venerdì 29 ottobre 2021

NON PASSANO I TITINI NELLA SELVA DI TARNOVA

NON PASSANO I TITINI NELLA SELVA DI TARNOVA                   


G O R I Z I A - La Battaglia di Chiapovano
 
Tratto da: Sotto tre bandiere, le memorie di Giorgio Farotti: Sottotenente nel REI, Guardiamarina nella X MAS, Generale nell’EI, Associazione ITALIA-Effepi, 2005
A cura di Enrico Frattini e Andrea Lombardi
Con la collaborazione del Maggiore Stefano Basset e Giovanni Buongirolami 
 
 
Vi arrivammo a metà dicembre e fummo accantonati proprio a Salcano vicino a quel ponte che avevo difeso con i miei Alpini dall’ottobre 1943 al gennaio 1944. 
La situazione, però, era molto cambiata sia militarmente, sia politicamente. Un anno di amministrazione tedesca (o meglio di tipo asburgico) aveva creato una profonda depressione morale nelle Autorità e nella popolazione italiana, C.L.N. compreso.
Alla forza morale, all’entusiasmo patriottico di quei giorni del settembre-ottobre 1943 che io avevo vissuto, era succeduto un torpore, una assenza di reattività da parte degli italiani alle prevaricazioni e soprusi commessi dalle autorità tedesche, in combutta con cetnici e domobranci loro alleati ed insediati in zona, dopo il loro ritiro forzato dalla Croazia, ormai tutta occupata dalle truppe di Tito. All’improvviso, l’arrivo della Xª ed alcuni episodi di spavalda esuberanza giovanile valsero a riaccendere nei goriziani sia la speranza, sia la passione patriottica ma di questo argomento parlerò più avanti, ora preferisco invece accennare a quella che avrebbe dovuto essere la nostra attività operativa secondo un piano, concepito dal comando tedesco e denominato Adler, molto ambizioso poiché si riprometteva, addirittura, d’annientare le Brigate partigiane operanti, ormai minacciosamente, nell’entroterra di Gorizia. 
Ai reparti della Xª, volutamente, erano stati assegnati i compiti più impegnativi: essi infatti, dovevano muovere, in un contesto territoriale sconosciuto e molto ostile, con una colonna su Tarnova e Loqua, una seconda nel vallone di Chiapovano fino a Locavizza ed una terza da San Lucia d’Isonzo a Slappe e, se possibile, a Tribussa Inferiore. Il giorno 19 dicembre i primi ad entrare in azione fummo noi del "Barbarigo" con obiettivo Chiapovano, divisi in due aliquote: una sull’itinerario Gargaro-Fobiza-Raune-Battaglia-Locavizza attraverso l’altipiano della Bainsizza e l’altra nel Vallone ma percorrendo, per sicurezza, una mulattiera a mezza costa passante per Pustala. Il Battaglione fu trasportato con autocarri fino a Gargaro, poi si divise come ho già detto e proseguì appiedato mentre gli automezzi rientrarono alla base, salvo uno assegnato alla IV Compagnia per il trasporto dei mortai da 81. Ciascuna aliquota assunse il dispositivo di marcia con misure di sicurezza ed iniziò il movimento di prima mattina. Era una giornata serena molto fredda; ricordo che, mentre mi stavo portando in testa alla mia Compagnia Mitraglieri, uscì da una casa una contadina che, piangendo, ci gridò in lingua slovena di non andare perché le montagne erano piene di partigiani e non voleva che anche noi, così giovani, facessimo la fine di suo figlio, partito per la Russia e caduto su quel fronte. Le chiesi, allora, se potesse darmi notizie precise sull’ubicazione dei partigiani, ma non mi rispose e sempre piangendo corse a chiudersi in casa. L’episodio valse a renderci molto più guardinghi nel procedere, rafforzando ulteriormente il sistema di sicurezza con pattuglie di combattimento dotate di armi automatiche. La prima giornata non fece registrare combattimenti di rilievo, le nostre pattuglie sostennero scontri a fuoco con elementi avversari che subito si dileguarono nei boschi circostanti, fu incendiata una casa con la conseguente esplosione delle munizioni in essa nascoste e pernottammo nella località di Podlaka. Il cielo si mantenne sereno anche il giorno seguente ma la temperatura si abbassò ed una gelida bora, contro la quale più che il nostro inadatto equipaggiamento valse a proteggerci la grappa del parroco del paese di Battaglia della Bainsizza., cominciò a spazzare l’altopiano. Lo attraversammo senza difficoltà particolari ed al tramonto del 22 dicembre entrammo, incontrastati, nell’abitato di Chiapovano, sistemando i reparti nelle case disponibili per pernottarvi al coperto ma attuando un rinforzato servizio di scolte, anche se a turni abbreviati per il freddo intenso. Devo aggiungere che all’inizio delle operazioni i colleghi mi avevano dato atto, inaspettatamente, della loro stima e fiducia chiedendomi di vagliare le modalità esecutive e soprattutto gli ordini ricevuti, per apportarvi eventuali modifiche, al fine di evitare di trovarci, poi, in qualche pericolosa situazione. Il Comandante fu improvvisamente convocato a Gorizia ma, prima che partisse con il suo Aiutante Maggiore, ottenni di schierare, alle prime luci dell’alba, il Battaglione fuori dell’abitato su delle posizioni che la mia esperienza di guerra mi induceva a ritenere più consone a fronteggiare un eventuale attacco.
Francamente la situazione in cui, non per nostra volontà, ci eravamo messi non mi piaceva; un sesto senso mi faceva prevedere che difficilmente l’avversario si sarebbe lasciato sfuggire un’occasione così favorevole: eravamo finiti in un cul de sac, dominato dalle alture circostanti, facilmente accerchiabile; restare, quindi, nelle case avrebbe significato un sicuro annientamento del Battaglione. Non potendo effettuare una ricognizione del terreno poiché ormai il buio era totale, studiando le carte topografiche della zona, per fortuna al 25.000 e quindi abbastanza precise nei particolari, mi accorsi che a nord dell’abitato la valle si allargava ed i suoi versanti laterali non erano più ripidi e scoscesi ma degradanti su una successione di costoni ad andamento obliquo, ottimi come appiglio tattico per creare una posizione di resistenza. Soltanto il centro della valle non poteva essere presidiato perché allo scoperto e percorso dalla rotabile ma questo fatto poteva essere da noi sfruttato per incanalare l’attacco nemico dentro quell’imbuto naturale, portandolo sotto il tiro delle nostre armi pesanti. Assegnai, quindi, il versante sinistro più dominante alla mia Compagnia Mitraglieri e quello destro alle due Compagnie Fucilieri, schierando i mortai in posizione arretrata e coperta dietro la Compagnia Mitraglieri ed i cannoni 47/32 in prossimità della strada, in posizione sovrastante la medesima. Alle prime luci del giorno ventiquattro mi assicurai della precisa esecuzione degli ordini, controllando lo schieramento dei reparti personalmente, arma per arma, in modo d’avere la certezza che qualsiasi possibile via di attacco nemico fosse battuta dal fuoco delle nostre armi automatiche.
Rientrai quindi al mio posto di comando, ubicato nell’ultima casa del paese lato nord, tra l’altro ancora occupata dai suoi abitanti, donne, vecchi e bambini, motivo per me di imbarazzo e preoccupazione. Li mandai tutti in cantina, onde evitare un loro coinvolgimento in un eventuale scontro ravvicinato. Alle ore dieci la temperatura era ancora molto bassa, nonostante il sole, ed ecco arrivare una staffetta ad annunciarmi l’inizio dell’attacco nemico. Accorsi immediatamente sulla linea del fuoco per rendermi conto della situazione: una Squadra Mitraglieri aveva perso il suo comandante, colpito alla testa mentre cercava di spostare personalmente l’arma, per sistemarla in una postazione migliore. I Marò furono rinfrancati dalla mia presenza: per loro era il battesimo del fuoco ed io, conscio di questa loro necessità, percorsi in piedi tutto lo schieramento, incitandoli a vendicare il loro primo caduto. Da come l’attacco veniva delineandosi, mi resi conto dell’importanza difensiva di un certo tratto di terreno che prima non avevo potuto individuare e vi schierai immediatamente l’unico Plotone Mitraglieri comandato da un Ufficiale, con la consegna scritta di non ripiegare se non dietro un altro mio ordine scritto. Pensavo, così, di ottenere la massima garanzia d’esecuzione dell’ordine; purtroppo non potevo prevedere la vigliaccheria di colui al quale avevo dato la mia fiducia e che tra l’altro era stato mio compagno di corso all’Accademia Militare. Con le prime ombre della sera fu preso dal panico, soprattutto per l’impiego abbondante di proiettili traccianti da parte dell’avversario ed abbandonò la posizione affidatagli, costringendomi a far ripiegare anche i rimanenti plotoni anzitempo e creando una serie d’imprevisti che ci costarono qualche ferito e la perdita di un cannone da 47/32. Inconsciamente, ormai, mi ero investito delle funzioni di Comandante di Battaglione e perciò mi recai a prendere visione di quanto accadeva agli altri reparti, impartendo gli ordini necessari per il loro sganciamento e soprattutto concordai con il Tenente Piccoli le azioni di fuoco dei mortai da 81. 
Purtroppo, non potevano essere eseguite cortine di sbarramento per l’insufficienza delle munizioni: dovevano giungere con un autocarro la sera precedente ed invece erano ancora in viaggio e chissà dove, perché caricate su di un carro trainato da buoi ed avviate a Chiapovano per l’itinerario della Bainsizza! Conclusione avevamo al seguito le sole dotazioni d’arma spalleggiate e dovevamo centellinare i colpi! Resistere a lungo in quella situazione era pressoché impossibile, potevo solo sperare che il nemico non se ne rendesse conto prima dello sganciamento, da me programmato al termine dell’arco diurno.
Durante la ricognizione con Piccoli, nel tentativo d’individuare le sorgenti di fuoco nemiche, fummo fatti segno a diversi colpi di lanciagranate ed all’improvviso ci trovammo entrambi per terra con le nari piene dell’acro odore dell’esplosivo, storditi ma incolumi. Il combattimento proseguì per tutta la giornata ma con maggiore prudenza da parte avversaria dopo lo slancio iniziale e le perdite subite; mi fu portato ad un certo punto un prigioniero che risultò essere uno dei tanti sbandati del nostro Esercito che dopo l’otto settembre 1943 si erano aggregati alle bande di Tito. Mi dichiarò di fare il barbiere, aveva con sé i ferri del mestiere ed allora, per accertarne l’attendibilità, mi feci radere seduta stante. Parlandogli capii che era soltanto un povero diavolo di Bari, travolto da avvenimenti più grandi di lui e gli risparmiai la dura legge di quella guerra che non voleva prigionieri (s’arruolò nelle nostro file e divise le sorti del Battaglione fino alla fine, compresa la dura prigionia in terra d’Algeria). Nel tardo pomeriggio, mentre ispezionavo di nuovo le postazioni assegnate ai miei Plotoni Mitraglieri, ecco piombarmi addosso, trafelato e sconvolto, il Tenente cui avevo affidato la difesa ad oltranza della posizione chiave dello schieramento, seguito da tutto il plotone. Alla mia concitata richiesta di spiegazioni della sua violazione di consegna e di palese comportamento codardo di fronte al nemico ed agli uomini da lui comandati, non seppe dirmi altro che: "Fai quello che vuoi, sono un vigliacco". Le prime ombre calanti sul bosco, il contatto sempre più serrato del nemico che usava molte traccianti, gli avevano fatto saltare i nervi ed incapace di autocontrollo, era scappato tirandosi dietro tutto il reparto. 
Il nemico se ne era reso conto e stava infiltrandosi, seppur cautamente, nel varco creatosi, dovetti quindi dare subito ordine agli altri due plotoni di ripiegare sul comando di compagnia, edificio molto grande che si sarebbe prestato ad una temporanea difesa prima del buio. Venute a mancare le basi di fuoco che proteggevano la rotabile l’avversario poté avanzare ed arrivare a ridosso dello spiazzo ove erano situati i cannoni da 47/32. Essi, nell’impiego in combattimento, erano più ingombranti che utili privi, com’erano, di congegni di puntamento e con un’esigua dotazione di colpi ma il nemico non poteva saperlo e costituivano quindi per lui un’ambita e ghiotta preda. Si accese intorno ad essi una vera mischia, con alterne vicende, alla fine i serventi riuscirono a sganciarsi con un cannone, lasciando l’altro sul posto, dopo avergli tolto l’otturatore per renderlo inservibile, poiché l’intensità del fuoco avversario aveva creato una barriera insormontabile ad ogni tentativo di recupero. Tornando all’episodio di codardia di quel mio Ufficiale sopra descritto e di cui non voglio dire il nome perché era un mio compagno d’Accademia e quindi a me legato da particolari vincoli di natura idealista e sentimentale, provai grande imbarazzo ed un vero conflitto interiore quando successivamente dovetti riferire sulla condotta del combattimento, secondo gli ordini impartiti e conseguentemente sul suo operato: tuttavia non ebbi la crudeltà necessaria per denunciarlo poiché sapevo che l’avrei condannato a morte. Preferii chiederne l’allontanamento immediato dal Battaglione e nulla ho più saputo di lui. Ordinatamente, le singole Squadre di ciascun Reparto lasciarono le postazioni, fino ad allora valorosamente difese e, senza farlo trapelare al nemico, raggiunsero il punto di raccolta stabilito all’uscita sud del paese. Di qui, distaccata una pattuglia per intercettare il carro delle munizioni e scortarlo alla base di partenza, il Battaglione in formazione di marcia con misure di sicurezza rientrò a Gargaro. Prima della partenza la salme recuperate del Comandante Carallo e del Secondo Capo Gavrioglio vennero affidate al prete del paese con la minaccia di passarlo per le armi qualora, al nostro ritorno, non ce l’avesse fatte ritrovare. Il Comandante della Divisione, mentre percorreva la strada che da Gargaro porta a Chiapovano e accompagnato dal suo Capo di S.M. e da un Ufficiale tedesco di collegamento su di una autovettura scoperta, era stato ucciso in un’imboscata attribuita ad elementi partigiani. Più avanti spiegherò l’inattendibilità della versione ufficiale. Il combattimento, sostenuto egregiamente a Chiapovano, deve essere considerato il banco di prova del Battaglione. Sebbene costituito in gran parte da complementi, tutti al di sotto dei vent’anni ed alla loro prima esperienza bellica, diede prova di grande saldezza disciplinare ed autocontrollo emotivo, come se i suoi componenti fossero tutti veterani di guerra: merito loro ma soprattutto dei loro istruttori e comandanti. E quello che più conta le nostre perdite, a fronte di quelle avversarie, furono irrisorie: un loro disertore ebbe a dirmi che avevano avuto centinaia tra morti e feriti (settecento circa, ricordati ancor oggi dalle lapidi affisse nel paese dalle Autorità Jugoslave). 
Questo conferma la validità della mia teoria "più sudore, meno sangue" poco gradita, all’inizio, dai Marò ma successivamente compresa ed accettata. Ed evidenzia che in quel genere di guerra sarebbe stato atto suicida asserragliarsi nell’abitato, perché avrebbe significato l’accerchiamento ed il totale annientamento, come poi accadde al Battaglione "Fulmine" a Tarnova.

