DAL
BORDELLO NEL QUALE SIAMO STATI GETTATI A SEGUITO DELLA SCONFITTA (SI BADI BENE:
SCONFITTA MILITARE, NON DELLE IDEE) DEL 1945, C’E’ UNA VIA D’USCITA?
DEMOCRAZIA DEL LAVORO (Per intenderci quella MUSSOLINIANA)
di Filippo Giannini
L’11 marzo 1945, il fondatore del Partito Comunista d’Italia,
Nicola Bombacci, parlando al Teatro Universale, di fronte alle
Commissioni interne degli stabilimenti industriali, fra l’altro affermò:
“Il socialismo non lo farà Stalin, ma lo farà Mussolini che è socialista”.
E il 13 marzo successivo, parlando allo stabilimento industriale dell’Ansaldo, di fronte a più di mille operai disse: “Fratelli
di fede e di lotta, guardiamoci in viso e parliamo pure liberamente:
voi vi chiedete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista,
amico di Lenin, di vent’anni fa? Sissignori, sono sempre lo stesso,
perché io non ho rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i
quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi
trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica Sociale
Italiana, è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è
veramente decisi a rivendicare i diritti degli operai”.
Quale era la strada intrapresa da Nicola Bombacci? Per giungere allo Stato Organico, alla Socializzazione dello Stato, il passaggio era (ed ancora oggi dovrebbe essere) lo Stato Corporativo.
Michaal
Shanks, economista di vasta esperienza internazionale, già direttore
della Commissione europea degli affari sociali e presidente del
Consiglio nazionale dei consumi, nel suo libro What is wrong with the modern world? (Cosa c’è di sbagliato nel mondo moderno?)
indica lo Stato Corporativo di Mussolini, di fronte al persistente
crisi del liberismo e del marxismo, come l’unico modello per uscire
dalle contrapposizioni vigenti nella Democrazia Parlamentare.
Non c’è alternativa, conclude l’economista inglese: o lo Stato Corporativo o lo sfascio dello Stato.
Oggi, anno 2011 Era LXVI dello Stato Sfascista, siamo giunti allo Sfascio dello Stato.
È
sotto gli occhi di tutti (a parte di coloro che ne godono i privilegi)
le ingiustizie e le disuguaglianze che consentono e alimentano una
società basata su sistemi liberali in politica e liberisti in economia.
Questi sistemi sostenitori di una libertà che si trasforma inanarchia dove
solo il più svelto, il più spregiudicato, il più privo di scrupoli, il
più prepotente, il più imbroglione, il più ricco prevale su tutti.
E ancora una volta ricordiamo l’ammonimento di Benito Mussolini: “La corruzione non è NEL sistema, ma è DEL sistema”, e possiamo aggiungere che ciò è ampiamente comprovato. Allora, giusto come ha scritto il giornalista Franco Monaco: “Per
rifare l’Italia, per rifarla Nazione bisogna mandare all’aria anzitutto
i partiti. Perché una vera democrazia è cosa ben diversa da quella di
loro comodo, grottesca impalcatura di gole profonde. Una vera
democrazia non può fondarsi che sulla serietà pura e semplice del
lavoro, quindi su una rappresentanza chiara, diretta e responsabile di
tutte le categorie produttive”.
Ora un po’ di storia.
Prima con il Lodo di Palazzo Vidoni dell’ottobre 1925, poi con la Carta del Lavoro presentata
il 21 aprile 1927 (sì, signori, addirittura più di ottanta anni fa)
codificava, per la prima volta al mondo, i rapporti fra capitale e
lavoro, cioè fra il proprietario di un’azienda e il lavoratore, basava
l’intero sistema sulla collaborazione di classe in contrapposizione all’allora vigente lotta di classe, rendendo, in pratica, due forze non più ferocemente antagoniste, ma collaborative nel comune interesse.
Di nuovo Franco Monaco (Quando l’Italia era ITALIA, pag. 47): “Questa
unitarietà di comportamento dei datori di lavoro e dei lavoratori non
poteva essere basata che su una loro uguaglianza totale: giuridica,
politica ed economica. Perciò l’ordinamento corporativo ridimensionava
il capitale, gli toglieva la vecchia arroganza padronale, lo faceva
diventare strumento tecnico dell’economia, senza per altro mettere in
discussione la proprietà privata”.
La Carta del Lavoro fu la premessa legislativa necessaria per l’impalcatura dell’apparato corporativo.
Con
la creazione nel luglio 1926 del Ministero delle Corporazioni, nel 1930
vide la luce il Consiglio Nazionale delle Corporazioni.
