QUANDO A MORIRE SONO GLI ITALIANI
La sinistra, complice, ha sempre chiuso gli occhi davanti ai massacri perpetrati dai suoi “liberatori”
Paul Rassinier, deportato nei campi di concentramento germanici durante la Seconda Guerra Mondiale, nel suo fondamentale libro La menzogna di Ulisse,
eleva una forte condanna contro il “mondo concentrazionario”, ossia
quella consuetudine diffusa in tutti gli Stati di sanzionare una “colpa
collettiva” attraverso la massificazione del sistema carcerario. Una
massificazione che si concretizza nella deportazione della popolazione
in dei campi detti, appunto, di concentramento.
Ogni Stato, nel corso della sua storia,
ha fatto uso di questi “carceri di massa” ed utilizzato politicamente
l’ossimoro giuridico della “colpa collettiva”. Utilizzati per la prima
volta dai Britannici, hanno trovato largo e tragico uso negli Stati a
sistema comunista (i Gulag sovietici e i Laogai cinesi, solo per citare i più famosi). Tuttavia, oggi, quando si parla di campo di concentramento si pensa immediatamente ai KZ germanici,
allestiti in particolar modo durante la Seconda Guerra Mondiale e dove
sono stati deportati milioni di ebrei ed altre categorie di persone
considerate “non desiderate” o “pericolose”. La giusta condanna di
questi “carceri di massa” è stata sancita addirittura per legge. Una
legge a senso unico che dimentica, incredibilmente, gli analoghi “campi
della morte” allestiti anche dagli altri Stati impegnati in quella che
fu definita la “guerra del sangue contro l’oro”. E ciò fa sorgere un
dubbio, ossia se questa legge, invece di ricordare, vuole speculare
politicamente su dei morti, trasformare cioè il giusto ricordo delle
vittime, in un eterno “museo dell’odio politico”. Perché sembra molto
strano vestirsi a lutto per le vittime dei crimini germanici e, poi,
vestirsi a festa, per ignorare o giustificare, quando ci si trova
davanti ai crimini commessi dagli altri contendenti di quella guerra,
specialmente se queste vittime sono Italiane e i carnefici sono i
“liberatori”, democratici o comunisti che fossero. Sì, perché nei campi
di concentramento degli Alleati finirono centinaia di migliaia di
Italiani, non solo prigionieri di guerra – e ricordiamo il caso
emblematico dei soldati italiani in Russia, lasciati morire per volere
di Togliatti e compagni –, ma anche tanti civili innocenti, la cui colpa
fu quella di essere Italiani. E non vogliamo soffermarci sulle infamità
commesse nei campi iugoslavi, di cui in questi giorni si è potuto,
seppure a mezza bocca, parlare. Ma vogliamo ricordare quello che
avveniva negli Stati “civili”, non in quelli “barbari” a sistema
comunista dove certe usanze di violenza hanno ancor oggi una
giustificazione. Infatti, in Francia, in Gran Bretagna e negli USA – e
in tutti loro possedimenti – i cittadini dell’Asse, anche se
politicamente inattivi, vennero rinchiusi in appositi campi di
concentramento. Si ricorda il caso di Joe Di Maggio che, mentre vestiva
la divisa dell’US Army, aveva i genitori confinati in America.
In Francia – e nelle sue colonie –
all’indomani della dichiarazione di guerra dell’Italia (10 Giugno 1940)
scattò la “caccia all’Italiano” che vide quasi 20.000 nostri
connazionali alle prese con le violenze della Polizia francese. A poche
ore dallo scoppio della guerra, infatti, i gendarmi d’Oltralpe
arrestarono gli Italiani più in vista, imprigionandoli nei Commissariati
e negli stadi, spesso con violenze spropositate e pestaggi gratuiti che
evidenziano l’astio e l’odio dei Francesi per la Grande Italia di
Mussolini che aveva osato sfidarli. Per tutti si aprirono, poi, le porte
dei campi di concentramento, già allestiti dalle Autorità d’Oltralpe
per “gestire” il problema dei combattenti antifranchisti fuggiti dalla
Spagna dopo la vittoria delle Armate di Francisco Franco.
La deportazione avvenne sui famosi “carri
piombati”, in condizioni igieniche disastrose e, spesso, sotto le
continue violenze dei gendarmi. Giunti ai campi, gli Italiani dovettero
dormire per terra, senza servizi igienici e con un’alimentazione da
fame. Molti si ammalarono, altri impazzirono, alcuni morirono. La
situazione si fece di giorno in giorno drammatica. Sarebbe bastato lo
scoppio di una qualche epidemia per sterminare in massa tutti coloro che
erano concentrati in queste prigioni.
I campi di concentramento francesi di
Saint Cyprien, di Saint Jodard, di Montech e Cascaret, di Huriel, di
Courgy, di Le Blanch e di Douhet; quelli tunisini di Sbeitla e di
Kasserine; quelli algerini di Kreider e di Orano; quelli marocchini di
El Haideb e di Mediouna; quelli di Guadalupe e del Libano sono oggi
dimenticati e mai nessuna scolaresca andrà “in gita” in questi luoghi, a
ricordare le sofferenze degli Italiani. Vogliamo ricordarli noi, perché
se non vi fu uno sterminio generalizzato fu solo grazie alla
capitolazione della Francia, travolta in pochi giorni dalle Armate
tedesche.
Fu un inferno durato 30 giorni che ebbe
le sue sofferenze e i suoi morti e se non si trasformò in un’ecatombe di
Italiani fu solo per la benigna sorte che soffiò sui campi di battaglia
per gli Eserciti dell’Asse. Ma ciò la dice lunga sulla violenza dei
Francesi e cosa sarebbe avvenuto alla fine della Seconda Guerra Mondiale
nei campi di concentramento allestiti in terra di Francia per
accogliere i soldati germanici sconfitti. Campi della morte, morte
massificata, nei quali morirono di stenti, malattie e violenze milioni
di prigionieri, come ha documentato James Bacque nel suo dimenticato – e
si comprende bene il perché – libro Gli altri campi.
Quando oggi si parla di questi campi di
sterminio “democratici” si è accolti con indifferenza o con un sorriso
beffardo. Lo stesso sorriso che avevano i gendarmi francesi quando
bastonavano a sangue gli Italiani. Non lo dimentichiamo. Mai.
Pietro Cappellari
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