giovedì 15 maggio 2014

FASCISMO E CONCEZIONE ETICA DEL LAVORO


Fascismo e concezione etica del lavoro

 

  IL LAVORO
Spirito antinazionale del classismo proletario.
“Gli operai hanno creduto di doversi e di potersi rendere estranei alla vita nazionale. Questo è stato un grande errore. Voi dovete essere invece anima dell’anima della Nazione in modo che tutto il nostro travaglio non vada miserevolmente perduto. Questo è il comandamento che ci viene dai nostri morti, lo spirito dei quali aleggia certo in questo salone e ci ripete il medesimo comandamento. Occorre che gli italiani ritrovino quel minimo di concordia che è necessario per rendere possibile il riordino e lo sviluppo della vita civile; e se vi saranno minoranze che tenteranno di opporsi, esse saranno inesorabilmente colpite. Fate tesoro di queste parole e ricordate il motto dei Sindacati Fascisti: La Patria non si rinnega ma si conquista!”
(MUSSOLINI. Ai metallurgici lombardi, 5 Dicembre 1922)
La valutazione politica e sociale del lavoro, contenuta nella dottrina fascista, non è il portato di una filosofia astratta, ma la risultante di una sofferta esperienza di uomini e di eventi; essa non può dunque intendersi nel suo vero significato se non riferendosi alla realtà storica che l’ha suscitata. Tale realtà è dominata dal fenomeno della lotta di classe; nel quale la critica rivoluzionaria del Fascismo non vede soltanto una insurrezione del proletariato contro il capitalismo, ma anche e sopratutto un distacco delle categorie produttrici, lavoratrici e padronali, dallo Stato. Quando il mondo operaio, acquistata la consapevolezza della sua indispensabile funzione sociale, decide di affrancarsi dalla supremazia tirannica dei datori di lavoro e di organizzarsi in una propria comunità alla quale sono assegnati precisi compiti di lotta, si estranea perciò stesso alla vita dello Stato, accusa lo Stato di insensibilità e di impotenza dinanzi ai problemi del lavoro e crea uno Stato proletario dentro lo Stato che dovrebbe invece essere totale. L’originario presupposto politico dal quale muove l’accoglimento della lotta di classe come strumento di azione sociale non è dunque quello di una dichiarazione di guerra al capitalismo, ma quello di un atto di sfiducia aperto nello Stato. Prima ancora di essere diretta contro l’imprenditore, la lotta di classe è rivolta contro lo Stato. E nella posizione politica del classismo l’atteggiamento fondamentale è dato appunto dall’ignorare,o per una precisa determinazione o per trascuratezza, come la contesa fra capitale e lavoro abbia sempre un terzo protagonista nello Stato, il quale dal contrasto esce preventivamente sconfitto, perché la sua vittoria in altro non può consistere se non nell’impedire che il contrasto stesso si determini o nel riuscire a comporlo al momento del suo sorgere. Il fenomeno della lotta di classe, considerato da questo punto di vista,si presenta dunque come una forma di crisi dello Stato che si riflette sull’ordine della vita economica, ma che ha il suo principio nelle istituzioni supreme dell’ordinamento costituzionale. Essendo motivata da queste considerazioni, la negazione che la dottrina fascista compie della lotta di classe, tende essenzialmente alla reintegrazione dell’autorità dello Stato dinanzi alla evasione delle forze produttive ed è conseguentemente superiore al punto di vista espresso da ciascuna di esse. Chi in passato ha creduto di individuare, nella posizione della dottrina fascista dinanzi alla questione sociale, uno sbandamento verso il conservatorismo o una larvata difesa del capitale, non ha evidentemente compreso da quali motivi ideali fosse determinata questa posizione, la quale, respinta la lotta di classe come manifestazione antistatale,non ripudia perciò gli urgenti problemi politici ed economici che essa denuncia con il suo insorgere.
L’errore del capitalismo.
“il capitale, pena di suicidio, non può incidere oltre una certa cifra sul dato lavoro e questo non può andare oltre un certo segno nei confronti del capitale.” MUSSOLINI Convegno n Palazzo Chigi, 20 dicembre 1923 .