TARNOVA - SANTUARIO INVIOLATO
Nino Arena
 
 
Ia puntata
 
    Fu una classica battaglia convenzionale, combattuta una volta tanto, secondo gli schemi cari alle scuole di guerra, così, come può essere descritta nei libri di testo delle accademie militari: nella tradizione!
    Fu soprattutto una battaglia anomala per molti aspetti: portata all'esasperazione dal nazionalismo, dall'orgoglio etnico, da due contrapposte e irriducibili ideologie, da due differenti civiltà: la slava, rappresentata dal IX Korpus dell'EPLJ titino; l'italiana, per la presenza in campo di reparti della RSI e particolarmente della Divisione Fanteria di Marina X, che sostenne lo sforzo principale, che subì le perdite maggiori ma che riportò, nei durissimi scontri sostenuti fra la fine del 1944 e il gennaio 1945, il più meritato successo tattico, etnico, psicologico.
    Affrontare in campo aperto bande partigiane e batterle secondo gli aspetti più ortodossi della filosofia militare tradizionale, ha sempre rappresentato l'ambizione massima, segretamente riposta nelle speranze dei più famosi strateghi militari.
    Poche, però, le occasioni realizzate pienamente se non per concessione della controparte, poiché la dottrina partigiana del "mordi e fuggi" non lasciava molto spazio all'immaginazione, non si prestava al gioco dell'avversario, rifuggiva le opportunità di confronto in campo aperto; accettare il contrario poteva significare anche un pericolo mortale con tutte le sue implicanze. La nostra storia più recente annovera soltanto un esempio simile: la battaglia di Dien Bien Phu, nata da una provocazione voluta dai generali Navarre e Cogny per costringere il generale Giap ad accettare la sfida, e conclusasi, come tutti sanno, con una disastrosa sconfitta della Francia e la perdita del suo impero asiatico unitamente al prestigio internazionale.
    Il resto della storia non evidenzia più episodi similari pur in presenza di grandi impegni militari per entità numerica delle forze in campo e sforzi logistici: Vietnam, Algeria, Angola, Mozambico, Afghanistan non ebbero né vinti né vincitori sul piano militare e le soluzioni trovate furono soltanto compromessi politici e formali tesi più a salvare la faccia che i risultati, pagati a caro prezzo come accadde alle due grandi potenze mondiali in Vietnam e Afghanistan che rinunciarono a battersi.
    Tarnova, invece, era considerata, da sempre, il santuario ideale e ideologico del ribellismo slavo, poiché questo altipiano, situato fra gli 800/1200 metri d'altitudine, fittamente boscoso, impraticabile, percorso da poche strade rotabili, situato in posizione strategica per controllare le valli Isonzo, Idria, Baccia, Vipacco, costituiva sin dal 1941 il cuore e il cervello del IX Korpus, così come il Circhinese rappresentava l'aspetto strategico/logistico per sconfinare in Jugoslavia, ricevere aiuti e smistarli, e la Bainsizza, così cara agli italiani per le battaglie combattute nel 1915-1918, costituiva il terreno ideale per disperdersi in situazioni d'emergenza, mescolarsi con le popolazioni locali mimetizzandosi. Da ciò l'importanza di Tarnova e la necessità di mantenerla ad ogni costo.
    Furono questi i motivi che indussero lo Sta.Fu.Ba. Kommand dell'OZAK (Comando lotta alle bande) a tentare di eliminare una volta per sempre il potenziale pericolo rappresentato dal IX Korpus, accerchiando il territorio, controllandolo da ogni parte, facendo pressioni per sospingere i partigiani in Val Vipacco, verso Aidussina, dove sussistevano condizioni ottimali orografiche, ambientali e operative per distruggerli definitivamente.
    L'operazione denominata in codice "Adler Aktion", venne assunta direttamente dal responsabile politico-militare del Reich nella regione giuliana: il Gruppenfuhrer Odilo Globocnick, il cui Stato Maggiore (Banden Kampf Stabs) elaborava un macchinoso piano partente a raggiera dal territorio interessato: Gorizia, Idria, Postumia, Sesana, Opacchiasella, Pocrai del Piro, Aidussina, Sambasso, Cernizza e, contando su circa 10.000 uomini, comprendenti 1900 tedeschi dei rgt. Polizei 10° e 15° rinforzati dal 20° Pz. Abt. e da due btr. da 75; 2400 slavi anticomunisti fra domobrani, ustascia, cetnici e 5100 italiani della Div. EM. X2' (C.E Luigi Carallo), due Cp. operative del 4° Rgt. MDT/Gorizia, una Cp. del 15° btg. Bersaglieri D.C., un Gruppo da combattimento del rgt. Alpini "Tagliamento". La Wehrmacht, di cui erano noti i dissensi politici-operativi con l'Ordnung Polizei Kommand/OZAK, avrebbe partecipato simbolicamente col btg. speciale antiguerriglia "Heine" composto di cacciatori da montagna.
    Contrapposto a tale schieramento il IX Korpus (Gen. Lado Ambozic) forte di circa 10.000 partigiani, cui si stavano aggiungendo i 2400 garibaldini della "Garibaldi/Natisone" "assegnati" da Togliatti alle dipendenze dei comandi slavi, poteva contare sulle divisioni 30" "Triglav" e 31" "Gorica" rinforzata dalla 20" brg. "Triestina", che in quel periodo si trovavano frazionate in più punti del vasto territorio a cavallo fra il Goriziano e il Gorenijsko in Slovenia.
    Il compito più impegnativo venne affidato alla Div. Xa che poteva disporre dei btg. "Barbarigo" (TV. Giulio Cencetti), "Sagittario" (TV Ugo Franchi), "Fulmine" (TV. Giuseppe Orrù), N. P. (Cap. GN Nino Buttazzoni), Genio "Freccia" (CC. Filippo D'Amato), Gruppi art. 2° "Da Giussano" (Cap. Agostino Pirri) e 3° "San Giorgio" (Cap. Renato Carnevale) oltre ai reparti divisionali tecnici e logistici/sanitari. Di rinforzo reparti del Btg. Guastatori "Valanga" (Cap. Manlio Morelli) e del Btg. "Serenissima" (CC. Ettore De Francesco). Nel contesto operativo, l'unità doveva occupare Tarnova e Loqua col "Sagittario"; Chiapovano col "Barbarigo", Slappe/Tribussa col "Fulmine". Di riserva tattica il Btg. N.P. ed elementi del "Valanga"; gli altri reparti dovevano concorrere suddivisi fra le colonne d'attacco. Inizio dell'operazione, 19 dicembre ore 06.00.
    Il piano "Adler" era macchinoso, di difficile realizzazione, legato a numerosi aspetti imponderabili comprendenti: ambiente, velocità di movimento, condizioni meteo e climatiche, coordinamenti e collegamenti considerando che interessava almeno una decina di colonne di tre etnie con problematiche diverse, distanti fra loro dagli 80/120 km., in zone orograficamente diversificate.
    Il primo giorno si ebbero soltanto alcuni movimenti con puntate esplorative di "Barbarigo", "Sagittario" e "Fulmine" senza particolari motivi di apprensione, per conoscere il dispositivo avversario. I reparti nazionalisti slavi non si mossero tempestivamente, il tempo peggiorò, la temperatura scese diversi gradi sotto lo zero.
    Da parte sua il IX Korpus si mise in allarme, considerando che la 18" brg. "Basovizza" e la 19° "Kossovel" erano state inviate da giorni nel Circhinese/Gorenijsko per controllare i movimenti cetnici. Solo la 22a brg. VDV (polizia politica/ militare) sorvegliava il vallone di Chiapovano e la Bainsizza, per appoggiare l'arrivo dal Friuli orientale della "Garibaldi/Natisone", che si stava trasferendo nel Circhinese a disposizione del IX Korpus come da indicazioni di Togliatti.
    In tale condizione e nella errata convinzione che sussistevano normali precauzioni di sicurezza, al mattino del 20 il comandante Carallo col suo aiutante TV Franco Montanari, un autista e l'ufficiale di collegamento germanico si avventurava senza scorta sulla S.P. per Chiapovano occupata dal "Barbarigo", dove la vettura veniva fatta segno a raffiche di mitra che uccidevano il CE Carallo ferendo gli altri occupanti, che reagivano portandosi al sicuro in un bosco adiacente, continuando a sparare e salvandosi da morte certa.
    Addosso a Carallo, gli slavi trovavano copia dei piano "Adler" e le disposizioni relative ai reparti italiani, notizie queste che mettevano ben presto il comando del IX Korpus nelle condizioni di conoscere l'intera operazione e di predisporre le necessarie contromisure. In tal modo sfortunato, l'operazione veniva seriamente compromessa anche per altre circostanze sfavorevoli. Il comandante Carallo veniva depredato, denudato e abbandonato sulla strada e più tardi recuperato dai marò del "Barbarigo" per onorata sepoltura.
    Con sorprendente lucidità operativa e rapida intuizione, Ambozic, utilizzando il parco automezzi del Korpus (50/60 autocarri ex R.E.) spostava velocemente la 16a "Voiko" nel settore Godovici-Hotdrsika per controllare i nazionalisti slavi; la 17a "Gregorcie" in zona aidussina per sorvegliare domobrani e Polizei; la 20" "Triestina" in Val Vipacco coi rinforzo della 18a "Soca-Basovizza" per impedire infiltrazioni e spostava la "Kossovel" per fronteggiare direttamente gli italiani sulla Bainsizza, tenendo di riserva la 3a "Gradnik" a Circhina in attesa del rientro della 7a "Preseran" dal Gorenijsko. In sei ore di movimenti furono spostati 1600 partigiani di tre brigate, destinati ad eliminare i reparti italiani che avevano occupato Tarnova, Casale Nemci, Loqua, Chiapovano, Slappe spingendosi sino a Tribussa inferiore. Un risultato che apparentemente poteva sembrare lusinghiero, ma che in realtà nascondeva un mortale pericolo se venivano isolati i battaglioni avanzati, bloccata ogni possibilità di rinforzi e rifornimenti, negata ogni eventualità di scampo alla trappola predisposta accortamente dal IX Korpus.
    Ad iniziare dal giorno 22, l'iniziativa passava nelle mani partigiane mentre il tempo peggiorava sensibilmente, nevicava e la temperatura si portava sui -10": le condizioni ideali per contrattaccare con ampie possibilità di successo.
    Il "Barbarigo", bloccato a Chiapovano e in difficile situazione operativa e logistica, doveva abbandonare la località e spostarsi su Locavizza; il "Sagittario" resisteva accanitamente a Casale Nemci dopo aver abbandonato Loqua; il "Fulmine" in valle Idria era costretto sulla difensiva a Slappe, mentre il CC. Rodolfo Scarelli vice comandante divisionale prendeva il comando della divisione Xa e diramava i primi ordini per sbloccare la grave situazione in cui si trovavano i reparti avanzati, considerando che i tedeschi inaspettatamente non si erano mossi e che bisognava cavarsela da soli.
    Il piano "Scarelli" mirava a sostenere subito il "Sagittario" a Casale Nemci, minacciando nel contempo il retro dello schieramento slavo, da Loqua e Chiapovano, attaccate dal "Barbarigo" col rinforzo degli N.P. e del gruppo artiglieria "San Giorgio". Il comandante, già valoroso sommergibilista, si poneva personalmente alla testa dei gruppo d'attacco partendo da Tarnova, riuscendo a sbloccare la situazione; contemporaneamente gli N.P. scardinavano la resistenza a Chiapovano e attaccavano alle spalle Loqua, provocando l'abbandono forzato della località con centinaia di caduti contati sul terreno. A Slappe, il "Fulmine" respingeva ogni attacco della "Gradinik", con l'appoggio determinante della 3a Cp. "volontari di Francia", un reparto di volontari arruolati nella base di Betasom, costituito da figli di emigrati italiani che avevano dato probanti manifestazioni d'italianità e di entusiasmo.
 
 
3a Compagnia "Volontari di Francia" (foto archivio C. Panzarasa)
 
  
    Nella notte di Natale la situazione era quasi completamente stabilizzata, le brigate slave si erano ritirate sconfitte lasciando centinaia di morti; pesanti anche le perdite dei marò che si ritiravano su Tarnova e Chiapovano dopo che audaci puntate offensive avevano portato all'occupazione di Carnizza, il congiungimento ad Oblase del "Sagittario" col "Fulmine" e col "Barbarigo" disceso con gli N.P. in Valle Idria, dopo aver percorso la Bainsizza e il Tarnovano senza incontrare seria resistenza.
 
 Canejan (Francia). I "Volontari di Francia" (Battaglione Longobardo) che furono aggregati al "Fulmine" come terza compagnia (foto archivio C. Panzarasa)
 
    Il primo confronto fra italiani e slavi si era concluso con un successo tattico e psicologico a favore dei marò della X", penetrati senza complessi di sorta nel territorio preteso da Tito. L'iniziale titubanza e la mancanza in controguerriglia, rispetto a quella modesta ed elementare assimilata in Piemonte/Friuli, era stata traumaticamente e rapidamente superata, contrastando l'astuzia balcanica e la proverbiale durezza dei partigiani comunisti slavi, fortemente ideologizzati, rintuzzati, con capacità, intelligenza, spirito di sacrificio e amor di Patria degli italiani, che ebbero ben presente, in quel momento, questo valore.
    All'inizio del 1945 le difficoltà climatiche, ambientali e logistiche consigliarono un più razionale schieramento nel Tarnovano con l'abbandono di posizioni periferiche difficilmente difendibili, decentrate, rese proibitive come rifornimenti e rinforzi dalle strade ghiacciate che rendevano problematici i collegamenti, favorendo, nel contempo, il colpo di mano in forze e la riconquista della supremazia psicologica da parte dei titini, patrimonio tattico della filosofia slava, ora che si stavano preparando alla rivincita antitaliana col valido aiuto degli alleati che in due settimane paracadutarono in abbondanza armi, munizioni, coperte, carburante, viveri, esplosivo, divise, medicinali, stazioni R.T.
    La Divisione Xa, oltre gli abituali e quotidiani contrasti con le autorità politiche del Reich in Venezia Giulia, che vedevano di malocchio la presenza di reparti italiani, perse parte dei suoi organici per la partenza dei N.P. e dei "Freccia" destinati al fronte sud, compensati in parte dal "Valanga" e dal "Serenissima", mentre il IX Korpus ristrutturava 6 brigate rinforzate dalla 156a "Buozzi", ritornando sulle vecchie posizioni abbandonate dai reparti italo-tedeschi sulla Bainsizza, Circhinese, Val Vipacco e Tarnovano. Soltanto Tarnova era ancora presidiata dai reparti italiani ("Barbarigo", prima, "Valanga" successivamente) e tale constatazione bruciava non poco il comando dei IX Korpus teso a riprendersi la rivincita nel diretto confronto con gli italiani.
 
