domenica 29 aprile 2018

Furono crimini, ma democratici

Furono crimini, ma democratici

Nel 1965 il famoso storico tedesco Andreas Hillgruber scrisse un libro che è rimasto una pietra miliare negli studi sulla Seconda guerra modiale: La strategia militare di Hitler. Ripubblicato con aggiornamenti nel 1982, questo ponderoso libro (oltre ottocento pagine fitte di note e rimandi bibliografici direttamente attinti dalle fonti) è uscito in italiano nel 1986 (Rizzoli). Relegata in una noticina sperduta tra centinaia di altre, solo un attento lettore è in grado di rintracciare – quasi fosse l’epigrafe di un reperto archeologico – la frase decisiva: «Hitler rifiutò, nel periodo da noi preso in esame [il primo anno di guerra] gli attacchi puramente terroristici a centri abitati della Gran Bretagna, come aveva suggerito Jodl. In tutte le fasi della guerra aerea contro l’Inghilterra nel 1940-41… valsero solo obiettivi militari e industriali…». Gli storici lo sanno bene: la responsabilità di avere per primi deciso di colpire dal cielo i civili ricade infatti tutta e soltanto sugli inglesi.
Fu solo dopo la decisione, fortemente voluta da Churchill, di attaccare i centri abitati tedeschi che Hitler, dopo reiterate pressioni di Goering e di altri suoi collaboratori, si lasciò convincere a effettuare rappresaglie sulle città inglesi. E furono i bombardamenti sul centro di Londra e su Coventry. Nulla, tuttavia, in confronto con la rappresaglia della rappresaglia, lucidamente pianificata dagli strateghi angloamericani. La distruzione di Amburgo nel luglio 1943 e quelle sistematiche di Berlino, Dresda e di tutte le città del Reich grandi e piccole, fino all’ultimo raid del 25 aprile 1945, ridussero i precedenti bombardamenti tedeschi al rango di trascurabili esercitazioni pirotecniche. Il risultato è presto detto: ottocentomila civili tedeschi uccisi, secondo stime prudenti. E modalità di guerra giudicate criminali persino dai più tenaci democratici. Ad esempio, nel suo Tra le città morte: i bombardamenti sulle città tedesche: una necessità o un crimine? (Longanesi), lo studioso oxfordiano A. C. Grayling non può fare a meno di scrivere a chiare lettere che «lanciare deliberatamente attacchi militari contro le popolazioni civili allo scopo di provocare in mezzo ad esse terrore e morti indiscriminate è un crimine morale».
È esattamente ciò che decisero a tavolino i capi alleati: gli eccidi terroristici, oltre che essere misure punitive, avrebbero dovuto produrre il crollo del morale della popolazione affrettando la fine della guerra. Il risultato, come è noto, fu quello opposto: i tedeschi, lungi dal crollare psicologicamente, rinsaldarono il loro morale ad ogni massacro e tennero duro fino all’ultimo giorno. In particolare, sappiamo che la programmazione della tempesta di fuoco sperimentata con drammatico successo su Amburgo nel ‘43 (ottantamila morti dopo cinque attacchi consecutivi in una settimana), fu presa a modello dal Bomber Command britannico per le sue successive esibizioni. Il cui apice spettacolare fu Dresda, ma il cui metodo fu attuato su decine e decine di altre città. Si puntò a fare di ogni città un crogiolo: «Nel 1942 il gabinetto di guerra e lo stato maggiore dell’aviazione decisero di distruggere tutte le città tedesche con una popolazione superiore ai 100.000 abitanti», conferma Grayling. E quando si diceva “tutte” le città, si intendeva proprio “tutte”. La programmazione dell’eccidio di massa fu certosina. Il principe dei criminali, in questo disegno di sterminio attuato a distanza di sicurezza, fu il famigerato comandante del Bomber Command Arthur Harris. Fu lui, più di ogni altro, che «soddisfece il desiderio del premier» di operare vasti massacri di popolazione tedesca, facendo della politica del bombardamento una pratica scientifica eseguita con modalità industriali. Jörg Friedrich, nel libro La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati 1940-1945 (Mondadori), scrive che, in una relazione a Churchill, Harris previde entro l’aprile del ‘44 l’annientamento «del 75% dei tedeschi residenti in città con più di 50.000 abitanti», avendo come fine dell’intera operazione la «desertificazione della Germania». Siamo dunque di fronte alla cosciente e minuziosa programmazione dello sterminio. Friedrich, a un certo punto del suo libro impressionante, afferma che «la devastazione subita dalla Germania fu superiore a quella sperimentata da qualsiasi civiltà fino a quel momento, eppure il Reich resistette un anno in più del previsto sotto gli attacchi del Bomber Command e di due forze aeree statunitensi».
Dresda. Veduta della città dopo i bombardamenti.
Gli americani e gli inglesi facevano studi accurati sulla consistenza degli edifici di ogni città tedesca, sulla conformazione e il materiale usato per ogni singola costruzione civile. Calcolavano la struttura dei solai e delle cantine, la collocazione dei muri maestri e delle travature, la dislocazione degli isolati urbani… un lavoro maniacale, con appositi uffici tecnici che si occuparono per anni dei più minuti rilevamenti aerei, con studi particolareggiati sulla dirompenza delle bombe e l’efficacia distruttiva degli esplosivi… un lavoro che alla fine portò al risultato voluto. Si trovò eccellente la combinazione di spezzone incendiario e bomba a liquido infiammabile che, ad esempio, nel caso tragico della cittadina di Pforzheim, produsse un ottimo fatturato di omicidi: «Nella fornace bruciarono dalle quarantamila alle cinquantamila persone… nel solo quartiere di Hammerbrook perirono trentasei abitanti su cento. Settemila bambini e ragazzi persero la vita, diecimila rimasero orfani», precisa Friedrich. I settemila bambini eliminati nel giro di un’ora nella sola Pforzheim avranno certamente ringraziato Churchill e Harris per aver fatto loro conoscere la potenza dell’ideale democratico piovuto dal cielo… ma è inutile continuare l’orrido necrologio. Bisogna leggere il libro di Friedrich per provare fino in fondo la nausea di fronte alla truffa del moralismo liberaldemocratico. I fini della guerra non c’entravano, c’entrava la voglia di massacro. Su Dresda diciamo poi solo poche cose. Recentemente è uscito in Italia il mistificatorio libro di Frederick Taylor Dresda. 13 febbraio 1945: tempesta di fuoco su una città tedesca (Mondadori).
Dresda. Ammassi di cadaveri dopo i bombardamenti.
L’autore intende subito fare i conti col precedente libro di David Irving, Apocalisse a Dresda (Mondadori), cercando di squalificarlo. Dice: Irving è uno storico discusso, si sa, Irving è screditato (ma da chi è screditato?)… Ha portato le prove che a Dresda furono ammazzati in poche ore centotrentacinquemila tedeschi, quasi tutti donne, bambini e vecchi in fuga dall’Armata Rossa? Ma si è basato su un documento coevo tenuto nascosto dalle autorità… dice Taylor che la verità, come risulta da certi documenti ritrovati a Coblenza, è che i morti non furono più di venticinquemila, al massimo, che so, quarantamila… Il fatto – continua Taylor – è che «c’era in realtà solo una spiegazione possibile. Era stato aggiunto uno zero per ragioni di propaganda…». Cioè Irving ha fatto propaganda (ma per conto di chi?), mentre invece Taylor dice la verità. L’incredibile affermazione di Taylor è dunque che si può fare storiografia semplicemente mettendo uno zero in più a una cifra… ma come fa a sapere che è così facile? Non sarà che, con uguale facilità, lo stesso zero può anche essere tolto? Ma allora, se è possibile dare i numeri con tanta disinvoltura – nonostante lo stesso Taylor dica che l’opera di Irving è «interamente documentata» – non viene in mente a nessuno che il medesimo trucco può esser stato applicato a proposito di altri, più noti eccidi di massa? Per i suoi calcoli, Irving si basò su un rapporto coevo che tenne conto non solo dei cadaveri ritrovati e riconosciuti, ma anche di quelli dispersi e presunti in base al ritrovamento di oggetti personali: la maggioranza dei morti se ne andò in cielo bruciata e fusa dal vortice di fuoco che turbinò su Dresda per giorni… e in ogni caso Irving rimase molto più basso del Tagesbefehl 47, un documento che registrava duecentoduemila morti verificati e ne stimava il totale a duecentocinquantamila… ma è un documento che Taylor dice semplicemente che è falso. Ce lo assicura lui e ci possiamo fidare…
Ma gli angloamericani non ammazzavano soltanto dal cielo. Non mancarono di sporcarsi le mani anche a distanza ravvicinata. La documentazione esiste. Solo che non ne parla nessuno. Quello che ha documentato James Bacque in Gli altri lager. I prigionieri tedeschi nei campi alleati in Europa dopo la 2a guerra mondiale (Mursia) è semplice: un milione di morti tra i prigionieri tedeschi, tra il 1945 e il 1947, lasciati «morire lentamente di fame davanti agli occhi dei vincitori, ogni giorno per anni». Un computo che, nell’altro libro di Bacque (che non è affatto un “revisionista”) Crimes and Mercies (pubblicato dalla Warner Book di Londra nel 1998, mai tradotto e ignorato dai media), raggiunge cifre da capogiro: se considerati nel complesso delle violenze angloamericane, francesi, slave e sovietiche, i civili tedeschi liquidati dai vincitori ascendono a nove milioni. In ogni caso, sono parecchi i casi in cui, anche a guerra in corso, gli americani applicarono l’eccidio come sistema abituale. Basta leggere Il prezzo della disfatta. Massacri e saccheggi nell’Europa “liberata” di Gianantonio Valli (edizioni Effepi). In scala molto più ridotta, quasi piccoli cammei di etica democratica, abbiamo eloquenti testimonianze sul comportamento angloamericano nel caso specifico italiano. Ad esempio, in La gioia violata di Federica Saini Fasanotti (edizioni Ares), in cui si ricordano i crimini alleati contro militari e civili italiani. In proposito lo stesso Mario Cervi, su “Il Giornale”, ha testimoniato che «gli eserciti che dovevano portare democrazia e riscatto compirono essi pure sopraffazioni, rappresaglie, stragi di innocenti, atti di barbarie».
È ciò che documentano Marco Gioannini e Giulio Massobrio in Bombardate l’Italia. Storia della guerra di distruzione area 1940-1945 (Rizzoli), in cui vengono messi in luce anche risvolti finora misconosciuti. Riferendosi ai bombardamenti indiscriminati sui civili dopo l’8 settembre, si scrive: «La ferocia di questa fase della guerra aerea è dimostrata anche dall’uso da parte alleata di armi proibite dalle convenzioni internazionali, come il fosforo bianco che sviluppa gas tossici…». Circa poi gli eccidi americani in Sicilia, Gianfranco Ciriacono ha scritto Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella (stampato in proprio nel 2006), un lavoro molto documentato, che nel 2007 è stato confermato da uno studio apparso su “Il Giornalista”, pubblicazione dell’Università di Salerno. Si tratta di eventi drammatici. Tra i più noti, l’uccisione a freddo di trentasette soldati italiani prigionieri per mano del sergente Horace West, oppure l’eliminazione di settantatre soldati e sei civili italiani, di cui vi è traccia nei documenti della Corte Marziale di Washington e di cui ha scritto Roberto Coaloa su “Il Sole-24 Ore” circa un anno fa. Recentemente è uscito un piccolo libro di Guido Falqui Massidda, Germania, perdono (Nicolodi editore), in cui l’autore scrive che «centinaia di migliaia di persone – probabilmente milioni – furono uccise, stuprate, torturate, scacciate, spogliate di ogni loro avere solo perché tedesche… la bestialità umana sarebbe stata legalmente e deliberatamente scatenata per distruggere anche l’immagine, l’identità e la dignità di un intero popolo». E sente il bisogno di chiedere perdono alla Germania. Parole giuste e coraggiose. Ma sono gocce, nel grande oceano di menzogne e di deformazioni a senso unico. * * *
Tratto da Linea del 14 novembre 2008.


mercoledì 25 aprile 2018

IL MASSACRO NELLA “CASERMA DEL DIAVOLO”

IL MASSACRO NELLA “CASERMA DEL DIAVOLO”

L’olocausto dei fascisti cremonesi

Il 1° maggio 1945, per “celebrare” la festa del lavoro, in quel lugubre edificio trasformato dalla delinquenza antifascista di Cremona in una centrale di terrore e di morte, vennero assassinati senza nemmeno una parvenza di giudizio sommario, undici uomini e una donna

Di Giorgio Pisanò

La donna si chiamava Lucilla Merlini, non era stata iscritta al Partito Fascista, aveva 25 anni ed era in attesa di un bambino: ma era solo colpevole di essere la sorella di uno squadrista.

