lunedì 29 dicembre 2014

I PILOTI DELLA RSI

 
 
 PILOTA  FIORENZO                               MACCHI

L’INTERVISTA

Roberto Azzalin

I piloti italiani combattevano cavallerescamente, abbattendo gli aerei inglesi, ma evitando di uccidere i piloti. Non così gli inglesi, che si accanivano contro i piloti italiani anche dopo che si erano lanciato col paracadute…
Del resto era un impegno generale: analogamente gli inglesi si comportavano con i naufraghi…
Una conferma ce ne viene dall’intervista di Roberto Azzalin:

Quando il Sergente Pilota Fiorenzo Macchi conobbe il Comandante Carestiato al Campo di Volo di Campoformido.

Carnago, 26 febbraio 2005
Sono le ore 10.00 e arrivo al mio appuntamento dal pilota della regia Aeronautica a Carnago dove lui abita con la moglie. Alla porta della sua villetta, ad attendermi è proprio il Sig. Fiorenzo Macchi che guarda al polso il suo altimetro ed orologio compiacendosi della mia precisione ad arrivare all’appuntamento previsto con straordinaria puntualità. Ad accogliermi con lui c’è anche il suo volpino, la sua mascotte, in termini aeronautici, che scodinzolandomi mi fa una gran festa.
Il mio pilota è molto impaziente e in un men che non si dica mi fa accomodare nel suo studio completamente arredato con libri e manuali aeronautici; mi par proprio di assaporare l’atmosfera adatta per il mio piacevole colloquio.
Il pilota, classe 1919, prima di sedersi accanto a me prende tra le mani un meraviglioso modellino del biplano C.R. 32 in argento e me lo mostra orgogliosamente; vede mi dice, questo era il gioiello progettato dall’ingegner Rosatelli, dopo ha creato il C.R. 42, poi viene l’apparecchio dell’ingegner Gabrielli, il Fiat G. 50, io li ho pilotati tutti.
Nel 1938 iniziai come pilota sportivo a Zizzola con il volo a vela, lì conobbi Plinio Rovesti, l’insigne progettista di alianti, i primi lanci li facemmo dal Campo dei Fiori.
Con l’entrata in guerra dell’Italia diventai pilota da caccia, ma a dire il vero a ben pensarci ero forse l’unico qui della zona a combattere nella caccia, molti avevano scelto infatti la specialità bombardamento, in quanto il campo di volo di questi apparecchi, gli onnipresenti trimotori Siai Marchetti SM. 79 era alla Malpensa e quindi i piloti della brughiera erano anche più vicini a casa e alle loro famiglie.
Io ero al Campo di Volo di Ponte San Pietro a Caltagirone, da lì a Malta ci separavano soltanto 90 km; era il 1941, attaccavamo i convogli inglesi e scortavamo gli SM 79 “Gobbi Maledetti” come li chiamavano gli inglesi; noi italiani non conoscevamo la navigazione aerea, eravamo allo sbaraglio. Successivamente, nel 1942 a Gorizia avevamo in dotazione il nuovo Macchi 200 ideato dall’Ingegner Mario Castaldi, era un aereo molto pericoloso, andava in autorotazione e siccome numerosi piloti a causa di questo difetto erano morti, molti infatti non volevano pilotare questo caccia a causa della sua evidente pericolosità. Da Varese, venne allora il pilota collaudatore Guido Carestiato ad istruirci su come gestire questo caccia ribelle e pressoché indomabile.
Con il Macchi 200, Carestiato tagliava l’erba del campo di volo con l’elica e ci dimostrava come far fronte ad un atterraggio veramente molto difficile, ricordo a Campoformido quanti piloti alle prime armi con questa macchina avevano rischiato in atterraggio di andare a sbattere ed infilarsi dentro gli hangar. Il Comandante Guido Carestiato ci soggiogava, non era di molte parole, bisognava ascoltarlo, era il collaudatore per eccellenza della Macchi di Varese, era una persona veramente burbera ma a volte anche affabile, era evasivo nelle risposte, ci intimoriva. A noi “pivellini” non diceva mai che eravamo dei buoni piloti, anche quando meritavamo davvero di sentircelo dire. Forse ci avrebbe fatto bene sentircelo dire. In squadriglia ci diceva di cercare di essere sempre il migliore rispetto agli altri, eravamo in dodici, si cercava sempre infatti di decollare per primo.
Ricordo che durante il mio primo volo a bordo del Macchi 200 si era rotta la manetta dei comandi e non riuscivo a diminuire la velocità dell’apparecchio che andava ormai ad una velocità forte e costante ed inesorabilmente incontrollabile, il pilota Mascellari decollò ed affiancandosi all’ala del mio apparecchio mi faceva segno di lanciarmi con la mano urlando a squarciagola, anche se io evidentemente non potevo sentirlo per il rumore dei motori dei due caccia, perché non avevamo neanche a bordo la radio e non potevamo comunicare altrimenti.
Togliendo il contatto, il Macchi 200 si poteva facilmente incendiare non solo in volo, ma anche in atterraggio. Ricordo che quella volta, ho tenuto in volo l’apparecchio, perché non ne volevo sapere di lanciarmi con il paracadute, e di perdere quell’originale macchina volante con la “gobba” che si sarebbe schiantata non so dove; alla fine, a carburante finalmente esaurito, faticosamente ho aperto il carrello fino ad atterrare alla bell’e meglio andando s sbattere contro la rete del campo di volo. Il mio apparecchio anche se un po’ mal ridotto era salvo. Questo è accaduto a Campoformido vicino ad Udine.
Da lì fui poi inviato a Caltagirone. Senza preparazione, senza una rotta da seguire. Mi pare impossibile ancora oggi pensare all’incoscienza che ci animava. Il mio Comandante mi disse che per arrivare a Caltagirone, dovevo seguire, come punto di riferimento, dall’alto la linea ferroviaria.
E così feci. Che pazzia.
A Malta, con un apparecchio Reggiane 2001 ho abbattuto un caccia inglese Hawker Hurricane I ed un bombardiere bimotore medio inglese Bristol Beaufighter Mk I. Mi ricordo che dopo l’abbattimento dei velivoli nemici a volte i nostri ufficiali non s’interessavano più di tanto a segnalare le nostre vittorie per eventuali medaglie o riconoscimenti futuri: magari qualcuno di noi non sarebbe neanche più tornato. A cosa sarebbe servito?
Noi cercavamo di portare a casa la cosa che più ci era importante: la nostra pelle, magari senza nessuna medaglia da appuntare alla divisa, ma vivi!
Io ho combattuto nella 358° Squadriglia, nella 152° e nella 150°.
Nella mia vita di combattente dell’aria, ho avuto la fortuna di conoscere una persona che allora lavorava all’Alfa Romeo. Al caccia Reggiane 2001 venne assegnato il motore Mercedes, prodotto su licenza appunto all’Alfa Romeo. Questa persona che appunto lavorava all’Alfa Romeo, mi garantì che il motore del mio caccia non mi avrebbe mai dato noie di alcu tipo, senza problemi tecnici al motore, non si sarebbe cioè mai bloccato (perché me lo avrebbe curato lui personalmente in ogni seppur minimo particolare) e difatti non ho mai incontrato alcun problema al motore del mio caccia: il Reggiane 2001. Gli fui molto riconoscente.
Ho pilotato anche il leggendario caccia tedesco Messerschmitt Bf 109, feci l’abilitazione vicino a Viareggio con i piloti tedeschi che, a dire il vero non si fidavano molto dei piloti della Regia Aeronautica. I piloti italiani che erano dei leali combattenti, in volo cercavano di abbattere l’aereo nemico ma cercavano in tutti i modi, cavallerescamente di non uccidere il pilota, speravamo sempre che si potesse lanciare con il paracadute e salvarsi la pelle.
Ciò non si poteva dire degli inglesi. Ho ancora sotto gli occhi l’immagine di un amico della mia squadriglia che gettandosi con il paracadute dal suo apparecchio in fiamme veniva falciato dalle raffiche delle mitraglie di uno Spitfire; questa, ragazzo mio, è la guerra.
Si poteva arrivare con il Macchi 200 sino a 6/6.500 metri ma gli Spitfire piombavano da oltre 10.000 metri e noi oltre a non avere molta autonomia di carburante, con solo due mitragliatrici sulle ali spesso dovevamo rientrare in Sardegna per il rifornimento di carburante. Combattevamo in minoranza non solo numerica contro gli inglesi ma anche tecnica.
Ricordo i gran torcicollo che avevo in volo, sempre a cercare gli Spitfire o gli Hurricane che piombavano dal nulla come dei diavoli. I piloti inglesi preferivano la picchiata al combattimento e piombavano dall’alto come la grandine. Noi sparavamo all’impazzata i nostri colpi dalle due mitraglie alari, gli inglesi oltre ad avere la radio a bordo sputavano fuoco all’inverosimile dalle ali: una vera tempesta di fuoco.
Erano combattimenti impari. L’abilità non era certo della macchina, ma del ma del pilota italiano che era veramente un eroe. Si cercava di richiamare l’aereo ma spesso perdevamo i sensi, non ci vedevamo più, il Macchi 200 era sprovvisto della capotte. Molti piloti spesso perdevano quota e si inabissavano in mare. Spesso i piloti che rientravano in Sardegna per il rifornimento finivano in mare perché non ce la facevano a raggiungere l’isola.
A volte per l’impreparazione non sapevamo gestire l’aereo che ci era stato affidato, bisognava tenerlo al minimo e sfruttarlo solo durante il combattimento che poteva essere anche molto lungo, altrimenti o in un modo o nell’altro si perdeva la gestione dell’apparecchio e finiva in una tragedia. Non avevamo una strumentazione adatta, azzurro sopra, azzurro sotto, molti atterravano in Tunisia, altri alle Egadi senza sapere dov’erano.
Il Macchi MC 200 ed il Fiat G. 50 furono i primi caccia in dotazione alla Regia Aeronautica, erano aerei estremamente essenziali ma dalla linea sportiva. I Macchi 202 e 205 erano invece i più begli aerei, non solo tra gli aerei italiani, erano aerei belli da vedere, piacevoli da pilotare, erano l’orgoglio della prestigiosissima azienda aeronautica varesina, il cui dirigente tecnico era il grande Castoldi.
Mi ricordo che per la distrazione di alcuni avieri una notte ci fu messa anche dell’acqua distillata nei serbatoi degli apparecchi anziché il carburante che si mescolava fatalmente alla benzina.
Mi chiedo ancora oggi come io mi sia potuto salvare dopo queste vicissitudini mentre altri piloti sono morti giovanissimi in missioni belliche o in terribili incidenti di collaudo. Non sono mai stato abbattuto. Com’è possibile che io abbia potuto salvarmi? Me lo chiedo ancora. Molti miei amici non li ho più visti tornare al campo di volo. Andavamo contro la morte e non ci rendevamo conto. Alla sera tra piloti ci si trovava magari a giocare a poker, il giorno dopo molti di essi non rientravano alla base. Avevamo sì forse qualche aereo a disposizione ma non più i piloti che cadevano dal cielo come le mosche.
A volte qualcuno si salvava perché magari cadendo in mare sapeva nuotare, ma erano casi rari, molto rari.
E’ triste dover pensare che molti giovani donarono i loro vent’anni all?Italia e oggi nessuno si ricorda o vuole ricordare le loro imprese, i loro eroismi.
Strano Paese il nostro, strano paese l’Italia…
L’intervista finisce qui, il mio pilota accarezza con tenerezza le ali del suo biplano d’argento e lo ripone con religiosa delicatezza sullo scaffale vicino ai libri aeronautici, mi accorgo che gli si inumidiscono anche un po’ gli occhi. La sua mascotte appoggia il suo musino sulla mia gamba. “Caro dottore, caro amico, l’aspetto ancora, venga a trovarmi, ho un’altra storia da raccontarle” insiste il mio pilota salutandomi con una cordiale stretta di mano, la stessa mano che aveva lottato tanti anni fa con la manetta ingrata del suo primo Macchi 200, che si era rotta in volo, ma che lui aveva sapientemente dominato fino a riportare il suo nuovo apparecchio a terra…ancora una volta il mio pilota aveva avuto la meglio sulla sua macchina volante…”