 
IIa puntata
 
    A metà gennaio il "Fulmine" dava il cambio al "Valanga" e si insediava a Tarnova con 214 marò e 4 genieri dei "Freccia e 17 f.m. Breda 30, 4 mitragliatrici Breda mod. 37, una mitragliera da 20 mm. Oerlikon, 5 mortai da 45/81 mm. L’abitato, in cui permaneva ancora parte della popolazione alloglotta, venne suddiviso in settori difensivi con 12 fortini esterni (pietrame, muretti a secco, tetto in legno rinforzato con lamiere) piccoli depositi locali di munizioni, posto di medicazione e comando, centro trasmissioni, reticolari, campi minati, centri di fuoco per appoggio esterno e interno, collegamenti telefonici.
  Alla 19a "Kossovel", duramente provata nel primo ciclo operativo, il comando di Korpus affidò l'onere e l'onore di riconquistare Tarnova. Fu una scelta appropriata, considerando l'esperienza pluriennale della brigata, la sua forte politicizzazione, la volontà, dichiarata apertamente, di battere i "fascisti" italiani. Oltre un migliaio di partigiani di provata fede, bene armati e addestrati, equipaggiati e dotati di grande volontà combattiva erano pronti a distruggere i circa 200 marinai italiani che difendevano quello che consideravano territorio italiano, conquistato con grande spargimento di sangue nella prima guerra mondiale.
     Le brigate "Gradnik" e "Preseren" furono assegnate alla vigilanza delle provenienze da Gorizia, Monte Santo, San Gabriele, San Daniele, Gargaro - tutti nomi che ricordavano aspre battaglie nel 1915/18- mentre la Bainsizza, ugualmente ricorrente nelle cronache della passata guerra, era affidata alla "Basovizza", e la "Gregorio" sorvegliava la Val Vipacco da cui era possibile paventare un potenziale pericolo: uno schieramento protettivo a semicerchio il cui fulcro centrale era rappresentato dal dispositivo approntato per attaccare direttamente in forze Tarnova. Tutto lasciava prevedere che l'operazione sarebbe stata coronata dal successo per entità numerica, potenzia di fuoco impiegata, determinazione, garanzie collaterali e di supporto ampiamente disponibili.
    Con l'arrivo della prima granata di mortaio alle ore 05.40 del 19 gennaio 1945, iniziava la battaglia di Tarnova: un confronto diretto fra slavismo e italianità..
    Subito dopo il tiro di mortaio s'infittiva accompagnato da raffiche di armi automatiche pesanti e colpi precisi di controcarro da 47/32 diretti sui fortini esterni, mentre attorno a Tarnova infuriava una fitta nevicata che riduceva la visibilità a 15-220 metri, con freddo rigido e glaciale vento di Bora.
    Il fuoco di preparazione durò per almeno un paio d'ore intervallato da colpi di partop, (un lanciagranate rudimentale ma efficace) e gradualmente ma sistematicamente furono demoliti fortini, postazioni esterne, abitazioni presidiate, centri di fuoco. Il gelo aveva bloccato l'efficienza dei campi minati, i reticolati erano stati divelti, i collegamenti a filo interrotti mentre le radio lanciavano nell'etere l'allarme con codice PA.PA: "Attacco in forze a Tarnova. Occorrono rinforzi. Resistiamo. Decima".
    Fu necessario ricorrere a staffette per mantenere i contatti nell'abitato e alla periferia; ma i ragazzi venivano colpiti uno dietro l'altro da tiratori scelti e impietosamente abbattuti per le strette stradine dei villaggio. Numerosi i caduti nel primo attacco e ancor più numerosi i feriti ricoverati nel piccolo ospedale da campo.
 
 
Il Tenente Stefano Balassa, ferito a Tarnova. (foto archivio C. Panzarasa)
 
 
    Verso le ore 9.00 l'attacco diminuiva d'intensità per consentire agli assaltatori di farsi avanti per aprire la strada al grosso, pronto a sfruttare il successo. Raffiche serrate di armi automatiche, esplosioni, incendi, fumogeni e artifizi illuminanti rendevano apocalittica la situazione; poi, un fitto lancio di bombe a mano seguito da un urlo collettivo "Juris, juris, juris" segnalò il momento dell'assalto e l'occasione per i difensori di reagire efficacemente a breve distanza, colpendo con certezza il nemico avanzante controllato ora più agevolmente e razionalmente, dopo che il TV. Eleo Bini, comandante di Tarnova, aveva ricevuto notizie più certe sulla situazione e diramato gli ordini necessari a riprendere il controllo, a sfruttare più razionalmente la difesa, ad abbandonare le posizioni più esposte o indifendibili per distruzioni e morte dei difensori, concentrando il tiro delle armi automatiche sui punti obbligati di avanzata, risparmiando munizioni ma ottenendo in tale modo un irrigidimento della difesa con spaventosi vuoti fra gli attaccanti. Fu necessario utilizzare frasi dialettali o il francese per segnalare movimenti, diramare ordini, stabilire i contatti, anche a voce; Il "Fulmine" in mortale pericolo, rendeva caro ogni tentativo di farsi sopraffare dal numero e dalla potenza di fuoco dell'avversario e reagiva animosamente urlando "Decima, Decima" ogni qual volta sentiva il grido di battaglia slavo di "Juris, juris".
    La lotta si prolungò accanita e incerta per tutto il giorno 19 e parte della notte, annientando e travolgendo il 3° plotone della "Compagnia volontari di Francia" distrutto da cariche esplosive nel bunker dove si trovava, con soltanto pochi superstiti catturati e usati dagli slavi come scudi umani per far desistere dalla lotta gli altri marò. Frasi concitate e lusinghe urlate nella notte per far cessare ogni forma organizzata di resistenza pena la vita.
    Fu un momento altamente drammatico, poiché si udirono invece, chiaramente, nobili frasi d’incitamento a resistere unite a raffiche; grida soffocate, rumori di colluttazioni, spari isolati ed infine una frase angosciata che gelò il cuore dei marò: “ragazzi non abbandonateci, venite a liberarci”, una frase urlata in francese con voce rotta dall'emozione del volontario Domenico Verrando.
    Poi il rumore della sparatoria si portò nella notte il cosciente sacrificio dei sei volontari di Francia catturati a Tarnova e ritrovati dopo 48 anni fuori del piccolo cimitero di Sambasso. Furono recuperati pietosamente dai superstiti del "Fulmine" e riportati in Italia per riposare per sempre, in terra benedetta. La situazione ormai disperata, convinse Bini a fare ancora di più il possibile per salvare i superstiti, radunandoli presso l’ufficio postale, indicando loro la strada della ritirata, segnalando le difficoltà di rompere l'accerchiamento, l’impossibilità di avvisare tutti i centri di resistenza delle decisioni prese in quel drammatico rapporto ufficiale, nella gelida notte, con Tarnova in fiamme, mentre sparatorie ed esplosioni continuavano a segnalare che in altri punti si combatteva e si moriva. Gli operatori radio continuavano imperterriti a trasmettere e ricevere messaggi che annunciavano l’arrivo dei rinforzi. Era necessario percorrere, per salvarsi, un itinerario di circa 6 km. fra i boschi, in zone innevate, al di fuori di piste frequentate per scendere verso Monte Sverenze, quota 794 per arrivare a Ossegliano, San Michele e la SS. Gorizia-Aidussina.
 
 
IIIa puntata
 
    Il piano di rinforzo per liberare Tarnova dalla stretta mortale della IX Corpus venne elaborato d'urgenza fra il comando tedesco e quello della Div. Xa (operazione n. 281/45) e prevedeva l'intervento del III/10° rgt. Polizei con 2 btr. da 75/27 e 2 Cp. del "Valanga" in partenza da Sambasso per Vittuglie attaccando Tarnova da S.E.; il III/ 15° rgt. Polizei con una btr. della Xa, avrebbe agito invece da Col Grande assieme a "Barbarigo" e "Sagittario" in direzione N.E. appoggiato dalla 182a Cp. Na.Fu. (collegamenti) per i contatti fra i vari reparti assegnati all'operazione. Subito dopo l'occupazione di Tarnova, sarebbe stato costituito con le forze resesi disponibili il K. Gr. "Deluege" italo-tedesco per ripulire il Tarnovano, scendere in Valle Idria e ristabilire la situazione. L'inizio dell'operazione di soccorso venne fissato alle ore 05.00 dei 21 gennaio mentre da Tarnova continuavano a pervenire messaggio radio che confermavano la resistenza di alcuni centri di fuoco isolati e la drammatica situazione in atto.
    Lo sganciamento del gruppo "Bini " dopo una sparatoria disordinata avvenne senza particolari ulteriori motivi di apprensione, ad eccezione di alcune residue sparatorie sull'itinerario di ritirata.
    Alle spalle Tarnova bruciava e i bagliori degli incendi conferivano a quella notte da tregenda il necessario clima di drammaticità su quello spaventoso scenario di morte e di speranze.
    All'alba, il "Barbarigo" occupava di forza il San Gabriele sbaragliando la "Preseran" e perdendo alcuni marò fra cui il GM. Piccoli; il "Sagittario" conquistava di slancio il San Daniele impedendo ulteriori manovre offensive contro il "Fulmine" in ritirata, che, alle prime ore del giorno 21 stabiliva i contatti col "Valanga". Da Trieste giunse autocarrato il Btg. Confinario MDT rinforzato da due Cp. del 4° rgt. MDT-, i tedeschi inviarono di rinforzo una sezione carri, mentre si muoveva la controbanda "Tonini" del rgt. Alpini "Tagliamento" per provocare pericoli potenziali in territorio partigiano, si mobilitavano d'urgenza i bersaglieri del Btg. "Mussolini" in Valle Baccia e gli alpini del "Tagliamento" per ostacolare l'afflusso della "Garibaldi/Natisone" diretta verso il IX Korpus; vigilavano in Valle Isonzo i fucilieri del 14° Btg. D.C. e si muoveva il Btg. Gebirgejager "Heine " in valle Idria, intenzionati tutti ad allertare i partigiani titini con concrete minacce di distruzione e di accerchiamento.
    Nella notte sul 20/21 gennaio, la "Kossovel" era riuscita a penetrare a Tarnova in fiamme e abbandonata, ostacolata ancora da residui gruppi di resistenza al comando dei G.M. Stefano Balassa, Antonio Minervin e dal nucleo mitraglieri del Serg. Lionello Lucci intenzionati a farsi distruggere piuttosto che cedere. Poi, mentre continuavano le sparatorie ebbe inizio la strage secondo le disumane consuetudini dei partigiani slavi: furono uccisi subito, spietatamente, tutti i feriti trovati nel posto di medicazione (si suicidò il GM. Roberto Valbusa); alcuni furono trucidati a freddo da italiani come il G.M. Giulio Marzo; furono uccisi ugualmente sui loro apparati i genieri radiotelegrafisti del "Freccia" ad eccezione del sottocapo RT Gizzo, gravemente ferito alla testa, privo di conoscenza e creduto morto; furono trucidati successivamente a raffiche di mitra tutti i prigionieri rimasti indenni; fu saccheggiato il residuo materiale del "Fulmine" e fu durante questa operazione di predoneria, che giunsero improvvisamente a Tarnova le prime avanguardie del "Valanga", costringendo alla fuga coloro che si erano attardati, gran parte dei quali morirono uscendo dall'abitato sotto il violento tiro di sbarramento di cannoni e mortai. Furono liberati finalmente i nuclei di resistenza dopo 56 ore di assedio e soccorsi i pochi feriti trovati abbandonati sul terreno. Il IX Korpus non aveva potuto assaporare pienamente il piacere della vittoria, perché costretto alla fuga, raggiunto e nuovamente attaccato a Raunizza, Sadove, Zagorje, Cima Nera, Bale, Zabdro, Banjsic e sulla Bainsizza. 
    Non diede più, da quel giorno, segni evidenti di concreto pericolo sino al termine del conflitto. Le gravi perdite subite, di cui segno eloquente è oggi il grande Memorial di Tarnova, con la lettura delle migliaia di nomi incisi nel marmo e le date della morte, indicano in che elevata misura furono i caduti nella duplice battaglie di Tarnova. Una battaglia tradizionale e convenzionale combattuta al di fuori della filosofia partigiana e forse per questo più evidenziata fra vinti e vincitori. Da parte italiana si registrarono oltre 200 caduti e non meno di 150 feriti fra il dicembre 1944 e il gennaio 1945. Il solo "Fulmine" a Tarnova, ebbe 86 morti, 52 feriti gravi, 46 feriti leggeri, 8 dispersi, su un organico di 214 marò; l'82% degli effettivi.
    Sono stato alcuni anni fa a Tarnova a visitare il Memorial partigiano del IX Korpus, con migliaia di nomi dell'etnia slava incisi nel marmo rosso. Un grande sacrificio offerto a nome di una efferata ideologia ormai scomparsa e ripudiata per gran parte del genere umano. Alcuno targhe riportano nel Memorial frasi inneggianti alla vittoria sui "fascisti" italiani. Non fu una vittoria, almeno nel senso letterario della parola, poiché quei caduti non erano "fascisti" ma soltanto italiani che combattevano per la loro Patria, alla difesa dei suoi confini orientali costati all’etnia italiana 600 mila caduti nella prima guerra mondiale.
 
 
Trieste. Commilitoni e cittadinanza rendono omaggio ai Caduti della battaglia di Tarnova della Selva nel 51° anniversario. La corona di fiori viene portata da due Soldatesse del Servizio Ausiliario Femminile della Repubblica Sociale (SAF).
 
 
    Nessuna targa ricorda ancora oggi, il sacrificio di tutti quei ragazzi che difesero i confini orientali d'Italia e le migliaia di altri italiani uccisi a fine guerra per non rinnegare la loro etnia, le loro origini, le loro radici; l'opinione pubblica si mobilita per costituire comitati pro Sarajevo o piange i morti di Goradze uccisi dai serbi. E i morti italiani?
 
 
NUOVO FRONTE N. 160-161 Gennaio 1996, 162 Febbraio 1996, 163 Marzo1996. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
 

 
 
 

LA BATTAGLIA DI TARNOVA
Marino Perissinotto
 
 
    Tarnova della Selva (Trnovo) è un paesino dell'attuale Slovenia posto al centro dell'altipiano omonimo, a cavallo della strada che da Gorizia, passando fra i monti San Michele e San Gabriele ed il Monte Santo, arriva alla stazione turistica invernale di Loqua (Lokva).
    La conformazione dell'intero altipiano, deserto ad eccezione di qualche paesino isolato, dal rilievo accidentato e ricoperto d'una boscaglia fitta, solcato da poche strade ancor oggi malamente percorribili, lo rende ben adatto ad ospitare formazioni guerrigliere. 
 