L’insieme
dell’edificio corporativo andava costruito in tempi assennati perché
sottoposto a continue verifiche, limature, variazioni, aggiunte.
A
seguito di ciò, con la legge del febbraio 1934 il sistema corporativo
appariva quasi compiuto, mancava solo la sostituzione della ormai
praticamente esautorata Camera elettiva con un organo espresso dalle
corporazioni. Le elezioni plebiscitarie a lista unica, nel marzo 1934 e
conseguente impresa etiopica, avevano probabilmente ritardato la
variazione istituzionale e la creazione del nuovo assetto
rappresentativo corporativo.
Nel
1939 entrò in funzione la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, organo
legislativo e rappresentativo, con 600 deputati chiamati Consiglieri
Nazionali.
La
nascita dello Stato Corporativo rappresentò il tentativo di superare i
limiti del così detto Stato liberale e l’incubo dello Stato sovietico.
Il Secondo conflitto mondiale infranse l’esperimento in una fase che era
già cruciale a causa dell’isolamento internazionale provocato dalle
sanzioni e dall’autarchia.
Così si espresse il Direttore de Il Giornale d’Italia in un vecchio articolo.
Il Dottor Sebastiano Barolini di Pontinia (Lt) ha scritto che ha avuto la ventura di studiare il Diritto Corporativo che pone l’uomo al centro della Società e, riassumendo:
1) Ridimensionamento dello strapotere dei padroni attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese;
2) Partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese;
3)
Partecipazione dei lavoratori alle scelte decisionali onde evitare
chiusure di aziende o licenziamenti improvvisi senza che ne siano
informati per tempo i dipendenti, i quali sono interessati a trovare
altre soluzioni atte a non perdere il posto di lavoro;
4)
Intervento dello Stato attraverso i suoi funzionari immessi nei
consigli di amministrazione allorquando le imprese assumono interesse
nazionale a maggior difesa dei lavoratori (altro che l’intervento di
Marchionne); 5) Diritto alla proprietà in funzione sociale e cioè lotta
alle concentrazioni immobiliari e diritto per ogni cittadino, in quanto
lavoratore, alla proprietà della sua abitazione;
6)
Diritto alla iniziativa privata in quanto molla di ogni progresso
sociale di contro all’appiattimento collettivista e alle concentrazioni
capitaliste;
7)
Edificazione si una giustizia sociale che prelevi il di più del reddito
ai ricchi e lo distribuisca fra le classi più povere attraverso la
previdenza sociale, l’assistenza gratuita alla maternità e all’infanzia,
le colonie marine e montane per i bambini poveri, l’assistenza agli
anziani, il dopolavoro per i lavoratori, i treni popolari e via
dicendo;
8) Eliminazione dei conflitti sociali attraverso la creazione di un apposito Tribunale del Lavoro in
base al principio che un cittadino non può farsi giustizia da sé
altrettanto deve valere per i conflitti sociali ad evitare scioperi e
serrate che tanti danni provocano alle parti in causa ed alla
collettività nazionale;
9)
Abolizione dei sindacati di classe ormai ridotti a cinghie di
trasmissione dei partiti che li controllano e creazione dei sindacati di
categoria economica con conseguente modifica del Parlamento in una
Assemblea composta da membri eletti attraverso le singole Confederazioni
di categoria dei datori di lavoro e dei lavoratori;
10)
Attuazione, particolarmente nel Mezzogiorno, della bonifica integrale,
che toglie ai latifondisti le terre incolte, le rende produttive e le
distribuisce in proprietà gratuita ai contadini poveri.
Nell’Enciclica di Pio XI Quadragesimo anno, si legge fra l’altro: “Ciò
che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo
concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza
enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e
questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari ed amministratori
del capitale di cui però dispongono a loro grado e piacimento”.
Insieme alle famose Encicliche Rerum Novarum e Centesimus Annus si può affermare che le Encicliche papali sono la trasposizione politica dei problemi sociali che avevano proposto la Chiesa.
Quindi
rivolgiamo una esortazione ai giovani, ne va del vostro futuro:
dedicatevi allo studio del Diritto corporativo e ignorate le interessate
e fraudolenti, mendaci voci che vi parlano di spinte corporative o di iniziative settoriali corporative.
Lo
Stato Corporativo è tutto l’opposto perché è volto, attraverso l’esame
dei programmi proposti dalle singole Confederazioni di categoria, a
formulare una seria e globale programmazione economica ben diversa da
quelle inconsistenti dall’attuale disonesto e incapace regime.
Siamo ora declassati a Nazione di serie B a causa dell’incapacità e corruzione dell’attuale regime.
