Il libro nero dei crimini statunitensi in Vietnam
Sono innumerevoli le atrocità che furono commesse in Vietnam da parte degli Stati Uniti. In queste pagine cercheremo di offrire al lettore una rassegna abbastanza indicativa che tuttavia non può essere esaustivo ma sufficiente perché il lettore si renda conto che la guerra teorizzata dai manuali di scienze strategiche e nelle asettiche aule universitarie e dei centri di ricerca è una cosa la guerra reale è tutt’altra cosa. Il testo al quale faremo riferimento è quello di Nick Turse autore del saggio “Così era il Vietnam. Spara a tutto ciò che si muove”
(Piemme,2015). Partendo dai risultati posti in essere sia dalla Scuola
di medicina di Harvard che dall’Istituto di medicina della Università di
Washington le vittime complessive durante la guerra del Vietnam furono di tre milioni dei quali due tra la popolazioei civile.
Il saggio del giornalista
americano non si basa solo sui documenti segreti che vennero prodotti dal
Vietnam War Crimes Working Group ma anche su numerose interviste fatte da
Turse ai reduci del Vietnam. Naturalmente gran parte degli atti processuali
o delle indagini che vennero condotte dall’ esercito e dai marines sui crimini
di guerra commessi durante la guerra del Vietnam sono scomparsi.
Questo saggio dovrebbe essere
letto in parallelo alle inchieste che furono fatte a partire dall’articolo di Norman
Poirier dal titolo “Un’atrocità americana” pubblicato su “Esquire”, a
partire dal resoconto di Daniel Lang sul Times nell’ottobre del 1969 intitolato
“Vittime di guerra “ e infine dalle inchieste sugli avvenimenti di My
Lai pubblicati da Seymour Hersch nel 1969.
Inutili furono i tentativi di
insabbiamento da parte dei vertici politici e militari americani come
dimostra chiaramente l’esito fallimentare della task force – nota come Cowin – voluta
dal generale Westmoreland. Ma fu certamente l’Associazione dei reduci
di guerra che arrivò a contare circa 10.000 membri all’inizio degli anni ‘70
che ebbe modo di rivelare le atrocità commesse durante la guerra del Vietnam.
Quando nel marzo del 1971 sul Times apparve il saggio di Neil Sheehan – un ex
reduce dell’esercito che aveva trascorso tre anni come corrispondente di guerra
nel sud-est asiatico – con un titolo choc ma significativo: “Dobbiamo
celebrare i processi sui crimini di guerra?” e Daniel Ellsberg pubblicò i Pentagon
Papers le responsabilità dei vertici politici e militari furono chiare .
Come ebbe modo di sottolineare la Commissione internazionale di inchiesta sui
crimini statunitense in Indocina che si riunì a Oslo nel 1971: “i crimini
commessi in Indocina non sono il risultato di azioni di singoli soldati
ufficiali ma sono la conseguenza delle strategie a lungo termine portata
avanti dagli Stati Uniti nel sud-est asiatico, e il fardello della responsabilità
deve essere addossato principalmente su chi ha deliberato tali decisioni“.
I souvenir dell’orrore e
l’addestramento militare
Partiamo dalla costatazione – non
quindi dall’assunto – che i soldati americani trattavano i vietnamiti come
essere subumani. Dimostrare la credibilità di questa tesi è estremamente e
drammaticamente agevole. Il figlio del celebre generale Patton – e cioè
Patton junior – era conosciuto dalle truppe americane per un macabro souvenir
che era solito tenere sulla scrivania e cioè un teschio di un soldato
vietnamita che portava con sé addirittura alle feste di addio o al termine dei
suoi turni di servizio; alcuni soldati semplici invece tagliavano le teste
ai soldati morti per tenerle, venderle o scambiarle con i premi che i
comandanti offrivano loro. Tuttavia, molto più numerosi erano quei soldati che
tagliavano le orecchie alle loro vittime utilizzandole come trofei donati ai
superiori come regali o come prove per confermare il numero dei nemici
abbattuti. Esistono tuttavia casi in cui le reclute conservavano le orecchie
dei soldati uccisi portandole al collo con dei lacci o esibendoli in
qualche altro modo.
Un altro macabro rito era quello
praticato da alcuni reparti americani che tagliavano le teste dei cadaveri
piazzandoli in cima o a delle aste o a dei pali con lo scopo di terrorizzare i
guerriglieri che abitavano nelle zone limitrofe.
Un’altra pratica usata con una
certa frequenza era quella di lanciare i cadaveri dagli aerei per
determinare un effetto psicologico di terrore.