  Tarnova della Selva: parte dell'abitato (foto archivio C. Panzarasa)
    Durante le fasi finali della seconda guerra mondiale fu, con l'attiguo Altopiano della Bainsizza, un "santuario" per le formazioni partigiane dell'Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo. Per la posizione dominante la piana goriziana costituì anche un'ottima base di partenza per operazioni a vasto raggio verso la pianura sottostante. 
    Alla fine del 1944 il comando tedesco, conscio del rafforzarsi della presenza partigiana sopra Gorizia, intraprese un'operazione offensiva, l'Adler Aktion, allo scopo d'accerchiare ed eliminare le unità slave degli altipiani. 
    Oltre a truppe tedesche ed ai vari reparti slavi filo-tedeschi, un ruolo di primo piano fu assegnato ai battaglioni italiani di fanteria di marina della Decima MAS presenti in Gorizia: Sagittario, Barbarigo, Lupo, parte dei battaglioni Nuotatori Paracadutisti, Serenissima, guastatori Valanga, genio Freccia, ed i gruppi d'artiglieria San Giorgio ed Alberico da Giussano. L'Adler Aktion ottenne un risultato solo parziale: non allontanò le formazioni partigiane dal tarnovano, ma ne rese difficoltosi i collegamenti. Nei primi giorni del gennaio 1945 si costituirono dei presidi per acquisire un maggiore controllo del "santuario". Tarnova fu il più interno ed isolato di questi; lo presidiarono i marò della Decima. Durante l'Adler Aktion, il 21 dicembre 1944, il Sagittario raggiunse il paese e lo tenne sino all'inizio di gennaio. Vennero a rimpiazzarlo la prima compagnia del Valanga, ed una batteria d'obici da 75/13 del San Giorgio; in totale, circa 200 uomini. Dal paesetto s'irradiarono continuamente pattuglie per simulare la presenza d'un ben maggiore contingente di difensori. 
    Il 7 gennaio, in seguito alla segnalazione d'un possibile attacco, vi s'aggiunse anche il Barbarigo. L'azione, prevista per il giorno successivo, non avvenne, pure se le pattuglie riscontrarono un'accresciuta attività avversaria a testimonianza della preparazione d'operazioni militari di rilievo. Il Barbarigo fece quindi ritorno a Gorizia. 
    Il 9 gennaio gli uomini del Valanga e del San Giorgio vennero a loro volta sostituiti da quelli del battaglione Fulmine. Il IX Corpus, responsabile di quel settore per l'Esercito Popolare di Liberazione iugoslavo, scortane l'opportunità decise d'intraprendere un'operazione destinata ad annientare il presidio, circondandolo ed assalendolo dopo avere disposto sue unità ad ogni via d'accesso per i possibili rinforzi. 
    La 19a brigata slovena di liberazione nazionale "Srechko Kosovel" (suo comandante era Tone Bavec-Cene, e commissario Edo Klemencic) venne incaricata d'assalire Tarnova. 
    Per questo ebbe in rinforzo una compagnia d'assalto, accrescendo inoltre la sua dotazione d'armi d'accompagnamento sino ad avere quattro cannoni, due fucili anticarro, due mortai pesanti e tre lanciamine partrop. 
    I marò avevano allestito nel paese, compatibilmente con le risorse disponibili ed il clima rigidissimo, delle opere difensive. 
    Attorno all'abitato si stendeva una cerchia esterna di postazioni protette, basata su dodici capisaldi appoggiati da buche e protetti da qualche barriera di filo spinato e da rade mine antiuomo.  
    Alcune case erano state poi trasformate, sempre con mezzi di fortuna, in capisaldi.
    L'equipaggiamento delle due forze contendenti era inadatto al clima. I marò della Decima indossavano la divisa di panno, e cercavano di difendersi dal freddo con le tute mimetiche policrome od i pastrani grigioverdi che li facevano risaltare sul bianco del terreno innevato. Molti alzavano sin sopra il capo il collo di lana del maglione a mo' di passamontagna. 
    La brigata Kosovel nel tardo pomeriggio del 18 gennaio, con una temperatura di dieci gradi sotto lo zero, lasciò Otlica ed attraverso Mala Strana a notte fonda giunse attorno a Tarnova. Questo fu il piano operativo slavo. 
    Al 1° battaglione, comandato da Anrej Renar sarebbe spettato il compito più gravoso. Dopo essersi diviso in due colonne, si sarebbe disposto a nord est dell'abitato, laddove i boschi più vicini alle prime abitazioni fornivano una migliore copertura. Da qui, la prima colonna avrebbe attaccato seguendo la strada proveniente da Casali Nemci, la seconda quella che scendeva da Rijavci. Il battaglione avrebbe dovuto conquistare i bunker 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8; per questo ottenne due cannoni da 47/32 e due da 20 mm, mortai da 81, due Partrop ed un PIAT. Le armi d'appoggio, grazie allo schermo dato dalla vegetazione e dalla foschia, furono appostate a circa 300 metri dalla linea difensiva italiana. Il 2° battaglione avrebbe attaccato da sud, avendo quali primi obbiettivi i bunker 9, 10 ed 11. Avrebbe assieme impedito eventuali tentativi di sganciamento italiani verso Gorizia. Il 3° battaglione sarebbe rimasto di riserva nei boschi a nord ovest del paese; solo un suo plotone sarebbe entrato subito in azione eliminando il bunker n. 1, costruito in posizione isolata presso quota 813. 
    Da parte italiana, la prima compagnia difendeva il settore nord dell'abitato, la seconda quello sud, e la terza "Volontari di Francia" quello occidentale. 
    Le forze partigiane presero posizione attorno a Tarnova mentre sul paese soffiava un vento freddo, che però non riusciva a spazzare dagli avvallamenti del terreno una caligine fastidiosa. Alle 5. 50 del mattino le armi della brigata Kossovel aprirono il fuoco sulle postazioni italiane; contemporaneamente i suoi elementi d'assalto mossero in avanti. La reazione italiana, pronta e decisa, fermò il primo assalto. Il proiettile d'un mortaio Brixia da 45 mm della prima compagnia del Fulmine, esploso a ridosso delle postazioni per le armi d'appoggio del primo battaglione slavo, raggiunse un deposito d'esplosivo, uccidendo o ferendo parte dei serventi. 
    Gli assaltatori scoprirono sorpresi che il tiro italiano giungeva anche da una serie di postazioni minori vicine ai bunker, che i loro informatori non avevano rilevato.
 
 
 
Tarnova della Selva, gennaio 1945: Un mitragliere punta il suo Breda 30 contro i boschi da cui verrà l'attacco del 1° battaglione della brigata Kossovel. Il riparo improvvisato con pietrame a secco offre protezione solo dai proiettili di piccolo calibro (foto archivio C. Panzarasa) 
 
 
    Le forze partigiane si lanciarono in un secondo assalto, che non ebbe migliore sorte del primo. 
    La reazione italiana consentì al Fulmine di riprendere possesso di qualche posizione temporaneamente abbandonata. Si cominciò a capire la portata dell'azione avversaria, rilevandone altresì la direttrice principale d'assalto a nord - est, da dove giungeva il maggiore volume di fuoco. 
    Alle 7. 00 del mattino, quando la prima luce consentì di regolare il tiro con precisione, i cannoni slavi aggiunsero i loro proiettili a quelli delle armi leggere. 
    L'accresciuto fuoco d'appoggio permise agli assalitori di portarsi nuovamente in avanti, conseguendo i primi successi. 
    Fu espugnato un bunker sul lato nord e quindi caddero anche il n° 6 ed il n° 7. 
    Gli italiani si ritirarono nelle case vicine, da dove continuarono il combattimento bloccando il progresso degli attaccanti. In quella fase dello scontro, la seconda compagnia subì la perdita di due dei suoi ufficiali. Alle sette fu mortalmente ferito il comandante G. M. Giovagnorio e poco più tardi una pallottola raggiunse il G. M. Giombini all'interno della stanza al primo piano, nella casa caposaldo ove stava combattendo. 
    Alle 11.30, il nucleo d'operatori radio del Battaglione Freccia distaccato presso il Fulmine riuscì a collegarsi col comando di divisione a Gorizia, e ad informarlo della situazione in atto, chiedendo soccorsi. 
    Nel frattempo, dalle postazioni partigiane continuò incessante il tiro delle armi individuali, dei lanciarazzi e dei cannoni sugli italiani. 
    Nel pomeriggio giunse un altro successo per gli uomini del 1° battaglione della Kossovel: il bunker n° 5 fu smantellato dai tiri d'un PIAT, ed espugnato. Verso le 15. 00 da parte italiana si riscontrò un calo d'intensità nel fuoco nemico. 
    L'artiglieria avversaria era infatti ridotta quasi al silenzio: i due cannoni automatici cal. 20 ed uno dei pezzi da 47 s'erano guastati in modo irreparabile, l'altro superstite aveva ancora pochi colpi a disposizione. Le forze slave disponevano in ogni modo delle armi rivelatesi più efficaci contro i bunker ed i capisaldi del Fulmine: i PIAT, i Partrop ed i mortai. La sera portò una fitta nebbia; iniziò a cadere la neve. Le forze partigiane sospesero gli attacchi, ma continuarono l'accerchiamento dell'abitato e le azioni di disturbo. Alle 21. 00 una pattuglia di tre marò del Fulmine, uscita per eliminare un centro di fuoco nemico contando su un rilassamento della guardia avversaria, fu subito individuata e bloccata dall'intenso tiro avversario. 
    Il Fulmine nel primo giorno contò dodici morti (due ufficiali e dieci fra sottufficiali e marò), e due ufficiali e ventitré tra graduati e marinai feriti.
    Ad essere investite dall'azione della brigata Kossovel furono soprattutto la prima e seconda compagnia, mentre la terza "Volontari di Francia" subì il tiro continuo e sporadiche azioni di disturbo avversarie. 
    La situazione al chiudersi della prima giornata di combattimenti era in sostanziale parità. Il sistema difensivo del Fulmine, nonostante la conquista d'alcune postazioni esterne italiane, era ancora efficiente ed i marò non davano alcun segno di cedimento. Gli assediati cominciavano però a scarseggiare di munizioni, e da parecchi giorni non ricevevano viveri. 
    La notte iniziò a trascorrere fra un continuo lancio di razzi e segnali luminosi da parte slava. 
    Nel cuore della notte il Fulmine, nonostante queste misure di sicurezza, contrattaccò e respinse dal bordo orientale del perimetro le punte avanzate degli assedianti, riprendendo il controllo dei bunker n° 6 e 7. 
    L'improvvisa azione italiana scatenò alle 04. 30 un altro attacco del 1° battaglione Kosovel. Dopo due ore, alle 6. 30 del 20 gennaio il bunker 6 cadde nuovamente in mani partigiane e fu distrutto. Poco dopo, anche il n° 7 venne smantellato; gli assaltatori slavi riuscirono ad impossessarsi anche delle case vicine. 
    La breccia nelle linee esterne determinò l'inizio della crisi per gli italiani. 
    Più tardi nella mattinata anche i bunker n° 3 e 4 furono presi dagli attaccanti. 
    La loro perdita costrinse il Fulmine ad arretrare la linea difensiva settentrionale sino all'abitato. Da parte slava si vide prossimo il tracollo dei difensori, e si pensò fosse giunto il momento dello sforzo finale. Il 3° battaglione, di riserva nel bosco a nord-ovest di Tarnova, ricevette l'ordine d'attacco. 
    Il comando partigiano aveva sottovalutato la caparbietà dei marò: un intenso fuoco dalle case ai margini occidentali del paese riuscì una volta di più ad infrangere lo slancio degli slavi. Giunse intanto il pomeriggio del 20 gennaio. Il comando partigiano decise di mandare avanti anche il 2° battaglione. L'intera linea difensiva fu quindi investita da assalti tesi ad aggirare le postazioni, ad infiltrarsi fra abitazione ed abitazione, ad isolare i nuclei di resistenza, a sopraffarli con l'uso d'esplosivo. 
    Al crepuscolo il 2° battaglione riuscì a catturare il bunker n. 11, ma il fuoco dei "Volontari di Francia" dalle case a sud dell'abitato gli impedì di progredire nell'assalto. 
    Calò la sera: il 1° battaglione iugoslavo attaccò da est, sul fianco sinistro, il settore della terza compagnia. 
    Riuscì a conquistare i bunker 8 e 9, i cui difensori si rinserrarono nell'osteria del paese. 
    Alle 20. 00 il grosso dei superstiti s'era asserragliato in quattro case al centro del paese. Poi queste furono incendiate dal tiro nemico, ed i difensori ripiegarono su altre costruzioni. 
    Il comandante Bini a questo punto si trovò costretto ad una decisione. Il mancato arrivo dei rinforzi, l'esaurirsi delle munizioni, il progressivo avanzare degli slavi, la disgregazione delle linee difensive, ed infine l'autorizzazione a ritirarsi preventivamente trasmessa via radio dal Comando di Divisione, lo convinsero ad ordinare la ritirata dal paese per salvare i superstiti del battaglione. La decisione comportò un alto prezzo: l'abbandono dei feriti gravi. 
    Gli uomini, sguarnendo le postazioni, si sarebbero raggruppati presso il Comando di Battaglione ed avrebbero cercato di sfondare l'accerchiamento, dirigendosi verso Gorizia. Così alle ore 20.00 cominciò ad essere diramato l'ordine di rendere inutilizzabili le armi pesanti e di concentrarsi entro le 24.00 al comando di battaglione. La comunicazione di questa disposizione avvenne in ogni caso in modo fortunoso, poichè l'unico mezzo rimasto erano le staffette che sgusciavano fra gli attaccanti.
    Alcune postazioni ricevettero la disposizione solo attorno alle 23.30. Ad altre non riuscì a pervenire. 
    Il combattimento si concentrò nella parte meridionale dell'abitato, dove ancora resistevano due bunker ed alcune case. Gli italiani, asserragliati nelle abitazioni, esaurite munizioni e bombe a mano usavano dell'esplosivo per improvvisare ordigni con cui resistere alla pressione nemica. Di quando in quando il fuoco cessava ed arrivavano degli inviti alla resa. 
    Verso le 23 alle voci dei partigiani s'aggiunse anche quella d'un marò catturato, Lucon. Le sue esortazioni dirette al comandante Bini scossero quanti ebbero l'occasione di sentirne la voce. Intanto, lentamente, l'avanzata slava progredì. 
    Il 2° battaglione espugnò il bunker n° 12, e verso mezzanotte cadde l'ultima postazione, la n° 10. Resistevano quattro capisaldi: uno era il comando di battaglione, dove s'era adunato il grosso dei superstiti. 
    Alle 2. 30 del 21 gennaio la colonna del Fulmine mosse verso ovest. Gli uomini s'erano improvvisati delle tute mimetiche con le lenzuola trovate nelle case. 
    Per aprirsi la strada verso sud - ovest, i marò dovettero annientare a colpi di bombe a mano (sei Balilla italiane legate attorno ad una M24 tedesca) uno dei bunker, in cui s'erano insediati dei partigiani con una mitragliatrice MG 42. Assolsero il compito gli uomini della 3a compagnia. Un gruppo in ritirata, al comando dell'aiutante maggiore in 2a T. C. Stefano Balassa, venne individuato e posto sotto tiro da parte dei nemici. 
    Costretti a ripiegare, i marò tornarono verso il paese e si trincerarono in una casa. 
    Vicino a loro, chiusi in un'altra abitazione, resistevano alcuni superstiti della 2a compagnia agli ordini del G. M. Minervini. Già circondati ed isolati quando fu impartito l'ordine di ripiegamento, non lo ricevettero e continuarono quindi a resistere ad oltranza. 
    I reparti partigiani si resero conto d'essere padroni del paese. Posti dei reparti attorno agli ultimi nuclei di resistenza, gli uomini della Kossovel saccheggiarono il paese, e si ritirarono senza tentare d'inseguire la colonna in ritirata. Entrarono nell'infermeria, improvvisata all'interno d'una abitazione e presero ad ammazzare i feriti. Qualcuno fra di loro si salvò perchè riuscì a nascondersi, o fu creduto morto. 
    I partigiani uccisero anche alcuni abitanti del paese, ed incendiarono delle case. 
    Qualcuno, fra gli italiani, al precipitare della situazione s'era suicidato per non cadere in mano nemica: fu il caso del G. M. Roberto Valbusa della III Compagnia. 
    Alle 6. 30 del mattino successivo la colonna del Fulmine in ritirata, composta in tutto da 83 uomini, giunse a contatto con reparti tedeschi. 
    Poco dopo, un autocarro del Comando Divisione raccolse i superstiti del battaglione, riportandoli a Gorizia. 
    Quasi contemporaneamente, il gruppo di combattimento tedesco Metz proveniente da Sambasso (Sempas) raggiunse Tarnova. Il paese era stato abbandonato in fretta dai partigiani. 
    I capisaldi dei G. M. Minervini e Balassa (in tutto 48 uomini) avevano combattuto tutta la notte senza arrendersi, e stavano ancora resistendo. Nella notte avevano avuto 5 feriti gravi ed 8 leggeri. I soccorritori germanici trovarono la casa caposaldo del G. M. Minervini minata, per essere fatta esplodere coi suoi difensori piuttosto che cadere nelle mani degli slavi. Furono rinvenuti, allineati nella strada verso Gargaro, anche i corpi di quelli che erano caduti nelle mani partigiane. La battaglia di Tarnova finì così. Il Fulmine ebbe 50 morti e 42 feriti. Gli attaccanti della brigata Kossovel dichiararono d'avere avuto 33 morti e 71 feriti. La battaglia di Tarnova può motivare interpretazioni e valutazioni differenti, soprattutto qualora la si veda quale fatto a se stante. 
 