A dimostrazione di quanto scritto, oltre al già citato Michaal Shanks, diamo la voce ad altri studiosi e autorità che sono al di sopra di ogni sospetto di simpatie per il passato regime.
Un riconoscimento alla validità della proposta corporativa venne addirittura da Gaetano Salvemini:
“L’Italia
è diventata la Mecca degli studiosi della scienza politica, di
economisti, di sociologi, i quali vi si affollano per vedere con i loro
occhi com’è organizzato e come funziona lo Stato corporativo fascista.
Giornali, riviste, periodici specializzati, facoltà di scienze
politiche, di economia, di sociologia, delle grandi come delle piccole
università, inondano il mondo di articoli, di saggi, opuscoli, libri che
formano già una biblioteca di dimensioni rispettabili sullo Stato
corporativo fascista, le sue istituzioni, i suoi aspetti politici, i
suoi indirizzi di politica economica, i suoi effetti speciali”.
In questo contesto non possiamo non ricordare che quando Mussolini, nel 1934, affermò.
“L’America va verso l’economia corporativa”,
disse molto meno di quanto non si potrebbe credere. L’America non
riusciva a superare la crisi economica che l’attanagliava e Roosevelt,
favorevolmente colpito dalla politica mussoliniana, inviò attraverso
Italo Balbo, “parole di apprezzamento per l’organizzazione corporativa del nostro Paese”.
In merito ha scritto Vaudagna: “In Italia intellettuali, politici e giornalisti videro nel New Deal una sorta di corporativismo in embrione, che seguiva la strada aperta dal fascismo”.
Roosevelt,
nel contesto di una economia che era sempre stata ispirata ai principi
del più sfrenato ed incontinente liberismo, introdusse , con le buone e
assai più con le cattive, il coordinamento economico da parte dello
Stato, la qual cosa fu, non a torto, valutato come un punto di svolta
determinante.
Zeev Sternhell, ebreo, professore di Scienze Politiche presso l’Università di Gerusalemme, col saggio “La terza via fascista” (“Mulino” 1990), nel quale, tra le molte altre considerazioni, possiamo leggere:
“Il
Fascismo fu una dottrina politica, un fenomeno globale, culturale, che
riuscì a trovare soluzioni originali ad alcune grandi questioni, che
dominarono i primi anni del secolo”. L’autore continua a spiegare: “Le
ragioni dell’attrazione esercitata dal Fascismo su eminenti uomini
della cultura europea, molti dei quali trovarono in esso la soluzione
dei problemi relativi al destino della civiltà occidentale>.
Sono proprio le soluzioni sociali ad attrarre maggiormente il giudizio del professore di Scienze Politiche:
“Il
corporativismo riuscì a dare la sensazione a larghi strati della
popolazione che la vita fosse cambiata, che si fossero dischiuse delle
possibilità completamente nuove di mobilità verso l’alto e di
partecipazione”.
Torniamo a Roosevelt. Questi aveva impostato la campagna elettorale all’insegna del New Deal, ossia ad un vasto intervento statale in campo economico, proponendo un’alternativa al liberismo capitalista.
Una
volta eletto Roosevelt (e questo nel dopoguerra venne accuratamente
nascosto) inviò, nel 1934, in Italia Rexford Tugwell e Raymond Moley,
due fra i suoi più preparati uomini del Brain Trust per studiare il miracolo italiano.
E allora, per tornare al titolo di questo pezzo, riprendiamo uno stralcio del lavoro di Lucio Villari:
“Tugwell e Moley, incaricati alla ricerca di
un metodo di intervento pubblico e di diretto impegno dello Stato che,
senza distruggere il carattere privato del capitalismo, ne colpisse la
degenerazione e trasformasse il mercato capitalistico anarchico,
asociale e incontrollato, in un sistema sottoposto alle leggi e ai
principi di giustizia sociale e insieme di efficienza produttiva”.
Roosevelt
inviò Rexford Tugwell a Roma per incontrare Mussolini e studiare da
vicino le realizzazioni del Fascismo. Ecco come Lucio Villari ricorda il
fatto tratto dal diario inedito di Rexford Tugwell in data 22 ottobre
1934 (Anche l’Economia Italiana tra le due Guerre, ne riporta alcune parti; pag. 123):
“Mi
dicono che dovrò incontrarmi con il Duce questo pomeriggio… La sua
forza e intelligenza sono evidenti come anche l’efficienza
dell’amministrazione italiana, è il più pulito, il più lineare, il più
efficiente campione di macchina sociale che abbia mai visto. Mi rende
invidioso… Ma ho qualche domanda da fargli che potrebbe imbarazzarlo, o
forse no”.
