati (nel senso migliore del termine) che, talvolta con competenza e dedizione, avevano retto la struttura organizzativa dello Stato. In tempi recenti, corrotti e degenerati finché si vuole, ma fatto sta che, con l’acqua sporca, gettarono via anche il bambino: cancellarono il volto dello Stato dalle strutture e dai servizi quotidianamente fruiti dai cittadini.

Naturalmente, anche la sfera del lavoro privato non poteva non adeguarsi al nuovo corso della politica nazionale. A tappe forzate, lente ma inesorabili, un sistema – quello che ebbe scaturigine spirituale, etica e normativa nella Carta del Carnaro del 1920 e nella Carta del Lavoro del 1927 – fondato sull’equilibrio del sistema produttivo e sulla tutela dei lavoratori, veniva smantellato.

Inizialmente, con il già menzionato «pacchetto Treu»(5), con cui si ufficializzò la – fino ad allora vietata, alla stregua del «caporalato» – «interposizione» nei rapporti di lavoro attraverso l’introduzione del lavoro «somministrato» (all’epoca definito «interinale») e si ridusse notevolmente la funzione degli Uffici di Collocamento che di lì a poco sarebbero divenuti «Centri per l’Impiego».

Poi, il colpo mortale inferto dalla «legge Biagi»(6) (alla quale ogni minima critica è passibile delle più aspre condanne per via dell’uccisione, da parte delle Brigate Rosse, del suo promotore, il professor Marco Biagi(7)) che riprendendo lo spirito della citata legge 421 del 1992, sancì il passaggio di competenze dalla sfera pubblica a quella privata del collocamento del lavoratori.

Non fu certamente questo l’unico aspetto nefasto della «legge Biagi». Fu introdotto, ad esempio, l’istituto del «lavoro a chiamata» (o «job on call», come definito da anglismi sempre più in voga), una legalizzazione de facto del lavoro nero che permette al datore di lavoro di retribuire e contribuire «in regola» un dipendente anche per una sola giornata lavorativa al mese, anche se questi lavorasse tutti i giorni. Un istituto, quello del lavoro a chiamata, che sostanzialmente azzera il potere sanzionatorio e di controllo degli Ispettorati del lavoro, costretti a piegarsi a una legge dalle maglie larghe che rende impossibile l’individuazione di casi di sfruttamento o di evasione contributiva (8).

Di natura particolarmente odiosa per via della sua connotazione vetero-capitalista «ottocentesca», nell’ambito degli istituti introdotti dalla legge che porta il nome del giuslavorista bolognese, fu la normazione del cosiddetto «lavoro accessorio» (più comunemente conosciuto come «lavoro a voucher») attraverso tale forma contrattuale tuttora decine di migliaia di lavoratori svolgono le proprie prestazioni in regime di grave carenza di tutele e devono percepire la loro magra retribuzione recandosi presso gli uffici postali per convertire in (poco) denaro i «buoni» che vengono loro «magnanimamente» elargiti da un datore di lavoro che anche in questo caso può operare svincolato da imposizioni giuslavoristiche di sorta, da obblighi contributivi, nonché dal potere sanzionatorio e di verifica degli Ispettorati e del Ministero del Lavoro.

Fu la stessa «legge Biagi», inoltre, che implementò l’istituto – utilizzato nella gran parte dei casi come camuffamento di rapporti di lavoro dipendente – delle «collaborazioni a progetto» (senza ferie, senza permessi, senza TFR, a contribuzione ridotta), proprio quei «parasubordinati» per i quali il citato presidente dell’INPS Mastrapasqua prevedeva, bontà sua, un «sommovimento sociale».

Di tali sommovimenti, tuttavia, fino ad ora se ne sono visti ben pochi. Tra i primi responsabili di questo lassismo non possono che essere annoverati quei sindacati che hanno definitivamente abdicato dal loro ruolo di organizzazioni di difesa dei lavoratori e che si sono trasformati in ufficio protocollo delle deliberazioni dei governi più antipopolari che la storia nazionale ricordi.

È sufficiente entrare in una sede dei sindacati per averne lampante dimostrazione di come questi si siano oramai trasformati in lucrosi «centri servizi» che impiegano manodopera a basso costo per esperire le loro pratiche a pagamento (quali le dichiarazioni dei redditi) e che si prodigano con mielosa dedizione all’assistenza agli immigrati che presso i loro uffici possono trovare servizi finalizzati ai «ricongiungimenti familiari» o al conseguimento di ogni sorta di beneficio gravante sulla Previdenza nazionale.