 
 
Conegliano (Treviso), 14 Febbraio 1945. Le salme dei Caduti del "Fulmine" nella battaglia di Tarnova ordinate all'interno del Duomo per le esequie (foto archivio C. Panzarasa) 
 
 
    L'iniziativa iugoslava non fu un episodio isolato; quando se ne presentò l'occasione, come a Chiapovano, a Casale Nemci ed a Tribussa, le forze partigiane cercarono d'accerchiare ed annientare i reparti avversari, ottenendo col rapido ridispiegamento la superiorità tattica. Nessuno di questi fatti d'arme conseguì il risultato voluto, permettendo al IX Corpus di riguadagnare il controllo totale del suo "santuario". La battaglia di Tarnova fu uno scontro particolarmente sanguinoso per la determinazione ed il coraggio con cui assalitori e difensori si confrontarono. 
    Valgano a riguardo le parole d'uno storico partigiano: "Si è in genere dell`opinione che gli Italiani come soldati fossero meno validi dei Tedeschi. In questo caso ciò non corrisponde al vero. In quei due giorni di combattimento i fascisti italiani a Trnovo (Tarnova della Selva) mostrarono una forte tenacia. " Stanko Petelin. 
 
 
BIBLIOGRAFIA:
 
BATTAGLIONE FULMINE - Xa FLOTTIGLIA MAS, a cura di Maurizio Gamberini e Riccardo Maculan, Editrice lo Scarabeo, Bologna 1994
BERSAGLIERI IN VENEZIA GIULIA 1943 - 1945, di Teodoro Francesconi, Ed. Del Baccia, Alessandria 1987
DECIMA MARINAI! DECIMA COMANDANTE!, di Guido Bonvicini, ed. Mursia, Milano, 1988
GLI ULTIMI IN GRIGIOVERDE - vol. II, di Giorgio Pisanò, ed. CEN, Roma
GORIZIA 1940 - 1947, di Teodoro Francesconi, Ed. dell'Uomo Libero, Milano 1990
NEL RICORDO DEL BATTAGLIONE FULMINE, a cura di Carlo A. Panzarasa ed Emilio Maluta, pro manuscripto, 1994
SOLI CONTRO TUTTI, di Nino Arena, ed. Ultima Crociata, Rimini 1993
ZADNIE URE BATALJONA "FULMINE", di Stanko Petelin, s. i. d. 
Notiziario dell'Associazione ex Combattenti Decima Flottiglia MAS n°8 - dicembre 1992. 
 
 
NOTE:
 
1) La Decima MAS aveva formalmente costituito nell'aprile del 1944 una divisione di fanteria di marina, la Divisione Decima, su due reggimenti di fanteria, uno d'artiglieria ed un battaglione genio. 
L'ordine di battaglia fu il seguente:
-Comando Divisione Decima
-Primo Reggimento Fanteria di Marina
    battaglione f. m. Barbarigo
    battaglione f. m. Nuotatori Paracadutisti
    battaglione f. m. Lupo
-Secondo Reggimento Fanteria di marina
    battaglione f. m. Sagittario
    battaglione f. m. Fulmine
    battaglione f. m. Valanga
-Terzo Reggimento Artiglieria
    gruppo artiglieria da montagna San Giorgio
    gruppo artiglieria da campagna Alberico da Giussano
    gruppo artiglieria da campagna Bartolomeo Colleoni
    battaglione genio Freccia
La Divisione non venne mai impiegata al completo; le operazioni nel goriziano rappresentarono il massimo suo impegno operativo. Non vi parteciparono il battaglione Lupo ed il gruppo Colleoni, in partenza per il fronte sud; due compagnie del Valanga, impegnate in altro settore; due dei Nuotatori Paracadutisti, in addestramento. Il Freccia, il cui compito primario era quello dei collegamenti, venne impiegato suddiviso in squadre, assegnandolo alle varie unità operanti. 
 
2) Il comando tedesco in questo ciclo operativo assegnò la maggior parte dei compiti rischiosi alla Decima, riservando alle varie unità slave filo tedesche ruoli con minore rischio. 
Peraltro, mentre gli italiani attuarono le disposizioni avute, lo stesso non avvenne per i vari cetnici, domobranzi ed ustascia. 
 
3) Il battaglione Fulmine si articolava in: - compagnia comando
    - 1a compagnia, su tre plotoni fucilieri; oltre alle armi individuali erano in dotazione fucili mitragliatori Breda 30, 4 mitragliatrici Breda 37, 4 mortai Brixia da 45 mm. 
    - 2a compagnia, su tre plotoni; oltre alle armi individuali erano in dotazione 2 fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37, 2 fucili anticarro Solothurn da 20 mm, 4 mortai Brixia da 45 mm, 3 mortai Cemsa da 81 mm
    - 3a compagnia "Volontari di Francia", formata da volontari figli di italiani emigrati oltralpe; fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37, mortai Brixia da 45 mm. 
L'organico totale assommava a 214 uomini; comandante ad interim era il t. v. Eleo Bini, essendo il comandante effettivo Giuseppe Orrù ricoverato in ospedale per alcune ferite riportate in combattimento. L'età dei volontari era mediamente inferiore ai vent'anni, ma non mancavano tra di loro dei veterani. L'armamento individuale era composto principalmente da mitra Beretta MAB 38, da fucili 91 e da pistole Beretta mod. 34, ma non mancavano altre armi catturate o ricuperate. 
Non tutte le armi d'accompagnamento in dotazione al battaglione vennero portate a Tarnova. 
La forza delle compagnie a Tarnova era la seguente:
    1a compagnia       tot.   71
    2a compagnia       tot.   61
    3a compagnia       tot.   82    
                                tot. 214
 
4) Nelle operazioni di supporto alla brigata "Kosovel" vennero impiegate:
30a divisione jugoslava:
    17a SNOB (brigata slovena di liberazione nazionale) "Simon Gregorcic"
    18a SNOUB (brigata d'assalto slovena di liberazione nazionale) "Basovitzka” divisione italiana "Garibaldi Natisone"
    156a brigata Bruno Buozzi
    157a brigata Guido Piccoli
    20a brigata Triestina
31a divisione:
    3a SNOUB (brigata d'assalto slovena di liberazione nazionale) "Ivan Gradnik"2° btg. 
    7a SNOUB (brigata d'assalto slovena di liberazione nazionale) "France Preseren"
 
5) Uno degli aspetti controversi nella battaglia di Tarnova è la consistenza delle forze partigiane in campo. Le relazioni d'epoca del Fulmine parlano di un numero d'assalitori variabile da 1. 500 a 2. 500. La storiografia iugoslava parla di soli 356 attaccanti. Fra gli estremi, si ritiene verosimile la stima data prima dal Capitano di Corvetta Rodolfo Scarelli e ripresa poi da Nino Arena in "Soli contro tutti" d'un migliaio d'assalitori, il che darebbe ad ogni battaglione un organico di circa 300 uomini e porterebbe il rapporto tra difensori ed attaccanti in uno a cinque. Giova ricordare che nell'arte militare un attacco viene considerato come destinato al successo quando la proporzione fra assalitori e difensori è di uno a tre. 
 
6) Queste postazioni vengono definite bunker da entrambi i contendenti. In realtà, come mostrano le foto, si trattava di ricoveri alzati con muratura e secco, tronchi e sacchi di sabbia, col tetto di lamiera ed assi. In grado di fornire riparo al tiro di fucileria, questi ripari non resistevano alle cariche esplosive, carenza questa importante per la sorte di Tarnova. 
 
7) La numerazione dei bunker è desunta dal resoconto iugoslavo dei combattimenti, e risale alle informazioni sulla difesa di Tarnova allora a disposizione della brigata Kossovel. Secondo fonti italiane, i bunker erano solo cinque. Dato l'uso estensivo del termine bunker, descritto nella nota precedente, qui si devono intendere anche come posizioni protette. 
 
8) Il Partrop era un'arma di concezione partigiana basata sui lanciarazzi portatili tedeschi. Il proiettile sferico carico d'esplosivo, del diametro di circa 40 - 50 cm, raggiungeva la distanza di 150 - 200 metri. 
 
9) Proiector Infantry Anti Tank: arma controcarro inglese, in cui il proiettile era lanciato contro il bersaglio da una molla. 
 
10) La ricostruzione slava degli eventi fissa l'inizio delle operazioni alle 03. 30; le fonti italiane alle 5. 50, salvo una che parla delle 4. 00. Per la nostra ricostruzione ci valiamo delle indicazioni fornite da Giovanni Piagentini, della 2a compagnia. 
 
11) Probabilmente il bunker n° 1, il più isolato del sistema difensivo. La conquista avvenne ad opera di un plotone del terzo battaglione iugoslavo. 
 
12) Si trattava di quattro operatori. Nelle fasi finali del combattimento continuarono il loro compito sino al sopraggiungere degli slavi nella casa da loro occupata. Quindi si trattennero per distruggere gli apparati ed i codici, venendo infine catturati ed immediatamente passati per le armi. Il loro comandante, s. c. Rizzo, sopravvisse pure se colpito da un colpo di pistola al capo. 
 
13) Le operazioni di soccorso al Fulmine presero il via nel pomeriggio del 19; la principale di esse, cui partecipavano tutti i reparti della Decima, partì da Gorizia nella serata. Il dispositivo di sicurezza partigiano collocato attorno all'altipiano bloccò comunque il progresso delle colonne sino al mattino del 21, dopo che una serie di attacchi italiani ebbe eliminato i capisaldi avversari. Sul ritardo dei soccorsi influì anche l'atteggiamento del comando tedesco, che autorizzò l'intervento solo dopo una giornata di combattimento. 
 
14) Più che a combattere sembriamo decisi a morire perchè ci sentiamo i soldati dell'onore. Vogliamo dimostrare ai paesi d'oltre Alpe che hanno detto: "Gli italiani non sanno combattere" che si sono sbagliati di gran lunga. Questo ha scritto un marò della II compagnia. La mancanza di munizionamento fu il fattore determinante anche nel combattimento di Chiapovano, dove protagonista fu il Barbarigo. Attaccato da forze preponderanti il 24 dicembre 1944, seppe contenerne la spinta ma fu costretto al ripiegamento con perdite lievissime per l'esaurirsi delle scorte di munizioni. 
 
15) La mancanza di munizionamento fu il fattore determinante anche nel combattimento di Chiapovano, dove protagonista fu il Barbarigo. Attaccato da forze preponderanti il 24 Dicembre 1944, seppe contenerne la spinta ma fu costretto al ripiegamento con perdite lievissime per l'esaurimento delle scorte di munizioni.
 
16) A fare queste proposte erano anche degli italiani combattenti con gli slavi. Ad un di essi fu risposto in buon toscano da un marò della 2a compagnia: "Tu se' di Pisa? O dimmi dove si è fatta sbattere la tu' mamma per mettere al mondo un bastardo come te?". Le proposte di resa partigiane ricevevano dalla stessa voce l'immancabile risposta: "Venite avanti, figli di puttana!". 
 
17) Secondo la relazione slava, il bottino fu d'un mortaio da 81, due mortai Brixia, una mitragliatrice Breda 37, tre fucili mitragliatori Breda 30, tre mitra, ventiquattro fucili, quattro pistole, una stazione radio, un camion. 
 
18) Il S. C. Dante Mantini della 2a Compagnia, ricoverato in infermeria per una scheggia che l'aveva colpito al ginocchio, si salvò calandosi con l'aiuto d'un altro ferito dentro un cassone pieno di patate. 
 
19) Roberto Valbusa, comandante del plotone mitraglieri della 3a Compagnia, rimase volontariamente nell'abitato con otto marò, per coprire combattendo il ripiegamento della colonna. Quando stavano a loro volta per sganciarsi, furono circondati dalle forze slave. Dalla colonna si udirono le invocazioni d'aiuto in lingua francese d'uno dei marò, Domenico Verrando. La sua voce si spense bruscamente, strozzata. I corpi degli otto marò non furono mai ritrovati. L'ufficiale, che aveva già combattuto nei Balcani con il Regio Esercito, quando capì di non avere più speranza si uccise con la sua pistola per non cadere vivo nelle mani dello spietato nemico. 
 
20) Fra i feriti ci fu anche il marò Benito Lorenzi, che come calciatore dell'Inter si guadagnò il soprannome di Veleno. 
 
 
STORIA DEL XX SECOLO N. 20. Gennaio 1997. C.D.L. edizioni srl.

 
CANZONE DEL BATTAGLIONE FULMINE
 
Santa Gorizia le campane scioglie
e suona a gloria a darci il suo saluto
le donne ci sorridon dalle soglie
come chi trova un dolce amor perduto.
 
Ma i migliori di noi non son tornati
li abbiam sepolti in una fredda sera
sotto Tarnova, e dormono placati
nel sogno, avvolti dalla lor Bandiera.
 
FULMINE! Scatto, travolto e vinco...
 
Ove sei marinaio che l'orrore
di una resa infamante tu deridi
e respingi la vita oltre l'Onore
gridando "ITALIA, DECIMA!" e t'uccidi?
 
La vita è senza peso. Pura, eccelsa
la Patria è fiamma al nostro invitto Amore.
Vale solo la spada, se con l'elsa
la mano chiusa, sa impugnare il cuore.
 
FULMINE! Scatto, travolto e vinco..
                                                                                                                                         

giovedì 21 ottobre 2021

L'AVIAZIONE CIVILE ITALIANA NELLA R.S.I.

 L'AVIAZIONE CIVILE ITALIANA NELLA R.S.I.
Assegnati alla Lufthansa
 
 
Linee interne Reich -
Linea Milano-Monaco-Berlino
 
 
- SM.75 D-AUGU (nc 32042) I-LEGA
- SM.73 D-APGX (MM. 60352) I-NOVI
- SM.83 D-AEAW (nc. 34021) I-ARIS
- SM.87 D.AJAB (nc. 36001) I-IGOR
- Fiat G.12 D-ASVH (nc. 60555) I-ALIC
- Fiat G.12 D-ASVJ (nc. 60661) I-ALIG
- Fiat G.18/V D-ANYW (nc. 60430) I-ELFO
- Fiat G.18/V D-AOKK (nc. 60433) I-ERME
- Fiat G.18/V D-AOKZ (nc. 60434) I-ENEA
 
 
Assegnati alle Linee Aeree Italiane
 
 
Linea Milano-Monaco-Berlino
 
 
- SM.75 I-TIMO (nc. 32002) 
- SM.75 I-AVAB (nc. 32008) 
- SM.75 I-MOND (nc. 32016) 
- SM.75 I-META (nc. 32053) 
- SM.75 I-BALJ (nc. 32059) 
- SM.71 I-PALO (nc. 4) 
- SM.83 I-ASSO (nc. 34012) 
- Fiat G.18 I-ETRA (nc. 60429) 
- Macchi C.94 I-NEPI (nc. 94000) a disposizione Q.G. FF.AA. R.S.I. 
- Macchi C.100 I-PLIO (nc. 4157) a disposizione Stab Luftflotte 2
 
Incorporati nella Luftwaffe
 
 
- Ju.52/3m AIAO (nc. 4064) I-BIZI Padova Flughafen
- Ju.52/3m ASPI (nc. 6710) I-BIOS Padova Flughafen
- Ju.52/3m AIAI (nc. 6765) I-BOAN Treviso Flughafen
- Ju.52/3m ASPE (nc. 6803) I-BERO Treviso Flughafen
- SNI,75 AOHC (nc. 32014) I-TEBE Reichflotte Berlin Tempelhof
- SM.75 AIAX (nc. 32017) I-TUON Reichflotte Berlin Tempelhof
- SM.75 AOAR (nc. 32021) I-TETI Reichfotte Berlin Tempelhof
- SM.75 ARBO (nc. 32026) I-LAOS Luftflotte 6 Dresden-Klotsche
- SM.75 ASUD (nc. 32028) I-LINI Luftflotte 6 Dresden-Klotsche
- SM.75 ATAD (nc. 32043) I-LAST Luftflotte 14 Prag-Rosyn
- SlM.75 APOC (nc. 32060) I-TAMO Luftflotte 14 Prag-Rosyn
- SM.75 ATVQ (nc. 32061) I-MASO Flieger Korps 14 Breslau-Gandau
- SM.75 AIAZ (nc. 60539) I-BUBA Flzeger Korps 14 Breslau-Gandau
- SM.75 AIAW (nc. 60008) I-BUMA Flieger Korps 14 Breslau-Gandau
- SM.82 ARML (nc. 61237) I-LETE Flieger Korps 14 Goslur
- SM.83 AFPW (nc. 6019) OO-AUJ Luftflotte 2 Padova
- Fiat G.12 ASVI (nc. 60657) I-ALID-O.K.L. Berlin Tempelhof
 
Assegnati all'ANR (R.A.C.)
 