Articolo tratto da STORIA DEL NOVECENTO n. 52 del luglio 2005 pagine 39-40


venerdì 26 dicembre 2014

EDITORIALE-- IL MASSACRO DEI CRISTIANI NEI PAESI ISLAMICI E COMUNISTI CONTINUA. CHE FA L’OCCIDENTE?

IL MASSACRO DEI CRISTIANI NEI PAESI ISLAMICI E COMUNISTI CONTINUA. CHE FA L’OCCIDENTE?

Dal 2000 ad oggi i cristiani vittime di persecuzioni da parte di regimi islamici e comunisti (soprattutto la Cina) sono stati 160 mila all'anno: una cifra incredibile. Ogni cinque minuti un cristiano viene ucciso a causa della propria Fede. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa non soltanto a Dio, ma alla dignità umana; senza contare che essa rappresenta una serissima minaccia alla sicurezza e alla pace.
Sebbene la Repubblica Popolare Cinese continui a dichiararsi un Paese ateo, in realtà esso conta al suo interno una popolazione religiosa costituita da ben 540 milioni di individui (su un totale di 1 miliardo e 300 milioni di abitanti) dei quali, tuttavia, soltanto 300 milioni dichiarerebbero apertamente la propria fede per non incorrere in discriminazioni da parte dello Stato. Nonostante l’articolo n. 36 della Costituzione consenta a tutti i cittadini di esercitare “libertà di credo”, in questo vasto Paese l’essere professanti costituisce ancora un handicap di non poco conto, un effettivo status di ‘diversità’ che può precludere il beneficio dei più elementari diritti umani. Una situazione dolorosa e paradossale se si considera che a partire dagli anni Novanta in Cina nessuno crede più al mito del comunismo. E mentre il patrimonio culturale del socialismo maoista si sgretola di fronte all’epocale mutazione capitalista di questo immenso Paese, i vertici di Pechino si trovano a dovere fronteggiare – spesso con la violenza - una temuta realtà, fino ad appena un decennio fa totalmente inimmaginabile, cioè la spontanea rinascita tra le masse - disgustate dalla crescente corruzione delle istituzioni e deluse dal tradimento degli impossibili ideali di giustizia sociale predicati per decenni dallo stato materialista - del sentimento religioso. Quello che oggi reclamano milioni di giovani cinesi, soprattutto giovani, assetati non soltanto di facile e aleatorio benessere materiale, ma anche di dignità e autentica giustizia.
Alberto Rosselli  è un giornalista e saggista storico che ha collaborato e collabora da tempo con numerosi quotidiani italiani ed esteri e con svariati siti internet tematici di storia, etnologia, storia militare e diplomatica e geopolitica. Rosselli ha al suo attivo alcune opere di narrativa e diversi saggi tra cui Québec 1759, Il Conflitto anglo-francese in Nord America 1756-1763 (tradotto anche in lingua inglese), Il Tramonto della Mezzaluna - L’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale, La resistenza antisovietica in Europa Orientale 1944-1956, L’Ultima Colonia – la guerra coloniale in Africa Orientale Tedesca 1914 – 1918; Il Ventennio in Celluloide (in collaborazione con Bruno Pampaloni); Sulla Turchia e l’Europa; L’Olocausto armeno; Storie Segrete della Seconda Guerra Mondiale; Il Movimento panturanico e la ‘Grande Turchia’ e La persecuzione dei cattolici nella Spagna repubblicana 1931-1939, La persecuzione dei cristiani in Cina, La Guerra Civile in Cina 1927-1949, La Guerra Civile Greca 1944-1949, L’America che non fu; L’aviazione Ottomana durante la Prima Guerra Mondiale; Nei cieli e sugli Oceani (storie di aviatori e marinai italiani); L’epopea dei convogli e la guerra nel Mare del Nord (in collaborazione con Gabriele Faggioni); Le operazioni aeronavali nel Mar Ligure 1940-1945 (in collaborazione con Gabriele Faggioni).Attualmente Alberto Rosselli è Direttore responsabile della Rivista bimestrale Storia Verità



                                                                                                                                               

lunedì 22 dicembre 2014

“KATYN”


“KATYN”

Come scomparvero migliaia di ufficiali polacchi

di Daniele Lembo
Se il lettore provasse a chiedere ai nostri giovani, ma anche ai meno giovani, chi fu a dare l’avvio allo scoppio del secondo conflitto mondiale, inevitabilmente, ne riceverebbe come risposta secca: i tedeschi.
Effettivamente, ogni libro di testo nazionale ad uso scolastico riferisce, puntualmente, che la seconda guerra mondiale ebbe inizio il 1° settembre 1939, data in cui i tedeschi diedero avvio all’invasione della Polonia. Tale affermazione è quanto mai incompleta e lacunosa. Quel 1° settembre avvenne qualche cosa in più di una semplice invasione: ebbe inizio, infatti, la spartizione dello stato Polacco, tra la Germania e la Russia, così come era stato concordato circa una settimana prima.
I “sacri testi” scolastici, con incredibile sistematicità, dimenticano di riferire che il precedente 23 agosto il Ministro degli Esteri sovietico Vyacheslav Molotov e il Ministro degli Esteri tedesco Joachim Von Ribbentrop avevano firmato quello che pubblicamente era stato contrabbandato come un “trattato di non aggressione”. L’accordo russo tedesco, in realtà, prevedeva un protocollo segreto ai danni della Polonia, della quale i due Stati firmatari ne concordavano l’invasione e la spartizione.
L’accordo predatorio ai danni dei polacchi avrebbe avuto completa attuazione, il successivo 17 settembre quando, all’invasione tedesca, sarebbe seguito da est l’attacco Russo.
Quello dell’attacco russo alla Polonia è una piccola dimenticanza dei trattati di storia che appoggia e avalla però una grande menzogna. Purtroppo, non è la sola falsità ad essere raccontata dagli storici ufficiali su quel periodo. Si aggiunge, invece, a tutta una serie di inesattezze e vere e proprie fandonie che inducono, chi abbia almeno un accenno di buon senso, a nutrire il legittimo dubbio che alla verità dei fatti sia stata sostituita una versione di comodo ben più vicina alla leggenda che alla storia.