Le organizzazioni sindacali, sostenendo l’invasione immigratoria, si privano così della loro primaria finalità e della loro stessa natura: alla difesa dei lavoratori italiani preferiscono la causa di chi arriva in Italia a far loro concorrenza.

Inoltre, non tragga in inganno la gratuità con cui patronati e sindacati offrono al pubblico gran parte dei loro servizi. Non solo infatti sono retribuiti dallo Stato, ma tali servizi fungono anche da «grimaldello» per l'acquisizione di nuovi tesserati con tanto di trattenuta sindacale in busta paga. Un tempo si diventava sindacalizzati per meglio difendere i propri diritti, oggi per avere lo sconto sulla denuncia dei redditi o per saltare la fila con la domanda di assegni familiari.

Sono quei sindacati che hanno venduto l’anima per i trenta denari messi a loro disposizione da una legge ad hoc(9) e che sono oramai capaci di distinguersi esclusivamente per la loro sospetta dabbenaggine, per la loro organizzazione di concerti, «eventi culturali», manifestazioni «colorate» sempre più frequentate dai rampolli festaioli della buona borghesia e sempre più disertate dagli operai(10).

I governi nazionali, dal canto loro, quando non sono impegnati nelle varie missioni di vassallaggio internazionale alle dipendenze dell’amministrazione USA, dalla NATO e della BCE tentano maldestramente di salvare la faccia, prodigandosi in proclami altisonanti ed elargendo insignificanti elemosine (gli «80 euro di Renzi») peraltro ai soli lavoratori dipendenti, ciechi dinanzi al fatto che chi oggi ha un tale rapporto di lavoro è già da considerarsi privilegiato in un contesto in cui la gran parte dei lavoratori svantaggiati deve barcamenarsi in un inferno fatto di sotto-inquadramento, lavoro semi-nero, «buoni lavoro» (i cosiddetti voucher), false partite IVA. Elemosine che vengono date con una mano e tolte – con gli interessi – con l’altra, perché, dicono, «la coperta è corta», come è d’altronde naturale che sia in un sistema fondato sulla completa mancanza di sovranità monetaria e di prestito a usura del denaro da parte della banca di emissione.

Il governo dell'eurocrazia invece, quello della cosiddetta troika di Bruxelles che attraverso Commissione e Banca Centrale Europea detta le linee guida agli esecutivi di un intero continente, dimostra quotidianamente le propria sordità e cecità dinanzi all'evidenza del fatto che il sistema produttivo europeo sta irrimediabilmente avvicinandosi al tracollo, e continua a fare pressioni e a imporre ricatti a Stati oramai solo nominalmente sovrani, costringendoli – come primaria misura per «rientrare» dal debito pubblico e per rispettare le allucinanti disposizioni di pareggio di bilancio – a esercitare tagli proprio sul lavoro e sulle garanzie previdenziali, imponendo il dogma della flessibilità e della precarietà e determinando una assurda pressione fiscale con la conseguente, generalizzata, depauperazione popolare.

Quello di cui si necessita, per invertire la rotta che sta spingendo questa nazione e l'intero Continente sempre più pericolosamente vicini all'orlo del baratro non sono «riforme», aggiustamenti, bonus-elemosina o jobs act di sorta. Non sono i canti e i balli di sindacati colorati e festaioli, non sono gli accorati appelli e le ripetute, oramai tragicamente comiche, promesse di «ripresa».

Occorre riappropriarsi della nostra moneta, uscendo dalla spirale che ci vede costretti a richiederla in prestito dalla «piovra» della BCE, a cui rendere poi conto con tanto di interessi e di ulteriori cessioni di sovranità (Draghi non perde occasione per ricordarlo minacciosamente).

Riappropriarsi della nostra identità, interrompendo drasticamente la tratta degli schiavi che introduce nei confini nazionali flussi incontrollati di immigrati che non solo ingrassano le fila della criminalità ma che costituiscono un enorme bacino di manodopera sottopagata, inibiscono ai nostri connazionali la fruizione dei servizi sociali, riempiono le casse delle organizzazioni «caritatevoli» ecclesiastiche.