 
Milano-Bresso
 
 
- SM.73 MM.373 (ex APGV) (ex I-ABKW)
- SM.73 MM. 30027 (ex APGW) (ex I-STAR)
- SM 81 MM. 23452 (ex ARNJ) Q.G.-FF.AA.-RSI-Bettola
- SM.81 MM. 60974 (ex ARNK) I-SAVA
- SM.83 MM. 34008 (ex AFPV) (ex YR-SAE)
- Fiat G.18V MM. 60432 (ex AOKW) (ex I-ELCE)
 
 
 
 
 
 
Assegnati K.M.I.
 
 
Stab Marine Adria.Abteilung 6 - Trieste
 
 
Linea Venezia-Trieste-Fiume-Zara
 
 
- Cant Z.506 I-FANO ABGQ (nc. 297) Affond. a Vigna di Valle 
- Cant Z.506 (ex I-DAIA) ABGQ (nc. 3026) 
- Cant Z.506 (ex I-DUNA) ABGW (nc.3551) 
- Cant Z.506 (ex I-DUCO) ADVS (nc. 4631) 
- Cant Z.506 (ex I-DITO) ADVT (nc. 3632)
- Cant Z.506 I-DODA ADVU (nc. 3632) 
- Cant Z.506 I-DELI ADW (nc. 3704) 
- Cant Z.506 I-DOGA ADVW (nc. 60645) 
- Cant Z.506 I-DOMO AEGT (nc. 60646) 
- Cant Z.506 I-DOMP AGBB (nc. 60647) 
- Cant Z.506 I-DOME ADUX (nc. 60648)
 
Assegnati K.M.I.
 
 
Stab RUK/Italien
 
 
- Macchi C.94 (ex I-ARNO) ADQN (nc. 94002)
- Macchi C.94 (ex I-LIRI) ADQO (nc.94003)
- Macchi C.94 (ex I-TOCE) ADQP (nc.94004)
- Macchi C.94 (ex I-SILE) ADQQ (nc.94005)
- Macchi C.94 (ex I-NARO) ADQR (nc.94006)
- Macchi C.94 (ex I-ENZA) ADQS (nc.94007)
- Macchi C.94 (ex I-NETO) ADQT (nc.94009)
- SM.87 (I-ILLA) AJAJ (nc. 36003)
 
Nino Arena 
 
 
    L’armistizio del settembre 1943 coinvolse nello sfacelo nazionale anche l'Ala Littoria, la compagnia nazionale di bandiera; la LATI, che svolgeva i servizi transatlantici; le Avio Linee Italiane incaricate dei servizi interni dell'Europa Orientale. A quella data, la flotta aerea nazionale comprendeva 78 plurimotori, di cui 43 dell'Ala Littoria, 18 della LATI e 17 delle ALI (23 SM.75, 12 Cant. 506 idro, 5 SM.83, 4 SM.87 idro, 4 SM.73, 8 MC.94 idro, 3 SM.82, 4 Ju 52 e aerei diversi) impegnati nonostante lo stato di guerra su 16 linee nazionali e internazionali.
    Gran parte di questi aerei furono requisiti arbitrariamente dai tedeschi come preda di guerra e suddivisi fra la D.L.H. (Deutsche Lufthansa) che incorporò 10 trimotori, la Luftwaffe che requisì 36 plurimotori adibendoli a servizi di guerra o su linee militarizzate; 6 furono assegnati all'A.N.R. e 11 lasciati a disposizione dell'Ala Littoria anche se la Lufthansa assorbì gran parte delle tratte di linea assegnate con trattati internazionali all'aviazione civile italiana, commettendo un vero e proprio sopruso giuridico, volutamente calcolato dai tedeschi intenzionati a subentrare all'Ala Littoria scalzandola dal preminente risultato ottenuto in anni di duro lavoro e di grandi sacrifici nel trasporto aereo internazionale.
    Le officine di Roma/Littorio, Trieste e Venezia/S.Nicolò furono ugualmente requisite per esigenze di guerra, mentre l'ingente materiale delle tre compagnie italiane venne caricato su 170 vagoni ferroviari e trasportato in Germania fra Muldorf, Gottinga, Dornberg, Travemunde, Nidda, Olsberg, Essen/Katernburg, Lichtnau. Erano compresi fra il materiale requisito 228 motori, particolari di rispetto, attrezzature, macchine utensili ed altro. Pur considerando utopisticamente per l'Asse l'esito vittorioso della guerra, gli aerei, i motori e il materiale necessario per la ripresa così disperso dai tedeschi, sarebbe andato sicuramente perduto col risultato che l'aviazione civile italiana si sarebbe trovata su posizioni zero alla eventuale ripresa delle attività di volo commerciale, sicuramente svantaggiata dall'egemonia materiale e d'esercizio della Lufthansa, che con tale politica mirava ad eliminare la concorrenza italiana. Era necessario intraprendere quindi al più presto un'azione di riscatto tendente a ristabilire la situazione, recuperare sollecitamente il materiale di volo, le attrezzature e tutto il necessario per operare efficacemente e non trovarsi impreparati di fronte a qualsiasi evenienza, ad ogni possibile sorpresa.
    Per fronteggiare questo grave pericolo di annullamento operativo, Mussolini affidava al generale Liotta il controllo della LATI, al generale Biondi quello per l'ALI e al comandante Max Peroli gli interessi dell'Ala Littoria.
    Ci furono inizialmente dei colloqui con i responsabili tedeschi civili e militari e furono fissati alcuni punti di discussione negli incontri successivi avvenuti il 29 novembre 1943, il 10 luglio, il 29 agosto e il 26 ottobre 1944 con cui vennero gradualmente recuperati con tenacia e perseveranza preziosi punti a vantaggio della situazione generale italiana, con il riconoscimento da parte tedesca del buon diritto italiano a partecipare, a parità di condizioni, alla regolamentazione dei problemi inerenti l'aviazione civile in Europa e il posto di prestigio e responsabilità spettante per diritto alle compagnie aeree italiane, che, con decreto n. 1039 del Capo della RSI del 26 novembre 1944, venivano riunificate in unica compagnia nazionale di bandiera: l'Ala Littoria - affidata alla competenza altamente professionale del Comandate Max Peroli, uno dei migliori piloti della compagnia, audace e valoroso trasvolatore che aveva collegato con più voli di grande rischio l'Italia a Gondar durante l'estrema difesa dell'Impero d'Etiopia e partecipato ad una delle più impegnative missioni di bombardamento sull'aeroporto nemico di Gura, in Eritrea, raggiunto con un'altro velivolo similare (Comandante Villa) il 20 maggio 1943 dopo 23 ore di volo ininterrotto, percorrendo fra andata e ritorno 6600 km. Una impresa eccezionale anche sotto l'aspetto tecnico realizzata con trimotori SM.75. 
    Il Comandante Peroli dovette ben presto affrontare e superare notevoli difficoltà e incomprensioni da parte dei tedeschi, intenzionati a lasciar le cose come erano, per mantenere vantaggi e privilegi per la Luftwaffe e la Lufthansa, trovando inaspettatamente anche difficoltà da parte italiana, nella convinzione, maturata in alcuni responsabili, delle difficoltà esistenti ritenute inamovibili. Ma nulla riuscì a fermare l'irruenza di Peroli e la sua fermezza venne infine premiata dopo una drammatica riunione a Venezia, presenti il rappresentante in Italia della Lufthansa Dr. Wilkens, un ufficiale superiore della 2a Luftflotte in rappresentanza del Feldmaresciallo von Richtofen (uno dei più acrimoniosi avversari dell'aviazione italiana poi rimpatriato per ordine del Fuhrer su segnalazione di Mussolini) il rappresentante italiano e un osservatori del RUK, incaricato quest'ultimo di proporre una diversa sistemazione per le officine aeronavali di S. Nicolò minacciate di trasferimento in Germania, col pericolo di essere sottratte definitivamente al controllo italiano e di mettere alla fame migliaia di operai.
    1) Le autorità tedesche per la produzione bellica (RUK) avrebbero dato disposizioni al comando della Luftwaffe/italien di Malcesine, di attenersi scrupolosamente allo spirito degli accordi stabiliti con le autorità il 29 agosto e il 26 ottobre 1944.
    2) Le autorità tedesche del RUK, d'accordo con quelle della Luftwaffe/Italien avrebbero aperto una inchiesta per individuare e punire i responsabili che avevano arrecato danni all'Ala Littoria, rallentando la produzione bellica, creando una grave situazione di disagio nei rapporti italo-tedeschi.
    3) Le autorità tedesche (RUK) avrebbero dato il massimo appoggio al Comitato Industriale Italiano per la produzione aeronautica, affinché venisse restituita con sollecitudine, la completa attrezzatura tecnica dell'Ala Littoria per il totale ripristino dell'attività d'officina della società stessa.
    4) Le officine stesse, una volta completate con le attrezzature restituite, sarebbero state impiantate in una località scelta di comune accordo giusta la convenzione del 29 agosto 1944.
    5) Le autorità tedesche si impegnavano a restituire subito all'Ala Littoria il carico di lavoro potenziale fino a completare le possibilità produttive delle officine aeronavali.
    6) La Società Ala Littoria sarebbe stata dichiarata "Azienda protetta" e avrebbe goduto subito dei benefici previsti dalle convenzioni del RUK col Ministero dell'Economia della RSI.
    7) La Società Deutsche Lufthansa sarebbe stata esclusa nel modo più assoluto da ogni ingerenza nei confronti della Società Ala Littoria.
    8) Il materiale di proprietà della Soc. Ala Littoria accumulato a Herding (Monaco) sarebbe stato messo a disposizione della società stessa in attesa di ulteriori disposizioni.
    L'accordo, conclusosi con piena soddisfazione degli italiani e a vantaggio dell'Ala Littoria, sarebbe stato ulteriormente perfezionato con colloqui successivi che si sarebbero svolti in Germania fra il Comandante Peroli, il Direttore Generale della Produzione bellica del Ministero degli Armamenti del Reich, per svincolare definitivamente il materiale italiano dalla tutela tedesca, recuperando anche aerei e motori necessari per potenziare le residue linee assegnate alla società italiana. Quanto narrato, spiega eloquentemente la lotta spesso drammatica che le autorità della RSI condussero contro la rapacità tedesca esplicata in ogni campo della produzione bellica e industriale dell'Italia, rifiutando queste pervicacemente, in una politica ambigua e priva di effettiva collaborazione, il riconoscimento dei diritti della RSI, la salvaguardia degli interessi nazionali, la tutela delle previsioni di vita e di sviluppo dell'Italia indipendentemente da quelle che potevano essere le sorti della guerra.
    Fortunatamente vi furono nella RSI, figure di uomini eccezionali e di grande capacità professionale, che seppero imporre il proprio punto di vista, connaturato con gli interessi italiani, per ricondurre le discussioni sul terreno della parità di diritti e di doveri, obbligando nella maggior parte dei casi le autorità tedesche in Italia, spesso prive di effettivi controlli da parte dei loro organi superiori e quindi operanti in completa autonomia (e arbitrio) ad una serena valutazione degli avvenimenti e dei problemi, riuscendo gradualmente ma sicuramente, ad eliminare l'alterigia derivante dai fatti del settembre 1943, arroganza e arbitrio, nella convinzione di trattare con le autorità italiane da posizioni di supremazia psicologica, modificando e imponendo i rappresentanti italiani il senso logico delle cose, nella convinzione radicata e sincera di far parte di una alleanza militare e politica che andava comunque rispettata e salvaguardata.
    Valga per tutti, l'esempio dato da Mussolini per i fatti dell'agosto 1944, allorché il Feldmaresciallo Wolfram von Richtofen, comandante della 2a Luftflotte in Italia, volle attuare una iniziativa pesante nei confronti dell'Aeronautica Repubblicana, tentando con minacce di imporre agli aviatori italiani di combattere in una "Legione Aerea Italiana" al comando di ufficiali tedeschi, pena il disarmo o l'arruolamento coatto nella Falk e conseguente invio in Germania. Fu sufficiente un telegramma del Duce a Hitler per metterlo al corrente dell'arbitrario e lesivo comportamento del Richtofen (peraltro uno dei beniamini del Fuehrer e aviatore di grande capacità operativa) perché Hitler né ordinasse immediatamente il rimpatrio sostituendolo col più duttile e diplomatico generale Ritter von Pohl. Fu così che il cugino del "barone rosso" dovette rientrare in Germania. Fallita la sorpresa e crollata l'assurda pretesa del generale tedesco, l'aviazione repubblicana venne riorganizzata e riprese da sola la difesa del Nord Italia. Nonostante i risultati raggiunti, importanti per il futuro dell'aviazione civile italiana una fra le più affermate nella scala mondiale del trasporto commerciale - il negativo andamento del conflitto condizionò pesantemente l'attività di volo limitando fortemente ogni speranza dei responsabili e del personale di volo.
 
