«Il processo per cui le distruzioni spirituali, il vuoto stesso che l’uomo divenuto “uomo economico” e grande imprenditore capitalista si è creato intorno a sé, lo costringono a far della sua stessa attività – guadagno, affari, rendimento – un fine, ad amarla e volerla in se stessa pena l’essere preso dalla vertigine dell’abisso, dall’orrore di una vita del tutto priva di senso»1.
La posizione critica del filosofo romano
Julius Evola
(1898-1974) nei confronti dell’America merita di essere conosciuta per
l’originale peculiarità che la contraddistingue, oltre che per
l’influsso che ha esercitato su una non trascurabile area politica e
intellettuale.
Nel 1929 esce su
Nuova Antologia l’articolo evoliano
Americanismo e bolscevismo,
nel quale il pensatore tradizionalista espone per la prima volta con
notevole lucidità una tesi, piuttosto inedita e assai pionieristica, che
continuerà a sviluppare nei decenni successivi. L’idea di fondo è che
Russia sovietica e Stati Uniti, al di là delle evidenti differenze
culturali, sociali e di organizzazione statuale, siano accomunati da un
medesimo, perverso ideale
2. Il saggio costituirà la base del sedicesimo capitolo della seconda parte di
Rivolta contro il mondo moderno, forse il libro più importante e famoso di Evola.
Il ragionamento di Evola si sviluppa poi in una
prospettiva più ampia, che presenta singolari analogie concettuali,
seppure non terminologiche, con il cuore della riflessione sulla Tecnica
sviluppata da molti filosofi, da
Jünger sino a
Heidegger e
Severino.
Essenzialmente, Evola avverte nell’America proprio quella
caratteristica “totalmente mobilitante”, onnipervasiva e tirannica
propria alla Tecnica, che tende rapidamente a inglobare o distruggere
tutto ciò che le si frappone – vale a dire quel che costituisce, nel
contesto della metafisica evoliana, la Tradizione.
Per Evola, questo rapporto dualistico è solo in parte
il risultato di un processo puramente storico; è, comunque, l’esito di
una legge che determina lo scorrere ciclico delle età storiche: «Quella
civiltà, di cui il Moderno fu sì fiero, e in nome della quale aveva
creduto al “mito” del “progresso” e aveva marciato alla conquista del
mondo, quella civiltà si trova oggi dinanzi a una specie di riduzione
dell’assurdo, di capovolgimento dei valori che essa si era arrogati.
Lanciatasi alla conquista della materia, essa non ha conseguito il suo
scopo che a prezzo di materializzare lo spirito, di escludere ogni forma
superiore di vita, di amalgamare gl’individui nella tirannide di
organismi collettivi, che quasi diremmo subumani nella loro mancanza di
volto, di razionalità, di luce, nella loro soggiacenza a energie che di
tempo in tempo, come galvanizzando con una vita momentanea e paurosa dei
corpi morti o automatici, li scaglia gli uni contro gli altri»
5.
Il
“mondo moderno” evoliano è, effettivamente, quello dominato dalla
Tecnica: nell’America statunitense il filosofo romano coglie
l’avanguardia (ancor più avanzata rispetto a quella sovietica) della
controparte della Tradizione. «Mentre nel processo della formazione
della mentalità sovietico-comunista l’uomo-massa che già viveva
misticamente nel sottosuolo della razza slava ha avuto una parte di
rilievo, e di moderno non vi è che il piano per la sua incarnazione
razionale in una struttura politica onnipotente, in America il fenomeno
deriva dal determinismo inflessibile per cui l’uomo, all’atto di
staccarsi dallo spirituale e di darsi alla volontà di una grandezza
temporale, di là da ogni illusione individualistica cessa di appartenere
a sé stesso per divenire parte dipendente di un ente che egli finisce
col non poter più dominare, che lo condiziona in modo molteplice»
6.
Il filosofo romano riprende qui la tesi che aveva sviluppato nella
parte precedente del saggio, dedicata alla Russia, ove aveva sostenuto
che l’atavico impulso messianico russo, unito a una sorta di “mistica
della collettività”, si era rovesciato, dopo la rivoluzione bolscevica,
in termini marxisti, nell’uomo “terrestrizzato e collettivizzato” che
sentiva come propria la missione storica di esportare nel mondo il
modello di sviluppo comunista: un analogo sentimento di superiorità del
proprio tipico modello anima per Evola l’uomo americano, ma in una
dimensione del tutto priva di alcun sottofondo mistico-spirituale.
È necessario specificare che le considerazioni
evoliane su America e americanismo sono spesso sovrapponibili a quelle
espresse in linea più generale sul mondo moderno, inteso come categoria
a priori di modello di civiltà (o più correttamente, per tener fede alla terminologia evoliana, di
civilizzazione)
7.