Quest’innumerevoli atrocità
erano anche il risultato dell’addestramento militare che aveva scopi precisi.
Partendo dal fatto che gran parte dei soldati che combattevano in Vietnam non
avevano più di vent’anni, questi venivano sottoposti a intensi stress psicofisici
allo scopo di creare una vera e propria tabula rasa che avrebbe
facilitato l’indottrinamento militare. Le loro giornate duravano circa 17 ore e
ogni dettaglio della loro vita era prestabilito. Insomma, l’addestramento
militare mirava ad una vera e propria spersonalizzazione con rapporti sociali
forzati, giornate sovraccariche di lavoro, disorientamento e successivo
riorientamento in base ai codici militari. L’umiliazione psicologica e la
sofferenza fisica facevano parte dell’addestramento. Uno degli slogan
maggiormente usati durante l’addestramento era quello di uccidere senza pietà.
Un’altra tecnica di spersonalizzazione era naturalmente relativa ai nemici che
venivano definiti musi gialli, nanerottoli allo scopo di disumanizzarli. A
causa di questo addestramento la differenza fra militari e civili era
vanificata. Infatti qualunque cosa si muovesse nei villaggi sia che fossero
donne che bambini era da considerarsi un nemico. Naturalmente l’addestramento
sottolineava l’importanza della obbedienza cieca ai comandanti. Uno degli
slogan più terrificanti che veniva utilizzato per sintetizzare la forma mentis
dell’addestramento era la seguente: “il soldato più libero è quello che si
sottomette volontariamente all’autorità“.
Superfluo sottolineare che i
soldati ignoravano la Convenzione di Ginevra del 1949. Di particolare
significato, a tale riguardo,è il fatto che gran parte degli allievi ufficiali
della School di Fort Benning ,in Georgia, non avevano alcun problema a
torturare i prigionieri di guerra pur di ottenere informazioni .
Il tabellone dei risultati
Una delle pratiche più diffuse
durante la guerra del Vietnam fu la competizione fra unità: infatti
gareggiavano le une con le altre con lo scopo di raggiungere i numeri di
morti più alti. Ecco allora che apparvero veri e propri tabelloni dei
risultati e cioè grafici presenti nelle basi militari che indicavano quanti
morti erano stati fatti durante la settimana. Naturalmente non aveva alcun
importanza se le vittime fossero soldati vietnamiti oppure donne e bambini. A
tale proposito l’autore riporta due casi significativi. Il primo risale al 1
settembre 1969 quando i soldati della 196ª brigata di fanteria utilizzarono la
mitragliatrice per uccidere quelli che sembravano soldati vietnamiti ma che in
realtà erano bambini vietnamiti. Il secondo caso risale al 22 settembre 1968:
dopo aver catturato un vietnamita ferito e disarmato ,senza alcuna ragione se
non quella di competere con altre unità ,venne ucciso da Joseph Mattaliano
della 82ª divisione aerotrasportata .
Razzismo e geopolitica del
disprezzo in Vietnam
Al di là dei documenti ufficiali dei circoli accademici patinati e
delle riviste accademiche patinate il Vietnam veniva considerato per
esempio dal presidente Johnson come un paese piccolo e insignificante
che contava meno di una pisciata; per il consigliere della Sicurezza Kissinger il Vietnam del Nord era una piccola potenza di quarto ordine.
Per gli ufficiali, impegnati nelle operazioni di guerra in Vietnam, era
considerato il “cesso nel cortile dell’Asia”, il “bidone della
spazzatura della civiltà” o il “buco del culo del mondo”. Scontato che
il razzismo fosse ampiamente diffuso sia fra i soldati che fra gli
ufficiali: i vietnamiti non era un esseri umani ma erano soltanto musi
gialli, erano poco più che animali e quindi ci poteva fare loro ciò che
si voleva. Questo consentiva ai soldati di maltrattare i bambini per
puro divertimento oppure agli ufficiali, che sedevano delle corti
marziali, di assolvere gli assassini o di condannarli a pene simboliche.
Ma soprattutto consentiva ai comandanti di ignorare i crimini di guerra
commessi dai loro sottoposti.
Tattiche di guerra
Una delle tattiche più note applicate in Vietnam fu quella del cerca e distruggi formalizzata dal generale Westmoreland.