Si può infatti sopprimere la lotta di classe in quanto umilia l’autorità dello Stato togliendogli il pieno possesso delle forze produttive; ma al tempo stesso si può anche prendere conoscenza delle sperequazioni economiche e morali che essa esprime ed affidarne la soluzione allo Stato, perché la giustizia sociale sia raggiunta senza inutile dispendio di energie umane e spirituali. In particolare la dottrina fascista ritiene che l’ascesa incontrollata del capitale, determinata dallo sviluppo della civiltà industriale, si sia effettivamente conclusa con un grave disconoscimento dei diritti dei lavoratori e che tali diritti in un ordinamento equo debbano ricevere una tutela più sicura ed efficiente di quella che non sia stata ad essi riservata dallo Stato liberale. Se è quindi necessario che il proletariato rientri nei ranghi dello Stato e rinunzi alla conquista violenta delle posizioni perdute, è egualmente necessario che il capitale abbandoni contemporaneamente il campo di battaglia e si consegni esso pure allo Stato, affidandogli senza riserve il compito di dirimere la controversia. Infatti anche il capitale, in quanto si porti sul piano determinato dalla lotta di classe, in quanto pretenda di respingere direttamente l’insurrezione del proletariato, si estranea alla totalità dello Stato e gli disconosce la funzione di supremo regolatore delle forze sociali che esistono nel suo ambito. Nell’atto in cui si pongono come elementi contrapposti della lotta di classe, né il proletariato né il capitale meritano attenuanti l’uno nei confronti dell’altro; qualunque possa essere la consistenza delle loro ragioni sociali, essi compiono la medesima negazione dello Stato, pervenendo alle medesime conseguenze. Per questo lo sciopero e la serrata debbono egualmente condannarsi come forme di ribellione contro lo Stato sostanzialmente equivalenti nelle loro premesse ideali. La dottrina fascista non contiene dunque alcuna riserva a favore del capitale contro il proletariato; ma, ponendosi al disopra degli eccessi dell’uno e delle esuberanze dell’altro, li giudica entrambi alla stregua di un principio superiore.
Lotta di classe e interesse nazionale.
« C’è un interesse comune ai datori di lavoro ed ai lavoratori. Guai a chi varca certi limiti: i datori di lavoro non debbono volere che la massa dei loro dipendenti viva in condizioni di disagio e di povertà. Non è nel loro interesse nè è nell’interesse della Nazione. D’altra parte i lavoratori non debbono chiedere alla industria ciò che l’industria non può sopportare» MUSSOLINI, Agli operai di Monte Amiata 31 agosto 1934.
Il principio superiore dal quale la dottrina fascista giudica la contesa fra il capitale ed il proletariato è quello dell’interesse della Nazione, cioè della comunità dove il capitale e il proletariato appaiono come elementi integranti ai quali per nessun motivo può essere consentita un’evasione. Solo in quanto si creda nell’esistenza di questa comunità e nella sua storica necessità anche rispetto alle forze particolari che vi sono comprese, si può intendere la posizione della dottrina fascista. Per essa la Nazione non è una formula razionale o un vago sentimento; ma una realtà concreta dalla quale ognuno dei componenti sente di attingere un’energia indispensabile alla esistenza propria. Per essa l’individuo sente che la Nazione è una tradizione in lui viva ed operante, in quanto gli assegna un temperamento, un’educazione,un costume, una cultura, insomma una qualificazione dinanzi alla vita sociale. L’individuo senza Nazione è uno sperduto il quale dovrebbe ricominciare dentro se stesso la spaventosa ed impossibile elaborazione di tutti quei valori morali che la storia nazionale forma attraverso lente stratificazioni progressive in un corso più volte secolare. L’individuo senza Nazione è riportato all’origine dell’umanità e cioè posto nella impossibilità di risolvere, con la sua breve vita e con le sue modeste risorse tutti i problemi che le collettività nazionali hanno risolto con una più lunga permanenza e con più numerose forze. Per questo l’individuo ha un’ interesse diretto e quasi personale alla efficienza della Nazione e l’interesse di questa gli si presenta anche come un suo interesse: cioè l’interesse ad appoggiarsi, ad essere difeso da una realtà più grande, l’interesse a presentarsi non in nome proprio ma in nome di una personalità più salda, interesse ad ingigantirsi mediante l’immedesimazione in una vita che trascende la vita degli uomini e dei gruppi. Questa interpretazione della necessità nazionale non ha soltanto un valore spirituale, ma anche un significato concreto che incide pure sulla vita economica. In tanto le forze della produzione possono accrescersi ordinatamente e resistere nei momenti critici alle ondate distruttrici che tentano di travolgerle, in quanto la comunità nazionale, nel pericoloso trapasso da una fase di prosperità passata ad una fase di prosperità futura, le sorregge con il suo presidio di energie tradizionali. L’interesse, al quale la dottrina fascista si riferisce nel giudicare la questione sociale, è dunque l’interesse della Nazione inteso in un senso umano e realistico, cioè l’interesse della Nazione veduto come denominatore comune dal quale sono rappresentati, secondo una proporzione di superiore giustizia, tutti gli aspetti permanenti e fondamentali dei singoli interessi particolari. Questi interessi particolari possono essere infatti in contrasto per quanto riguarda i loro aspetti contingenti e secondari, ma non possono esserlo per quanto riguarda la loro autentica e duratura sostanza. Infatti essi non possono trovarsi in una posizione di assoluto contrasto, perché non sono le espressioni di realtà distinte, ma sono le espressioni di una medesima realtà indissolubile. Questa realtà, profondamente unitaria, può rivelare incrinature nei periodi del suo assestamento, ma non può presentare fratture prestabilite e definitive, poiché altrimenti non risulterebbe unitaria, ma molteplice.
