L’eccidio
dei fratelli Govoni, uccisi a guerra finita dai partigiani
“rossi”
di Antonio Pannullo
Quella
dei sette fratelli Govoni, di Pieve di Cento, di cui ricorre il
75° anniversario del massacro, è certamente una delle pagine più atroci della
guerra civile italiana tra fascisti e partigiani. La loro storia non si insegna
a scuola, per loro non c’è un museo, le scolaresche non vengono intruppate per
vedere dove vissero e dove morirono. Su migliaia di libri sulla guerra civile,
neanche dieci parlano di loro. Eppure la loro tragedia e quella della loro
famiglia è indicativa per rappresentare l’atmosfera di selvaggia violenza, di
terrore, di intimidazione e di omertà che in quegli anni regnava in Emilia
Romagna e altrove. Accusati di essere fascisti, in realtà solo due di loro
avevano risposto alla chiamata obbligatoria della Repubblica
Sociale Italiana, furono sottoposti a torture indicibili e linciati dalla
brigata partigiana Paolo dopo torture e sevizie durate ore. La più
giovane di loro, Ida, che aveva solo vent’anni e non si occupava di politica, fu
sequestrata mentre stava allattando la figlia di due mesi e brutalmente
assassinata. Dei sette fratelli Govoni solo uno risultò essere morto per un
colpo di arma da fuoco, mentre gli altri furono
massacrati a botte, bastonate, calci e infine steangolati col filo del telefono. I fratelli
Govoni, tutti contadini da generazioni, erano in tutto otto, ma una, Maria, si
era trasferita dopo il matrimonio e i partigiani non riuscirono a rintracciarla.
La storia è resa ancora più penosa dal fatto che dopo il massacri i
parigiani buttarono i corpi in un fossato anticarro e si rifiutarono di dire ai
genitori dove fossero le spoglie. Addirittura la madre Caterina fu derisa
e poi picchiata a sangue da due donne dopo che aveva implorato un partigiano del
paese di dirgli dove fossero sepoliti i suoi sette figli. Il partigiano avrebbe
risposto: «Procurato un cane da tartufi e vai a cercarli». Tutti nel paese
sapevano, perché il massacro era stato perpetrato da decine di persone, ma
nessuno parlava, perché i comunisti tenevano il circondario nel terrore di nuove
vendette e omicidi. Solo qualche anno dopo chi sapeva parlò: era il fratello di
una delle vittime della furia partigiana, che raccontò tutto ai carabinieri. Nel
1949 i componenti la brigata garibaldina che si era macchiata di quella strage
furono denunciati, ma nel frattempo gli
assassini erano stati messi al sicuro in Cecoslovacchia grazie all’aiuto
logistico del Partito Comunista Italiano.
Questo come è noto avvenne per molti altri responsabili di omicidi nei confronti
di civili innocenti, come ad esempio nel caso degli assassini di un settantenne
inerme, tale Giovanni Gentile.