L’olocausto dei fascisti cremonesi
Il 1° maggio 1945, per “celebrare” la festa del lavoro, in quel lugubre edificio trasformato dalla delinquenza antifascista di Cremona in una centrale di terrore e di morte, vennero assassinati senza nemmeno una parvenza di giudizio sommario, undici uomini e una donna
Di Giorgio Pisanò
La donna si chiamava Lucilla Merlini, non era stata iscritta al Partito Fascista, aveva 25 anni ed era in attesa di un bambino: ma era solo colpevole di essere la sorella di uno squadrista.
Centotredici Caduti: 45 dei quali assassinati durante la guerra civile in imboscate partigiane o caduti in combattimento, e 68 massacrati nelle “radiose giornate” della primavera del 1945.
Questi i dati complessivi dell’olocausto dei fascisti cremonesi che dopo l’8 settembre 1943 si schierarono con la Repubblica Sociale Italiana, seguendo l’esempio del loro capo storico, Roberto Farinacci, anche lui trucidato il 28 aprile a Vimercate mentre tentava di raggiungere Mussolini sul Lago di Como per proseguire insieme a lui per la Valtellina.
Una pagina poco nota, questa del sacrificio dei fascisti di Cremona, rimasta quasi soffocata nel silenzio della grande pianura padana, mentre va invece conosciuta perché contrassegnata da episodi di inaudita ferocia antifascista, resi ancora più barbari e criminali perché perpetrati in una zona dove tutti, più o meno, conoscevano tutti, e dove capi e gregari del Fascismo Repubblicano si erano prodigati per impedire che la guerra fratricida scatenata dalle bande partigiane, del resto molto esigue nel cremonese, aprisse solchi incolmabili di odio tra cittadini della stessa terra.
Base principale delle atrocità partigiane a Cremona dopo il 25 aprile 1945fu un edificio già sede di una compagnia della GNR e subito trasformato dagli antifascisti in carcere a disposizione del partito comunista. In questo edificio, immediatamente definito dall’opinione pubblica “la caserma del diavolo”, e ancora oggi così ricordato, imperava un certo Giuseppe Marabotti con l’approvazione del questore della “liberazione” Ferretti, e dei “comandanti di piazza” partigiani Salvalaggio e Ughini, il primo impiegato presso la Provincia e il secondo presso un istituto bancario cittadino. Lì venivano rinchiusi i combattenti della RSI catturati anche fuori Cremona. E di lì, dopo essere stati massacrati di botte e spogliati di tutto, portati sulle rive del Po, assassinati e gettati nelle acque del fiume.
Ma l’eccidio di massa che ancora oggi, a cinquanta anni di distanza, copre di vergogna l’antifascismo cremonese che, infatti, da ormai mezzo secolo, si sforza con ogni mezzo a tenerlo nascosto specie alla coscienza delle nuove generazioni ignare di tanta delinquenza, resta quello che venne perpetrato alle prime ore del 1° maggio 1945 nella “Caserma del diavolo”.
Quella mattina, infatti, vennero massacrati, nel cortile dell’edificio, dodici cittadini di Cremona: undici uomini e una donna, Lucilla Merlini, di 25 anni, colpevole di essere la sorella di un fascista, Mario merlini, già assassinato il giorno precedente. Lucilla Merlini era in attesa di un figlio, e i partigiani lo sapevano.
Gli undici uomini erano: Luigi Di Biagio, questore di Cremona durante la RSI; Domenico Di Fabrizio, suo Capo di Gabinetto; Pasquale Mafrice, maresciallo della polizia repubblicana; Vito Marziano, brigadiere di polizia; Angelo Belmonte, tenente della GNR; Giuseppe Maestrelli, tenente della GNR; Orlando Maestrelli, capo squadra della GNR; Cesare Santini, capo squadra delle GNR; Guido Ruggeri, vice capo squadra della GNR; Carmelo Parisi, squadrista della Brigata Nera; Giuseppe Aldovini, sindacalista.