La produzione come ragione di vita sociale.
« Bisogna lavorare e produrre. Lavorando e producendo voi dimostrerete il vostro amore più tenero per la Patria e contribuirete a ricostruire la ricchezza nazionale » MUSSOLINI Agli operai del porto di Bari, 10 aprile 1922 .
Ma quali sono le forze che assicurano la continuità e l’efficienza della Nazione, quella continuità e quella efficienza alle quali le stesse forze particolari che compongono il complesso nazionale hanno, come si è visto, un diretto e vitale interesse? Dall’individuo alla più vasta comunità sociale, ogni entità vivente non può assicurarsi una vera continuità di esistenza ed una efficienza di azione se non producendo, cioè accumulando riserve di energie per il futuro e dando concrete testimonianze delle proprie capacità di espansione. Un uomo assicura a se stesso una sicurezza di esistenza e conquista un rango autorevole, quando sviluppa le proprie capacità mettendole in grado di funzionare sempre meglio e quando lascia dietro di sé il segno delle proprie opere. Una cultura si afferma e si continua se si esprime attraverso manifestazioni che dimostrino sia una fecondità produttiva che una genialità di spirito. Così anche la Nazione, la quale esiste nelle sue opere, vive di ciò che nel suo ambito si crea per la politica, per l’economia, per le armi, per le scienze,per le arti; la quale si afferma, gode di prestigio, non crolla sotto i colpi delle Nazioni nemiche solo se le sue creazioni sono di qualità, cioè resistono al confronto degli avversari e dei concorrenti. Ma poiché le creazioni che si compiono in una Nazione sono quelle delle sue forze particolari,cioè degli uomini e dei gruppi componenti, che d’altra parte hanno interesse alla sua continuità e alla sua efficienza,è logico che una Nazione possa conquistare la pienezza della sua vita e rispondere agli interessi particolari dei propri componenti solo se questi creano, cioè lavorano e producono. Per questo la maniera più immediata e vera di dimostrare il proprio sentimento nazionale,il proprio amor di Patria è quello di lavorare e di produrre. Il lavoro non è l’attività che conduce alla soddisfazione dei bisogni egoistici dell’individuo; ma è l’attività attraverso la quale l’individuo partecipa alla vita e al destino della comunità nazionale della quale fa parte; ed è l’attività attraverso la quale la comunità nazionale acquista una sua consistenza ed una sua energia. Se l’individuo senza lavoro rimane al di fuori della vita nazionale, a sua volta la Nazione senza lavoro vede inaridire le sue sorgenti vitali, decade e soccombe. In tal modo il destino dell’uomo e quello della comunità appaiono come i due volti di un medesimo destino il quale procede per una stessa via senza distinguersi.
Il lavoro soggetto della società nazionale.
“Nello Stato corporativo il lavoro non è più l’oggetto dell’economia, ma il soggetto poiché è il lavoro che forma ed accumula il capitale” MUSSOLINI, Sintesi del Regime. 18 marzo 1934.