Centotredici Caduti: 45 dei quali assassinati durante la guerra civile in imboscate partigiane o caduti in combattimento, e 68 massacrati nelle “radiose giornate” della primavera del 1945.
Questi i dati complessivi dell’olocausto dei fascisti cremonesi che dopo l’8 settembre 1943 si schierarono con la Repubblica Sociale Italiana, seguendo l’esempio del loro capo storico, Roberto Farinacci, anche lui trucidato il 28 aprile a Vimercate mentre tentava di raggiungere Mussolini sul Lago di Como per proseguire insieme a lui per la Valtellina.
Una pagina poco nota, questa del sacrificio dei fascisti di Cremona, rimasta quasi soffocata nel silenzio della grande pianura padana, mentre va invece conosciuta perché contrassegnata da episodi di inaudita ferocia antifascista, resi ancora più barbari e criminali perché perpetrati in una zona dove tutti, più o meno, conoscevano tutti, e dove capi e gregari del Fascismo Repubblicano si erano prodigati per impedire che la guerra fratricida scatenata dalle bande partigiane, del resto molto esigue nel cremonese, aprisse solchi incolmabili di odio tra cittadini della stessa terra.
Base principale delle atrocità partigiane a Cremona dopo il 25 aprile 1945fu un edificio già sede di una compagnia della GNR e subito trasformato dagli antifascisti in carcere a disposizione del partito comunista. In questo edificio, immediatamente definito dall’opinione pubblica “la caserma del diavolo”, e ancora oggi così ricordato, imperava un certo Giuseppe Marabotti con l’approvazione del questore della “liberazione” Ferretti, e dei “comandanti di piazza” partigiani Salvalaggio e Ughini, il primo impiegato presso la Provincia e il secondo presso un istituto bancario cittadino. Lì venivano rinchiusi i combattenti della RSI catturati anche fuori Cremona. E di lì, dopo essere stati massacrati di botte e spogliati di tutto, portati sulle rive del Po, assassinati e gettati nelle acque del fiume.


Ma l’eccidio di massa che ancora oggi, a cinquanta anni di distanza, copre di vergogna l’antifascismo cremonese che, infatti, da ormai mezzo secolo, si sforza con ogni mezzo a tenerlo nascosto specie alla coscienza delle nuove generazioni ignare di tanta delinquenza, resta quello che venne perpetrato alle prime ore del 1° maggio 1945 nella “Caserma del diavolo”.
Quella mattina, infatti, vennero massacrati, nel cortile dell’edificio, dodici cittadini di Cremona: undici uomini e una donna, Lucilla Merlini, di 25 anni, colpevole di essere la sorella di un fascista, Mario merlini, già assassinato il giorno precedente. Lucilla Merlini era in attesa di un figlio, e i partigiani lo sapevano.
Gli undici uomini erano: Luigi Di Biagio, questore di Cremona durante la RSI; Domenico Di Fabrizio, suo Capo di Gabinetto; Pasquale Mafrice, maresciallo della polizia repubblicana; Vito Marziano, brigadiere di polizia; Angelo Belmonte, tenente della GNR; Giuseppe Maestrelli, tenente della GNR; Orlando Maestrelli, capo squadra della GNR; Cesare Santini, capo squadra delle GNR; Guido Ruggeri, vice capo squadra della GNR; Carmelo Parisi, squadrista della Brigata Nera; Giuseppe Aldovini, sindacalista.
Ed ecco la testimonianza di Carlo Azzolini che visse la loro agonia e li vide andare a morire:
“…Si noti che nessuno dei dodici condannati a morte era stato prima minimamente interrogato, né si sa quali siano stati i capi d’accusa loro imputati e nessuno di loro è stato ammesso a difendersi…
“Un nostro cappellano, Don Luciano Zanacchi, ci informò poi che era giunta il giorno 30 aprile una disposizione del Comando Alleato con la quale venivano vietate in modo assoluto tutte le esecuzioni di condanne a morte dei fascisti detenuti. E sapemmo inoltre che in seno al cosiddetto “Tribunale del Popolo” vi era stato chi voleva l’osservanza della predetta disposizione. Ma un gruppo di “duri” la spuntò… Per la Lucilla Merlini, sorella di Mario ammazzato il giorno prima in Piazza Marconi, ci risulta che vi furono dei pro e dei contro e delle incertezze fino all’ultimo momento, e poi si decise di farla fuori…
“Don Luciano, che ascoltò le confessioni dei condannati, e particolarmente della Merlini, si convinse tanto della loro innocenza che sentì il dovere di telefonare subito all’Arcivescovo di allora, per chiedere il suo autorevole intervento a loro favore, ma dal segretario di questi si ebbe una edificante risposta negativa…
“suonavano le 4 o le 5 al vicino campanile di Sant’Agostino quando un camion rallentò la marcia e si arrestò davanti al portone. Tutto era perfettamente intuibile. Stridere di catenacci, passi svelti nel corridoio e poi un nome, il primo: Ruggeri. Era accucciato vicino a me: aveva pensato tutta la notte ai suoi sei figli… Poi ancora altri nomi in altre celle. Poi una lunga pausa. Venne comunicata ai condannati la sorte che li attendeva. Li vidi passare dalla “spia” della porta della mia cella. La luce fioca ed ancora azzurrata di una lampada dava a quelle figure l’aspetto di una scena tragica e misteriosa. Li riconobbi quasi tutti. Ruggeri si arrestò un momento davanti alla porta e riuscì a passarmi un biglietto per sua moglie e per i suoi figli e si accomiatò dicendo: “Ragazzi, vi saluto, ci ammazzano”. L’ultima parola gli si strozzò in gola. Nessuno ebbe la forza di parlare…
“Li portarono nel cortile. Don Luciano impartì a tutti l’estremo saluto e fece per allontanarsi. Lucilla Merlini che aveva sperato ancora in un suo ultimo intervento, si aggrappò alla sua veste per andare via con lui. Povera ragazza! Pochi ebbero pietà di lei, della sua innocenza, della sua creatura. Su di un tavolo era pronta la mitragliatrice. I condannati erano tutti fermi e muti in piedi. Solo la Merlini piangeva disperatamente. Partirono dei colpi, poi l’arma si inceppò. Alcuni dei condannati erano già a terra fe4riti, altri gridavano e si sbandavano. A questo punto avvenne un fatto che sembrava predisposto. Da diversi punti della “caserma” e da alcune finestre, partigiani pronti con le armi si misero a sparare sui disgraziati con un tiro a libero piacimento finché nei loro corpi vi fu un sussulto di vita. Questa fu la “legale esecuzione” avvenuta la mattina del 1° maggio 1945 nella “Caserma del diavolo”…
“ma vi fu ancora qualcosa di inumano da aggiungere. Nella stessa “caserma” vi era detenuto un altro fratello della Merlini che fu costretto a forza dai partigiani ad assistere alla esecuzione di Lucilla, così come quell’orda di barbari sanguinari aveva costretto il giorno prima la figlioletta di Mario Merlini ad assistere alla uccisione del padre in Piazza Marconi. E, per chiudere “degnamente” quella “bella pagina di gloria”, i partigiani fucilatori della “caserma del diavolo” si scatenarono poi in un disgustosissimo litigio per dividersi le scarpe tolte ai fascisti assassinati”.


Da "STORIA DEL XX SECOLO" 




                                                                                                                                                 

mercoledì 11 aprile 2018

LE STRAGI PARTIGIANE!




Le stragi Partigiane

italiasociale
I caduti della R.S.I., come altrove si è detto, assommarono a diverse decine di migliaia. Centomila è la cifra che, presumibilmente, si avvicina di più alla realtà. Molti caddero in combattimento, molti furono uccisi dai partigiani in un agguato, molti civili furono prelevati nelle loro case e uccisi con un colpo alla nuca.
Molti, invece, furono trucidati a guerra finita, in una serie di episodi dove l’odio e lo spirito di vendetta, ma anche il disegno preordinato dei partigiani comunisti, guidarono la mano di uomini che con ferocia bestiale infierirono su giovani soldati che, fidando nelle condizioni di resa stabilite, avevano deposto le armi nelle mani dei cosiddetti Comitati di Liberazione o di bande partigiane. Dopo qualche tempo dalla fine del conflitto (specialmente dopo il 18 aprile 1948), molti di quei crimini furono denunciati e la magistratura pronunciò anche diverse sentenze di condanna. I responsabili della strage di Oderzo, ad esempio, nelle persone di Adriano Venezian (Biondo), Giorgio Pizzoli (Gim), Silvio Lorenzon (Bozambo), De Ros (Tigre), Diego Baratella (Jack) vennero riconosciuti colpevoli di omicidio aggravato e continuato e condannati, il 16 maggio 1953, a pene varianti dai 24 (Jack) ai 28 (Tigre) ai 30 anni (tutti gli altri). Ma le amnistie e gli indulti succedutisi a ritmo febbrile su pressione dei comunisti, fecero sì che i cinque dopo pochi anni vennero scarcerati e ricevuti a Botteghe Oscure con tutti gli onori da Togliatti, Longo e Pajetta. Malgrado tutte le amnistie e tutti gli indulti, tuttavia, alcune condanne rimasero da scontare, ma il sollecito Partito Comunista di Togliatti provvide a far espatriare clandestinamente i condannati verso la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Cosicché pochissimi di quei criminali hanno espiato le loro colpe. Ciò fu facile perché i partigiani, anche se imputati di gravi crimini, non potevano essere arrestati. Il Decreto Luogotenenziale 6 settembre 1946 n. 96, infatti, all’articolo 1 recitava: “”…non può essere emesso un mandato di cattura, e se è stato emesso deve essere revocato, nei confronti di partigiani, dei patrioti e (degli altri cittadini che li abbiano aiutati) per i fatti da costoro commessi durante l’occupazione nazifascista e successivamente sino al 31 luglio 1945…””
Qui si vogliono ricordare alcuni di quegli orrendi assassinii.

La strage di Oderzo (Treviso)
Negli ultimi giorni di aprile del 1945, esattamente il 28, 126 giovani militi dei Btg. “Bologna” e “Romagna” della GNR e 472 uomini della Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo della R.S.I. (450 allievi più 22 ufficiali) si arresero al C.L.N. con la promessa di avere salva la vita. L’accordo fu sottoscritto nello studio del parroco abate mitrato Domenico Visentin, presenti il nuovo sindaco di Oderzo Plinio Fabrizio, Sergio Martin in rappresentanza del C.L.N., il Col, Giovanni Baccarani, comandante della Scuola di Oderzo e il maggiore Amerigo Ansaloni comandante del Btg. Romagna. Ma quando scesero i partigiani della Brigata Garibaldi “Cacciatori della pianura” comandati dal partigiano Bozambo l’accordo fu considerato carta straccia e il 30 aprile cominciarono a uccidere. Molti furono massacrati senza pietà fra il 30 aprile e il 15 maggio. La maggior parte, ben 113, fu uccisa al Ponte della Priula, frazione di Susegana e gettati nel Piave. Pare si trattasse di 50 uomini del “Bologna”, 23 del “Romagna”, 12 della Brigata Nera, 4 della X^ MAS, e gli altri di altri reparti fra cui gli allievi della scuola. Altri furono trucidati sul fiume Monticano.
LA BANDA DI “BOZAMBO”, “BOIA DI MONTANER”, AL MATRIMONIO TRA ADRIANO VENEZIAN E VITTORINA ARIOLI, ENTRAMBI PARTIGIANI
Al banchetto di addio al celibato di Venezian uno della banda affermò :- Ti auguriamo che tu abbia ad avere dodici figli e perché questo augurio abbia ad essere consacrato domandiamo che siano uccisi, vittime di propiziazione, dodici fascisti -.
Fu così che la mattina del 16 maggio scelsero tredici allievi ufficiali della Scuola di Oderzo e li assassinarono nei pressi del Ponte della Priula. (Particolare delle stragi di Oderzo).(Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)
Vedi anche, qui appresso i caduti sulla corriera della morte. In totale le vittime fra gli ufficiali della scuola di Oderzo furono 144.