Secondo questa tecnica piccole unità dovevano trovare, attirare e
preparare le truppe nemiche. In altri termini il loro compito era quello
di far uscire in un modo o nell’altro i reparti nemici dai loro rifugi e
dalle campagne e poi scatenare su di loro l’artiglieria pesante. Questa tattica elaborata nelle stanze asettiche del Pentagono si rivelò semplicemente stupida: finì infatti per dare ai Vietcong un vantaggio tattico straordinario. Le truppe nordvietnamite potevano far finta di abboccare ogni volta che poteva far loro comodo,
costringendo in questo modo gli americani a ritrovarsi invariabilmente
sulla difensiva. Infatti ,In base ai documenti del Pentagono, i Vietcong
furono in grado di cogliere di sorpresa le forze americane per il 78%
delle volte. A pagare il prezzo più alto furono come sempre i civili.
Un’altra tattica fu quella del
fuoco libero: chiunque si trovasse nelle zone denominate in questo modo
diventava per definizione un nemico. Donne e bambini potevano essere in modo
legittimo considerate un bersaglio. secondo i dati del Pentagono, nel solo
mese di gennaio del 1969, vennero bombardati villaggi in cui abitavano
3.300.000 vietnamiti secondo la tattica del fuoco libero.
Il Vietnam come laboratorio di
sperimentazione
Sovente le guerre moderne
sperimentano le proprie innovazioni tecnologiche direttamente sul campo di
battaglia. Da questo punto di vista il Vietnam è esemplare. Come ricorda il
giornalista americano il Vietnam divenne il terreno di prova per le nuove
tecnologie militari e uno dei suoi più entusiasti sostenitori fu il generale Maxwell
Taylor. Nonostante le innovazioni tecnologiche, rimane il fatto
incontrovertibile che lo strapotere militare americano non riuscì a prevalere
sui guerriglieri, cioè non riuscì a prevalere su un paese basato su un’economia
agricola. Anche se gli Stati Uniti non hanno mai usato le armi nucleari ,la
potenza distruttiva che riversarono sul Vietnam fu pari a centinaia di bombe di
Hiroshima: attuarono cioè una guerra basata sul concetto di overkill
cioè sull’uso di un potenziale distruttivo in eccesso. E come tutte le
guerre i costi per la comunità americana furono altissimi: le stime sul costo
complessivo della guerra si aggirano dai 700 ai 1000 miliardi espressi in
dollari attuali. Infatti la guerra in Vietnam arrivò ad assorbire il 37%
dell’intera spesa militare del paese.
Fra le drammatiche innovazioni
poste in essere durante la guerra in Vietnam ci fu l’uso da parte degli F-4
Phantom delle bombe con il napalm. Nel suo saggio Turse ricorda che nel
Sud-est asiatico ne furono sganciate qualcosa come 400.000 tonnellate: il 35%
delle vittime moriva entro i primi 15/20 minuti. Per tutti coloro che non
venivano asfissiati o divorati dalle fiamme – sottolinea il giornalista
americano – si poteva prospettare soltanto un destino da morti viventi poiché
il naso, le labbra, i capezzoli e le palpebre venivano bruciati quasi fusi dal
calore mentre la pelle veniva carbonizzate, cioè si scrostata come una polvere
chimica. Allo scopo di rendere ancora più devastante l’uso di questa sostanza, gli
americani la combinavano con un altro agente incendiario e cioè il fosforo
bianco che, acceso dal contatto con l’aria, bruciava finché non veniva
interrotto l’afflusso di ossigeno. A tale proposito esiste una drammatica
testimonianza scrupolosamente riportata da Turse: “ho visto la pelle e le ossa
della mano di un bambino ustionato dal fosforo bianco sfrigolare per 24 ore,
insensibile a qualunque cura “.
Lo sdoganamento della tortura
In un contesto di tale natura
l’uso della tortura – l’uso di bastoni, di mazze, di acqua e scosse elettriche –
era assolutamente consueto, cioè faceva parte della routine sia nell’arcipelago
carcerario del Vietnam sia nelle centinaia di basi militari statunitensi e
sudvietnamite. Le tecniche utilizzate dagli americani furono la conseguenza
degli studi che la CIA fece negli anni ‘50 e che poi culminò nel cosiddetto “Manuale
Kubark per gli interrogatori del controspionaggio” scritto segretamente nel
1963. la CIA ebbe modo di perfezionare queste tecniche all’interno del centro
nazionale interrogatori di Saigon. Grazie all’addestramento fornito dalla CIA, nel
1971 gli agenti del governo sudvietnamita in grado di impiegare le tecniche
della tortura pianificate dalla CIA si aggiravano intorno alle 85.000 unità.