Per questo il lavoro è il fondamento della vita nazionale, è il soggetto attraverso il quale la Nazione opera e vive; tutto ciò che della Nazione veramente esiste, al di fuori dei vaghi sentimentalismi, è il lavoro. L’affermazione che il lavoro è il soggetto dell’economia non è un principio autonomo; ma è la trasposizione nel campo economico della legge più generale che assegna al lavoro un valore dominante nella vita dei popoli in quanto è il modo della loro esistenza. In questo senso il lavoro è il soggetto dell’intera società nazionale, costituendo la sua forza propulsiva, la sua volontà operante, il suo perenne motivo animatore dal quale ogni altro motivo discende come da una fonte. L’errore della concezione materialistica che fa consistere la potenza delle Nazioni nell’oro, non tiene conto della verità elementare che l’oro, cioè il capitale, è soltanto uno strumento della produzione, ma che questo strumento è il risultato di un lavoro compiuto e che per divenire effettivamente produttivo deve essere applicato dal lavoro. Senza il concorso del lavoro, senza la guida del lavoro, senza l’attività del lavoro, l’oro rimane uno strumento inanimato incapace di generare. Quindi la potenza delle Nazioni non consiste nell’oro, ma nel lavoro. Ed inoltre il lavoro deve essere inteso non come attività esclusiva del proletariato, secondo la significazione restrittiva derivata dal concetto di lotta di classe: ma come applicazione diretta di ogni facoltà umana che sia mediatamente o immediatamente rivolta alla produzione, secondo la interpretazione data dalla stessa scienza economica.
L’estensione del concetto del lavoro.
“E’ stolto ed assurdo dipingerci come nemici della classe lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli in spirito con coloro che lavorano: ma non facciamo distinzioni assurde, non mettiamo al primo piano il callo, specie se è al cervello. Noi non mettiamo sugli altari la nuova divinità del lavoratore manuale. Per noi, tutti lavorano: anche l’astronomo che sta nella sua specula a consultare la traiettoria delle stelle, lavora anche il giurista, l’archeologo, lo studioso di religioni, anche l’artista lavora, quando accresce il patrimonio dei beni spirituali che sono a disposizione del genere umano: lavora anche il minatore, il marinaio, il contadino. ‘Noi vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda: vogliamo che tra spirito e materia, fra cervello e braccio si realizzi la comunione,la solidarietà della stirpe”
MUSSOLINI Discorso di Bologna, 3 Aprile 1921 .
In tal modo la dottrina fascista respinge il concetto di lotta di classe, non solo per il sistema di azione sociale che esso comporta ma anche per la definizione del lavoro dalla quale essa parte, e quindi estende il concetto del lavoro, comprendendovi tutte le manifestazioni dell’opera e del pensiero umano che sbocchino in una produzione di qualsiasi genere e che contribuiscano comunque ad alimentare la vita nazionale. Anche le attività intellettuali appaiono dunque
come altrettante forme di lavoro. Infatti contribuiscono pure esse a promuovere la vita della Nazione; pure esse si riversano a favore degli altri gruppi nazionali che esercitano un’attività diversa,concorrendo ad elevare l’autorità, il prestigio, la potenza della Nazione considerata nella sua unità e delle forze particolari che sono in essa comprese. Questo principio, per il quale il concetto del lavoro assume un significato totalitario, è tipico della tradizione italiana. Durante il Risorgimento un grande italiano,Mazzini, affermando la funzione prevalente del lavoro nella vita sociale, accomunava appunto tutte le forme di lavoro in questo chiaro preannuncio : « Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione si eserciti. L’esistenza rappresenterà un lavoro compiuto ». E la dottrina fascista, fin dalla sua origine, ha fatto propria questa interpretazione del lavoro, dandole un riconoscimento ufficiale già nel Congresso sindacale di Bologna del 24 gennaio 1922, dove fu acclamata una mozione che dice testualmente: “Sono da considerarsi lavoratori tutti indistintamente coloro che comunque impieghino o dedichino l’attività ai fini suaccennati” (della produzione). Il lavoro è dunque riportato al suo valore più comprensivo e più spirituale: è lavoro ogni concreta testimonianza materiale o ideale del perenne sforzo che l’uomo compie non per sopravvivere come organismo fisiologico, ma per elevarsi nel cammino della storia,per fare della propria esistenza una affermazione di umanità intelligente ed operante, per distaccarsi dal mondo dei bruti e vivere in quello della civiltà.
La concezione fascista del lavoro nella storia.