La corriera della morte
Verso la metà di maggio (esattamente nella notte fra il 14 e il 15) tre camion della Pontificia Opera di Assistenza venivano dal bresciano e trasportavano verso sud reduci della R.S.I. che cercavano di rientrare a casa. Uno veniva da Rezzato, uno da Erbusco e uno da Brescia. Su quest’ultimo c’erano anche 15 o 16 allievi della scuola di Oderzo. A Bondanello, però, la polizia partigiana che aveva sede nella casa del popolo di Moglia, fermò i camion (almeno due). Il primo, proveniente da Brescia trasportava 43 persone. Queste furono consegnate alla polizia partigiana di Concordia che ne rinchiuse 25 (pare) a Villa Medici, ribattezzata “Villa del pianto”. Questi furono depredati di tutto e massacrati il 17 maggio. Gli altri, due notti dopo, vennero caricati su un camion e fatti proseguire per Carpi . Ma giunti a San Possidonio furono scaricati, condotti a gruppi nella campagna circostante, depredati, seviziati e uccisi. Era la notte del 19 maggio. Fra tanto orrore un fatto ancora più orrendo: fra quei poveretti c’era anche una giovane donna con marito e figlio. Questi ultimi finirono massacrati con gli altri. La donna, al sesto mese di gravidanza, fu violentata da nove uomini e poi abbandonata in stato confusionale davanti ad un albergo di Modena. Dalle risultanze processuali pare che gli uccisi fossero, in totale, più di ottanta. Diversi responsabili furono identificati ma, come al solito, pur essendo stati ritenuti colpevoli, beneficiarono dell’amnistia (e del minaccioso sostegno del partito comunista) e rimasero impuniti.

Gli uccisi di Pescarenico (Lecco)
La sera del 26 aprile transitò per Lecco una colonna di 160 uomini del Gruppo Corazzato “Leonessa” e del Btg. “Perugia” che ripiegava su Como. A Pescarenico furono attaccati dai partigiani. Asserragliati in alcune case i militi si difesero per tutta la notte e per tutto il giorno 27. A sera, avendo quasi esaurite le munizioni, fu trattata la resa. Le condizioni erano che i militi dovevano avere la libertà e gli ufficiali la prigionia secondo la Convenzione di Ginevra. Dopo la resa tutti gli uomini furono picchiati e insultati e minacciati tutti di morte. Il giorno 28 i tredici ufficiali e tre vice brigadieri furono uccisi. Prima di morire lasciarono ai religiosi che li assistettero, toccanti lettere per i familiari <(per collegarsi a internet puntare il “dito” su toccanti lettere).

La strage di Monte Manfrei (Savona)
In questo luogo isolato dell’Appennino Ligure, fra Genova e Savona, nei giorni tragici di fine aprile, primi maggio 1945, i partigiani trucidarono i 200 marò del presidio di Sassello della Divisione “San Marco”, quando la guerra si era ormai conclusa. I cadaveri, sepolti sotto poca terra nei dintorni, non sono stati ancora rinvenuti tutti, anche per l’omertà delle popolazioni, minacciate ancora adesso dagli assassini dell’epoca. Una grande croce ricorda ora i caduti e ogni anno, l’8 luglio, numerose persone salgono lassù e li ricordano con una toccante cerimonia.

La strage di Rovetta (Bergamo)
Il 26 aprile 1945 un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiunsero alcuni militi della 5^, sentite le notizie della disfatta tedesca decise, malgrado la contrarietà di alcuni, di arrendersi, sollecitato in tal senso anche dal Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava i militi e si diresse verso Clusone. Ma, giunti a Rovetta (BG), trattarono la resa col locale C.L.N. che promise un trattamento conforme alle convenzioni internazionali. Erano 46 militi comandati dal giovane S.Ten. Panzanelli di 22 anni. Deposte le armi, furono alloggiati nelle locali scuole elementari. Il prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Ma una masnada di feroci partigiani, giunti da Lovere su due camion, impose la consegna dei prigionieri e il 28 aprile, dopo feroci maltrattamenti, 43 di loro (uno, Fernando Caciolo, della 5^ Cmp, sedicenne di Anagni, riuscì a fuggire e tre giovanissimi, Chiarotti Cesare, 1931, di Milano, Ausili Enzo, 1928, di Roma e Bricco Sergio, 1929, di Como, vennero risparmiati) vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e qui fucilati. Ben 28 di loro avevano meno di 20 anni. L’ultimo ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu il Vice brigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini sorella del Duce.
Dopo la guerra alcuni di quei partigiani ritenuti responsabili della strage furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo a procedere in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che in un unico articolo dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo perché da considerarsi “azioni di guerra”. Fu, cioè, dalla viltà dei giudici, considerata azione di guerra legittima anche il massacro di prigionieri inermi compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata.
Vedi l’elenco degli uccisi <(per collegarsi a internet puntare il “dito” su Vedi l’elenco degli uccisi) (Redatto con la collaborazione del ricercatore Giuliano Fiorani)

La strage di Lovere (Bergamo)
Mercoledì 25 aprile 1945 un piccolo presidio della Legione “Tagliamento”, 26 militi della 4^ Cmp, II Rgt, di stanza nell’edificio delle scuole elementari a Piancamuno in Val Canonica venne sorpreso da un gruppo di partigiani fra i quali erano dei polacchi in divisa tedesca. Malgrado la sorpresa i militi reagiscono, ma le perdite sono gravi : 9 morti fra cui il comandante aiutante maresciallo Ernesto Tartarini e tre feriti. Anche il comandante partigiano, però, tale Luigi Macario, viene ucciso insieme ad altri due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedono al fuoco intenso dei militi superstiti e si ritirano. A questo punto giunge in aiuto una squadra del plotone Guastatori al comando del brigadiere Amerigo De Lupis.
Egli si rende conto che i tre feriti che giaccioni all’Ospedale di Darfo non hanno una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti, Sandro Fumagalli, muore la mattina del 26. Allora nel pomeriggio il De Lupis, con una piccola scorta, porta i due feriti ancora vivi all’Ospedale di Lovere, sul lago d’Iseo. Ma egli non sa che i partigiani stanno occupando la città. Al mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale della G.N.R. comandato dal Ten. Agostino Ginocchio si è arreso a un gruppo di partigiani e altri partigiani stanno affluendo dalle montagne. Così il De Lupis e i suoi uomini vengono sorpresi all’uscita dall’Ospedale e catturati. Condotti presso la casa canonica (Palazzo Bazzini) che veniva utilizzata come prigione, vennero rinchiusi insieme agli uomini del Ten. Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di 20 anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura Cordasco, così fu condotto in chiesa col De Lupis e il commilitone Vito Giamporcaro come testimoni. Ma poichè la cerimonia si prolungava i partigiani condussero via tutti gli uomini del De Lupis e li portarono dietro il cimitero dove furono massacrati con raffiche di mitra. Gli uccisi furono sei: Amerigo De Lupis, Aceri Giuseppe, Femminini Giorgio, Mariano Francesco, Giamporcaro Vito, Alletto Antonino. I due legionari: Le Pera Giovanni e De Vecchi Francesco, ricoverati, come si è detto, in ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni giorno percossi e maltrattati e, infine, prelevati da partigiani fra il 7 e l’ 8 di Giugno, oltre 40 giorni dopo la fine della guerra, percossi, seviziati e, infine, gettati nel lago e annegati. Vedi la documentazione. <(per collegarsi a internet puntare il “dito” su Vedi la documentazione) (redatto con la collaborazione preziosa di Giuliano Fiorani e Sergio Geroldi)

I massacrati di Ponte Crenna (Pavia)
Il 12 agosto 1944 quattro giovani militi venivano catturati dai partigiani e barbaramente assassinati a Ponte Crenna nell’Oltrepo Pavese. Fra essi Walter Nannini, medaglia d’Argento alla memoria.

La strage di S.Eufemia e Botticino Sera (Brescia)
Fra il 9 e il 13 maggio 1945 furono prelevati 11 fascisti a Lumezzane e altri a Toscolano Maderno. Orribilmente seviziati, 23 vennero uccisi proprio di fronte alla chiesa di S.Eufemia mentre altri 16 vennero uccisi e gettati in una fossa a Botticino, in una località detta Mulì de l’Ora. I civili erano 16 e 23 i militari di cui 9 erano della Divisione San Marco. I cadaveri furono ritrovati in stato di avanzata decomposizione, con tracce di inaudita violenza e le unghie strappate. Autori dell’eccidio furono i partigiani comandati da tale Tito Tobegia.

L’eccidio dell’Ospedale psichiatrico di Vercelli
Nei giorni dal 23 al 26 aprile 1945 si erano concentrate a Vercelli tutte le forze della R.S.I. della zona, circa 2000 uomini, che andarono a costituire la Colonna Morsero, dal nome del Capo Provincia di Vercelli Michele Morsero. Tale colonna partì da Vercelli alle ore 15 del 26 aprile, dirigendo verso nord per raggiungere la Valtellina. I reparti che costituivano la colonna erano : Il 604° Comando Provinciale GNR Vercelli Comandato dal Colonnello Giovanni Fracassi, la VII^ B.N. “Punzecchi di Vercelli, parte della XXXVI^ B.N. “Mussolini” di Lucca, CXV° Btg “Montebello”, I° Btg granatieri “Ruggine”, I° Btg d’assalto”Ruggine”, I° Btg rocciatori (poi controcarro) “Ruggine”, III° Btg d’assalto “Pontida”. La colonna raggiunse Castellazzo, a Nord di Novara, la mattina del 27 aprile e, dopo trattative, la sera decise, dopo molte incertezze, di arrendersi ai partigiani di Novara dietro promessa di essere trattati da prigionieri di guerra. Il 28 aprile i prigionieri vengono condotti a Novara e rinchiusi in massima parte nello stadio. Subito cominciarono gli insulti e i maltrattamenti e il 30 cominciarono i prelevamenti di gruppi di fascisti dei quali non si ebbe più notizia. Lo stesso accadde nei giorni successivi insieme a feroci pestaggi. Il 2 maggio Morsero viene portato a Vercelli e fucilato. Intanto sono giunti gli americani che tentano di ristabilire un minimo di legalità. Ma il Corriere di Novara dell’8 maggio parla di molti cadaveri di fascisti ripescati nel canale Quintino Sella. Finché il 12 maggio giungono da Vercelli i partigiani della 182^ Brigata Garibaldi di “Gemisto” cioè Francesco Moranino che prelevano circa 140 fascisti elencati in una loro lista. Questi uomini saranno le vittime della più incredibile ferocia. Portati all’Ospedale Psichiatrico di Vercelli saranno, in buona parte massacrati all’interno di questo. Le pareti dei locali dove avvenne l’eccidio erano lorde di sangue fino ad altezza d’uomo. Altri saranno schiacciati in un cortile da un autocarro, altri fucilati nell’orto accanto alla lavanderia, altri, pare tredici, fucilati a Larizzate e altri ancora, infine, portati con due autocarri e una corriera (quindi in numero rilevante) al ponte di Greggio sul canale Cavour e qui, a quattro a quattro, uccisi e gettati nel canale. Nei giorni successivi i cadaveri ritrovati nei canali di irrigazione alimentati dal canale Cavour furono più di sessanta.
Solo il giorno 13 maggio, domenica, gli americani prenderanno il controllo dei prigionieri ed eviteranno altri massacri. Era già pronta la lista dei prigionieri da prelevare quello stesso giorno alle ore 18.