Non a caso il comitato internazionale della Croce Rossa e ebbe modo più volte
di contestare al governo americano in accettabili violazioni della convenzione
di Ginevra nonostante le false promesse del segretario di Stato Dean Rusk. Fra
il 1968 e il 1969 la Croce Rossa visitò 60 strutture carcerarie gestite
direttamente dagli Stati Uniti e in tutte queste prigioni furono trovate prove
di abusi come percosse, ustioni e torture con scosse elettriche ai danni sia di
prigionieri di guerra sia di detenuti civili. Tuttavia una delle tecniche
più tristemente usate nelle prigioni sudvietnamite di Con Son furono le gabbie
di tigre: erano una serie di celle di pietra grandi circa un metro e mezzo per
tre, prive di finestre in ciascuna delle quali erano rinchiuse dai tre ai
cinque vietnamiti. Se si guardava tra le inferiate che costituivano il soffitto
delle celle ci vedevano uomini incatenati al suolo, ammanettati ad una
sbarra o con i ceppi alle caviglie. Inoltre sopra ogni cella c’era un secchio
di calce viva che ufficialmente doveva servire per scopi igienici ma che in
realtà veniva regolarmente gettata loro addosso come punizione provocando
soffocamento e ustioni. Fu solo grazie alle indagini dei deputati americani Augustus
Hawkins e William Anderson che il Congresso degli Stati Uniti fu messo al
corrente di queste pratiche. Soltanto nel 1971, grazie un’inchiesta
ufficiale dell’esercito sulle torture ai prigionieri di guerra, si venne a
sapere che le violazioni della Convenzione di Ginevra erano diffusissime e che
la tortura per le truppe americane era una procedura standard. Infatti la
brutalità era regolarmente praticata all’interno delle basi americane ed era
diffusa anche fra le truppe sul campo. Il culmine di queste operazioni fu il
programma noto come Phoenix Program secondo il quale uomini delle forze
speciali americane e sudvietnamite insieme a killer professionisti furono
impiegati per neutralizzare i membri della struttura Vietcong e cioè i
civili al servizio del FNL. Questo programma, nel 1969, produsse circa 19.000
neutralizzazioni, un lavoro questo che può essere definito da veri e propri
cacciatori di taglie in cui si faceva ben poco caso al fatto che gli obiettivi
fossero davvero colpevoli. Le prime ammissione ufficiali arrivarono nel 1971
quando William Colby – futuro direttore della CIA, ma all’epoca responsabile
statunitense per la pacificazione il Vietnam – affermò che nell’ambito di
questo programma erano state uccise almeno 20.000 persone. L’ex agente
dell’intelligence militare K.B arton Osborn spiegò come il personale di questo
programma avesse carta bianca per torturare e assassinare nella più totale
impunità.
Conclusione
Indubbiamente sono diversi gli insegnamenti che si possono
apprendere da questa vicenda. In primo luogo, l’indispensabilità, nel
contesto delle democrazie occidentali, di salvaguardare ad ogni costo la
stampa libera come abbiamo avuto modo di osservare a proposito dell’articolo su Snowden.
In secondo luogo, è necessario sottolineare come esista un enorme divario tra la manualistica accademica
che viene regolarmente prodotta sulla politica internazionale e sulla
strategia – pensiamo alle riflessioni sulla Guerra del Vietnam della
Rand Corporation e di Kissinger – e la realtà nella sua spietata
brutalità. In terzo luogo – come già avevamo evidenziato in un articolo su Krippendorf – il linguaggio artefatto e astratto della manualistica accademica
sulla politica estera nasconde sovente realtà drammatiche. In quarto
luogo, le vicende relative ai crimini commessi dalle truppe americane-ed
in particolare all’uso della tortura non può non farci pensare a casi
analoghi come quello delle torture commesse in Algeria dalla Francia e quello delle analoghe pratiche poste in essere a Guantanamo. In quinto luogo gli Stati durante i conflitti usano un modus operandi analogo a quello delle organizzazioni criminali.
Gli stupri di guerra, le violenza indiscriminate su donne e bambini
come l’uso della tortura sono azioni analoghe a quelle poste in essere
dalle principali organizzazioni mafiose. E non devono essere considerati
eventi occasionali, pur nella loro drammaticità, ma costant .
In sesto luogo, la guerra del
Vietnam – come quella di Algeria – dimostra ancora una volta la validità
dell’esperimento di Milgran come d’altronde delle riflessioni di Hanna Arendt
su Adolf Eichmann. Parlare di guerre pulite è soltanto un’ipocrisia. Le
guerre sono sempre sporche. Chi le fa – non chi le teorizza dentro un’aula
accademica o in un centro di ricerca – non può non macchiarsi le mani di sangue
e di fango.