L’ARMATA POLACCA SCOMPARSA
Qualche tempo dopo i fatti del settembre 1939, lo scenario bellico sarebbe mutato.
Non è detto che gli amici o i nemici di oggi debbano rivestire gli stessi ruoli anche domani. Può accadere, infatti, che uno stato di conflittualità possa trasformarsi in un’alleanza o viceversa. Se ciò avviene nella comune pratica quotidiana di ognuno di noi, a maggior ragione la stessa cosa si può verificare in politica e, in particolar modo, in politica internazionale.
Il 14 agosto 1941 il generale Wladyslaw Sikorski, capo del Governo polacco in esilio a Londra, dovette far finta di dimenticare l’aggressione russa di due anni prima e firmare un trattato russo polacco con il quale i Russi si impegnavano a formare, con i prigionieri di guerra polacchi da loro detenuti, un’armata polacca.
Era avvenuto che i tedeschi, da “compagni di merende” e sodali predatori, si erano trasformati in nemici per i russi. A questo punto, i polacchi ritornavano buoni nella lotta contro le Divisioni di Hitler. L’armata in formazione con i polacchi prigionieri di Stalin sarebbe stata comandata dal generale Wladyslaw Anders e doveva essere formata da 250.000 polacchi comandati da 12.000 ufficiali.
Firmato l’accordo, ci si accorse che i conti non tornavano. Di 12.000 ufficiali polacchi, detenuti nei campi di concentramento di Starobielsk (presso Kharkov), Kozielsk (presso Smolensk) e ad Ostasckovo (presso Kalinin) non c’era alcuna traccia. Qualche autore, invece, riferisce di 8.000 ufficiali e 7.000 sottufficiali mancanti all’appello.
I russi, dapprima reticenti, incominciarono a dare spiegazioni poco credibili sulla sorte di quegli uomini, affermando che tutti gli ufficiali polacchi erano stati liberati. Ma se erano stati liberati, allora dovevano essere in Polonia o almeno da qualche altra parte, mentre invece di quelle migliaia di uomini non c’era proprio più traccia.
Dovevano passare due anni perché l’arcano fosse chiarito.
Agli inizi del 1943, nella foresta di Katyn, nella zona di Kosigory, furono rinvenute delle fosse comuni. In queste fosse erano seppelliti, su dodici strati, migliaia di uomini i quali presentavano tutti un foro di proiettile alla nuca.
Le migliaia di cadaveri non furono di difficile identificazione. Le divise ancora integre e i documenti personali rinvenuti, permisero facilmente di dedurre che quegli uomini, ordinatamente sepolti a Katyn, erano le migliaia di ufficiali polacchi scomparsi.
Questi ultimi, detenuti nel campo di prigionia di Kozielsk, nel marzo del ‘40 erano stati trasferiti a Smolensk e poi a Kosigory dove, nella foresta di Katyn, erano stati abbattuti come bestie dai russi.
Il rinvenimento dei corpi fu ufficialmente fatto da giornalisti norvegesi che, condotti sul posto dai contadini del luogo, avevano poi girato la notizia ai loro giornali in Patria. Il 13 aprile ’43, la radio tedesca diede l’annuncio del crimine russo a tutto il mondo. Passarono appena due giorni e, il giorno 15 seguente, Radio Mosca rilanciò il comunicato, imputando però la colpa del massacro ai tedeschi. Secondo Radio Mosca i polacchi erano stati massacrati dai tedeschi ed ora la propaganda menzognera di Goebbels stava tentando di addossare a loro le colpe. I russi, inizialmente, arrivarono a sostenere addirittura che forse si trattava di fosse preistoriche che i tedeschi tentavano di impiegare per una colossale macchinazione nei loro confronti.
Di fronte a tali dichiarazioni contrastanti, l’opinione pubblica mondiale, come è logico che fosse, si divise.
Era quindi indispensabile stabilire la verità dei fatti e alla Croce Rossa a Ginevra giunse l’istanza di aprire un’inchiesta. La richiesta fu avanzata non solo dai tedeschi, ma anche dal Governo polacco in esilio a Londra.
Agli accertamenti da parte di un ente sovrannazionale come la Croce Rossa, si opposero i russi adducendo il pretesto che la foresta di Katyn, anche se al momento era in zona occupata dai tedeschi, faceva parte del territorio russo. Contemporaneamente, i russi interruppero i rapporti con il governo polacco a Londra, denunciando un accordo tedesco-polacco. Secondo Molotov e Viscinsky, i polacchi in esilio si erano ispirati “a sentimenti germanofili“, tradendo così la Russia loro alleata.
Il Governo di Wladyslaw Sikorski si dimostrò convinto della colpevolezza di Stalin e il 19 aprile 1943 la Croce rossa polacca comunicò ufficialmente che la strage degli ufficiali era avvenuta tra l’aprile e il maggio 1940, periodo nel quale la zona di Katyn era sotto occupazione russa. Se la croce rossa polacca ventilava solo di chi fossero le responsabilità, il 19 aprile ’43, il giornale polacco Kurger Polski, edito a Buenos Aires, affermava: “Gli ufficiali polacchi massacrati a Katyn sono stati massacrati per ordine di Stalin. Dobbiamo ritenere esatte le notizie pubblicate sul massacro tanto più che il Governo sovietico non ha provato il contrario e che esso non ha informato dove si trovano il generale Smorawinski e le migliaia di altri ufficiali dei quali si sono perse le tracce”.
Churchill intervenne energicamente nei confronti del generale Sikorski per indurlo a dimenticare la questione al fine di non turbare l’alleanza con i russi. Ma l’intervento del premier britannico servì a ben poco in quanto non era facile, sebbene in nome della ragion di Stato, passare sopra all’esecuzione di migliaia di ufficiali polacchi. Pertanto, Sikorski continuò ad insistere presso la Croce Rossa internazionale per l’istituzione di una commissione di indagine. Il generale polacco, purtroppo, ad un certo punto non poté più continuare nella sua azione tesa alla ricerca della verità perché, il 4 luglio del ’43, morì in uno strano incidente aereo su Gibilterra.
La Croce Rossa ginevrina non istituì mai la commissione di indagine, adducendo la motivazione che questa, tenendo conto dell’opposizione dei russi, non era stata richiesta da tutti i belligeranti.
I tedeschi, inizialmente condussero sul posto ufficiali polacchi che identificarono i loro commilitoni assassinati, poi ovviarono al diniego della Croce Rossa affidando il responso ad una commissione internazionale composta da anatomopatologi, tutti esperti di medicina legale, di provenienza bulgara, italiana, belga, danese, finlandese, francese, ungherese, rumena, olandese, jugoslava, cecoslovacca e svizzera.
Tale commissione iniziò i lavori il 28 aprile ’43, procedendo all’analisi a campione dei corpi. In totale, furono esaminati 982 cadaveri che vennero sottoposti, alcuni ad autopsia, altri al solo esame necroscopico.
Il lavoro dei periti fu agevolato dal fatto che la natura sabbiosa dei luoghi aveva preservato gli indumenti dal rapido disfacimento e quasi mummificato i corpi.
I risultati furono resi pubblici il 3 maggio e il lavoro dei periti concludeva che le vittime, tutte uccise con una pallottola alla nuca di calibro inferiore agli 8 mm, erano state presumibilmente assassinate nei mesi di marzo aprile del 1940. Ad avvalorare la tesi che le esecuzioni fossero avvenute in una stagione fredda dell’anno, contribuiva il fatto che i cadaveri indossavano uniformi invernali e che su di questi non erano state trovate larve di insetti. Inoltre, tutti i documenti trovati indosso ai cadaveri, come lettere, giornali ecc. erano antecedenti al marzo aprile 1940.
Infine, quegli uomini sepolti a Katyn avevano tutti i polsi legati con corde di fabbricazione sovietica ed il nodo usato era quello che, di norma, veniva insegnato alla Ghepeù (la Polizia segreta sovietica, poi denominata NKWD) ed alcuni di loro portavano segni di colpi di baionetta quadrangolare del tipo sovietico.
Insomma, dalle risultanze della commissione internazionale tutto lasciava credere che ad aver compiuto il massacro fossero stati i russi, nel periodo in cui la zona di Katyn era sotto il loro controllo. A sfavore dei tedeschi deponeva il solo calibro delle pallottole usate nel massacro. I proiettili impiegati, di tipo 7,65, erano indiscutibilmente tedeschi, ma una grande quantità di tali munizioni era stata venduta nell’anteguerra ai Paesi Baltici e alla Polonia. Inoltre, pistole 7,65 di tipo Geco erano state cedute dai tedeschi alla Russia in seguito al trattato di Rapallo.
E’ da evidenziare che, nell’agosto del ’41, i tedeschi erano venuti in possesso di enormi depositi di armi russe e se avessero voluto far ricadere la colpa della strage sui russi avrebbero usato quelle armi e non pistole di produzione nazionale.
Se quanto detto non bastasse a dichiarare la colpevolezza dei russi nella strage, basterebbe raccontare quanto il prof. Palmieri, illustre professore di medicina legale facente parte della commissione internazionale di indagine, di ritorno da Katyn avrebbe poi raccontato. I contadini del posto ricordavano come, nell’aprile maggio del 1940, fossero giunti alla stazione di Gniazdov treni carichi di ufficiali polacchi i quali erano stati poi avviati verso la foresta di Katyn.
Con la rioccupazione russa della zona di Katyn, nel settembre del 1943, i sovietici riaprirono il caso. Il 15 gennaio 1944 una ventina di giornalisti, tra cui un francese e un polacco e il resto tra americani e inglesi, poterono assistere ad una veloce riesumazione delle salme, in presenza di sei medici patologi sovietici e di otto personalità russe. La ricognizione dei cadaveri fu fatta in un clima avvilente e ai giornalisti fu chiaro che l’unico scopo dei russi era quello di mandarli via al più presto, non essendo in grado di rispondere a nessuna delle loro domande.
La riesumazione con conseguente ricognizione delle salme da parte russa, servì solo a dare modo ai sovietici di riprendere la campagna di disinformazione e di accuse rivolte ai tedeschi di essere gli autori della strage.
La mattanza di Katyn sarebbe ritornata a galla nel corso del processo di Norimberga quando il Generale Rudenko, titolare dell’accusa da parte sovietica, avrebbe chiesto di imputare ai capi nazisti anche “l’uccisione avvenuta nel settembre 1941, di dodicimila ufficiali polacchi prigionieri di guerra nella foresta di Katyn, nei pressi di Smolensk”.
L’accusa russa, stranamente, fu dimenticata e nessun riferimento alle migliaia di ufficiali polacchi assassinati a Katyn si sarebbe poi trovato nel lungo dispositivo della sentenza del processo.
Nel dopoguerra si riparlò della faccenda e, il 13 febbraio 1948, il Dagens Nyheter di Stoccolma pubblicò un documento che indicava chiaramente come il NKWD, ovvero la polizia segreta russa, avesse organizzato la strage. Il Dagens Nyheter narrava dell’indagine fatta dall’avvocato Reman Martini di Cracovia e di come quest’ultimo fosse riuscito ad indicare anche i nomi degli uomini dell’NKWD responsabili della carneficina.
La menzogna russa sarebbe stata veramente dura a morire e soltanto il 12 aprile 1990 la verità sarebbe venuta fuori. Gorbacev, in nome della politica di apertura della politica russa, nel 1990 avrebbe finalmente ammesso la piena responsabilità sovietica nell’eccidio di Katyn.
Alcune fonti riferiscono, addirittura, di 22.000 polacchi trucidati a Katyn, ma il vero enigma da risolvere non è quanti furono i polacchi assassinati. Bisogna, invece, rispondere alla domanda: perché i russi lo fecero?
La risposta accettabile può essere una sola: Stalin, eliminando gli ufficiali di quell’esercito, tentò di annullare la parte pensante della società polacca. Un mostruoso tentativo di trasformare quella nazione in un corpo acefalo, un popolo di schiavi da asservire alle esigenze russe. Altro che libertà in nome del comunismo. A Katyn, La Polizia di Sicurezza russa esperì il tentativo di annullare un popolo, privandolo, in un colpo solo, dell’intellighenzia.
Il crimine russo fu peggiore di un tentativo di genocidio. Il genocidio è la carneficina ai danni di un popolo al fine di eliminarlo dalla faccia della terra. A Katyn, invece, si volle preservare il popolo polacco, ma solo per trasformarlo in una nazione di schiavi perché priva della parte dirigente.