Il massacro di Schio (Vicenza)
La notte del 7 luglio 1945 una pattuglia partigiana irruppe nel carcere di Schio dove erano detenute 91 persone presunti fascisti. Di queste, che erano state radunate in uno stanzone e contro cui furono sparate molte raffiche di mitra, ne furono massacrate ben 54 di cui 19 donne, mentre 14 rimasero ferite (11 in modo grave). Il tribunale militare alleato individuò alcuni degli esecutori materiali del crimine ed emise alcune condanne, però mai eseguite. Dai dibattimenti emerse che molte di quelle persone non avevano alcuna colpa e nei loro confronti era già pronto l’ordine di scarcerazione. Il governatore militare alleato ebbe ad affermare che i fatti di Schio “costituiscono una macchia per l’Italia ed hanno avuto una larga pubblicità nei giornali statunitensi, britannici e sudafricani dove vengono considerati senza attenuanti ”.

Il massacro di Avigliana (Torino)
Qui furono uccisi, a guerra finita, dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati, 33 militari della R.S.I.

I morti di Agrate Conturbia (NO)
“Caduti per la Patria” sta scritto su una croce che fa la guardia a 33 salme di fascisti senza nome, trucidati nel sottostante bosco detto “la Bindellina”

I feroci massacri del Biellese
A Bocchetta Sessera (Vercelli) una stele ricorda le decine di cadaveri di fascisti, non solo uomini ma anche donne, stuprate e seviziate prima di essere uccise, che si presume ancora si trovino nel bosco sottostante. Fu questa, una delle zone dove la ferocia partigiana toccò livelli inimmaginabili. Qui operava Francesco Moranino detto Gemisto che, ricordiamolo, nel 1955 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Firenze per strage di partigiani non comunisti e che fuggì a Praga, da dove rientrò in Italia dopo che il P.C.I. lo ebbe fatto eleggere Senatore.

Gli N.P. trucidati a Valdobbiadene (Treviso)
Qui, dopo che il 9 marzo 1945 il grosso del Btg N.P. della X^ fu trasferito sul fronte del Senio, rimasero a presidio soltanto 45 marò. Essi, che avevano sempre vissuto in buona armonia con la popolazione e, quindi, pensavano di non avere nulla da temere, dopo il 25 aprile, a guerra finita, si consegnarono ai partigiani della Brigata “Mazzini” (Comandante Mostacetti). Ma nella notte fra il 4 e il 5 maggio essi furono divisi in tre gruppi per essere, si disse loro, trasferiti altrove. Il primo gruppo fu condotto in località Saccol di Valdobbiadene, spinto in una galleria e, qui, trucidato a colpi di mitra e di bombe a mano. La galleria, poi, fu fatta saltare per occultare il crimine. Il secondo gruppo fu condotto in località Madean di Combai. Qui ai marò vennero legate le mani dietro la schiena con filo di ferro, indi, dopo essere stati depredati, vennero uccisi e bruciati. Stessa sorte ebbe il terzo gruppo, condotto in località Bosco di Segusino.

L’eccidio del 2° R.A.U.
Gli uomini del 2° R.A.U. ( Reparti Arditi Ufficiali) appartenente al R.A.P (Raggruppamento Anti Partigiano), che operava in Piemonte, si arresero ai partigiani il 27 aprile a Cigliano, a nord di Torino, essendo stato promesso il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra e l’onore delle armi. Ma il 29 vengono divisi in due gruppi: nel primo vengono inclusi quasi tutti gli ufficiali, le ausiliarie e due signore mogli di ufficiali, nel secondo gli altri. Il primo gruppo viene condotto a Graglia fra inauditi maltrattamenti, senza cibo ne acqua per tre giorni. Fu negata l’acqua anche alla signora Della Nave, incinta. Il 2 di Maggio 1945 furono divisi in tre gruppi: il primo fu condotto al ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro, il secondo in località Paiette e il terzo alla Cascina Quara presso il Santuario. E furono tutti trucidati. Oggi tutte le salme riposano in una tomba-ossario nel cimitero di Graglia dove una lapide bronzea recante il gladio della R.S.I. che ne ricorda il sacrificio.

L’eccidio dei fratelli Govoni
Alle ore 23 dell’11 Maggio 1945, venerdì, ad Argelato (Bologna), frazione Casadio, podere Grazia, assieme al altri dieci fascisti prelevati a San Giorgio in Piano, partigiani emiliani trucidavano, dopo averli condotti, legati a 3 a 3, presso una fossa anticarro, i sette fratelli Govoni che erano stati prelevati a Pieve di Cento la mattina alle 6,30 : Dino, 40 anni, falegname, Marino, 34 anni, contadino, Emo, 31 anni, falegname, Giuseppe, 29 anni, contadino, Augusto, 27 anni, contadino, Primo, 22 anni, contadino e Ida, di appena venti anni, sposata ad Argelato e madre di un bambino. Prima della morte tutti furono picchiati a sangue e seviziati in vario modo. Solo Dino e Marino avevano militato nella R.S.I., Marino come brigadiere della G.N.R. e Dino come semplice milite. Nel 1951, quando fu scoperta la fossa dove giacevano i corpi dei 7 fratelli insieme a quelli degli altri dieci fascisti, si scoprì lì vicino un’altra fossa con i resti di 25 cadaveri.

Gli uccisi del XIV Btg Costiero da Fortezza
Il 5 Maggio 1945, a guerra ormai conclusa, 20 militi del battaglione, che aveva valorosamente combattuto a difesa dei confini orientali, si consegnarono ai partigiani, fidando nelle leggi internazionali che tutelano i prigionieri di guerra. Ma i partigiani, totalmente irrispettosi di ogni legge, li condussero, dopo molte marce, a Sella Doll di Montesanto e qui, fattili inginocchiare sul bordo di una trincea della prima guerra mondiale, barbaramente li uccisero con un colpo alla nuca.

La strage di Codevigo (Padova)
Qui nei primi giorni del Maggio 1945 (fra il 3 e il 13) furono seviziate e uccise oltre 365 persone fra cui 17 fascisti (uomini e donne) dello stesso Codevigo (12 maggio). I militari, appartenenti a formazioni R.S.I. della provincia di Ravenna, erano stati catturati negli ultimi giorni di aprile e chiusi in carcere. Ma i partigiani romagnoli di Arrigo Boldrini li prelevarono dicendo che li avrebbero condotti a Ravenna. Li condussero, invece, a Codevigo e qui, dopo averli seviziati, li condussero al ponte sul fiume Brenta e li uccisero a due a due, gettandoli poi nel fiume. Molte salme furono trascinate via dalla corrente. Altre, gettate nei cimiteri dei dintorni, furono recuperate per l’opera instancabile di Rosa Melai che, il 27 maggio 1962 riuscì a inaugurare l’Ossario dove potè radunare le salme ritrovate. Oggi sono 114 i caduti che qui hanno trovato riposo e rispetto.

I trucidati a Ponte di Greggio (VC)
I fatti avvennero nei primi giorni del Maggio 1945.

I massacri dei bersaglieri del “Mussolini”
Come è noto il Btg di bersaglieri volontari “Mussolini” fronteggiò gli slavi del X° Corpus sul fronte orientale fin dal 10/12 ottobre 1943. Il 30 Aprile 1945, dopo la morte di Mussolini e la resa delle truppe italo-tedesche, anche gli uomini del “Mussolini” decisero di arrendersi ai partigiani di Tito, alle condizioni stabilite che prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e la trattenuta dei soli ufficiali per accertare eventuali responsabilità. Ma i “titini” si guardarono bene dal rispettare le condizioni concordate e, invece di lasciare liberi i soldati, condussero tutti a Tolmino e li rinchiusero in una caserma. Da qui qualcuno fortunatamente riuscì a fuggire, ma, dopo alcuni giorni, 12 ufficiali e novanta volontari furono prelevati, condotti sul greto dell’Isonzo e, qui, trucidati. Dopo altri giorni altri dodici furono prelevati, condotti a Fiume e uccisi. E ancora il 18 maggio dall’Ospedale Militare di Gorizia furono prelevati 50 degenti e uccisi. Dieci erano bersaglieri. Intanto i sopravvissuti avevano iniziato una marcia allucinante, senza cibo né acqua, picchiati e seviziati, e altri furono uccisi durante la marcia. Finalmente giunsero al tristemente famoso campo di prigionia di Borovnica ove fame, epidemie, sevizie e torture inumane seminano morte fra gli odiatissimi bersaglieri. Alla chiusura di quel campo, nel 1946, i sopravvissuti furono internati in altri campi ove le condizioni non migliorarono assolutamente. Alla fine, il 26 giugno 1947, soltanto 150 bersaglieri, ridotti in condizioni inumane, poterono tornare in Italia. Dei quasi quattrocento caduti del battaglione, ben 220 furono quelli uccisi dopo il 30 aprile 1945.

La strage delle ausiliarie
Negli ultimi giorni dell’ Aprile e nei primi di Maggio 1945 l’odio bestiale dei partigiani si scatenò con particolare accanimento contro le donne che avevano prestato servizio in qualità di ausiliarie nell’esercito della R.S.I. Esse subirono torture, pestaggi, sovente stupri ripetuti, e si tentò di umiliarle in ogni modo, spesso denudandole ed esponendole così al ludibrio di folle imbestialite.
Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.” (cui si rinvia per approfondimenti) ricorda diecine di casi di ausiliarie, spesso giovanissime, catturate da sole o in piccoli gruppi e, poi, martirizzate e trucidate. L’elenco delle ausiliarie cadute che compare in detta opera è di 200 nominativi, ma si avverte che tale elenco non è completo proprio perché non è mai stato possibile fare luce completa sulla quantità di crimini commessi dai partigiani in quella primavera di sangue a danno di queste giovani donne coraggiose e fedeli fino alla fine. Nella sola Torino ne furono massacrate 18.

L’olocausto della “Monterosa”
Tra il 24 e il 25 Aprile tutte le truppe schierate sul fronte alpino occidentale ricevettero l’ordine di ripiegare sul fondovalle. Così anche gli uomini della Divisione Alpina “Monterosa” iniziarono il ripiegamento. E, a cominciare dal 26 aprile, molti reparti, ad evitare spargimenti di sangue ormai inutili, si arresero al C.L.N. della zona avendo formali promesse di trattamento conforme alle leggi internazionali. Purtroppo tali leggi non furono rispettate e anche qui, come altrove, decine e decine di uomini ormai disarmati, furono trucidati con bestiale ferocia. Non è possibile ricostruire tutti i fatti, molti dei quali, probabilmente, non sono mai stati resi noti. E’ molto noto, invece, il caso degli uomini del Btg “Bassano” che si erano arresi il 26 aprile al C.L.N. di Saluzzo. Come al solito essi avevano avuto ampie garanzie di salvaguardia della loro incolumità. Ma, ancora come il solito, tali promesse non erano state rispettate. E l’Avv. Andrea Mitolo di Bolzano, già ufficiale del “Bassano”, con una circostanziata denuncia alla Procura della Repubblica di Saluzzo, descrive la fine di ventidue uomini, ufficiali e soldati, trucidati dai partigiani di “Gianaldo” (Italo Berardengo) dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati.
Né, parlando della Monterosa, possiamo non ricordare l’infame attentato alla tradotta che trasportava sul fronte occidentale gli uomini della “Monterosa” che erano stati ritirati dal fronte della Garfagnana. Tra Villafranca e Villanova d’Asti fu minata la linea ferroviaria e l’esplosione, provocata al passaggio della tradotta, travolse due vagoni e uccise 27 alpini ferendone altri 21 anche in modo molto grave. Malgrado l’odiosità del vile attentato non fu attuata alcuna rappresaglia.