“ Il lavoro non è più considerato come una specie di castigo che il genere umano è costretto a subire per un tragico e autorevole fato, ma come il vero scopo della vita. Questo è un concetto che avrà certo una vasta importanza nella storia dell’umanità” MUSSOLINI, Primo messaggio al popolo americano ( Scritti e Discorsi vol. V, pag. 470).
In questo senso il lavoro non è un mezzo, ma è un fine: nel lavoro la vita terrena acquista la logica conclusione ed il compimento. Lavorare, cioè produrre e creare, significa imprimere un orientamento determinato alla propria volontà ed alle proprie azioni; significa fermare il corso fuggente dell’esistenza nelle cose prodotte e create per rimanere oltre il tempo. Dunque il lavoro non è la condanna dell’uomo, ma è la sua esaltazione quotidiana: riconducendo al lavoro l’uomo che ne sia lontano, lo si riporta alla nobiltà più vera della sua natura; tutelando il lavoro contro le manomissioni, da qualunque parte esse provengano, si difende uno dei valori essenziali non solo alla esistenza del singolo, ma anche e sopratutto alla esistenza della collettività. Nel concetto del lavoro quale la dottrina fascista lo delinea,risiede dunque una interpretazione totale della vita: una interpretazione che, per essere direttamente ispirata al dramma della condizione sociale contemporanea, assume il valore di un insegnamento morale e di un codice di vita. I termini del problema economico sono così superati e composti in un disegno più vasto. Al mondo moderno, che attraverso il dissesto delle categorie e la lotta di classe accusa la sua profonda crisi spirituale, la dottrina fascista nel lavoro, innalzato alla funzione di motivo di costruzione umana,indica un approdo concreto e tangibile; addita una soluzione non astratta e contemplativa, ma operosa e vibrante; apre un corso nel quale tutte le risorse del pensiero, tutte le energie del braccio possono essere felicemente avviate.
Individuo, lavoro e gerarchia.
« nel tempo fascista il lavoro nelle sue infinite manifestazioni, diventa il metro unico col quale si misura l’utilità sociale e nazionale degli individui e dei gruppi »
MUSSOLINI il piano regolatore della Nuova Economia Italiana, 23 marzo 1936.
Per questa sua posizione, che ne fa il fulcro intorno al quale si svolgono i valori della vita,il lavoro, nelle sue infinite manifestazioni, diventa il metro unico col quale si misura l’utilità sociale e nazionale degli individui e dei gruppi. Attraverso il lavoro si vaglia l’uomo, si svela la sua maniera di sentire i diritti e i doveri, si avverte il suo senso di responsabilità morale, si conosce il conto che egli fa delle proprie forze, si misura sopratutto il grado con cui egli intende rispondere al suo impegno verso la collettività. Una mozione votata nel Congresso sindacale fascista svoltosi a Bologna il 24 gennaio 1922 contiene a questo proposito un’affermazione di chiarezza adamantina: “ Il lavoro costituisce sovrano titolo che legittima la piena ed utile cittadinanza dell’uomo nel consesso sociale”. Per la dottrina fascista il lavoro è dunque un dovere sociale e, prima ancora che un dovere sociale, è l’atto con il quale l’uomo entra nella società e vi conquista il suo posto. Le autentiche gerarchie della vita intesa come missione sono le gerarchie, reali e produttive, create dal lavoro. Le altre sono graduazioni formali destinate ad essere cancellate dalla storia. Il lavoro parla il linguaggio sicuro ed evidente delle produzioni raggiunte e dei valori conquistati. Solo questo linguaggio può essere accolto da tutti e da tutti compreso nel suo significato, perché chi lavora e conosce il sacrificio della fatica è istintivamente portato a servire chi lavora più e meglio di lui.
Il lavoro fondamento della vita.
“Preferiamo celebrare il lavoro in tutte le sue manifestazioni dalle più eccelse alle più modeste; da quelle che trasformano la rozza materia a quelle che esprimono i moti profondi dello spirito. Adottiamo il lavoro che dà la bellezza e l’armonia alla vita, non solo quello che aumenta la possibilità del nostro benessere materiale”. MUSSOLINI , da ascoltare, 1° maggio 1919.