Katyn di Andrzej Wajda è il primo film sul massacro di 22.000 polacchi avvenuto nella foresta di Katyn, che si trova in Ucraina, non lontano dalla frontiera russa. Il primo film sulla "bugia di Katyn". 


sabato 20 dicembre 2014

Gran Bretagna, ovvero il primo narco stato ( Come l’oppio invase la Cina )


 
Gran Bretagna, ovvero il primo narco stato
 
Come l’oppio invase la Cina
 
L’oppio è uno stupefacente che ha invaso il mondo, in origine veniva utilizzato presso le popolazioni  del  vicino e medio orientale, come antidolorifico e rimedio contro le malattie.
Il commercio di questa sostanza esplose in Asia durante il XVII secolo, quando i commercianti europei in Asia, iniziarono a fumare questa sostanza come rimedio contro la malaria.
Gli inglesi iniziarono a commerciare con la Cina alla fine dell’600, le merci britanicche non avevano profitto in oriente, ma trovarono un’immensa fonte di guadagno commerciando l’oppio, che veniva coltivato in India ( colonia inglese ) a scapito delle culture primarie come grano e riso. ( Questa politica causò la morte di 10 milioni di persone nella carestia del 1770 ).
Nel 1789 a seguito di questo commercio distruttivo, l’Imperatore Cinese dichiarò fuorilegge sia l’importazione che la coltivazione di oppio, ricorrendo alla pena di morte per i trasgressori. Questo decreto, servì a ben poco, avendo come unico effetto la creazione di cartelli malavitosi dediti a questo. Tra il 1800 e il 1840, l’importazione passò dalle 350 tnt. annue alle oltre 2.000. Di conseguenza la Cina soffrì di un grave deficit di bilancio per pagare l’importazioni stimate in oltre 100 mln di argento. Nel 1839, l’Imperatore Cinese, nominò un nuovo ed energico commissario a Canton per far fronte allo straripante commercio di oppio. Questi, si adoperò da subito a fermare l’illegale commercio, condizionando gli inglesi a firmare un’intesa nella quale si impegnano a eliminare il commercio di oppio la conseguente distruzione di 1.270 tnt di questo narcotico presente a  Canton e punire i possibili trasgressori inglesi, ma su quest’ultima clausola non fu trovato l’accordo. Nel luglio del 1839 un gruppo di marinai britannici uccise un cinese e distrusse un tempio nei pressi di Kowloon, creando un aperta conflittualità con i locali, aumentata anche dal rifiuto inglese di far giudicare i marinai da un tribunale locale. Il 3 luglio  al forte Chaundi  il capo militare cinese rifiutò di concedere lo sbarco delle merci europee di conseguenza i britannici bombardarono l’avamposto.
 Nel 1840 il governo inglese rafforzò la propria posizione nell’ Estremo Oriente occupando Hong Kong . I britannici chiesero all’Imperatore un’ armistizio e un’ indennizzo sulle perdite commerciali dovute al blocco. Il governo cinese dopo aver rifiutato tale proposta fu attaccato nei pressi dello Xiamen. L’anno successivo fu occupato l’importante avamposto di Bongue situato nei pressi di Canton. Nel gennaio del 1841 i cinesi furono sconfitti a Nigboe e Changoi, il nuovo governatore di Canton Quinsai, accettò la proposta di pace inglese, concedendo un’indennità di 6 mln. di dollari messicani e la creazione di nuovi trattavi economiche.
 L’imperatore cinese non firmò  tale accordo e  di conseguenza i britannici, riattaccarono le truppe asiatiche, arrivando a occupare gli avamposti nei pressi del fiume delle Perle. A metà del 1842 i britannici vinsero un’importante battaglia nel fiume Yangtze. Il 21 luglio fu occupata l’importante città di Zhejiang , all’incrocio tra il canale imperiale e lo Yangtze. Il 29 agosto l’Imperatore fu costretto alla resa. Il trattato di Nanchino firmato dalle potenze belligeranti, concedeva un’ indennizzo agli inglesi di 21 mln. di dollari messicani, apertura di 5 porti alle merci europee ( tra cui l’oppio ), tariffe doganali unitarie, godimento di extraterritorialità per le famiglie inglesi. Clausole simili, con validità di 12 anni  furono concesse ad americani e francesi.
Gli anni successivi videro un continuo rafforzamento del commercio europeo verso l’Impero Celeste, ma le clausole di Nanchino non erano troppo “favorevoli” per la Gran Bretagna.
Gli inglesi proposero una nuova revisione che comprendeva, l’apertura di tutta la Cina al commercio, legalizzazione del consumo dell’oppio, esenzione dei dazi sulle merci inglesi, soppressione della pirateria, permesso dell’ambasciatore britanicco di abitare nella capitale e l’utilizzo dell’inglese come prima lingua nei trattati.
L’Imperatore, di fronte a tale arroganza rifiutò immediatamente e non rinnovo i trattati commerciali con USA e Francia.
Il 10 agosto 1856, nei pressi di Canton un pattuglia cinese arrestò i membri di una nave inglese dedita al contrabbando. I membri dell’equipaggio in aperta violazione del trattato di Nanchino furono arrestati. Nello stesso periodo un missionario francese fu ucciso, in una zona di non competenza. Gli europei risposero all’incidente inviando una forza di spedizione che attacco un forte presso Guanzhou. L’esercito cinese ridotto al minimo a seguito della rivolta interna dei Taiping, oppose una minima resistenza. Inglesi, francesi, americani e russi formarono una coalizione per spartirsi il bottino dell’Impero Celeste. I francesi inviarono dei militari, mentre gli ultimi due solo dei delegati politici. Le forze anglo transalpine guidate dal generale Seymour, occuparono Guanzhou a metà del 1857. Il governatore Ye Minchen fu catturato e obbligato alla resa. La commissione alleate decise di ristabilire il governatore alla guida della provincia, ma solo come rappresentante fantoccio delle nazioni belligeranti, mentre gli europei mantennero il controllo della città di Guanzhou. Nel maggio del 1858 i cinesi furono nuovamente sconfitti presso la città di Tianjin e obbligati a firmare un nuovo trattato.
La Cina si vedeva costretta a concedere l’apertura di altri undici porti, i membri della coalizione dovevano avere un’ ambasciatore a Pechino ( città chiusa per gli europei ), navigazione libera sul Fiume Giallo, diritto degli europei di viaggiare nelle zone interne, pagamento di 4 mln. di dollari d’indenizzo. Il 28 maggio i cinesi firmarono un nuovo trattato con i russi, che comportava la cessione dei territori a Sud del Fiume Amur fino al bacino idrico di Agun. ( l’attuale frontiera ).
Nel giugno dello stesso anno l’Imperatore si fece convincere da alcuni ministri ad intavolare una nuova e vigorosa resistenza contro le truppe d’occupazione.  I cinesi furono rafforzati dall’invio di un nuovo e vigoroso corpo di spedizione proveniente dalla Mongolia. L’anno successivo un contingente militare anglo francese composto da 2.200 soldati e 21 navi partì da Shiangai in direzione Tianjin con il compito di trasportare i delegati all’ambasciata di Beijng. Nei pressi dell’avamposto di Dagu alla foce del fiume Hai, i cinesi bloccarono la spedizione fluviale, obbligando gli invasori a procedere via terra senza scorta militare. Il 25 giugno la spedizione europea bombardò il forte “ribelle”, ma trovò un’accanita e vigorosa resistenza, che fece perdere agli anglo francesi 4 navi. Il convoglio in netta minoranza fu salvato solamente dall’arrivo di una spedizione americana, che gli permise una pacifica ritirata. ( Quest’ultimo intervento fu un’aperta violazione del trattato sino americano ).
Nell’estate del 1860, fu creato un nuovo corpo militare composto da 17.000 soldati e quasi 200 navi.
La spedizione conquistò le città di Dailan e Yantai. Il 21 agosto fu occupato il forte di Dangu e successivamente furono occupate le città limitrofe. L’ Imperatore si vide nuovamente costretto a intavolare trattative. Le relazione si ruppero a seguito dell’arresto dell’inviato britannico Portess. La spedizione europea si scontrò aspramente contro la cavalleria mongola nei pressi di Zhangjian. I cinesi che avevano un equipaggiamento inadeguato furono facilmente sconfitti.  A Baliquao un nuovo contingente composto da 10.000 soldati cinesi fu annientato. Gli invasori entrarono nella capitale il 6 ottobre, saccheggiando e distruggendo tutto. L’Imperatore abbandonò la capitale e si rifugiò in Manciuria. Il 18 ottobre il fratello stipulò l’accordo di pace. Le clausole furono opprimenti, i cinesi furono obbligati a risarcire nuovamente gli anglo francesi con 8 mln.di dollari, cedere agli inglesi la penisola di Kowloon, legalizzare il commercio dell’oppio, pieni diritti ai cittadini cristiani, rinnovo del trattato precedente di Tianjin.
A seguito della sconfitta, il commercio di sostanze oppiacee passò dalle 6.700 alle 35.000 tnt annue, i consumatori rappresentavano il 27% della popolazione adulta maschile, quasi uno su tre.
Queste attività illecite, arricchirono enormemente le famiglie massoniche inglesi,  che avevano investito in tale attività come la Matheson, Sutherland, Jardine e Barling. La Cina fu invasa dalla droga fino al 1949, quando al potere giunse Mao, che riuscì a liberare la nazione da una condizione neo coloniale, ponendo le basi per una nuova rinascita nazionale.