I trucidati della Divisione “Littorio”
Negli ultimi giorni di Aprile anche i reparti della “Littorio” che, come è noto, difendevano i confini occidentali, iniziarono il ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si consegnarono a questi e furono avviati ai campi di concentramento.
Quelli, invece, come il III° Btg del 3° Rgt granatieri, si consegnarono ai partigiani, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto un accordo coi partigiani del capitano Aldo Quaranta per un indisturbato deflusso di tuti i reparti e il III° Btg, giunto il 27 aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese al capo del CLN del luogo, tale Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero stati messi gradualmente in libertà forniti di lasciapassare. Fra gli uomini del Btg e i partigiani non c’erano mai stati scontri o altri incidenti, per cui il patto fu accettato dagli uomini della “Littorio” fidando nella parola dell’Oratino. Ma anche questa volta gli uomini del CLN e i partigiani non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi, comandante del III Btg, il maggiore Montecchi, il Ten. Buccianti, il Cap. Calabrò, i Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta ed altri furono uccisi alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo e, soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.

I morti della Divisione “San Marco”
Negli ultimi giorni di Aprile, a guerra conclusa, molti uomini della Divisione “San Marco” furono uccisi dai partigiani. Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.” ne elenca alcune centinaia fra cui circa 300 ignoti ancora in divisa ma privi di ogni segno di riconoscimento, trucidati a Colle di Cadibona, Monte Manfrei (vedi sopra), Passo del Cavallo, Santa Eufemia e in altri luoghi.
Il Deposito Divisionale, ritiratosi a Lumezzane V.T., qui il 27 aprile accettò la resa con l’onore delle armi e un promesso salvacondotto per tutti. Ma una volta deposte le armi i partigiani, fedifraghi come sempre, condussero gli ufficiali a Gardone e, dopo due giorni, li trucidarono a S.Eufemia della Fonte (BS). Fra di essi il Comandante del Deposito Ten. Col. Zingarelli, la cui salma, ritrovata con le altre orrendamente mutilate, potè essere identificata in virtù di un maglione blu che era solito indossare.

I trucidati della 29° Divisione SS italiane
I reparti più atti al combattimento di questa divisione ( Btg “Debica” e Gruppo di combattimento “Binz”) si arresero agli americani nei giorni 29 e 30 aprile. Il resto della divisione, invece, ( Btg Pionieri e Btg dislocati a Mariano Comense e a Cantù) dopo una strenua resistenza condotta fino all’esaurimento delle munizioni, fu catturato dai partigiani. Gli ufficiali furono tutti trucidati. Il Ten. Luigi Ippoliti, ferito, fu prelevato in ospedale il 5 maggio 1945, condotto presso il cimitero di Meda e qui massacrato legato alla barella.

I caduti del 3° Rgt Bersaglieri volontari
Il I° Btg era schierato a Genova e a levante di Genova. I reparti che erano a levante di Genova si sacrificarono quasi interamente per contrastare l’avanzata del negri della 92^ Div. “Buffalo”. I reparti che si trovavano in città furono attaccati dai partigiani e si difesero fino all’ultima cartuccia. Essendo ormai disarmati, furono catturati e, immediatamente, quasi tutti uccisi. Il II° Btg si trovava, invece, in Liguria in difesa del confine occidentale. Quando giunse l’ordine di ripiegamento, risalì insieme alla 34^ Div. Tedesca fino a Quagliuzzo in Piemonte e qui, il 3 maggio, si arrese al CNL locale previo rilascio di un lasciapassare per tutti gli uomini. Malgrado il lasciapassare, però, il Cap. Francoletti e il Ten. Casolini furono condotti sul greto della Dora e qui massacrati. I corpi non furono mai ritrovati. Questo Btg ebbe anche due giovani mascotte, di quattordici e dodici anni, assassinate dai partigiani.

I caduti dei Guastatori del Genio II° Btg.
Anche questo reparto (che aveva poi assunto il nome di II° Btg Pionieri “Nettuno”) ebbe i suoi caduti dopo la cessazione delle ostilità. Nei giorni successivi al 25 aprile 1945 il Btg fu sciolto a Somma Lombardo (Varese). La popolazione del luogo si adoperò in ogni modo per salvare gli uomini del Btg, favorendo il rientro nelle loro famiglie. Malgrado il generoso intervento, i partigiani catturarono il Capitano Dino Borsani e, dopo due settimane di torture, lo trucidarono insieme a tre militari sulle rive del Ticino. Era il 10 maggio 1945.

Gli uccisi del Btg Volontari Mutilati “Onore e Sacrificio”
Anche questo Battaglione che la Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra aveva voluto costituire (come già accadde durante la campagna etiopica del 1936), ebbe trucidati molti dei suoi appartenenti. Il Btg era stato costituito a Milano e qui era sempre rimasto, a svolgere compiti territoriali. Dopo la resa anche su questi mutilati infierì la ferocia partigiana e, allorché ebbero deposto le armi, molti furono gli assassinati

L’eccidio di Ozegna
Pur non essendo accaduto dopo il termine della guerra, si ritiene opportuno narrare qui anche questo fatto, per la vigliaccheria con cui venne consumato l’agguato. L’8 di luglio del 1944 un reparto motorizzato del Btg “Barbarigo” della X^ MAS, che dalla metà di giugno si trovava in Piemonte, al ritorno da una missione fece sosta nella piazza di Ozegna. Lo comandava il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli, comandante del Battaglione. Sulla stessa piazza si trovavano alcuni partigiani coi quali Bardelli avviò una pacata discussione invitandoli a non combattere contro altri italiani per conto dello straniero invasore. La conversazione fu pacata e i partigiani ammisero che occorreva fare fronte comune contro gli stranieri. Ma l’atteggiamento remissivo e non ostile nascondeva l’agguato. Infatti, mentre essi parlavano in quel modo con Bardelli, un centinaio di partigiani si ammassarono nelle vie che sboccavano nella piazza e, non appena i parlamentari partigiani si allontanarono, un inferno di fuoco si scatenò sugli uomini del “Barbarigo”. Bardelli tentò di organizzare la resistenza, gridando: - Barbarigo non si arrende - , ma cadde quasi subito sotto il fuoco delle armi partigiane della banda di Piero Urati (detto Piero Pieri) insieme a dodici marò. I sopravvissuti, molti dei quali erano feriti, dovettero arrendersi.

Il massacro del Distaccamento “Torino” della X^
Il 26 aprile 1945 le forze del Presidio militare di Torino lasciarono la città agli ordini del comandante regionale militare Gen. Adami-Rossi. Ma il distaccamento “Torino” della Decima Flottiglia MAS non le seguì e si chiuse nella caserma Montegrappa preparandosi ad una resistenza ad oltranza. Disponeva anche di qualche carro armato. La resistenza durò tre giorni ma alla fine, esaurito il carburante per i carri e scarseggiando le munizioni, il 30 aprile cessò. Qualcuno riuscì a mettersi in salvo attraverso certi cunicoli sotterranei, ma sui rimasti si abbattè la ferocia partigiana. Circa 70 uomini furono fucilati nel cortile della caserma, altri furono massacrati dalle varie formazioni partigiane che avevano partecipato all’assalto e alla cattura di prigionieri. Alla fine, dopo che avevano dovuto assistere al martirio dei camerati, vennero fucilate anche tutte le ausiliarie del reparto.

Il sacrificio della Compagnia “Adriatica” della X^ MAS
All’atto dell’abbandono di Ravenna il Ten. Di Vasc. Giannelli costituì, coi marinai presenti, una compagnia di fucilieri. Era il 1° dicembre 1944. Spostatasi a Chioggia, la compagnia si aggregò alla X^ e, nel gennaio 1945, partì per Fiume e, da qui, si portò sull’isola di Cherso. Qui, nel maggio 1945, la compagnia si sacrificò pressoché per intero per la difesa dell’isola.

Il sacrificio della Compagnia “D’Annunzio” della X^ MAS
Costituitasi a Fiume nel maggio 1944, fu l’estremo avamposto della Decima sui confini orientali. Posta alla difesa di Fiume, costituì anche tre distaccamenti: Laurana, Lussimpiccolo e Lussingrande. Il 25 aprile 1945 Laurana venne attaccata dai “titini” e i 130 marinai si difesero strenuamente fino all’arrivo dei soccorsi. Ma ben 90 caddero nello scontro. Gli altri due distaccamenti si difesero eroicamente fino alla totale distruzione. Fiume si difese con uguale valore fino al 1° maggio, nella vana attesa di uno sbarco anglo-americano. E il 2 maggio i superstiti furono catturati dagli iugoslavi. Ben pochi rientrarono dalla prigionia nel 1947.

Il sacrificio della Compagnia “Sauro” della X^ MAS
Costituita a Pola nel settembre 1943 con gli uomini del deposito del Reggimento San Marco rimasti, dopo la visita di Borghese passò alle dipendenze della X^. A fine aprile e fino al 3 maggio combattè strenuamente fino all’ultimo per la difesa della città. Pochi sopravvissero e furono catturati dagli slavi.

I trucidati della base operativa “Est” della X^
La Base “Est” aveva sede a Brioni Maggiore ma, a fine aprile, col precipitare degli eventi, si concentrò presso il Comando di Marina-Pola. Dopo aver partecipato alla difesa della città, quando essa cadde il personale fu catturato dagli slavi. Solo quattro marinai furono risparmiati. Ufficiali, sottufficiali e 50 fra graduati e marinai furono trucidati a Portorose, a Brioni e a Pola.

Il sacrificio della Scuola Sommozzatori della X^
Questa scuola, costituita a Portofino nel gennaio 1944, nell’estate fu trasferita in Istria, sul confine orientale, a Portorose. Una parte del personale, catturata negli ultimi giorni di aprile, fu subito passata per le armi. Altri, caduti prigionieri a Pola ove si erano concentrati, finirono nei terribili campi di concentramento iugoslavi. Pochi i sopravvissuti.

I morti del Btg. “Sagittario” della X^
Il 30 aprile 1945 il Btg., insieme ad altri reparti del II° Gruppo di Combattimento, raggiunse Marostica e qui, secondo gli ordini, si dette in prigionia agli americani. Ma, dopo la resa, il Comandante Ten.Vasc.F.M. Ugo Franchi e numerosi marinai, furono prelevati e assassinati dai partigiani.

L’assassinio del Maggiore Adriano Visconti
Il 29 aprile 1945 a Gallarate il Primo Gruppo Caccia dell’Aeronautica Repubblicana si arrendeva al CLN del luogo previo accordo che garantiva a tutti l’incolumità. Gli ufficiali vennero condotti a Milano nella Caserma del “Savoia Cavalleria” in Via Vincenzo Monti. Qui, contrariamente agli accordi, gli ufficiali, cui era stato concesso di tenere le proprie armi, vennero disarmati. E mentre attraversavano il cortile della caserma, il Maggiore Adriano Visconti, comandante del Gruppo e il S.Ten. Valerio Stefanini, Aiutante Maggiore, vennero vilmente assassinati con raffiche di mitragliatore sparati alle spalle. Furono sepolti nel cortile stesso della caserma.

I massacrati del Btg. “Folgore”
Il 29 aprile 1945 il Btg. “Folgore” del Rgt “Folgore” si stava dirigendo verso Venaria Reale. Contemporaneamente una pattuglia su un autocarro si diresse a Torino per ritirare alcuni autocarri presso il deposito reggimentale e per recuperare i feriti del Btg presso l’O.M. Ma a Porta Susa un blocco partigiano impedì la realizzazione del progetto. Allora il sottufficiale capo-pattuglia parlamentò coi partigiani ed ebbe l’assicurazione che i feriti sarebbero stati rispettati. Purtroppo, invece, tutti i feriti furono massacrati. Il 1° maggio il Btg., giunto a Strambino il giorno prima, si sciolse, e il Capitano Fredda sciolse gli uomini da ogni obbligo. Ma quasi nessuno abbandonò il reparto che il 5 maggio, ad Ivrea, si consegnò in prigionia di guerra agli americani ricevendo l’onore delle armi. L’ausiliaria Portesan e il sergente maggiore Ciardella furono i soli a lasciare il Btg il 2 maggio, ma, appena fuori dalla zona presidiata, furono trucidati dai partigiani.