Risulta evidente che se possono essere trovati precedenti alla visione fascista del lavoro essi non debbono essere in nessun modo cercati nel materialismo. La dottrina materialistica descrive il lavoro come una pena alla quale l’uomo si sottopone per soddisfare i suoi bisogni esclusivamente nei limiti che sono da essi richiesti. Il lavoro serve perciò a procurare i mezzi di sussistenza e consiste soltanto nella fatica necessaria a produrli. Si lavora per mangiare ed inversamente si mangia per lavorare. Nessuno spiraglio rende possibile un’evasione da questo ferreo circolo chiuso nel quale l’uomo cade con il suo lavoro. In questo la interpretazione materialistica del lavoro è assai simile a quella greca che, con un rassegnato scetticismo, concepisce il lavoro esclusivamente come dolore. Infatti nessuna differenza esiste tra il mito dell’uomo legato giorno per giorno alla ferrea legge del suo sostentamento ed i miti di Sisifo e delle Danaidi, anche se questi sembrano più lontani dalla realtà per la loro forma poetica. Come Sisifo porta vanamente dal piano alla cima del monte i grandi massi che poi nuovamente precipitano a valle per l’opposto pendio, come le Danaidi riempiono inutilmente le brocche che sono senza fondo, così l’uomo ,secondo la dottrina materialistica, vanamente conquista con il lavoro il suo cibo, perché questo gli serva a farlo lavorare per lo stesso motivo, anche l’indomani, fino alla morte. La visione fascista del lavoro è invece spirituale e positiva: spirituale perché assegna un fine umano al lavoro, positiva perché fa del lavoro una costruzione progressiva che conserva la memoria del suo creatore e gli assegna un posto nella società. Questa visione ha un precedente soltanto nella più schietta tradizione italiana: nel Rinascimento che concepì il lavoro come fattore fondamentale dell’umanità.
L’integrazione del capitale e del lavoro.
“Così, nel sistema fascista, gli operai non sono più degli sfruttati, secondo le viete terminologie, ma dei collaboratori, dei produttori, il cui livello di vita deve essere elevato materialmente e moralmente in relazione ai momenti ed alle possibilità”
MUSSOLINI, Agli industriali Giugno 1928.
Partendo da così alti principi, nei quali è racchiusa una maniera di orientare verso una meta creativa il destino dell’ uomo, la dottrina fascista non può logicamente sentire il contrasto fra il capitale ed il proletariato come un problema irrimediabile, cioè come un momento eterno nella storia del lavoro. La lotta di classe devia il lavoro dal suo fine naturale, rendendolo una forma di sovvertimento e di disgregazione umana. Bisogna dunque abolire la lotta di classe, non comprimendo le forze che in essa si oppongono, ma soddisfacendo le esigenze che essa dimostra con la sua esplosione tumultuosa. Bisogna riportare il capitale ed il proletariato sul medesimo piano, congiungerli con un legame di fraternità,affermando che in tanto essi possono prendere parte ad una società ordinata e cosciente in quanto assumano ambedue il fine del lavoro. Né il capitale né il proletariato possono ammettersi se non siano forme attive di lavoro. Per questo la dottrina fascista respinge il proletariato quando si trasforma in massa che si agita, abbandonando la sua funzione costruttiva, e respinge il capitale quando sia soltanto un passivo strumento della produzione. Nel processo rivoluzionario del Fascismo la esaltazione del lavoro non vuole essere dunque né un formale atteggiamento demagogico né una tattica contingente per l’acquietamento dei problemi sociali; ma una consapevolezza dei fini permanenti al vivere sociale ed un motivo profondo di giustizia collettiva, nel quale l’uomo possa ritrovare il senso della sua missione civile.
“Chi vede nel corporativismo soltanto una concezione economica o una semplice politica economica,è fuori della verità. Il corporativismo fascista è una visione integrale,unitaria,della vita e dell’uomo,che,informando di sé ogni attività individuale e sociale,informa necessariamente anche l’economia. E’ utopistico compiere questa rivoluzione economica,senza compiere quella spirituale dell’individuo e della società.”    MUSSOLINI, “Il Popolo d’Italia” 24 Febbraio 1934.

Estratto da “Venti Anni” volume secondo,a cura del Partito Nazionale Fascista; Roma 1942-XXI ; Istituto Poligrafico dello Stato.
Fonte: http://www.ilcovo.mastertopforum.net/la-concezione-etica-del-lavoro-nel-fascismo-vt37.html?sid=d4d49e2f601f6f9e1a40981d3188106a


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