                                                          
                                                                                                                                                  

mercoledì 17 dicembre 2014

LA STORIA -- COME FU TRADITA LA POLONIA


COME FU TRADITA LA POLONIA

di Mario Spataro


E’ noto a tutti che la Polonia, incoraggiata e sospinta dalla diplomazia britannica e francese, respinse nel 1939 le ripetute offerte tedesche di una ragionevole sistemazione della questione di Danzica e del Corridoio. Le pressioni esercitate in tal senso sul polacco Josef Beck dagli alleati occidentali si basavano su un accordo di pochi mesi prima, contenente la promessa di un pronto intervento se la Polonia fosse stata attaccata “da una potenza europea”. Dunque non “se fosse stata attaccata dalla Germania”, come sostiene Donald C. Watt nel suo articolo Dopo Monaco apparso sul vol. I della Storia della Seconda Guerra Mondiale (Rizzoli 1967), ma se fosse stata attaccata da chicchessia. “Abbiamo dato la nostra parola d’onore che avremmo difeso la Polonia da qualsiasi aggressione”, confermò infatti alla radio il primo ministri britannico Neville Chamberlain il 4 settembre 1939, tre giorni dopo l’invasione tedesca del territorio polacco. Perché dunque Gran Bretagna e Francia non si opposero all’invasione sovietica della parte orientale della Polonia con la stessa sollecitudine con la quale si opposero alla quasi contemporanea invasione tedesca della parte occidentale?
Le pretese sovietiche sulla Polonia risalivano agli anni immediatamente successivi alla rivoluzione bolscevica, quando nel 1920 l’esercito polacco era riuscito a respingere quello avversario sino a conseguire una breve occupazione di Kiev. Ma poco dopo le superiori forze comuniste avevano avuto la meglio e, come ha scritto H. Fisher nel suo libro A History of Europe (1942, “il rombo delle artiglierie comuniste era facilmente udibile dal centro di Varsavia”. Solo in seguito,e al prezzo di enormi perdite, le truppe di Jozef Filsudki erano riuscite a respingere quelle avversarie e a salvare la Polonia e buona parte d’Europa dalla minaccia dei rossi.
Nel 1939 l’ambiguità delle promesse occidentali alla Polonia fu dimostrata anche dal rifiuto britannico di concedere alla Polonia gli aiuti finanziari di cui la stessa aveva bisogno per prepararsi a fronteggiare un eventuale attacco tedesco: contro una richiesta polacca di 66 milioni di sterline da destinarsi ad acquisti di materiale bellico, era stato offerto un prestito di soli 5 milioni di sterline.
L’attacco sovietico seguì di sole tre settimane quello tedesco ma stavolta, come dicevamo sopra, Francia e Gran Bretagna non mossero un dito. Come riferisce Arthur Bliss Lane (ambasciatore americano a Varsavia dal 1944 al 1947) nel suo libro I saw Poland betrayed, alla Camera dei Comuni, a Londra, nessuno osò chiedere perché mai non si fosse dichiarata guerra alla Russia e perché mai non si criticasse l’immediata deportazione di oltre un milione di polacchi destinati ai lavori forzati in Siberia per fare posto ad altrettanti ucraini che avrebbero dovuto sfruttare le fertili pianure polacche e i giacimenti petroliferi della regione di Lvow.
D’accordo con Hitler, Stalin stabilì la nuova frontiera lungo quella che nel 1919 una commissione alleata aveva definito Linea Curzon. Durante tutta la seconda guerra mondiale quella espansione sovietica verso ovest creò dissapori fra Mosca e il governo polacco in esilio a Londra, ma la Gran Bretagna, che inizialmente si era espressa a favore dei polacchi, col progredire del conflitto andò sempre più spostandosi verso posizioni filosovietiche: “Qualsiasi uomo o qualsiasi nazione si pongano in guerra contro il nazismo avranno il nostro aiuto”, disse Winston Churchill nel corso di un proclama radiofonico.
Ciò ebbe ufficiale conferma nel novembre 1943 a Teheran, quando i Tre Grandi concordarono l’annessione da parte dell’Unione Sovietica delle regioni orientali della Polonia. E decisero pure, come riferiscono Calvocoressi e Wint nel libro Total War (1972), di discutere quella faccenda senza la presenza di rappresentanti polacchi. Era infatti necessaria una assoluta riservatezza: un anno dopo si sarebbero tenute le elezioni presidenziali americane e Roosevelt temeva che la forte comunità polacca degli Stati Uniti si rivoltasse contro di lui. Ma pensò Churchill a tranquillizzarlo. Secondo quanto rivelato dal libro Roosevelt & Churchill, their secret wartime correspondance di Loewenheim, Langley e Jonas (1975), il primo ministro britannico assicurò al presidente americanocce non solo lui stesso, ma anche Stalin avrebbero mantenuto il segreto su ciò che si preparava alle spalle dei polacchi: “Più volte Stalin”, scrisse Churchill a Roosevelt, “mi ha espresso il suo desiderio che tu vinca le elezioni, anche perché ciò tornerebbe a vantaggio dell’Unione Sovietica. Pertanto puoi star certo che da parte sovietica non ci saranno indiscrezioni”.
Ma nonostante ogni cautela, è riferito dal celebre generale polacco Waceslaw Anders nel suo libro An army in exile (1949), la verità giunse alle orecchie del governo polacco in esilio. Il primo ministro polacco Stanislaw Mikolajczyk, trovatosi a Mosca durante un incontro fra Churchill e Stalin, rimase allibito quando Viacheslav Molotov approfittando dell’assenza dei rappresentanti americani gli sussurrò il grande segreto: “Ricordo di aver sentito il presidente Roosevelt dire che per lui la Linea Curzon è perfettamente accettabile come linea di confine fra la Polonia e l’Unione Sovietica, ma che per il momento non è opportuno che la faccenda sia resa pubblica”.
Mikolajczyk non riuscì a trattenere la rabbia e si recò subito a visitare l’ambasciatore americano a Mosca, Averell Harrimann: “Come mai pochi mesi fa”, gli chiese, “a Washington il presidente Roosevelt mi ha detto che soltanto Churchill è d’accordo con Stalin per il massacro della Polonia, e che invece lui, il presidente, non è d’accordo sulla Linea Curzon che lascerebbe all’Unione Sovietica le regioni orientali della Polonia?”.
Quell’intesa fra i Tre Grandi alle spalle del popolo polacco, commenta lo storico inglese Bernard Smith nel suo libro Poland, a study on treachery (1980), fu ancor più cinica del patto firmato da Germania e Unione Sovietica nel 1939: quello del 1939 era infatti un accordo che stabiliva la spartizione di una nazione nemica, mentre adesso si trattava di un accordo che pugnalava alle spalle una nazione alleata. Inoltre, aggiunge Smith, quell’accordo sulla Linea Curzon era una palese violazione della Carta Atlantica firmata da Roosevelt e Churchill nel 1941, che stabiliva che non ci sarebbe stata “alcuna modifica territoriale contraria alla liberamente espressa volontà delle popolazioni interessate”.
Col passare dei mesi, anche se le elezioni americane erano sempre più vicine, la verità divenne palese e la situazione si fece, per Churchill e Roosevelt, ancora più imbarazzante. Mentre Roosevelt scelse il silenzio, il primo ministro britannico decise di gettare la maschera: “Il destino della nazione polacca”, disse il 22 febbraio 1944 in un discorso alla Camera dei Comuni, “sta a cuore al governo di Sua Maestà e a questo parlamento. Ed è stato per me motivo di gioia sentire il maresciallo Stalin dire che lui desidera una Polonia forte, integra e indipendente”. Ma proseguì, Churchill dicendo che la Gran Bretagna non aveva mai garantito il mantenimento delle vecchie frontiere polacche orientali, e che secondo lui le richieste sovietiche non andavano “oltre il giusto e il ragionevole”. Pertanto, concluse Churchill, bisognava considerare “con favore” la decisione di spostare sulla Linea Curzon la frontiera russo-polacca.
IL generale Anders, che in quel momento era impegnato sul fronte italiano di Montecassino col suo corpo di spedizione polacco, riferì in seguito che quel discorso fu per i suoi soldati “un colpo feroce”. Nel suo già citato libro Anders non ebbe esitazioni: “Quando firmò con noi l’accordo del 1939”, si legge a pagina 159, “la Gran Bretagna non fece alcun accenno alla Linea Curzon, né della Linea Curzon ci si parlò mentre noi combattevamo. Le nostre frontiere non furono messe in discussione mentre i nostri uomini si battevano in Francia nel 1940 e, poi, sui cieli inglesi e infine, lasciando sul terreno quattromila morti, a Montecassino. Quel discorso di Churchill ebbe effetto deprimente sui nostri soldati, parecchi dei quali avevano famiglie che vivevano a oriente della Linea Curzon. Fu una grande ingiustizia nei nostri confronti e per la prima volta perdemmo ogni fiducia nei nostri alleati”.
Anders aveva validi motivi per non gradire la consegna ai sovietici di un terzo della Polonia. Lui stesso nel 1939 era stato catturato dall’Armata Rossa (combatteva contro i tedeschi, e i tedeschi erano allora alleati dei sovietici!) e, benché ferito e costretto sulle stampelle, per ben due anni era stato tenuto dai suoi carcerieri sovietici in una cella senza finestre e sottoposto a frequenti bastonature. Poi, quando la Germania era diventata nemica dell’Unione Sovietica, era stato liberato perché riprendesse a combattere contro i tedeschi. Aveva accettato, ma saggiamente aveva preferito stabilire a Londra il centro organizzativo delle sue operazioni.
Nel 1943 e 1944 i rapporti fra il governo polacco in esilio a Londra e le autorità britanniche, un tempo cordiali, si fecero tesi a causa della disputa sui confini orientali polacchi. Unica reazione da parte britannica alle rimostranze polacche fu uno scortese commento di Anthony Eden capo del Foreign Office: “I polacchi devono imparare a controllare le loro emozioni”. Nei mesi successivi nulla avrebbe modificato il cinico orientamento britannico e americano a proposito della frontiera orientale polacca. Neppure la scoperta nel 1943 della verità sul massacro di Katyn e neppure il tradimento nei confronti degli insorti di Varsavia nel 1944 cambiarono la situazione. Come il Daily Telegraph riferì il 1° agosto 1973, durante una riunione di governo Churchill tornò distrattamente sulla questione polacca definendola “molto fastidiosa”. E, dopo aver accennato al fatto che il generale polacco Kazimierz Sosnkowski continuava a “brontolare”, Churchill si compiacque del fatto che lo stesso, su pressione di Anthony Eden, fosse stato rimosso dall’incarico. Poi, a proposito del generale Bor-Komorowski che aveva guidato la rivolta antitedesca, Churchill si disse “lieto” che lo stesso fosse ormai in mano tedesca. E non batté ciglio, Churchill, quando in occasione di un incontro tecnico da tenersi a Mosca Stalin gli disse che la presenza di rappresentanti del governo polacco in esilio non era gradita. Anzi, quando il primo ministro polacco Stanislaw Mikolajczyk protestò, Churchill perse le staffe e lo accusò di essere “un pazzo, un testardo e un cieco” che avrebbe portato il suo paese alla completa invasione da parte dell’Unione Sovietica.
Venne il 1945 e venne Yalta seguita, pochi mesi dopo, da Potsdam. E allora ogni parvenza di giustizia e correttezza venne meno. L’Unione Sovietica si impadronì della Polonia orientale, il resto della Polonia perse di fatto l’indipendenza in quanto trasformato in stato-satellite e, cosa forse peggiore, alla Polonia fu regalata in cambio una cospicua fetta di territorio tedesco sulla quale liberamente attuare una politica di pulizia etnica e di deportazioni.
A Londra un forte gruppo di parlamentari conservatori, guidati da Michael Petherick, presentò un documento col quale si lamentava la remissività del governo di fronte alle pretese sovietiche a spese di un alleato fedele come la Polonia. Preoccupato, il 10 maggio 1945 Churchill inviò a Roosevelt un messaggio riservatissimo nel quale si documentava il ripetersi di arresti collettivi, deportazioni, torture, e uccisioni nella Polonia orientale annessa dall’Unione Sovietica. Roosevelt si limitò a dare ricevuta del messaggio senza però fare commenti. Il 27 marzo Churchill, ormai pentito, insistette: “La Polonia, col nostro beneplacito, ha perduto la propria frontiera. Perderà adesso anche la libertà?”. Ancora, nessuna risposta da Washington.
L’8 giugno 1946 si tenne a Londra la parata ufficiale per la vittoria. Le truppe polacche, che pure erano state le prime a combattere in quella guerra, furono pregate di non partecipare alla cerimonia; la loro presenza, si disse, avrebbe infastidito Stalin. Da Ancona, in Italia, il generale Anderson manifestò pubblicamente il proprio sdegno. Gli fu risposto da Londra di evitare in futuro quelle “imbarazzanti” polemiche se non voleva essere privato dell’incarico.
Come il generale americano Mark Clark ebbe a scrivere alcuni anni dopo, tutto in quella guerra fu fatto per favorire le mire di Stalin: lo sbarco in Normandia anziché in Danimarca o in Olanda, come lo sbarco nella punta estrema dell’Italia anziché nei Balcani, celavano il desiderio di dare all’Armata Rossa il tempo di raggiungere il cuore dell’Europa. La follia dei vertici di Washington giunse anzi sino a fermare l’avanzata americana su Berlino ed a fare arretrare le truppe di Gorge Patton che erano quasi alle porte di Praga. E i bombardamenti angloamericani delle città tedesche a ridosso del fronte orientale (come quello, vergognoso, subito dalla indifesa città di Dresda) altro scopo non avevano che quello di favorire e accelerare l’avanzata sovietica. Ma, tutto sommato, il tradimento nei confronti della Polonia non fu che un dettaglio di una politica autolesionistica dell’Occidente. Non fu che uno dei numerosi tradimenti. Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Germania Est, Stati Baltici e Corea del Nord, a loro insaputa, altro non furono che graziosi regali fatti a Stalin: di ciò i loro popoli avrebbero per mezzo secolo pagato le conseguenze.