Le stragi di Genova
Fra il 26 e il 27 aprile 1945 cessava la resistenza dei presidi della GNR rimasti in città. Con l’assunzione del potere da parte del CLN iniziarono i massacri che coinvolsero anche gran parte dei familiari dei militi. Massacri che continuarono anche dopo l’arrivo a Genova della 92^ Div. “Buffalo” americana.

Le stragi di Imperia
I partigiani entrarono in Imperia il 25 aprile 1945. Fu subito costituita una “commissione di giustizia” che arrestò 500 fascisti o presunti tali. Si disse che era per salvaguardarne la vita. Ma il 4 maggio una quarantina di loro fu seviziata e uccisa. E anche nella provincia avvennero massacri spaventosi.

Le stragi di Milano
Il 608° Comando Provinciale GNR, fedele alle consegne, non si sbandò il 25 aprile 1945 e, chiusisi i vari distaccamenti nelle caserme, resistè fino all’ultima cartuccia. Dopo di che, malgrado le promesse di rispetto della vita, ci furono i massacri, compiuti prevalentemente dai partigiani dell’Oltrepo pavese. Interi plotoni vennero passati per le armi. E le uccisioni continuarono anche quando i pochi superstiti ritornarono alle loro case dai campi di concentramento.

Le stragi di Varese
Anche qui le forze del 609° Com. Prov. GNR rimaste sul posto, dopo essere state sopraffatte il 26 aprile 1945, subirono le atroci vendette dei partigiani che, dopo aver subito fucilato il Cap. Osvaldo Pieroni con alcuni altri, continuarono fino a tutto maggio le esecuzioni sommarie, abbandonando insepolti i cadaveri, spesso rimasti senza nome.

Le stragi di Como
Nella notte del 27 aprile 1945 il Colonnello Vanini aveva ordinato la resa e lo scioglimento del 610° Com. Prov. GNR. Ciò fu fatto, come dagli altri reparti della R.S.I., per evitare il bombardamento della città che sarebbe stato richiesto dai partigiani. Subito dopo cominciarono, anche qui, le sevizie e le uccisioni di numerosissimi militari, che continuarono per quasi tutto maggio.

Le stragi di Sondrio
Il 25 aprile 1945 a Sondrio comandava i circa 3000 uomini della R.S.I. il generale Onorio Onori che avrebbe dovuto organizzare il famoso ridotto della Valtellina. Altri 1000 uomini al comando del Maggiore Renato Vanna sono a Tirano e cercano di raggiungere Sondrio. Il Maggiore Vanna, con 300 uomini, tenta di forzare gli sbarramenti opposti dai partigiani, ma ecco che il generale Onori e Rodolfo Parmeggiani, federale di Sondrio, gli vanno incontro a Ponte in Valtellina, a 9 Km da Sondrio, gli comunicano di essersi arresi il giorno prima e lo invitano a fare altrettanto. E’ il 29 aprile. Tutti i prigionieri vengono chiusi nel carcere di via Caimi o nell’ex casa del Fascio. E qui, malgrado le solite promesse di trattamento civile e conforme alle convenzioni internazionali, ai primi di maggio ebbero inizio le uccisioni di massa. Il 4 maggio furono prelevati 8 uomini, condotti ad Ardenno, obbligati a scavarsi la fossa e uccisi. Il 6 maggio ne furono prelevati 13, condotti a Buglio in Monte e uccisi. Il 7 maggio fu la volta di altri 15. Condotti vicino a Bagni del Masino, furono mitragliati alle gambe e, poi, bruciati vivi. Si calcola che, in totale, gli uccisi siano stati oltre 200. Secondo alcuni addirittura 500. Fra gli uccisi anche l’ausiliaria Angela Maria Tam, il maggiore Vanna e due Capitani medici. Il S.Ten. Paganella fu gettato da un campanile. Molti uccisi ebbe anche il I° Btg Milizia Francese, dipendente dallo stesso Comando.

Le stragi di Brescia
Gli uomini del 613° Com. Prov. GNR si arresero fra il 28 e il 30 aprile 1945. Subito ci furono sevizie e uccisioni compiute dai partigiani. Il maggiore Spadini subì un vergognoso processo e fu condannato a morte e fucilato il 13.2.1946. Il 23.4.1960 la vedova ricevette una telefonata del Ministro di Grazia e Giustizia On. Guido Gonella che gli annunciava l’annullamento della sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Brescia e la riabilitazione del marito.

Le stragi di Pavia
Le forze del 616° Com. Prov. GNR furono particolarmente pressate dalle ingenti bande partigiane della zona. Il 25 aprile 1945 il presidio di Strabella visse un episodio eroico. Per consentire al grosso delle truppe di ritirarsi verso nord, dodici giovanissimi volontari si assunsero il compito di impegnare le forze partigiane. I dodici giovani, poi ridotti a sei, si difesero disperatamente per tutto il giorno e tutta la notte. Poi accettarono la resa con l’onore delle armi. Ma poco dopo, furiosi per essere stati tenuti in scacco da sei ragazzi, i partigiani li prelevarono (ad eccezione di uno che riuscì a fuggire) e li fucilarono insieme ad altre 14 persone. La stessa sorte fu riservata a molti militi degli altri presidi.

Le stragi di Vicenza
Gli uomini del 619° Com.Prov. GNR, all’atto dello sfondamento del fronte nell’aprile 1945 si ritirarono verso le montagne. Ma qui dovettero arrendersi ai partigiani. Vari distaccamenti, però, si difesero strenuamente finchè vennero sopraffatti e massacrati con inaudita ferocia. Vedi anche il terribile massacro di Schio.

Le stragi di Treviso
Anche in questa provincia gli uomini del 620° Com. Prov. GNR, dopo la resa avvenuta fra il 27 e il 30 aprile 1945, subirono la feroce vendetta partigiana. A Revine Lago, a Oderzo, a Susegana furono soppressi centinaia di uomini. Quelli del presidio di Fregona, arresisi il 27 aprile, furono portati a Piano del Cansiglio e infoibati.

Le stragi di Padova
Il 623° Com. Prov. GNR cessò di esistere il 28 aprile 1945. In tutta la provincia infierirono gli uomini della brigata garibaldina di “Bulow” (Boldrini) che commisero innumerevoli eccidi.

Le stragi di Bologna
Il 629° Com. Prov. GNR partecipò, il 21 aprile 1945, alla difesa di Bologna, poi si ritirò verso il Po e qui si sciolse. I suoi uomini furono braccati e moltissimi furono gli assassinati e lasciati senza sepoltura.Pare che gli uccisi dopo il 21 aprile 1945 nel bolognese ammontino a 773 di cui 334 civili fra cui 42 donne.

Le stragi di Parma
Il 631° Com. Prov: GNR partecipò alla difesa della città il 23 aprile 1945, poi una colonna si ritirò fino a Casalpusterlengo ove si sciolse. Ma i presidi di Colorno e di Salsomaggiore furono massacrati al completo. E il 26 aprile a Parma in via Giuseppe Rondinoni furono uccisi 10 bersaglieri della divisione “Italia”.

Le stragi di Modena
Il 633° Com.Prov.GNR nell’aprile 1945 si ritirò ordinatamente fino quasi a Como dove si sciolse. Ma nella provincia di Modena le uccisioni indiscriminate di fascisti continuarono fino al 1946. I fascisti uccisi nel modenese pare ammontino a 893. Per notizie particolareggiate vedi anche il sito http://members.xoom.it/fratricidio .

Le stragi di Forlì
Gli uomini del 636° Com. Prov. GNR ripiegati al nord, confluirono nel Btg. “Romagna” che fu inviato nel Veneto. Qui, negli ultimi giorni di aprile 1945 avvenne la resa e, dopo la resa, il pressoché totale annientamento ad opera dei partigiani.

Le stragi del 3° Rgt M.D.T. “D’Annunzio”
Il 3° Reggimento “Gabriele D’Annunzio”, che era di stanza a Fiume, negli ultimi giorni di aprile 1945 tentò il ripiegamento verso Trieste e Gorizia. I suoi uomini, costretti ad arrendersi agli slavi il 3 maggio subirono orrende sevizie, numerose uccisioni, e anche infoibamenti.

Gli uccisi del Btg “Montebello”
Una parte del Comando e la 4^ Cmp di questo Btg il 23 aprile 1945 erano rimasti a Cossato. Qui dovettero arrendersi ai partigiani che garantirono l’onore delle armi e la vita salva agli uomini. Ma, come al solito, appena deposte le armi, iniziarono le sevizie e le uccisioni. Il giorno 30 aprile a Sordevolo un primo gruppo di uomini, compreso il Cappellano militare Cap. Don Leandro Sangiorgi, furono uccisi. Un altro gruppo fu ucciso il 1° maggio a Coggiola. Altri, condotti nel famigerato campo sportivo di Novara, finirono poi massacrati nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli.

Il sacrificio del Btg “9 settembre”
Arresosi il 27 aprile 1945, ebbe garanzie di rispetto della vita degli uomini. Invece dal 1° maggio bande partigiane prelevavano gruppi di prigionieri e, condottili in montagna ove li tenevano anche tre giorni senza cibo, li seviziavano e li uccidevano. Si erano arresi in 190. Ne sopravvissero una diecina.

Il tributo di sangue delle Brigate Nere
La XI Brigata Nera “Cesare Rodini” di Como si arrese il 28 aprile 1945 e gli squadristi furono avviati a Coltano. Ma al presidio di Cremia, della Cmp “Menaggio”, toccò una sorte tragica. Il 25 aprile un giovanissimo squadrista, Gianni Tomaini classe 1930, portò anche a questo presidio l’ordine di rientrare a Menaggio. Ma il comandante del presidio stava già trattando la resa coi partigiani, che promettevano salva la vita. Ma appena consegnate le armi tutti gli squadristi furono portati a Dongo, sottoposti ad inaudite sevizie e trucidati tutti, compreso il giovane Tomaini.
E questo non fu l’unico episodio di piccoli presidi delle B.N. massacrati in quel modo.
Le B.N., infatti, pagarono un alto tributo di sangue in quelle tragiche giornate.