Erano gli anni che da tutto il mondo (e lo ripeto: da tutto il mondo) politici e studiosi venivano in Italia per studiare il MIRACOLO ITALIANO. Esattamente come oggi, vero? E chi può ci smentisca!
Andiamo verso la conclusione e citiamo di nuovo Franco Monaco: “C’è
una sola strada da percorrere, tutta italiana, ma preclusa ai
grassatori: una strada da riprendere con un impegno non tribunizio, ma
di studio e di ampia informazione pubblica, se si vogliono veramente
ricostruire i valori crollati”.
Per valori crollati, Franco Monaco si riferisce a quelli crollati nella non troppo lontana sconfitta militare del 1945, quando i liberatori ci imposero le loro leggi, quelle basate essenzialmente sul valore del dollaro.
Torneremo presto sull’argomento, in quanto convinti corporativisti.
Abbiamo ricevuto la mai che qui sotto riportiamo, con preghiera di “farla girare”. Cosa che facciamo con grande, grandissimo, anzi, infinito piacere.
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Ed ora leggete quanto segue:
Il
giorno 21 settembre 2010 il Deputato Antonio Borghesi dell’Italia dei
Valori ha proposto l’abolizione del vitalizio che spetta ai parlamentari
dopo solo 5 anni di legislatura in quanto affermava che tale
trattamento risultava iniquo rispetto a quello previsto dai lavoratori
che devono versare 40 anni di contributi per avere diritto ad una
pensione.
Ecco com’è finita:
Presenti 525
Votanti 520
Astenuti 5
Maggioranza 261
Hanno votato sì 22
Hanno votato no 498
i
22 sono: BARBATO, BORGHESI, CAMBURSANO, DI GIUSEPPE, DI PIETRO, DI
TANISLAO, DONADI, EVANGELISTI, FAVIA, FORMISANO, ANIELLO, MESSINA, ONAI,
MURA, PALADINI, PALAGIANO, PALOMBA, PIFFARI, PORCINO, RAZZI, ROTA,
SCILIPOTI, ZAZZERA.
Ecco
un estratto del discorso presentato alla Camera: Penso che nessun
cittadino e nessun lavoratore al di fuori di qui possa accettare l’idea
che gli si chieda, per poter percepire un vitalizio o una pensione, di
versare contributi per quarant’anni, quando qui dentro sono sufficienti
cinque anni per percepire un vitalizio. È una distanza tra il Paese
reale e questa istituzione che deve essere ridotta ed evitata. Non sarà
mai accettabile per nessuno che vi siano persone che hanno fatto il
parlamentare
per un giorno – ce ne sono tre – e percepiscono più di 3.000 euro al
mese di vitalizio. Non si potrà mai accettare che ci siano altre persone
rimaste qui per sessantotto giorni, dimessisi per incompatibilità, che
percepiscono un assegno vitalizio di più di 3.000 euro al mese. C’è la
vedova
di un parlamentare che non ha mai messo piede materialmente in
Parlamento, eppure percepisce un assegno di reversibilità. Credo che
questo sia un tema al quale bisogna porre rimedio e la nostra proposta,
che stava in quel progetto di legge e che sta in questo ordine del
giorno,
è che si provveda alla soppressione degli assegni vitalizi, sia per i
deputati in carica che per quelli cessati, chiedendo invece di versare i
contributi che a noi sono stati trattenuti all’ente di previdenza, se
il deputato svolgeva precedentemente un lavoro, oppure al fondo che
l’INPS ha
creato con gestione a tassazione separata. Ciò
permetterebbe ad ognuno di cumulare quei versamenti con gli altri
nell’arco della sua vita e, secondo i criteri normali di ogni cittadino e
di
ogni lavoratore, percepirebbe poi una pensione conseguente ai versamenti realizzati.
Proprio
la Corte costituzionale, con la sentenza richiamata dai colleghi
questori, ha permesso invece di dire che non si tratta di una pensione,
che non esistono dunque diritti quesiti e che, con una semplice delibera
dell’Ufficio di Presidenza, si potrebbe procedere nel senso da noi
prospettato,che consentirebbe di fare risparmiare al bilancio della
Camera e anche a tutti i cittadini
E ai contribuenti italiani circa 150 milioni di euro l’anno.
Non ne hanno dato notizia né radio, né giornali, né TV OVVIAMENTE. Facciamola girare noi!!!
Oggi, 9 ottobre 2011 sempre LXVI Era Sfascista, il Presidente Giorgio Napoletano ha lanciato questo monito: <Dobbiamo ridare dignità e decoro alla politica >. La risposta data dal Parlamento italiano il 21 settembre (risposta poco sopra riportata), non è adeguata al monito?