Articolo tratto da STORIA DEL NOVECENTO anno V n. 52 luglio 2005 pagine 28-29 


                                                                                                                               

lunedì 15 dicembre 2014

Il petrolio iracheno fa gola ai britannici. Churchill disprezzava gli arabi, ma non il loro greggio


Il petrolio iracheno fa gola ai britannici. Churchill disprezzava gli arabi, ma non il loro greggio


di Giorgio Vitali

Ed è forse meno noto, proprio a proposito dei Savoia, che nel 1919 il Re Vittorio Emanuele III, invocando uno dei diritti italiani stabiliti in favore delle potenze vincitrici del I conflitto mondiale, all’articolo n. 9 del celebre Patto di Londra dell’aprile 1915, chiese ed ottenne l’assenso dell’altra potenza vincitrice, la Gran Bretagna, attraverso i buoni uffici di Lloyd George, per l’invio in Georgia, terra in fermento indipendentista e da sempre riluttante alla sottomissione ai Soviet, di un contingente italiano di 85.000 soldati agli ordini del generale Giuseppe Pennella, che avrebbe dovuto difendere l’indipendenza del Paese e sostenere la neonata Federazione delle Repubbliche Transcaucasiche, Georgia, Armenia e Azerbaigian. Il governo Orlando, poco prima di cadere, decise quindi con proprio decreto la spedizione italiana in Georgia e ne stabilì termini e date. Ma il successivo governo Nitti ritenne di dover bloccare la spedizione per non compromettere l’avvio di buone relazioni tra Italia e la futura Unione Sovietica dei bolscevichi, che nel breve intermezzo, non certo ispirandosi ai principi invocati vent’anni più tardi con la mobilitazione della Grande Guerra Patriottica, avevano stroncato con la forza l’insurrezione georgiana, facendo strage degli oppositori e stabilendo a Tbilisi un governo di Soviet.

Credo convenga a questo punto mettere a fuoco le circostanze e gli sviluppi degli eventi, europei ed extraeuropei, che costrinsero Stalin a rivedere una rigida posizione antioccidentale di puro stampo ideologico e a percorrere vie politiche più “opportune”, se non indispensabili alla stessa esistenza dell’Unione Sovietica. Un atteggiamento suggerito dai criteri di Realpolitik che connotò la politica internazionale di Stalin, fermi restando il clima di terrore e di repressione che caratterizzarono il sistema di governo interno.
A questo proposito è bene ricordare che le potenze occidentali decisero di attribuire all’Unione Sovietica un preciso compito e affidare al georgiano Stalin un nuovo ruolo ad esse conveniente. Spinti ad operare in tal senso dalle continue e forti pressioni dei veri arbitri della politica internazionale (le Compagnie petrolifere Standard Oil of New Jersey del gruppo Rockefeller, Socony Mobil, Chevron, Texaco, l’inglese Iraq Petroleum Company, nonché i colossi industriali come Ford, General Motors, IBM, ITT e il Cartello Bancario facente capo ai gruppi Morgan, Rothschild, Warburg, Baruch, di chiara ispirazione sionista, il cui centro di manovra era la Federal Reserve Bank che vantava potenti diramazioni nelle Banche Centrali europee e in particolare nella Bank for International Settlements di Basilea) Churchill e Roosevelt decisero (o meglio obbedirono alla decisione dei sopra elencati) di avvalersi di Stalin per fermare Hitler, lanciato verso la conquista del petrolio del Caucaso e dell’impero del cartello petrolifero angloamericano in Medio Oriente. Fu questo l’unico motivo degli aiuti concreti fatti pervenire a Stalin dagli alleati. In cambio di certe garanzie che il capo dei Soviet avrebbe dovuto offrire: la sospensione delle attività del Komintern (almeno temporaneamente), l’eliminazione dei deviazionismi trotzkiski, il contenimento del comunismo in un solo paese, un nuovo impulso al fuoriuscitismo italiano, incrementando il sostegno finanziario a favore di quest’ultimo, in vista dell’esecuzione immediata di un piano più ampio che prevedeva il disfacimento delle Nostre Forze Armate inviate in Unione Sovietica.
Osservando la vicenda dall’altro lato, ci si rende conto che la politica estera di Josip Djugasvilji Vissarionovic, detto Stalin, si distingueva appunto per quell’insieme di misure, da lui adottate nel periodo bellico, che, discusse e chiarite poi nel corso delle intese di Yalta, obbedivano ai criteri della Realpolitik occidentale. Una sorta di scambio di reciproci impegni che le potenze capitaliste furono costrette ad assumere con l’Unione Sovietica, in vista dell’unico sbocco delle operazioni belliche ad esse favorevole, quello cioè che avrebbe portato alla definizione delle linee del bipolarismo. Intendendo con questo fra l’altro il tracciato di confini che il comunismo internazionale non avrebbe potuto oltrepassare e che avrebbe permesso all’Unione Sovietica di esercitare, all’interno di un’area ben definita, quelle funzioni di contenimento e di controllo tanto dei deviazionismi trotzkisti, quanto degli eterni fermenti delle popolazioni islamiche sottoposte al regime dei soviet. Previsioni d’intesa elastica, come qualcuno l’ha voluta chiamare, caratterizzante l’intero periodo della guerra fredda, logorata dai conflitti est-ovest di bassa intensità, al culmine dei quali si sarebbe registrato il crollo sovietico definitivo, grazie allo scaltro utilizzo della forza islamica nella guerra afghana. La premessa serve a spiegare il grande timore equamente condiviso da Stalin e da Gran Bretagna e Stati Uniti, che le venti divisioni di musulmani filonazisti arruolati da Hitler alla fine del ‘42 e costituiti in Waffen Islam SS del Kazakhstan, dell’Azerbaigian, Turkmenistan, Cecenia, Dagestan, Uzbekistan etc. risultassero decisive per il successo del piano hitleriano di penetrazione in Medio Oriente e per la conquista dei territori petroliferi. Ecco la vera ragione degli accordi tra Stalin, Churchill e Roosevelt, dei colossali aiuti americani alla Russia, della disfatta dell’Asse, della tragedia dei Nostri Alpini sulle rive del Don e nel corso del drammatico ripiegamento.