Occorre riappropriarsi di una giusta ed equilibrata legislazione del lavoro, fondata su garanzie di stabilità, giusta retribuzione, piena occupazione ed efficace previdenza, nonché sul rilancio della produzione che diventerà possibile grazie agli investimenti conseguenti la riconquista di una piena sovranità monetaria nonché grazie al ritorno della partecipazione statale al settore economico strategico. Denunziare tutta la legislazione liberal-liberticida degli ultimi lustri, perché il lavoro smetta di essere faticoso strumento di mera sopravvivenza e torni a essere la nostra più grande ricchezza, quella che scaturisce dalle nostre mani e dal nostro intelletto.

Occorre riappropriarsi dello spirito di comunità di popolo, di quella sovranità che è requisito vitale per ogni uomo libero, di quanto è nostro, delle nostre vite. Pur nel desolante scenario sociale e politico che caratterizza in questi decenni la nostra nazione e il nostro continente, qualche segnale incoraggiante lampeggia all'orizzonte: alcuni italiani, alcuni europei, non si arrendono.

(*) Direttore della rivista l’Uomo Libero




(1) Dall’antico brocardo latino «ubi commoda, ibi incommoda» («ove vi sono cose vantaggiose, vi sono cose svantaggiose») vengono fatte discendere la natura essenziale e il principio giuslavoristico del rapporto di lavoro dipendente, per cui a fronte del potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro devono sussistere le tutele a vantaggio del dipendente, tra le quali naturalmente la previdenza e l’assicurazione obbligatoria.

(2) Ad esempio, quella che lo vede indagato – come direttore generale dell’Ospedale israelitico di Roma – in una truffa ai danni del Servizio Sanitario Nazionale, o le varie vicende correlate ai suoi venticinque (!) incarichi di presidente di varie società o collegi sindacali. Mastrapasqua – un dirigente, giova ricordarlo, che può contare su una retribuzione annua superiore al milione di euro – è stato altresì coinvolto in una torbida storia di «acquisto» di esami universitari presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Roma, ove sostiene di essersi laureato nel 1984.

(3) Il regime di «competitività» che si sarebbe instaurato in seguito al processo di privatizzazioni avrebbe giovato all’economia nazionale – sostenevano i molteplici imbonitori dell’epoca – determinando un miglioramento e una maggiore diffusione dei servizi, nonché un calo delle tariffe. Tale rosea premonizione fu smentita non solo dalla realtà dei fatti, ma addirittura dalla Corte dei Conti (Rapporto del 10 febbraio 2010) che denunciò a chiare lettere il fallimento su tutta la linea del nuovo corso economico e politico.

(4) Molto incisiva in tal senso fu la Legge n. 421 del 23 ottobre 1992 in materia di sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 257 del 31 ottobre 1992 – Supplemento Ordinario n. 118)


(5) Legge n. 196 del 24 giugno 1997 in materia di promozione dell’occupazione (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 154 del 4 luglio 1997 – Supplemento Ordinario n. 136).

 
(6) Legge n. 30 del 14 febbraio 2003 in materia di occupazione e mercato del lavoro, attuata dal D.Lgs. N. 276 del 10 settembre 2003 (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 235 del 9 ottobre 2003 – Supplemento Ordinario n. 159).


(7) Evento che dovrebbe indurre a riflettere sul senso dell’azione terroristica e sulle sue ricadute politiche nefaste, quando non addirittura eterodirette e funzionali a obiettivi opposti a quelli per cui ufficialmente viene messa in atto.

(8) Non sussisteva infatti l’obbligo, da parte del datore di lavoro, di effettuare preventivamente e in modo documentato la chiamata del lavoratore, rendendo in tal modo impossibile ogni funzione di controllo sulla regolarità della prestazione. Tale obbligo sarebbe stato introdotto solo successivamente dalla Riforma Fornero, ma – fatta la legge trovato l’inganno – fu altresì introdotta la possibilità di «annullare» le giornate lavorative dopo la fine della prestazione.


(9) Legge n. 413 del 30 dicembre 1991 istitutiva dei Centri Autorizzati di Assistenza Fiscale (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 305 dei 31 dicembre 1991 – Supplemento Ordinario n. 91).
 
(10) Emblematico il caso recente della fallita mobilitazione sindacale che contestava al movimento di popolo cosiddetto «dei forconi» (che peraltro li aveva saggiamente snobbati) di aver ceduto alle «infiltrazioni fasciste». In quei giorni a Torino, una contro-manifestazione della Triplice sindacale, sostenuta da ANPI e partitini vari della sinistra, in una città dove fino a dieci anni prima avrebbero mobilitato decine di migliaia di lavoratori, vide partecipare meno di cento persone.

 
28/01/2015

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