 
Suddivisione dei velivoli delle linee aeree italiane dopo l'armistizio: 
 
 

 
 
STORIA VERITA’ N 2 Giugno-Luglio 1991 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

martedì 12 ottobre 2021

ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO NELL'ITALIA OCCUPATA

ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO NELL'ITALIA OCCUPATA
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Francesco Fatica
 
 
Elena Rega, figlia del colonnello Cosimo, superdecorato della 1° guerra mondiale, comandante del 39° rgt. Fanteria, caduto eroicamente in combattimento nel 1918, proprio negli ultimi giorni di guerra, crebbe nella venerazione, nel vago ricordo del Padre e nella religione della Patria. La Patria, come l’abbiamo sentita noi e la gran parte del popolo italiano, sempre più profondamente legata all’Idea fascista, di cui Elena divenne una fervente, entusiasta e fedele credente.
S’impegnò negli studi e negli sport, com’era nello stile di vita fascista; fu appassionata particolarmente di atletica leggera fino a divenire nel 1939 campionessa nazionale di ginnastica artistica. Il relativo brevetto le fu consegnato a Palazzo Venezia e poi furono introdotti, Lei e gli altri campioni, dal Duce. E di ciò fu sempre orgogliosa.
S’era iscritta alla facoltà di Chimica ed ovviamente aderì al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di cui divenne ben presto Fiduciaria Femminile (dal 1938 fino al 1943, data in cui Badoglio fece sciogliere il PNF, Partito Nazionale Fascista, e le sue organizzazioni).
Laureatasi a pieni voti, è stata l’unica analista del Laboratorio dell’Istituto d’Igiene e Profilassi della provincia di Napoli, di cui divenne vice direttrice.
Mobilitata civile, usava la sua potente motocicletta "Bianchi freccia d’oro" per gli spostamenti, in città e in provincia, inerenti ai Suoi compiti d’ufficio. Per poter più agevolmente cavalcare il suo "cavallo d’acciaio", vestiva eleganti abiti sportivi di foggia maschile, da Lei stessa ideati, che precorsero i tempi di cinquant’anni, ma che all’epoca costituivano un abbigliamento rivoluzionario, poco accettabile per il volgo e per i borghesi bigottamente conformisti e conservatori. Ma dei commenti di costoro la nostra irruente Camerata s’infischiava, mostrando così un aspetto esplosivo del suo carattere forte e ribelle ad ogni pecorile conformismo.
La guerra Erano i tempi difficili ed eroici della guerra. Napoli presa di mira quotidianamente, notte e giorno, dai bombardieri "alleati", era stata danneggiata gravemente in tutte le sue strutture; erano i tempi eroici in cui Riccardo Monaco e pochissimi altri piloti, votati alla morte, si alzavano in volo con i loro minuscoli aerei da caccia per attaccare le cosiddette "fortezze volanti"; erano i tempi in cui era difficile sopravvivere a Napoli; si viveva praticamente rintanati, notte e giorno, nei rifugi antiaerei, nelle gallerie della metropolitana, nei mille cunicoli e vani sotterranei dell’antico acquedotto romano.
Ma la nostra Elena Rega, mobilitata civile ligia al dovere fino all’eccesso, più e più volte sfidò la sorte avversa e gli odiati bombardieri, a bordo della sua veloce motocicletta; moderna amazzone, combatteva la sua battaglia: correva a svolgere il suo dovere con ardore di vestale, e con cuore di guerriero, incurante del pericolo.
Ma ciò non la distoglieva tuttavia dal soccorrere la povera gente che aveva bisogno d’aiuto; più di una volta portò a casa sua povere donne e bambini che avevano fame, che avevano bisogno di fare una doccia.
Allora a Napoli mancava tutto e molto spesso anche l’acqua e poi, tanti erano coloro che erano rimasti senza casa. La solidarietà patriottica, cristiana e fascista di Elena Rega ebbe molte occasioni di manifestarsi allora, ma pure in seguito uniformò appassionatamente sempre la sua condotta di vita a questa sua connaturata solidarietà, ed ebbe perciò tanta carità anche nei riguardi degli altri esseri viventi.
Per ragioni del suo ufficio fu inviata a far le analisi delle acque delle Terme di Castellammare di Stabia, inquinate, ma che si raccomandava dai superiori di far apparire potabili.
La dottoressa Rega, rigorosamente ligia al dovere, non si piegò alle disposizioni avute ed ovviamente i "superiori" se la legarono al dito.
I 45 giorni Ma vennero i giorni del tradimento, i giorni in cui le oscure manovre del re e dei massoni del suo entourage esplosero apertamente nella "seduta del Gran Consiglio del 25 luglio".
Elena reagì con tutta la vitale irruenza del suo carattere forte e spontaneo: incitava tutti i camerati del GUF a reagire, a mantenersi uniti, a prepararsi alla riscossa. Insieme a Lucia Vastadore e altri camerati, ebbe violente discussioni con Nicola Foschini, Fiduciario Provinciale del GUF di Napoli, il quale invece era fermo nel suo proposito di "dare le consegne" alla nuova burocrazia, autonominatasi "democratica".
Con Lucia Vastadore e con altri camerati del GUF e della Legione della Milizia Fascista Universitaria "Goffredo Mameli", Elena si prodigava a svolgere propaganda, a rincuorare gli sfiduciati, a raccogliere gli sbandati. Non era facile, oltre tutto i bombardamenti avevano distrutto mezza Napoli, molti erano dovuti sfollare nei paesi, in campagna o farsi ospitare da parenti. I mezzi di comunicazione erano stati colpiti gravemente e venivano ripristinati faticosamente dovendo superare enormi difficoltà, sicché si erano persi i collegamenti.
Dobbiamo considerare però che il re e Badoglio si erano affrettati a dichiarare solennemente: «La guerra continua».
E la guerra continuava sul serio, al fronte anche se con sfortunate vicende, non prive di atti di eroismo da parte di singoli o di piccoli repar ti. E la guerra continuava, sempre più terroristicamente, anche sul fronte interno.
Questa strategia di continuità, quanto mai opportuna per i "badogliardi", questo insistente richiamo alla realtà della guerra che continuava, ebbe la prevista e voluta conseguenza di mantenere fermi e disciplinati i fascisti, che, educati a tenere il culto e l’interesse della Patria al di sopra di ogni altro interesse, non potevano prendere in considerazione l’ipotesi di una ribellione o di sommosse e neanche di chiassate di piazza, che potessero in qualche modo ledere il fronte interno, mentre gli altri camerati si battevano eroicamente al fronte contro forze nemiche preponderanti.
Quindi i fascisti si incontravano, quasi clandestinamente, in case private, in piccoli gruppi spontanei e disorganizzati.

Intanto i gerarchi del fascismo più autorevoli erano stati mobilitati e spediti lontano. Ettore Muti fu ucciso a tradimento; i reparti della Milizia erano stati incorporati nel Regio Esercito, cambiati i comandanti con uomini di fiducia sabauda, così i badogliani avevano fraudolentemente disgregato le forze sane della Nazione, approfittando della forzata inerzia dei fascisti.
Nel frattempo in città, come avveniva anche altrove, bande di giovinastri e di perditempo, guidati e assoldati da agitatori comunisti, si dedicavano a gesti vandalici nei riguardi di targhe, lapidi e simboli fascisti, spesso anche di un certo valore artistico. I giovani del GUF, con alla testa l’architetto Antonio de Pascale, invalido della guerra di Grecia, Vito Videtta, Natale Cinquegrani e Lello Balestrieri, andavano a caccia di queste squadre di teppisti e attaccavano briga per impedire i loro vandalismi; ebbene Elena Rega e Lucia Vastadore pretendevano di prender parte anche a questa specie di "spedizioni punitive", nonostante che i maschi facessero di tutto per dissuaderle. Queste imprese si concludevano spesso in violenti pestaggi e tafferugli.
La resa Ma quando venne reso noto il cosiddetto "armistizio", che invece, come ormai sappiamo, era una vera e propria resa senza condizioni, allora i fascisti si sentirono finalmente liberi di affrontare gli avversari; lo stratagemma che li aveva inchiodati ad una disciplinata attesa, la frase: «La guerra continua» che li aveva mantenuti fermi e subordinati, non valeva più.
Elena, invasa dallo sdegno e dalla rabbia, moltiplicò i suoi sforzi per riannodare le spezzate relazioni con i camerati dispersi in tanti nuovi domicili; finalmente erano finiti i bombardamenti, ma la città purtroppo era caduta in preda ai disordini che si incrementavano sempre peggio: prima i saccheggi dei depositi e dei magazzini militari abbandonati, quindi uomini irresponsabili svuotarono le carceri, poi cominciarono le sparatorie, i posti di blocco; mancava tutto, mentre l’esercito s’era completamente dissolto, pochi partigiani disturbavano la ritirata in atto dei tedeschi e provocavano rappre saglie, delinquenti di ogni risma, armati, a guisa di partigiani, delle armi abbandonate dal Regio Esercito, ne approfittavano per razziare e poi devastare tutto quel che non potevano rubare nelle case dei fascisti; ma chi all’epoca poteva dire di non essere stato fascista? Quindi furono prese di mira molte case di benestanti dovunque vi fosse la possibilità di fare un ricco bottino.
Le cose precipitarono. Qualche fascista perse ogni fiducia in una possibile riscossa. Ci fu chi prese le armi che riuscì a trovare e sparò disperatamente.
Aveva visto crollare, con la sconfitta del fascismo, il mondo intero; i partigiani sparavano e per reazione, anche tanti fascisti spararono: isolatamente, spontaneamente, disorganizzatamente, ma disperatamente cercando la morte, tuttavia trascinando con loro quanti più nemici potessero colpire.
Molti altri partirono per continuare a combattere con l’alleato tedesco, per l’onore d’Italia.
Altri ancora, feriti, invalidi, costretti a restare a Napoli, decisero di continuare la lotta per l’affermazione dell’Idea, per reagire allo sfacelo morale e mostrare al mondo intero e agli stessi occupanti , mascherati da "liberatori", in un grottesco carnevale con lenoni, "segnorine", ladri e borsari neri, che non tutti gli italiani si potevano comprare con le amlire o con le PallMall.
Si ritrovarono in pochi: i migliori.
Solevano riunirsi a casa del camerata Carlo e del figlio Antonio Picenna. Elena era con loro, sempre presente, sempre piena di fede, sempre generosamente pronta a dare la sua opera, sempre sollecita e valida nel portare il suo rigoroso contributo progettuale.
Più tardi su invito di Francesco Barracu, a mezzo radio della RSI arrivarono a Napoli dalla Calabria i principi Pignatelli per prendere contatti con i camerati di Napoli e dare un impulso unitario al movimento clandestino fascista.
I principi si sistemarono in una villetta al Calascione; Elena e la principessa Maria simpatizzarono subito e s’intesero perfettamente di primo acchito. Ma anche il principe seppe apprezzare immediatamente la viva intelligenza e le altre qualità positive di Elena, di cui, spesso, voleva ascoltare il parere assieme a quello della principessa.
Si ritrovarono al Calascione diverse volte, Elena Rega, Antonio de Pascale, Nando di Nardo, il colonnello Guarino, il ten. di vascello Paolo Poletti, ma poi ritennero prudente cambiare spesso il luogo d’incontro.
Nella villetta del Calascione i Pignatelli invitavano frequentemente a cena generali "alleati", il capo del SIM badogliano e altre personalità che potevano, conversando "liberamente", magari un po’ troppo, dopo una lauta libagione, rivelare notizie militari o politiche, che sarebbe stato opportuno tenere riservate, e che riuscivano invece di grande utilità per la RSI e gli alleati tedeschi, una volta ricevute le relative comunicazioni radio.
Ad una di queste cene furono invitati anche Elena Rega, Antonio de Pascale e Nando Di Nardo, in quanto, essendo stato invitato il gen.
Wilson, Pignatelli prevedeva una più larga messe di notizie, che tutti avrebbero dovuto sforzarsi di memorizzare.
Fu necessario fornirsi di adeguati abiti scuri, e l’inesauribile Elena Rega provvide a reperire da uno zio scapolo, che era stato fanatico della cosiddetta "buona società", gli abiti più convenienti, che però dovette correre a prendere in moto nel casi no di campagna dello zio. Furono poi mobilitate le sorelle dell’architetto per adattare e sistemare questi abiti.
La sera si presentarono tutti e tre, elegantissimi, ma pure seccati di dover fare le comparse mondane e per di più, poi, proprio con gli "Alleati", che, oltre tutto, ancora una volta sfoggiarono la loro maleducazione (american life). Wilson e gli altri, semi sdraiati sulle poltrone, con le gambe poggiate in alto, bevevano, anzi tracannavano e parlavano "a ruota libera", i nostri tre, assieme ai principi, ascoltavano attentamente, rispondevano a monosillabi o provocavano chiarimenti e …memorizzavano.
Elena Rega aveva l’abitudine di sfogarsi tracciando in un suo diario, sui generis, pungenti ritratti delle persone conosciute, pur facendo bene attenzione a non scrivere nulla che dovesse rimanere segreto. Così tornò dai Pignatelli col suo "lavoro", che fece molto divertire i principi, ma poi, più concretamente, passarono tutti a mettere insieme e riordinare le informazioni raccolte nella serata precedente in modo da avere un quadro il più possibile completo della situazione politica e militare. Queste preziose notizie venivano poi trasmesse in codice a mezzo radio al Nord.
Fascismo clandestino Quando, più tardi, fu vigliaccamente assassinato a Firenze Giovanni Gentile, Elena ne fu particolarmente colpita, trovando nei camerati del vertice clandestino fascista lo stesso sdegno e la stessa volontà di reagire. Si ritrovarono tutti, in effervescente, solidale agitazione, a casa Pignatelli: i principi, Elena, de Pascale, Di Nardo e Guarino. Si progettava febbrilmente una reazione, ma non come avrebbero certamente pensato i nostri nemici: cioè spargendo sangue fraterno al Sud.
In diverse sedute prese corpo l’audace progetto di far commemorare Giovanni Gentile a Firenze dal filosofo Benedetto Croce, che, nobilmente memore dell’antica amicizia, aveva già acconsentito, tramite l’editore Casella, vicino di casa e frequentatore abituale dei Pignatelli, ma del tutto ignaro ed estraneo al movimento clandestino.
La difficoltà maggiore, ovviamente, era quella di trasferire Croce a Firenze e di riportarlo sano e salvo a Sorrento, dove abitava. Si fecero molte animate discussioni, si presero contatti con la RSI e con gli alle ati tedeschi, che misero a disposizione per la particolare operazione un sommergibile medio che avrebbe atteso l’illustre ospite avversario, ma gentiluomo nelle acque degli isolotti dei Galli, di fronte a Positano; i tedeschi avevano carte nautiche dettagliate di quella zona particolare, con tutte le quote degli scandagli del fondo marino. Era stato contattato anche il comando della X a MAS, che aveva messo a disposizione gli agenti speciali dislocati nei dintorni di Napoli, i quali avrebbero dovuto scortare con un rapido motoscafo il filosofo fino al trasbordo sul sommergibile.
Fu deciso che avrebbero scortato Croce anche Guarino e de Pascale, che avrebbero risposto di persona dell’incolumità del filosofo.
Furono tenute molte riunioni, in cui vennero studiati i più minuti dettagli.
Valerio Pignatelli, però, prese la precauzione di non tenere tutti al corrente di tutto, se non per i dettagli che li avrebbero interessati direttamente, o per cui era richiesta la loro particolare consulenza.
Anche nell’elaborazione di questo complesso piano, Pigna (così si faceva confidenzialmente chiamare il principe) non trascurò di consultare la principessa Maria ed Elena Rega, che, oltre ad essere particolarmente intelligente era ben allenata per la sua professione ad essere anche precisa e attenta a non trascurare ogni benché minimo particolare.
Ma per effettuare l’audace piano bisognava superare le titubanze di Mussolini, che temeva per l’incolumità dell’avversarioospite.
Per quanto fossero stati attentamente studiati i particolari esecutivi, pure non si poteva escludere una qualche imprevedibile circostanza avversa di guerra. Pertanto l’esecuzione doveva essere rimandata fino all’ottenimento dell’assenso del Duce.
Avendo programmato il famoso viaggio della principessa Maria in RSI, per incontrarsi col Duce, fu deciso che Maria Pignatelli avrebbe tentato di convincere Mussolini, durante il colloquio che era stato prestabilito.
Purtroppo, come sappiamo, al suo ritorno dal Nord, Maria Pignatelli fu arrestata, dopo breve latitanza, per cui fu ospitata anche in casa di Elena Rega, e seguì a breve l’arresto dello stesso principe e poi di Guarino e Di Nardo.
La prigionia Restò quindi de Pascale ad impartire le direttive del fascismo clandestino a Napoli ed in tutto il Sud. Il sospettoso e furbastro maggiore Pecorella, del CS, il controspionaggio badogliano, fece arrestare Elena Rega, ritenendola l’anello più debole della catena, ma aveva fatto male i suoi conti.
Per fiaccarne la resistenza la fece rinchiudere nel carcere di Poggioreale, ovviamente nel padiglione femminile, dove pure c’era una sezione politica. Tuttavia il nostro becero maggiore, sprezzando ogni regolamento riguardo ai detenuti politici, di prepotenza la fece espressamente rinchiudere in cella con prostitute, ladre, accattone e borsare nere, che dapprima tentarono, secondo quanto aveva previsto il plebeo maggiore, di offendere violentemente una persona così diversa dalla loro miseria morale. Ma avvenne un fatto straordinario: una di quelle disgraziate creature si erse a difesa della dottoressa, parandosi davanti alle compagne più aggressive, pronta ad artigliarle con le unghie protese in attacco. «Nooo!», urlò. E raccontò a tutte quelle megere ammansite come la "dottoressa" l’aveva accolta in casa sua e tenuta a pranzo con i suoi figlioletti, dopo che tutti loro, mamma e bambini, avevano potuto fare una doccia.
Da allora in poi tutte le portarono rispetto e perfino devozione, come sanno fare talvolta le persone colpite dalla disgrazia.
Ma nell’abietto cuore di Pecorella non potevano albergare ovviamente sentimenti simili.
Lo spietato maggiore si beava nel vedere la sua vittima sudare freddo sotto stringenti ed estenuanti interrogatori, sforzandosi di non rivelare in altro modo il suo tormento. L’accanito inquirente tentò tutte le sue consumate arti per convincere la sua "preda" a fare una sia pur piccola ammissione: tentò con la blandizie, che mal gli riusciva di fare, e tentò con le minacce che riuscivano naturalmente spontanee, più credibili ed efficaci. Aveva scoperto, l’aguzzino, che quella giovane donna, che teneva sotto i suoi metaforici artigli, non solo aveva una enorme stima di Tonino de Pascale, ma ne era proprio innamorata. Così tentò di terrorizzarla minacciando terribili ritorsioni sull’oggetto dei suoi sentimenti. Tuttavia, come sappiamo, Elena Rega, non solo aveva un carattere forte e coraggioso, ma era estremamente intelligente e non si lasciò giocare dal rozzo e vanesio maggiore, neanche quando questi le dichiarò, in tono suadente e quasi paterno, che da lei e soltanto da lei dipendeva la salvezza del suo amato. Naturalmente tali manovre laceravano l’animo di Elena, ma lei si sforzava di non darlo a vedere e probabilmente ci riusciva, perché vedeva benissimo, da quella attenta analizzatrice delle persone che era sempre stata, che il Pecorella si arrabbiava stizzosamente.
Il sadico torturatore aveva fatto arrestare già una volta de Pascale, rilasciandolo, poi, dopo una ramanzina, ma tenendolo d’occhio, sperando che si scoprisse con qualche mossa falsa.
Nel frattempo però il controspionaggio "alleato" ruppe gli indugi e procedette all’arresto di de Pascale con un tragicomico e scenografico copione da operetta, circondando tutto l’isolato dove abitava ed intimando con altoparlanti ai cittadini della zona di restare in casa. Arrivarono, nella cieca foga della loro arrogante irruenza poliziesca, ad arrestare qualche altro incauto, ma innocuo passante.
Gli abitanti del rione e la folla dei curiosi rapidamente radunatasi videro scendere l’architetto fortemente scortato e portato via su una jeep, che dovette aprirsi la strada tra due ali di folla.
La notizia fece il giro della città e per vie misteriose giunse al carcere di Poggioreale; fu riferita ad Elena con mille precauzioni per quell’intuito femminile che aveva fatto presagire qualcosa alle sue disgraziate, ma ormai solidali compagne.
Naturalmente Elena ne soffrì enormemente, pur non potendo conoscere i particolari spaventosi a cui fu sottoposto il suo Tonino, su cui Pecorella sfogava la sua impotenza di sbirro, facendolo addirittura biliosamente imprigionare in manicomio e pretendendo, contro ogni regola, che fosse rinchiuso nella stessa cella dove imperversava un pazzo furioso. Tonino de Pascale per difendersi era costretto a barricarsi addirittura sotto la branda. Ma c’è ancora di peggio; de Pascale aveva ancora una brutta ferita di guerra aperta sulla spalla, che secerneva pus e che aveva bisogno di continue medicazioni.
Una suora caritatevole lo soccorreva di tanto in tanto, approfittando dei momenti di stanca del pazzo furioso, portandogli garze sterili e disinfettanti.
Il badogliano maggiore Pecorella pensava di trovare de Pascale annichilito dopo un tale trattamento, ma dopo molte sedute di interrogatori dové convincersi che era tutto tempo sprecato.
Poi l’architetto de Pascale fu trasferito; doveva essere portato al carcere di Poggioreale, i carabinieri che dovevano scortarlo erano stranamente armati di mitra e portavano addirittura l’elmetto. Durante la traduzione improvvisamente il portellone del furgone si spalancò, producendo un assordante rumore, , il vecchio trabiccolo però, come se l’autista (che non poteva non aver sentito) fosse complice, continuò la corsa rallentando solo un poco. I carabinieri puntarono i mitra aspettando che l’architetto cogliesse l’occasione per sgattaiolare via, ma questi ebbe nervi saldi e non si mosse, guardando fissamente negli occhi i suoi malintenzionati custodi. Così fu bussato all’autista che questa volta sentì; il portellone fu chiuso dall’esterno e de Pascale fu portato ancora vivo a Poggioreale.
Elena Rega non conobbe i particolari della criminale persecuzione di Pecorella, se non molto più tardi; tuttavia la sua sensibilità femminile, il suo perspicace intuito, le facevano temere il peggio: temeva per Tonino, non temeva per sé. Era questo il maggior tormento della sua prigionia.
Intanto i segugi del CIC (Counter Intelligence Corp) e del FSS (Field Security Service), i servizi di controspionaggio americano ed inglese, avevano esaminato i diari di Elena Rega, dove Ella era solita schizzare sfoghi politici e saporose descrizioni denigratorie degli antifascisti più in vista, e vi avevano trovato anche il ritratto, ovviamente molto critico e pungente, del maggiore Pecorella; così, divertendosi un po’ malvagiamente, chiesero ad Elena di leggere il pezzo che riguardava Pecorella in presenza dello stesso. Ella non si fece pregare: coraggiosamente lesse all’allibito ed umiliato maggiore quanto aveva scritto già prima ancora di conoscere personalmente i suoi metodi, ma dovette sforzarsi, lucidamente, di non aggiungere considerazioni più attuali e ben più aggressive.
Francesco Fatica Elena aveva un carattere fortemente impulsivo, ma riusciva, con la sua intelligenza e forza morale, a dominarsi perfettamente quando lo richiedevano le circostanze.
Finalmente Pecorella si stancò di infierire contro una donna che sembrava invulnerabile, o forse, più probabilmente, furono gli "Alleati" che ritennero di porre fine ai vani sforzi di Pecorella.
A questo punto, per capire meglio lo svolgimento di vicende del fascismo clandestino, debbo riportare brevemente un aspetto dei retroscena di quel periodo storico.
Tra gli ufficiali dei servizi di controspionaggio "alleati" , in particolare nel CIC americano, c’erano alcuni anticomunisti, che combattevano, sì, la loro guerra senza esclusioni di colpi, ma si preoccupavano anche, intelligentemente, del dopo.
Le regioni dell’Italia occupata erano minacciate da un partito comuni sta, agli ordini di Mosca, sempre più virulento; al Nord, loro stessi erano costretti a servirsi dei partigiani comunisti, ma si rendevano conto che questi avrebbero minacciato ancora peggio l’indipendenza della nazione italiana, in quanto erano al servizio di Mosca. Degli uomini che si erano schierati con Badoglio e con il re non avevano alcuna stima: avevano tradito una volta, avrebbero "badogliato" ancora.
Dunque era necessario preservare per le prevedibili future lotte anticomuniste, quegli italiani che avevano dimostrato di avere una forza morale integerrima. E che si sperava, come poi avvenne, di poter schierare, a difesa anche (e purtroppo soprattutto) dei loro (americani) interessi, nella lotta anticomunista.
Capitava così che (paradossalmente, ma fino ad un certo punto) alcuni "Alleati" usassero preservare i fascisti più coraggiosi: quelli che si erano esposti nel dissenso e nella lotta clandestina, e perché no, appena fosse fattibile, tentassero preservare anche quegli agenti speciali della RSI che era possibile sottrarre ai plotoni di esecuzione. Un solo esempio: Carla Costa.
Per liberarli dalle feroci rappresaglie dei loro biliosi avversari connazionali: li tenevano in campo di concentramento per la durata della guerra. Ad altri toccò di restare in carcere, ma per quegli americani c’era lo stesso impegno: non dovevano essere abbandonati alla libidine di sterminio degli antifascisti.
Gli "Alleati" si illudevano anche di rieducare alla democrazia i fascisti reclusi in questi campi, ma usavano metodi controproducenti, anche perché i campi di concentramento e le carceri erano gestiti da personale rozzo e prepotente, non proprio scelto al meglio.
Dunque Elena Rega non fu fucilata, non fu neanche condannata a morte; non fu giudicata da un tribunale militare italiano, a cui pure era stata deferita e da cui fu incriminata per reati punibili con la pena di morte, assieme ai Pignatelli, a de Pascale e ad altri uomini di punta del fascismo clandestino e della X a MAS e allo stesso Junio Valerio Borghese.
Il processo fu bloccato; il relativo incartamento è tuttora "coperto dal segreto di Stato".
Per sottrarre Elena dalle grinfie dei vari "Pecorella" al soldo dell’invasore, fu inviata "in campo di concentramento per la durata della guerra".
 