E l’Italia di Mussolini poteva sperare nella promessa di una concessione petrolifera dal governo iracheno?
Certo. Il Duce (che aveva finanziato in numerose occasioni Al Husseini e Rashid El Gailani, quest’ultimo rappresentante del governo iracheno in esilio)* contava di potersi rifare dello smacco subito dall’AGIP nel ‘35, quando la nostra compagnia petrolifera possedeva il capitale di maggioranza della BODC (British Oil Development Company) la quale estraeva il greggio di Mosul e Quayara, lasciando il gravoso compito di pagare l’affitto concordato con il governo iracheno alla sola AGIP. Circostanze che non furono mai chiarite, pur essendo allora evidente nella questione l’intrigo architettato ai nostri danni da un astuto Winston Churchill, indussero Mussolini a svendere la quota di maggioranza dell’AGIP (il 56%), che fu subito incamerata dalla Iraq Petroleum Company. Un errore di doppio peso, quello commesso dal Duce. Attraverso la svendita della quota di maggioranza AGIP l’Italia ottenne un limitato finanziamento per sostenere una parte delle spese previste per l’impresa etiopica. Nell’occasione Mussolini non si avvide che l’imperialismo vecchia maniera, consistente nella costosissima occupazione militare dei territori era destinato all’insuccesso, mentre il neocolonialismo intrapreso dalla Gran Bretagna con l’ “ipocrita” ma funzionale formula dello “Indirect Rule” o del “mandato”, le avrebbe assicurato il controllo delle aree ricche di materie prime e di fonti di energia, mascherando opportunamente autentiche politiche di aggressione con la pretesa di apporto di “liberaldemocrazia”.

Quali altri motivi sarebbero stati alla base della disfatta italiana in Russia?
Non è difficile considerare l’enorme portata della disastrosa Campagna di Russia sul piano politico e sociale, come causa determinante di una svolta che si verificò nella vita del nostro Paese. La sconfitta italiana era ormai certa su tutti i fronti all’inizio del 1943, ma gli effetti della nostra disfatta in Russia sembrarono quasi calcolati sulla base dell’importanza strategica e militare che Gran Bretagna e Stati Uniti annettevano alla nostra Penisola sul Mediterraneo. Superfluo ricordare che l’impatto del nostro disastro in Russia sull’opinione pubblica italiana avrebbe provocato sdegno e pietà, insieme al desiderio di chiudere l’ultimo tragico capitolo della guerra, rinnegando magari un passato scomodo, e predisporsi ad accettare quei mutamenti che “giustificavano” e imponevano la collocazione dell’Italia nello scenario di un nuovo ordine mondiale. Constatato questo, considerata l’essenziale esigenza degli alleati di destituire Mussolini e di far cadere il Fascismo ed osservata la quasi coincidenza di operazioni militari alleate su fronti diversi, come lo sbarco americano in Algeria e Marocco del novembre ‘42 e il contemporaneo ribaltamento della situazione a Stalingrado (che con grande sorpresa volgeva da allora a favore dei Russi), è ingenuo non pensare a sicure intese, in seguito precisate a Tehran, Casablanca e Yalta, sull’opportunità di una concordata, comune azione “alleata” tesa prima a sabotare e poi a distruggere le nostre Forze Armate, specialmente quelle schierate sul fronte russo. Il disperato appello staliniano invocante la creazione del “secondo fronte” europeo fu accolto con un anno di ritardo per la primaria esigenza di Churchill di liquidare prima l’Italia, il ventre molle dell’Asse, puntando sul teatro di guerra italiano particolari attenzioni alla fase preparatoria, che avrebbe preceduto l’intervento militare e la successiva occupazione del nostro suolo e svolgendo quell’intensa attività di propaganda antifascista su un esteso malcontento popolare che doveva trovare sostegno e convincenti motivi soprattutto nell’ecatombe dell’ARMIR in Russia. Particolari attenzioni furono poste dagli inglesi sull’opinione pubblica italiana al fine di svolgere su di essa un’intensa propaganda antifascista (sostenuta da BBC e Radio Londra), mentre sezioni speciali di intelligence britannica, a tal fine costituite, avevano da tempo avviata una sistematica azione di sabotaggio ai danni delle nostre Forze Armate. Per fare un esempio una Sezione speciale operativa fu creata da Winston Churchill a da Hugh Dalton nel luglio del ‘40, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia, e nel momento più critico per la Gran Bretagna, quando grazie al patto di non aggressione Russo-Tedesco, il Premier britannico vedeva Londra bombardata dagli Stukas della Luftwaffe, ben riforniti del petrolio sovietico di Baku. L’iniziativa di Churchill in tale circostanza fu quella di affidare ai “Baker Street Irregulars”, così erano chiamati gli agenti della sezione speciale, poi diventata SOE (Special Operations Executive), la conduzione di operazioni di sabotaggio contro l’Italia. Ma il compito più importante che costoro avrebbero dovuto svolgere consisteva nell’avvicinare gruppi di esuli antifascisti in Francia anche in vista della costituzione di formazioni partigiane, fin dall’inizio abbondantemente finanziate, che avrebbero trovato un successivo impiego in territorio italiano.
Altro compito del SOE era quello di tastare il polso di alcuni vertici della Marina Italiana e dello Stato Maggiore Generale che avevano mostrato avversione per i tedeschi e disaccordo con le decisioni del Duce. (I nomi si sanno ma omettiamoli, ricorrendo al solito velo pietoso!)
Ma non è tutto! Forte del fatto che nel ‘40 non esisteva ufficialmente uno stato di guerra tra Gran Bretagna e Unione Sovietica e consapevole delle difficoltà nel reperire altrove altrettanti possibili collaboratori di marcata convinzione antifascista, ma anche propensi a privilegiare un’ idea e una prassi, poste comunque al di sopra di ogni sentimentalismo patrio, il premier inglese puntò tutte le sue attenzioni sui fuoriusciti italiani a Mosca, dando la stura alla corrente più vasta ed efficace di un’opposizione estremista che, proprio perché forzatamente contenuta entro gli argini “artificiali” di un patto inedito, sarebbe stata usata nel momento propizio per contribuire all’avvio di una crisi irreversibile che avrebbe determinato la caduta del Fascismo e alla disfatta dell’Italia.
Se osserviamo le date del 25 luglio e del 3 settembre 1943 e poniamo i relativi eventi in relazione al gennaio dello stesso anno e a quanto accadde e sarebbe poi accaduto in Russia, non è difficile dedurre i motivi della presenza di un loquace Togliatti a Salerno nell’aprile del ‘44, forte dell’intesa, concordata con Stalin, ma ancor prima con Churchill e Roosevelt, e guadagnata dall’ineffabile Palmiro, con il suo “buon lavoro” eseguito a gomito dell’NKDV e i particolari “servizi” che egli rese ai nostri soldati, prigionieri dei lager sovietici.
Ma a parte questo, la svolta di Salerno dimostra che la proficua collaborazione offerta agli alleati dai fuoriusciti italiani in Unione Sovietica non si limitò alla prestazione delle “cure” riservate ai nostri soldati prigionieri in Russia, ma iniziò molto prima. Precisamente quando Churchill, deciso ad eliminare l’intralcio dell’Italia sulle rotte inglesi del Mediterraneo, propose anche ai Partiti Comunisti clandestini di svolgere azioni di controspionaggio, lautamente remunerate. Fra questi, anche al PCI di Togliatti, che, mal celando i sintomi della sindrome da “disorientamento” causata dal patto scellerato Ribbentrop-Molotov, trovò provvidenziale la richiesta di collaborazione inglese, dopo che i flussi dei finanziamenti di Stalin ai fuoriusciti si erano interrotti con la chiusura e confisca della Banque Commerciale de l’Europe du Nord di Parigi da parte delle truppe di occupazione nazista. Questa banca, di proprietà sovietica, sovvenzionava i partiti comunisti di mezzo mondo e faceva pervenire cospicue somme di denaro al Pci clandestino, attraverso l’ambasciata sovietica in Italia di Via Gaeta, 5 a Roma, almeno fino al 10 giugno del ’40. La sua chiusura creò ovviamente non pochi problemi a Togliatti e al suo seguito.

Agli attenti servizi inglesi non saranno sfuggiti in quell’occasione i segnali dell’imminente emanazione della direttiva n. 21 da parte di Hitler, consistente nel piano di invasione dell’Unione Sovietica, considerato l’atteggiamento dell’Ammiraglio Canaris e certe aperture confidenziali in seno all’Abwher.

Ovvio. Ma in attesa del fatidico 22 giugno 1941, cioè dell’avvio dell’Operazione Barbarossa, l’attività di Churchill fu ugualmente febbrile. Dopo aver superato le sue innate barriere ideologiche, egli decise di superare anche quelle religiose (e razziali, se vogliamo) cercando la distensione dei rapporti con gli arabi (che egli disprezzava) e in generale con l’Islam. Informato infatti delle chiare tendenze filonaziste del Gran Muftì di Gerusalemme, Haj Alì Al- Husseini, propose a costui una sostanziale riduzione delle truppe britanniche presenti a Baghdad e a Mosul, e l’interruzione del flusso migratorio di ebrei in Palestina, in cambio della sospensione delle attività di propaganda e agitazione irredentista in pieno corso non solo fra i musulmani sottoposti al “governo indiretto” britannico, ma anche fra le numerose popolazioni islamiche dell’Unione Sovietica, contando sul carisma del Muftì per convincere queste masse a “diventare” filoinglesi e naturalmente sulla nota venalità del religioso nell’accettare in cambio un lauto compenso. La proposta creò seri trambusti negli ambienti diplomatici occidentali e le immediate proteste dell’Organizzazione Sionista Mondiale, nonché delle compagnie petrolifere angloamericane operanti in Iraq, perché fu accolta e in parte attuata. I risultati furono nefasti per gli arabi e per gli ebrei, vittime questi ultimi delle inasprite misure adottate da Hitler che lo indussero ad affrettare i tempi della soluzione finale, poi precisati nella conferenza di Wansee nel gennaio ‘42. Nella circostanza l’ambiguità e la doppiezza del Gran Muftì non fu inferiore a quella del premier inglese, perché da un lato la proposta distensione ebbe l’effetto contrario fra i musulmani determinando ulteriore fermento e punte di estremismo che provocò il raddoppio anziché la riduzione delle truppe britanniche presenti in Iraq e in Palestina a tutela del mandato. Ma procurò sopra tutto serie preoccupazioni a Stalin che inasprì il trattamento riservato alle popolazioni islamiche sovietiche, ordinando le loro deportazioni in massa. La circostanza pesò non poco nel suo mutato atteggiamento nei confronti di Hitler, al punto da indurre Stalin ad avanzare assurde e provocatorie pretese di poter procedere all’occupazione sovietica di una consistente fascia territoriale balcanica con l’imprimatur del Fuhrer.
Il caso, insieme alla questione islamica, indusse Hitler ad affrettare i tempi dell’attacco contro l’Unione Sovietica, anche perché il Gran Muftì, trasferitosi armi e bagagli a Berlino dopo l’insuccesso della proposta inglese, garantì al Furher il sostegno incondizionato delle costituende armate musulmane che si preparavano a combattere con entusiasmo e rinnovata fiducia al fianco della Werhmacht contro l’Armata Rossa, per liberare i loro correligionari delle repubbliche sovietiche dal giogo politico staliniano e dall’oscurantismo ateo dei comunisti.