La peculiarità dell’America statunitense è per Evola quella di essere
la punta avanzata della civiltà occidentale, o meglio lo stadio finale
della sua decadenza involutiva. Non può stupire, in questo senso, che le
idee espresse a proposito degli USA siano sovente sovrapponibili a
quelle sull’Inghilterra, il calvinismo o il modello capitalista.
Se si “interpreta” il mondo moderno evoliano nei
termini anzidetti, la disamina del filosofo tradizionalista è assai meno
ottimistica di quella coeva jüngeriana. La nuova
Figura
destinata a emergere dal mondo totalmente mobilitato dalla Tecnica non è
l’Operaio, ma il produttore-consumatore di stampo americano. Con una
terminologia tanto efficace quanto brutale, Evola analizza questo
uomo-ultimo, che ricorda fortemente quello profetizzato da
Nietzsche:
«Può anche darsi che, ove l’umanità non affondi in un’ottusa
beatitudine da bestiame bovino, essa vada incontro alla più paurosa
delle crisi: a quella del vuoto assoluto di un’esistenza, vuoto non più
nascosto come prima dai pseudo-fini di una vita alle prese con necessità
di ogni genere»
8.
La
febbre attivistico-produttiva che contraddistingue il modello di
sviluppo capitalistico, e che dalla maggior parte dei contemporanei
viene vista come il segno di una vitalità giovanile, per Evola è
viceversa sintomo di una malattia terminale. A questo concetto è
dedicato lo scritto
America: l’equivoco del popolo giovane9,
in cui è ripresa la metafora delle età dell’uomo in relazione analogica
con quelle del mondo. «Noi incliniamo proprio a considerare l’America
non come un principio, ma come una fine: come la forma ultima,
crepuscolare assunta dalla civiltà – già minata da vari progressi di
regressione – dell’Europa moderna». E ancora: «Di un vero e proprio
“primitivismo” o “infantilismo” devesi […] parlare nei riguardi
dell’anima e della civiltà americana, primitivismo che solo
superficialmente può essere confuso con fenomeni di “gioventù”,
trattandosi invece di cose da spiegare sulla base della […] legge di
corrispondenza di ciò che è crepuscolare con le forme primitive di uno
stesso ciclo»
10.
Intorno a questo nocciolo concettuale, concepito a
cavallo tra gli anni Venti e Trenta, Evola sviluppò nel corso della sua
lunga produzione saggistica successiva un numero considerevole di
riflessioni, contenute perlopiù in articoli su giornali e riviste
11.
L’incalzare del modello americano in ogni area del pianeta gli offrì lo
spunto per considerazioni su costumi e mentalità che, specialmente nel
secondo dopoguerra, andavano rapidamente diffondendosi anche in Europa, e
in Italia in misura particolarmente sensibile. In diversi articoli, per
esempio, criticò con durezza le scelte redazionali e di palinsesto
della RAI, costantemente ispirate a modelli estetici d’oltreoceano, sia
nel campo musicale sia in quello della programmazione televisiva.
Nell’articolo del 1954
L’americanizzazione e le responsabilità della RAI, lo scrittore constatava come la programmazione musicale dei programmi “internazionali” dell’epoca (
Cabaret internazionale,
Grandi successi del mondo,
Paese che vai,
eccetera) trasmettesse in via pressoché esclusiva brani americani,
quasi che il mondo si riducesse a tale unica regione, ignorando
completamente, per esempio, la produzione contemporanea dell’Europa
centrale. Ecco il suo commento: «Questo è un settore particolare
dell’americanizzazione, ma è tutt’altro che privo di importanza. Le
conseguenze del “lasciare andare” democratico sono queste:
l’intossicazione di quella grandissima parte della popolazione che non
sarà mai capace di vera discriminazione, che è fin troppo propensa –
specie di questi tempi – a perdere ogni linea quando un potere o un’idea
superiore non abbiano modo di richiamarla a sé stessa, se non altro pel
minimo occorrente per non perdere del tutto la faccia»
12.
Anche il diffondersi nella lingua italiana di tanta terminologia
inglese, specialmente in casi nei quali esiste un termine corrispondente
in italiano, è per il filosofo il segno di un cedimento a ciò che
appare moderno, bello, degno di essere imitato e seguito, ma che rivela
un conformismo dovuto a superficialità e mancanza di carattere, foriero
di un impoverimento culturale generalizzato
13.