La strage della cartiera Burgo di Mignagola
I partigiani, dopo la resa dei combattenti della RSI, organizzarono veri e propri campi di sterminio, dove in brevissimo tempo procedevano, dopo nefande sevizie, a barbare uccisioni, che eufemisticamente chiamavano “epurazioni”. Cito la cartiera “Burgo” di Mignagola, frazione di Carbonera (TV), nei pressi di Breda di Piave. In questa cartiera furono sterminate 400 o forse anche 1000 persone.(1)
Si ha notizia di atroci sevizie inflitte ai prigionieri prima dell’uccisione: lamette ficcate in gola, distintivi fatti ingoiare, spilloni piantati nei genitali, camminare a piedi nudi su cocci di bottiglia, bocca riempita di carta che poi veniva incendiata…. Tra i trucidati il giovane ufficiale Gino Lorenzi, crocifisso; era un sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U. Lo inchiodarono con grossi chiodi ai polsi e alle caviglie su di una rozza croce costituita da due tronchi d’albero e fu lasciato morire lentamente fra tormenti atroci, finché le volpi lo finirono.(2)
Ma non fu l’unica crocifissione; si ha notizia anche della barbara e feroce tortura inflitta ancora ad un giovane sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U. : Walter Tavani crocifisso a un portone a Cavazze (MO). E ancora altri Martiri crocifissi ai portoni delle stalle scelti tra gli oltre settanta assassinati nell’Argentano dopo sevizie atroci: aver avuto mozzate le mani, strappati gli occhi, inchiodata la lingua, strappate le unghie,amputati i genitali.(3)
NOTE: [1] Paolo Teoni Minucci ,Combattenti dell’Onore – Così caddero gli uomini e le donne della RSI ,Greco & Greco, Milano, 2001, p.233.
2 F. Enrico Accolla, Lotta su 3 fronti- Introduzione alla storia della Repubblica Sociale Italiana, Greco & Greco Editori, Milano, 1992, p. 222.
3 Vincenzo Caputo, Disobbedisco-De bello milliariniense, TLA Editrice, Ferrara, 2001,p.11
( Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)

Eccidio del carcere giudiziario di Ferrara
L’otto giugno 1945 una squadra di partigiani, che esibivano sul taschino del giubbotto un grosso distintivo con la falce e martello, si fecero aprire con uno stratagemma, la porta del carcere “Piangipane” , di Ferrara, tre di essi, armati di mitra, dopo aver fatto evadere i partigiani detenuti per reati comuni, penetrarono nell’ala dove erano rinchiusi i detenuti politici, e, fattesi aprire le celle dal capo guardia, ingiunsero ai reclusi di ammassarsi in fondo al corridoio e li massacrarono a ripetute raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo. Non soddisfatti, continuarono a sparare nel mucchio dei corpi ammucchiati per terra in una pozza di sangue, prima di fuggire nel cortile, dove uccisero anche il capo guardia. In totale i morti furono 18 e 17 i feriti.
In successive e tardive indagini furono identificati i tre sicari, ma , giudicati dalla Corte di Appello di Ancona, questa ritenne estinti i reati per amnistia, quasi che l’eccidio fosse stato “commesso nella lotta contro il fascismo”.

Il rogo di Francavilla Fontana (Brindisi)
L’otto maggio 1945 una piccola folla di facinorosi sobillati da comunisti, prelevò i fratelli Chionna dalla loro abitazione, che venne depredata di ogni bene asportabile e quindi devastata, soltanto perché colpevoli di aver conservato sentimenti fascisti. I due vennero sospinti con feroci sevizie fino alla piazza principale della cittadina, dove era stata allestita una pira a cui fu dato fuoco. Il linciaggio si concluse con il rogo dei due fascisti gettati tra le fiamme ancora vivi.

Nefandezze nel modenese
A Medolla (MO) il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto in una carrozzella, il 29 aprile, venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto; ma furono più feroci gli uomini delle bestie che lo straziarono per cibarsene.
A Modena il 27 aprile Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli, quindi, trascinate vicino al cimitero, furono sepolte vive.
Assassinio della levatrice di Trausella (TO)
A Trausella (TO), la levatrice di quel comune fu prelevata, “con audace azione di guerra”, mentre si recava ad assistere una partoriente, trascinata presso il comando di una “valorosa e intrepida” formazione partigiana, fu violentata da un numero imprecisato di eroici “combattenti per la libertà”, che poi la trucidarono, assassinandola tra tormenti atroci avendole tamponato i genitali con ovatta impregnata di benzina, a cui appiccarono il fuoco, rinnovando l’orrenda combustione con altri tamponi infiammati fino al purtroppo stentato sopraggiungere della liberazione con la morte.1
NOTE: [1] Mino Caudana e Arturo Assante, Dal Regno del Sud al vento del Nord, Vol. II, C.E.N., Roma, 1963, III ediz., p. 1180.

L’eccidio di Volto di Rosolina (Rovigo)
Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945 le truppe italo-tedesche abbandonarono la zona di Rosolina. In località Volto operava una batteria antiaerea della X Flottiglia Mas. Il 26 aprile i marò della Decima fanno saltare le munizioni e i cannoni e cercano di mettersi in salvo vestendosi in borghese. Ma nella notte fra il 26 e il 27 vengono raggiunti dai partigiani e uccisi senza pietà con raffiche di mitra. L’allora parroco Don Mario Busetto ha lasciato una testimonianza dalla quale si ricava che in data 30 aprile furono scoperti sotto la sabbia 9 cadaveri, cui fu data cristiana sepoltura. Purtroppo fu identificato soltanto Vincenzo Caruso di anni 21 da San Nicandro Garganico (FG). Secondo il parroco, però, un altro degli uccisi era Leonardi Carmelo di Palermo. Invano la famiglia di Giuseppe Licata, anni 23, di Sciacca (AG) cercò di identificare il suo congiunto con uno dei caduti.
Il 15 giugno 1946, poi, vennero scoperti e sepolti altri 5 cadaveri. Insieme ai 14 marò furono uccise anche due giovani sorelle che prestavano servizio alla batteria in qualità di ausiliarie: Adelasia Zampollo di anni 17, nata a Chioggia e residente a Genova e la sorella Amorina di 24 anni, che aveva un figlio piccolo.

Le stragi di Omegna
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1945 una squadra di partigiani penetrò con l’nganno nella casa del Sig. Raffaele Triboli e lo prelevò insieme alla moglie Clorinda Benassai e alla figlia di 21 anni Gianna. La casa fu rapinata di tutto quanto poteva valere qualcosa. Restavano soli in casa nel terrore i figli Francesca di 14 anni, Antonietta di 13 e Raffaele di 9. I tre prelevati furono torturati, le donne violentate e, infine, gettati, pare ancora vivi, nel lago d’Orta, chiusi dentro un telo di paracadute. Né, questo, fu l’unico massacro compiuto dai partigiani nella zona del lago d’Orta.

La strage dei ragazzini di Mario Onesti
Il 25 aprile 1945 un reparto di giovanissimi militi della contraerea della Malpensa, guidato dal sergente Mario Onesti si dirigeva verso Oleggio. Intercettati dai partigiani della brigata di Moscatelli, si difendono come possono. Alla fine il cappellano partigiano, Don Enrico Nobile, invita i militi ad arrendersi. Avranno salva la vita e un salvacondotto per tornarsene a casa. Il sergente interpella i suoi giovanissimi militi, poco più che adolescenti, e decide di accettare. Qualcuno non si fida e riesce a fuggire, ma undici, col loro sergente, si consegnano e, alle 18,30, si redige un verbale dell’accordo. Ma i partigiani non hanno nessuna intenzione di rispettare il patto e il giorno dopo, 26 aprile, i ragazzi vengono trattenuti prigionieri nelle segrete del castello di di Samarate, dove vengono sottoposti a indicibili torture. E il giorno dopo ancora, 27 aprile, alle 8 di mattina vengono caricati su un camion e portati sul luogo del supplizio. Il prete che avrebbe dovuto essere garante dell’accordo è impotente e può solo impartire una frettolosa benedizione. Poi la fucilazione. Tutti offrono il petto ai fucilatori. Si ode qualche grido di “Viva l’Italia”. Non sazi gli aguzzini infieriscono sui corpi degli uccisi, anche ficcando ombrelli negli occhi dei morti.

La strage della famiglia di Carlo Pallotti
Il 9 gennaio 1945 alcuni partigiani penetrarono in una casa colonica nella campagna modenese dove si era rifugiato il veterinario Carlo Pallotti, fascista, insieme alla famiglia e massacrarono l’intera famiglia : il Pallotti, la moglie Maria Bertoncelli e i giovanissimi figli Luciano e Maria Luisa. Responsabili furono ritenuti i partigiani modenesi Michele Reggianini e Giuseppe Costanzini che, però, non subirono alcuna condanna per questo crimine in quanto il massacro fu ritenuto, dalla magistratura della nuova Italia democratica, una legittima azione di guerra.

Le condanne a morte richieste dal P.M. Oscar Luigi Scalfaro
(Pare opportuno inserire anche queste morti fra le stragi di quel periodo)
Il Giornale del 9/3/1995, con un articolo a firma P.Pisanò, informa:
"Sono 8, le condanne a morte di fascisti, chieste e ottenute dal P.M. O.L.Scalfaro, alla Corte assise di Novara, dopo il 25/4/1945.La biografia ufficiale, parla di un solo imputato, per il quale la condanna a morte era inevitabile; ma tale imputato..venne poi graziato...La realtà è un pò diversa.1943: Il futuro presidente della Repubblica entra in magistratura.1°maggio 1945: O.L.Scalfaro assume volontariamente la carica di vicepresidente del tribunale di Novara. 13 giugno 1945: Sostituiti i tribunali del popolo con le CAS (Corte Assise straordinarie), O.L.Scalfaro sostiene la pubblica accusa contro Enrico Vezzalini, soldato valoroso pluridecorato. 15 e 28/6/1945: L'Ufficio del PM ottiene la condanna a morte di Enrico Vezzalini, Arturo Missiato, Domenico Ricci, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno e Raffaele Infante.Condanne eseguite all'alba del 23 sett.1945 (ndr: al poligono di tiro di Novara). 16 luglio 1945: Il PM chiede ed ottiene la condanna a morte di Giovanni Pompa, 42 anni, della GNR. Sentenza eseguita il 21/10/1945. 12 dic.1945: il PM chiede ed ottiene la condanna a morte di Salvatore Zurlo. Da "Il Corriere di Novara" del 19 dic.1945: "Il PM Scalfaro parla con vigoria ed efficacia che lo fanno ascoltare senza impazienza dal pubblico....Il Pm, dopo la chiarissima requisitoria conclude domandando la pena di morte per lo Zurlo..."Lo Zurlo, nel 1946, in processo d'appello,ebbe la sentenza annullata. Otto condanne a morte ottenute, sette eseguite. O.L.Scalfaro, brillante inquisitore da tribunale del popolo, si è ormai messo in luce per tentare le vie della politica, candidandosi all' Assemblea Costituente e, pur senza abbandonare la magistratura e relative prebende, avviarsi verso la gloria di Roma". Questo articolo è rimasto, all'epoca, senza reazioni di sorta dell'interessato: tutto vero, dunque. Ma giornalisti de “L'Ultima Crociata”, andati a Novara per rivedere le carte di quei processi, non trovarono un bel nulla.


                                                                                                                                                                              

sabato 7 aprile 2018

L’antiamericanismo “tradizionale”