Quali sarebbero state le più vistose operazioni di sabotaggio portate a termine ai danni del nostro Esercito e della nostra Marina?
E’ difficile rispondere. Direi che il fenomeno deve essere osservato nel più ampio contesto della realtà dell’Italia fascista, dove ministeri, enti preposti, uffici e organismi militari operavano a compartimenti stagni, ciascuno attribuendosi limiti di competenza e reclamando autonomie e autorità interne che non hanno certo giovato allo spirito di collaborazione indispensabile in un Paese che si prepara a fare la guerra. Un Paese, l’Italia di allora, oltre tutto poco incline nel settore della produzione di armamenti ad adeguarsi ai criteri di continuo aggiornamento, essenziale in quel periodo. Il che risulta inspiegabile se si pensa all’impresa etiopica e al nostro intervento in Spagna. Ma a prescindere dallo strano e controproducente operato dello Stato Maggiore Generale, è il caso di ricordare che l’industria italiana, salvo poche eccezioni, era più propensa ad entrare nel libero mercato piuttosto che mantenere i modesti sbocchi della propria produzione negli esigui ambiti dell’economia autarchica di Mussolini. E qui per inciso notiamo che gran parte della produzione di armi di Ansaldo, Breda, Fiat, per citare le più importanti, era destinata all’estero, con l’ovvio disappunto del Duce, il quale dovette però adeguarsi a quella linea per via dei poco incoraggianti prospetti di bilancio sottoposti alla sua attenzione dal ministero Scambi e Valute. Ipotesi apparentemente paradossali sono state avanzate da alcune parti, peraltro attendibili, riguardanti la vendita di armi di fabbricazione italiana alla Gran Bretagna nell’approssimarsi della rottura delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi e continuata anche in tempi successivi, all’insaputa del Duce. Restando però nota nell’ambiente dello Stato Maggiore Generale la tattica inglese di impiegare la nostra industria nella produzione di modelli vetusti e dalla concezione superata, che la Gran Bretagna avrebbe comunque acquistato, con il primario scopo di distogliere l’attenzione dei nostri tecnici industriali dalle nuove e più aggiornate tecnologie già acquisite e prodotte dagli inglesi. Una burocrazia notoriamente farraginosa ha poi complicato ulteriormente le cose, allungando a dismisura i tempi della produzione e delle consegne di materiali richiesti dai competenti settori dello Stato Maggiore e del ministero della Guerra. Questo stato di cose ha facilitato il compito di chi avesse voluto portare a termine azioni di sabotaggio nel nostro Pese e sui fronti di guerra.
Credo sia il caso di accennare allo spionaggio che è risultato più dannoso per l’Italia, quello a favore dell’Unione Sovietica.
Ricordando i noti informatori dell’NKDV, Ruggero Zangrandi, Giorgio Conforto e Gaetano Fazio, non possiamo fare a meno di notare l’atteggiamento talvolta tollerante del nostro SIM nei loro confronti. La collaborazione di costoro con i fuoriusciti italiani in Russia e l’NKVD risalirebbe addirittura al 1941 e sarebbe provata dal trattamento di “favore” riservato da Stalin ai vari Togliatti, D’Onofrio, Bianco, Montagnana e Fiammenghi, diverso da quello riservato invece ai comunisti fuoriusciti, tedeschi e ungheresi, e determinato proprio dai proficui successi informativi ottenuti da spie operanti in Italia e fuoriusciti italiani in Russia.
Nell’ambito delle “attività” dei fuoriusciti, non dovrebbe dunque sorprendere più di tanto il fatto che l’invito alla diserzione perveniva in qualche modo ai nostri soldati dello CSIR già nel 1941, allorché si raccomandava al nostro combattente in Russia di liberarsi del barbaro aspetto di invasore e del veleno fascista e consegnarsi a qualsiasi ufficiale dell’Armata Rossa, pronunciando la frase convenuta: “Parlate di me al compagno Petrov!” (precise testimonianze di Reduci dalla Russia lo provano.)
Saldi e di vecchia data erano dunque i legami tra fuoriusciti italiani, NKVD e spie operanti all’interno del nostro Paese. Rinnovati e potenziati poi nell’ambito del “lavoro”di indottrinamento nei lager sovietici, con le minacce di ritorsioni sui familiari dei prigionieri in Italia, nel corso degli interrogatori, nella ricerca di delatori, nella costituzione di cospicui fondi destinati alla costosa organizzazione in Russia delle cosiddette scuole antifasciste e alla pubblicazione del giornale l’Alba.
Curioso constatare come questi fondi lautamente elargiti dalle fonti citate, non siano mai stati impiegati, neppur in minima misura, per alleviare anche di poco le sofferenze e il martirio dei nostri soldati prigionieri di lager sovietici, scaricati alla mercé delle barbarie animalesche russe dai loro stessi connazionali. E non siano serviti nemmeno a improvvisare una pur rozza e primitiva “struttura” che dei prigionieri si occupasse almeno della corretta registrazione dei nomi, al momento del loro ingresso nel campo di concentramento, al momento del decesso e della corretta segnalazione del luogo di sepoltura, pur trattandosi in genere di fosse comuni.
Lasciamo alla sensibilità storica di chi ci legge, l’osservazione del preoccupante e prolungato connubio tra spie interne e fuoriusciti (meritevoli poi di un riconoscimento al valore militare e civile e addirittura in certi casi della intitolazione ai loro nomi di strade e piazze d’Italia, motivandole forse anche col trattamento di “tutto riguardo” che essi riservarono ai nostri soldati in Russia) che continuò in Italia nel travagliato periodo successivo all’8 settembre del ’43. Citiamo in proposito l’attentato di Via Rasella a Roma del marzo 1944, assurto a simbolo del “valore” dei combattenti per la liberazione d’Italia, ma avvilito dai retroscena che immediatamente emersero e lo connotarono come atto indegno della nostra civiltà e da ascriversi nel lungo elenco delle imposizioni staliniane dirette al Pci che, forte della cultura dell’intrigo, appresa a Mosca, non esitò ad applicarla nel nostro martoriato Paese su direttiva dello stesso Stalin, il quale pretese che del governo italiano appena riconosciuto dall’Unione Sovietica entrassero a far parte solo esponenti di provata fede staliniana, eliminando fisicamente gli stessi Comunisti italiani che non avessero lo stesso requisito.
Gli autori dell’attentato, esponenti di spicco del Pci legati alla linea di Mosca, attribuendosene la paternità solo dopo che la rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine era stata portata a termine, manifestarono la volontà di aver agito proprio per far scattare la reazione nazista che si sarebbe scatenata contro i loro concorrenti non graditi a Mosca, ma sfortunati compagni di militanza politica e vittime per questo dell’eccidio alle Fosse Ardeatine.
Ogni ulteriore commento è superfluo.

Per concludere possiamo fare un commento sull’appello che Vincenzo Bianco rivolse a Togliatti, affinché i nostri Soldati prigionieri ricevessero un trattamento più umano?
Se ne è parlato abbondantemente. Forse vale la pena di prestare attenzione all’ultimo capoverso della lettera che Togliatti invia a Bianco in risposta, che così recita: “ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro (i nostri soldati prigionieri nei lager sovietici, ndr) non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia.”
La scelta da parte di Togliatti di disturbare, in quella vergognosa circostanza, il “vecchio Hegel” mi sembra infelice e rischiosa, non essendo stato il pensatore tedesco particolarmente ben visto fra gli intellettuali sovietici, per via delle note preferenze monarchiche del filosofo, auspice fra l’altro di una sicura conciliazione tra individuo e fede religiosa proprio nella dimensione della Storia, in seno alla quale l’Uomo avrebbe anche cercato vie di maturazione spirituale.
Questo naturalmente a prescindere dagli equivoci intorno alla dialettica hegeliana di cui furono autorevoli vittime il maturo Marx e un giovane Lenin, fino a quando gli stessi sviluppi della “sinistra hegeliana” risultarono indigesti al Marxismo che si affrettò a prendere nette distanze dal filosofo tedesco e dalle sue scuole.
A nome dei nostri soldati prigionieri in Russia (nella cui morte il signor Togliatti vedeva concreta espressione di quella “giustizia” immanente… nella sua sola mediocre testa) vorrei infine suggerire a tutti gli estimatori di questo ineffabile individuo un’attenta lettura delle pagine degli hegeliani Lineamenti di Filosofia del Diritto, in cui viene espresso l’autentico concetto di Storia, come successione di eventi che trovano una loro logica nel rapporto causa ed effetto, non solo in termini temporali, ma anche morali, prevedendo l’esistenza di quel “Tribunale del Mondo”, come Hegel lo chiamava, che presiede al perfezionamento dell’individuo e della società umana, al di fuori degli sviluppi materialistici, ma nella dimensione invocata nella fenomenologia dello spirito, quella che affida fra l’altro alla Storia il compito esclusivo di emettere una definitiva sentenza di condanna o assoluzione, proprio attraverso la manifestazione, o fenomeno, di concreti e storici eventi.
Inviterei quindi costoro ad osservare da vicino le rovine dell’Unione Sovietica e del Comunismo e a rivolgere alla memoria dei Nostri Soldati dell’ARMIR quel segno di rispetto che ad essi il signor Togliatti non ebbe il coraggio, o non si ritenne degno, di offrire.