Per Evola, comunque, alla pervasività sul piano
culturale del modello americano non si dovrebbe opporre una chiusura
aprioristica. L’orientamento dovrebbe piuttosto essere quello di
discernere tra ciò che va accettato e ciò che va respinto, sulla base
della propria identità specifica: «Dato il clima di irresponsabile
democrazia vigente in Italia, di un sistema organizzato di difese del
genere non è naturalmente il caso di parlare. Esso può esser solo di
pertinenza di pochi che sono ancora spiritualmente in piedi. A costoro
spetterebbe dare l’esempio. Né polemiche né animosità, ma considerare
tutto ciò che è americano con fredda curiosità invertendo le parti,
riportando l’America al suo rango di provincia, di una escrescenza
periferica dove si è centralizzato e sviluppato fino all’assurdo tutto
ciò che di negativo la civiltà umana dell’Europa aveva prodotto. E
quando qualcosa di americano dovesse essere ammesso, lo dovrebbe essere
mantenendo libero lo sguardo, considerando simultaneamente altre
prospettive, altre possibilità, altri valori, in un quadro nel quale in
fondo, qualitativamente, l’America rappresenta solo un episodio»
14.
Costituisce
quindi un curioso paradosso che proprio in America, soprattutto a
partire dagli anni Novanta, Evola abbia goduto di una marginale, ma non
del tutto trascurabile fortuna. Essa è da ricondursi principalmente alla
pubblicazione delle sue opere principali da parte della casa editrice
Inner Traditions, oltre che alla presentazione del pensiero evoliano da
parte di alcuni studiosi tra i quali Thomas Sheehan, Richard Drake e
Joscelyn Godwin
15. Si sarebbe potuto
prevedere che una critica tanto radicale al modello americano, quale
quella evoliana, determinasse un rifiuto del pensiero del filosofo
italiano da parte del pubblico statunitense; e che proprio quella
mentalità spiccatamente pratica e materialista, denunciata da Evola come
caratteristica dell’americanismo, costituisse un ostacolo
insormontabile allo “sbarco oltreoceano” delle opere evoliane. Eppure
attraverso diversi canali, tra cui
internet, in America Evola viene letto e dibattuto anche in modo non superficiale.
L’opposizione evoliana al paradigma statunitense
afferma il primato della qualità sulla quantità, dello spirituale sul
materiale, dell’organicità sull’individualismo e della politica
sull’economia. Altrove scrivevo che «come la Tecnica è per sua natura
universale lo sono anche il modello economico capitalistico e
l’ideologia egualitaria. Storicamente, laddove un’idea particolare si
oppone a una universale, la prima è destinata a venire travolta. Il
messaggio fondamentale di Evola è proprio quello di interpretare e
vivere i valori tradizionali in una prospettiva più che storica,
assolutizzarli: solo con ciò potranno essere opposti a quelli dominanti,
indipendentemente da ogni effettiva speranza pratica»
16.
Nella dicotomia evoliana di Tradizione e Modernità è anche racchiusa la
certezza che allo scatenato dominio della dissoluzione seguirà un nuovo
ciclo, improntato a nuovi valori. Quanto questa impostazione sia
conciliabile con un atteggiamento pratico o attivo di opposizione al
modello dominante è questione dibattuta da tempo. Certamente, però,
Evola combatté la sua battaglia.
Note
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1994, pp. 375-376.
- Ora in J. Evola, Americanismo e bolscevismo, ne Il ciclo si chiude. Americanismo e bolscevismo (1929-1968), Fondazione J. Evola, Roma 1991.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 391.
- Ivi, pp. 391-392.
- J. Evola, Noi antimoderni, ne La Torre, 1 febbraio 1930, ora in Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968 (II ed.), a cura di A. Lombardo, Controcorrente, Napoli 2010.
- J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 392.
- La dicotomia evoliana è in certa misura mutuata e sovrapponibile a quella spengleriana tra Kultur e Zivilisation. Come giustamente nota Giovanni Damiano (J. Evola, Civiltà americana,
contributo disponibile sul sito della Fondazione J. Evola), quella
evoliana è «una lettura, però, solo in senso lato definibile come
spengleriana, e che proprio per questo non si risolve nella mera
applicazione rigida e schematica delle categorie del pensatore tedesco
alla realtà americana».
- J. Evola, “Libertà dal bisogno” e umanità bovina, ne Il Secolo d’Italia, 27 gennaio 1953, ora in Civiltà americana, cit., p. 41.
- Ivi, pp. 27-30.
- Ivi, p. 29.
- Un certo numero di questi saggi sono riuniti ivi.
- J. Evola, L’americanizzazione e le responsabilità della RAI, ne Il Nazionale, ora in ivi, p. 49.
- Cfr. per esempio J. Evola, Servilismi linguistici, ne Il Secolo d’Italia, 28 luglio 1964, ora in ivi, pp. 72-75.
- J. Evola, Difendersi dall’America, ne Il Popolo Italiano, 14 dicembre 1957, ora in ivi, p. 71.
- Cfr. G. Stucco, Sulla (relativa) fortuna di Evola negli Stati Uniti, in Futuro Presente, 6 (1995), pp. 121-125.
- A. Lombardo, La tenaglia si è chiusa, in J. Evola, Civiltà americana, cit., p. 18.
Tratto da
Antarès – Prospettive Antimoderne 6 (2014).
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