Ed ecco la testimonianza di Carlo Azzolini che visse la loro agonia e li vide andare a morire:
“…Si noti che nessuno dei dodici condannati a morte era stato prima minimamente interrogato, né si sa quali siano stati i capi d’accusa loro imputati e nessuno di loro è stato ammesso a difendersi…
“Un nostro cappellano, Don Luciano Zanacchi, ci informò poi che era giunta il giorno 30 aprile una disposizione del Comando Alleato con la quale venivano vietate in modo assoluto tutte le esecuzioni di condanne a morte dei fascisti detenuti. E sapemmo inoltre che in seno al cosiddetto “Tribunale del Popolo” vi era stato chi voleva l’osservanza della predetta disposizione. Ma un gruppo di “duri” la spuntò… Per la Lucilla Merlini, sorella di Mario ammazzato il giorno prima in Piazza Marconi, ci risulta che vi furono dei pro e dei contro e delle incertezze fino all’ultimo momento, e poi si decise di farla fuori…
“Don Luciano, che ascoltò le confessioni dei condannati, e particolarmente della Merlini, si convinse tanto della loro innocenza che sentì il dovere di telefonare subito all’Arcivescovo di allora, per chiedere il suo autorevole intervento a loro favore, ma dal segretario di questi si ebbe una edificante risposta negativa…
“suonavano le 4 o le 5 al vicino campanile di Sant’Agostino quando un camion rallentò la marcia e si arrestò davanti al portone. Tutto era perfettamente intuibile. Stridere di catenacci, passi svelti nel corridoio e poi un nome, il primo: Ruggeri. Era accucciato vicino a me: aveva pensato tutta la notte ai suoi sei figli… Poi ancora altri nomi in altre celle. Poi una lunga pausa. Venne comunicata ai condannati la sorte che li attendeva. Li vidi passare dalla “spia” della porta della mia cella. La luce fioca ed ancora azzurrata di una lampada dava a quelle figure l’aspetto di una scena tragica e misteriosa. Li riconobbi quasi tutti. Ruggeri si arrestò un momento davanti alla porta e riuscì a passarmi un biglietto per sua moglie e per i suoi figli e si accomiatò dicendo: “Ragazzi, vi saluto, ci ammazzano”. L’ultima parola gli si strozzò in gola. Nessuno ebbe la forza di parlare…
“Li portarono nel cortile. Don Luciano impartì a tutti l’estremo saluto e fece per allontanarsi. Lucilla Merlini che aveva sperato ancora in un suo ultimo intervento, si aggrappò alla sua veste per andare via con lui. Povera ragazza! Pochi ebbero pietà di lei, della sua innocenza, della sua creatura. Su di un tavolo era pronta la mitragliatrice. I condannati erano tutti fermi e muti in piedi. Solo la Merlini piangeva disperatamente. Partirono dei colpi, poi l’arma si inceppò. Alcuni dei condannati erano già a terra fe4riti, altri gridavano e si sbandavano. A questo punto avvenne un fatto che sembrava predisposto. Da diversi punti della “caserma” e da alcune finestre, partigiani pronti con le armi si misero a sparare sui disgraziati con un tiro a libero piacimento finché nei loro corpi vi fu un sussulto di vita. Questa fu la “legale esecuzione” avvenuta la mattina del 1° maggio 1945 nella “Caserma del diavolo”…
“ma vi fu ancora qualcosa di inumano da aggiungere. Nella stessa “caserma” vi era detenuto un altro fratello della Merlini che fu costretto a forza dai partigiani ad assistere alla esecuzione di Lucilla, così come quell’orda di barbari sanguinari aveva costretto il giorno prima la figlioletta di Mario Merlini ad assistere alla uccisione del padre in Piazza Marconi. E, per chiudere “degnamente” quella “bella pagina di gloria”, i partigiani fucilatori della “caserma del diavolo” si scatenarono poi in un disgustosissimo litigio per dividersi le scarpe tolte ai fascisti assassinati”.
Da "STORIA DEL XX SECOLO"
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