 
Dapprima fu ristretta nel settore femminile del Campo di concentramento di Padula, il famigerato "371 PW Camp di Padula " gestito dagli inglesi nella allora fatiscente Certosa, dove trovò la compagnia della camerata Maria Pignatelli, anch’essa giudicata meritevole di essere "preservata in campo di concentra mento per la durata della guerra".
I sacrifici e le privazioni di ordine materiale oltre che morale che Elena fu costretta a sopportare nel campo di "Padula" furono gravi: basti pensare che gli inglesi, che gestivano il campo, nei primi tempi non si vergognarono di dare da mangiare ai prigionieri ghiande e niente altro. Tanta proterva perfidia era già stata corretta quando arrivò Elena, ma la fame era sempre tanta, perché gli inglesi non erano affatto rispettosi di tabelle dietologiche né della convenzione di Ginevra. Bisognava poi sopportare le angherie delle guardie del campo, indiani, che erano sempre pronti ad infierire sui prigionieri, forse per una malcelata forma di razzismo alla rovescia, ovviamente con il beneplacito degli inglesi.
Ma per sua fortuna Elena aveva la compagnia ed il cameratismo della principessa Pignatelli e di altre camerate italiane e tedesche. E, di tanto in tanto, Le veniva concesso di partecipare, insieme alla principessa a qualche raro colloquio con il principe Pignatelli, con Di Nardo o con Picenna, reclusi nel settore maschile del campo. Tuttavia non si deve pensare che nel campo ci fossero soltanto fascisti; a Padula erano state recluse anche persone che non avevano commesso "crimini fascisti"; erano persone che, per loro sfortuna, si erano trovate a dar fastidio, o non avevano voluto inchinarsi ad un qualche altezzoso, rapace e tracotante ufficiale "alleato".
Il 25 maggio 1945 il campo di "Padula" fu chiuso; molti civili, giudicati innocui e ravveduti dagli ufficiali del campo, furono rimessi in libertà; ormai la guerra era finita.
Tanti altri invece furono trasferiti nel "R civilian internee camp di Collescipoli" (Terni), dove "R" sta per "Recalcitrants". Il campo era tenuto dagli inglesi. .Ritenevano, gli "Alleati", che i recalcitrants dovessero essere ulteriormente rieducati, o che fossero addirittura incorreggibili.
In questo campo fu selezionata quindi l’aristocrazia spirituale del Fascismo.
Elena Rega e Maria Pignatelli furono, giustamente, trasferite a Collescipoli, onoratissime del titolo di "recalcitrants".
Ma la perfidia inglese giunse ad immaginare un sistema per dividere italiane da tedesche: furono scelte alcune tra le più altezzose, rozze e presuntuose prigioniere tedesche perché imponessero alle italiane i lavori più avvilenti. Queste umiliazioni ferirono profondamente tanto Elena Rega che la principessa Pignatelli. Ma il loro morale non ne riuscì fiaccato, anzi dobbiamo pensare che le due gentildonne, più che mai legate dal cameratismo consolidato in anni di comuni sofferenze fisiche e morali, avessero elevato il loro morale e la grinta al massimo, se dobbiamo credere a quanto scrive uno storico comunista: «La principessa Maria Pignatelli organizza cerimonie celebrative del fascismo e perfino sfilate».1 Ma le angherie degli inglesi non per questo erano meno dispotiche: si pensi che un soldato inglese arrivò a freddare cinicamente sul fatto la giovane camerata Nicoletta de Terlizzi, sotto gli occhi delle sue esterrefatte compagne di reclusione, perché si era sdegnosamente rifiutata di andare a ballare con lui.2 *** Elena Rega tornò alla vita civile dopo l’amnistia del giugno 1946.
La vita civile! Era stata licenziata per…. "abbandono di posto" ! No, non era una barzelletta; soltanto i "superiori" non avevano saputo trovare nella sua carriera burocratica una qualsiasi piccola ombra a cui appigliarsi per licenziarla, per liberarsi di una così ingombrante vestale del dovere, della legalità e della dirittura morale; e per giunta fascista.
Gli avvocati Nando Di Nardo e Francesco Saverio Siniscalchi (da poco quest’ultimo tornato dalla RSI, Di Nardo aveva anche lui recuperato la libertà in seguito all’amnistia) la difesero nella causa che fu intentata ed ottennero la riassunzione della camerata.
Ma non era finita; la fedele seguace dell’Idea cadde sotto la scure dell’epurazione.
Anche Tonino de Pascale aveva ripreso la vita civile e, com’era nell’ordine delle cose, si sposarono.
Elena poté dispiegare le sue doti affettive e pratiche nella creazione di una nuova famiglia, una nuova cellula della Società. E nell’allevamento e nell’educazione di due splendide figlie, ma anche di moltissimi affezionatissimi cani e gatti.
Un romanziere fantasioso e attento agli effetti emozionali sui lettori, chiuderebbe qui la storia a lieto fine di Elena.
Ma questa è una storia vera; Elena Rega de Pascale l’ha scritta con la Sua vita intensamente e rigorosamente vissuta. La famiglia, fulcro dei suoi interessi vitali, non l’ha distratta dai suoi doveri sociali, anzi, anche nel nome della famiglia, per l’avvenire della Sua famiglia e per l’avvenire di tutte le altre famiglie, Elena Rega de Pascale ha continuato la sua battaglia rigorosa e attenta per il Fascismo, marciando idealmente a fianco al marito, nel Fronte dell’Italiano, nei primi fervidi anni del MSI e nel MIF di nuovo con la principessa Maria Pignatelli .
E continuò a partecipare alle cerimonie celebrative del fascismo con lo stesso fervente animo e con la stessa incorruttibile fede della giovane Elena Rega, quella irriducibile "recalcitrant", reclusa nell’"R internee civilian camp di Collescipoli".