L’antiamericanismo “tradizionale” di Julius Ev

«Il processo per cui le distruzioni spirituali, il vuoto stesso che l’uomo divenuto “uomo economico” e grande imprenditore capitalista si è creato intorno a sé, lo costringono a far della sua stessa attività – guadagno, affari, rendimento – un fine, ad amarla e volerla in se stessa pena l’essere preso dalla vertigine dell’abisso, dall’orrore di una vita del tutto priva di senso»1.
La posizione critica del filosofo romano Julius Evola (1898-1974) nei confronti dell’America merita di essere conosciuta per l’originale peculiarità che la contraddistingue, oltre che per l’influsso che ha esercitato su una non trascurabile area politica e intellettuale. Nel 1929 esce su Nuova Antologia l’articolo evoliano Americanismo e bolscevismo, nel quale il pensatore tradizionalista espone per la prima volta con notevole lucidità una tesi, piuttosto inedita e assai pionieristica, che continuerà a sviluppare nei decenni successivi. L’idea di fondo è che Russia sovietica e Stati Uniti, al di là delle evidenti differenze culturali, sociali e di organizzazione statuale, siano accomunati da un medesimo, perverso ideale2. Il saggio costituirà la base del sedicesimo capitolo della seconda parte di Rivolta contro il mondo moderno, forse il libro più importante e famoso di Evola.
Il ragionamento di Evola si sviluppa poi in una prospettiva più ampia, che presenta singolari analogie concettuali, seppure non terminologiche, con il cuore della riflessione sulla Tecnica sviluppata da molti filosofi, da Jünger sino a Heidegger e Severino. Essenzialmente, Evola avverte nell’America proprio quella caratteristica “totalmente mobilitante”, onnipervasiva e tirannica propria alla Tecnica, che tende rapidamente a inglobare o distruggere tutto ciò che le si frappone – vale a dire quel che costituisce, nel contesto della metafisica evoliana, la Tradizione.
Per Evola, questo rapporto dualistico è solo in parte il risultato di un processo puramente storico; è, comunque, l’esito di una legge che determina lo scorrere ciclico delle età storiche: «Quella civiltà, di cui il Moderno fu sì fiero, e in nome della quale aveva creduto al “mito” del “progresso” e aveva marciato alla conquista del mondo, quella civiltà si trova oggi dinanzi a una specie di riduzione dell’assurdo, di capovolgimento dei valori che essa si era arrogati. Lanciatasi alla conquista della materia, essa non ha conseguito il suo scopo che a prezzo di materializzare lo spirito, di escludere ogni forma superiore di vita, di amalgamare gl’individui nella tirannide di organismi collettivi, che quasi diremmo subumani nella loro mancanza di volto, di razionalità, di luce, nella loro soggiacenza a energie che di tempo in tempo, come galvanizzando con una vita momentanea e paurosa dei corpi morti o automatici, li scaglia gli uni contro gli altri»5.
Il “mondo moderno” evoliano è, effettivamente, quello dominato dalla Tecnica: nell’America statunitense il filosofo romano coglie l’avanguardia (ancor più avanzata rispetto a quella sovietica) della controparte della Tradizione. «Mentre nel processo della formazione della mentalità sovietico-comunista l’uomo-massa che già viveva misticamente nel sottosuolo della razza slava ha avuto una parte di rilievo, e di moderno non vi è che il piano per la sua incarnazione razionale in una struttura politica onnipotente, in America il fenomeno deriva dal determinismo inflessibile per cui l’uomo, all’atto di staccarsi dallo spirituale e di darsi alla volontà di una grandezza temporale, di là da ogni illusione individualistica cessa di appartenere a sé stesso per divenire parte dipendente di un ente che egli finisce col non poter più dominare, che lo condiziona in modo molteplice»6. Il filosofo romano riprende qui la tesi che aveva sviluppato nella parte precedente del saggio, dedicata alla Russia, ove aveva sostenuto che l’atavico impulso messianico russo, unito a una sorta di “mistica della collettività”, si era rovesciato, dopo la rivoluzione bolscevica, in termini marxisti, nell’uomo “terrestrizzato e collettivizzato” che sentiva come propria la missione storica di esportare nel mondo il modello di sviluppo comunista: un analogo sentimento di superiorità del proprio tipico modello anima per Evola l’uomo americano, ma in una dimensione del tutto priva di alcun sottofondo mistico-spirituale. È necessario specificare che le considerazioni evoliane su America e americanismo sono spesso sovrapponibili a quelle espresse in linea più generale sul mondo moderno, inteso come categoria a priori di modello di civiltà (o più correttamente, per tener fede alla terminologia evoliana, di civilizzazione)7. La peculiarità dell’America statunitense è per Evola quella di essere la punta avanzata della civiltà occidentale, o meglio lo stadio finale della sua decadenza involutiva. Non può stupire, in questo senso, che le idee espresse a proposito degli USA siano sovente sovrapponibili a quelle sull’Inghilterra, il calvinismo o il modello capitalista.
Se si “interpreta” il mondo moderno evoliano nei termini anzidetti, la disamina del filosofo tradizionalista è assai meno ottimistica di quella coeva jüngeriana. La nuova Figura destinata a emergere dal mondo totalmente mobilitato dalla Tecnica non è l’Operaio, ma il produttore-consumatore di stampo americano. Con una terminologia tanto efficace quanto brutale, Evola analizza questo uomo-ultimo, che ricorda fortemente quello profetizzato da Nietzsche: «Può anche darsi che, ove l’umanità non affondi in un’ottusa beatitudine da bestiame bovino, essa vada incontro alla più paurosa delle crisi: a quella del vuoto assoluto di un’esistenza, vuoto non più nascosto come prima dai pseudo-fini di una vita alle prese con necessità di ogni genere»8.
La febbre attivistico-produttiva che contraddistingue il modello di sviluppo capitalistico, e che dalla maggior parte dei contemporanei viene vista come il segno di una vitalità giovanile, per Evola è viceversa sintomo di una malattia terminale. A questo concetto è dedicato lo scritto America: l’equivoco del popolo giovane9, in cui è ripresa la metafora delle età dell’uomo in relazione analogica con quelle del mondo. «Noi incliniamo proprio a considerare l’America non come un principio, ma come una fine: come la forma ultima, crepuscolare assunta dalla civiltà – già minata da vari progressi di regressione – dell’Europa moderna». E ancora: «Di un vero e proprio “primitivismo” o “infantilismo” devesi […] parlare nei riguardi dell’anima e della civiltà americana, primitivismo che solo superficialmente può essere confuso con fenomeni di “gioventù”, trattandosi invece di cose da spiegare sulla base della […] legge di corrispondenza di ciò che è crepuscolare con le forme primitive di uno stesso ciclo»10. Intorno a questo nocciolo concettuale, concepito a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, Evola sviluppò nel corso della sua lunga produzione saggistica successiva un numero considerevole di riflessioni, contenute perlopiù in articoli su giornali e riviste11. L’incalzare del modello americano in ogni area del pianeta gli offrì lo spunto per considerazioni su costumi e mentalità che, specialmente nel secondo dopoguerra, andavano rapidamente diffondendosi anche in Europa, e in Italia in misura particolarmente sensibile. In diversi articoli, per esempio, criticò con durezza le scelte redazionali e di palinsesto della RAI, costantemente ispirate a modelli estetici d’oltreoceano, sia nel campo musicale sia in quello della programmazione televisiva. Nell’articolo del 1954 L’americanizzazione e le responsabilità della RAI, lo scrittore constatava come la programmazione musicale dei programmi “internazionali” dell’epoca (Cabaret internazionale, Grandi successi del mondo, Paese che vai, eccetera) trasmettesse in via pressoché esclusiva brani americani, quasi che il mondo si riducesse a tale unica regione, ignorando completamente, per esempio, la produzione contemporanea dell’Europa centrale. Ecco il suo commento: «Questo è un settore particolare dell’americanizzazione, ma è tutt’altro che privo di importanza. Le conseguenze del “lasciare andare” democratico sono queste: l’intossicazione di quella grandissima parte della popolazione che non sarà mai capace di vera discriminazione, che è fin troppo propensa – specie di questi tempi – a perdere ogni linea quando un potere o un’idea superiore non abbiano modo di richiamarla a sé stessa, se non altro pel minimo occorrente per non perdere del tutto la faccia»12. Anche il diffondersi nella lingua italiana di tanta terminologia inglese, specialmente in casi nei quali esiste un termine corrispondente in italiano, è per il filosofo il segno di un cedimento a ciò che appare moderno, bello, degno di essere imitato e seguito, ma che rivela un conformismo dovuto a superficialità e mancanza di carattere, foriero di un impoverimento culturale generalizzato13.
Per Evola, comunque, alla pervasività sul piano culturale del modello americano non si dovrebbe opporre una chiusura aprioristica. L’orientamento dovrebbe piuttosto essere quello di discernere tra ciò che va accettato e ciò che va respinto, sulla base della propria identità specifica: «Dato il clima di irresponsabile democrazia vigente in Italia, di un sistema organizzato di difese del genere non è naturalmente il caso di parlare. Esso può esser solo di pertinenza di pochi che sono ancora spiritualmente in piedi. A costoro spetterebbe dare l’esempio. Né polemiche né animosità, ma considerare tutto ciò che è americano con fredda curiosità invertendo le parti, riportando l’America al suo rango di provincia, di una escrescenza periferica dove si è centralizzato e sviluppato fino all’assurdo tutto ciò che di negativo la civiltà umana dell’Europa aveva prodotto. E quando qualcosa di americano dovesse essere ammesso, lo dovrebbe essere mantenendo libero lo sguardo, considerando simultaneamente altre prospettive, altre possibilità, altri valori, in un quadro nel quale in fondo, qualitativamente, l’America rappresenta solo un episodio»14.
Costituisce quindi un curioso paradosso che proprio in America, soprattutto a partire dagli anni Novanta, Evola abbia goduto di una marginale, ma non del tutto trascurabile fortuna. Essa è da ricondursi principalmente alla pubblicazione delle sue opere principali da parte della casa editrice Inner Traditions, oltre che alla presentazione del pensiero evoliano da parte di alcuni studiosi tra i quali Thomas Sheehan, Richard Drake e Joscelyn Godwin15. Si sarebbe potuto prevedere che una critica tanto radicale al modello americano, quale quella evoliana, determinasse un rifiuto del pensiero del filosofo italiano da parte del pubblico statunitense; e che proprio quella mentalità spiccatamente pratica e materialista, denunciata da Evola come caratteristica dell’americanismo, costituisse un ostacolo insormontabile allo “sbarco oltreoceano” delle opere evoliane. Eppure attraverso diversi canali, tra cui internet, in America Evola viene letto e dibattuto anche in modo non superficiale. L’opposizione evoliana al paradigma statunitense afferma il primato della qualità sulla quantità, dello spirituale sul materiale, dell’organicità sull’individualismo e della politica sull’economia. Altrove scrivevo che «come la Tecnica è per sua natura universale lo sono anche il modello economico capitalistico e l’ideologia egualitaria. Storicamente, laddove un’idea particolare si oppone a una universale, la prima è destinata a venire travolta. Il messaggio fondamentale di Evola è proprio quello di interpretare e vivere i valori tradizionali in una prospettiva più che storica, assolutizzarli: solo con ciò potranno essere opposti a quelli dominanti, indipendentemente da ogni effettiva speranza pratica»16. Nella dicotomia evoliana di Tradizione e Modernità è anche racchiusa la certezza che allo scatenato dominio della dissoluzione seguirà un nuovo ciclo, improntato a nuovi valori. Quanto questa impostazione sia conciliabile con un atteggiamento pratico o attivo di opposizione al modello dominante è questione dibattuta da tempo. Certamente, però, Evola combatté la sua battaglia.
Note
  1. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1994, pp. 375-376.
  2. Ora in J. Evola, Americanismo e bolscevismo, ne Il ciclo si chiude. Americanismo e bolscevismo (1929-1968), Fondazione J. Evola, Roma 1991.
  3. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 391.
  4. Ivi, pp. 391-392.
  5. J. Evola, Noi antimoderni, ne La Torre, 1 febbraio 1930, ora in Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968 (II ed.), a cura di A. Lombardo, Controcorrente, Napoli 2010.
  6. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 392.
  7. La dicotomia evoliana è in certa misura mutuata e sovrapponibile a quella spengleriana tra Kultur e Zivilisation. Come giustamente nota Giovanni Damiano (J. Evola, Civiltà americana, contributo disponibile sul sito della Fondazione J. Evola), quella evoliana è «una lettura, però, solo in senso lato definibile come spengleriana, e che proprio per questo non si risolve nella mera applicazione rigida e schematica delle categorie del pensatore tedesco alla realtà americana».
  8. J. Evola, “Libertà dal bisogno” e umanità bovina, ne Il Secolo d’Italia, 27 gennaio 1953, ora in Civiltà americana, cit., p. 41.
  9. Ivi, pp. 27-30.
  10. Ivi, p. 29.
  11. Un certo numero di questi saggi sono riuniti ivi.
  12. J. Evola, L’americanizzazione e le responsabilità della RAI, ne Il Nazionale, ora in ivi, p. 49.
  13. Cfr. per esempio J. Evola, Servilismi linguistici, ne Il Secolo d’Italia, 28 luglio 1964, ora in ivi, pp. 72-75.
  14. J. Evola, Difendersi dall’America, ne Il Popolo Italiano, 14 dicembre 1957, ora in ivi, p. 71.
  15. Cfr. G. Stucco, Sulla (relativa) fortuna di Evola negli Stati Uniti, in Futuro Presente, 6 (1995), pp. 121-125.
  16. A. Lombardo, La tenaglia si è chiusa, in J. Evola, Civiltà americana, cit., p. 18.
Tratto da Antarès – Prospettive Antimoderne 6 (2014).