Lavoro e partecipazione
Come
sottolineato nel Libro Bianco della Comunità Europea, il volume di ricchezza
prodotta negli ultimi venti anni è aumentato dell’80%, mentre l’occupazione
totale ha registrato solo un incremento del 9%.
Questo
dato fa sicuramente riflettere ed accredita la consapevolezza
dell’indebolimento del nesso tra sviluppo ed occupazione, dal momento che è
ormai accertato che non bastano tassi di crescita più elevati per
mantenere un correlativo tasso di occupazione.
Il
ritardo nella comprensione di tale fenomeno è da attribuire al fatto che per
anni si è ritenuta la disoccupazione come un fatto unicamente congiunturale,
caratterizzato da circostanze transitorie e si è tentato di dare risposta al
problema predisponendo soltanto
correttivi settoriali allo squilibrio tra domanda ed offerta.
Infatti,
sono state poste in atto politiche spesso demagogicamente tese ad avvantaggiare
taluni segmenti dell’offerta, soprattutto di carattere generazionale,
e non l’accesso al lavoro in generale.
Non
è dunque un caso se oggi se ne paga la conseguenza con un sempre più rilevante
numero di ultraquarantenni fuori dall’area dell’occupazione ed a rischio di
emarginazione e di esclusione dal senso di appartenenza alla società ed alla
comunità nazionale.
Il
fallimento delle politiche occupazionali nel Mezzogiorno d’Italia è stato
caratterizzato, in questi ultimi anni, da interventi a volte assistenziali ed a
volte parcellizzati, ma senza mai incidere in maniera strutturale sul fenomeno.
Inoltre,
l'idea di fondo che i salari contrattuali siano troppo alti è assolutamente
infondata, dal momento che la politica del contenimento del costo del lavoro non
ha prodotto gli effetti sperati e l’occupazione nel settore privato coincide,
purtroppo, in larga parte, con l’occupazione irregolare, dove le retribuzioni
sono già abbondantemente al di sotto di quanto previsto dai contratti
nazionali.
Appare
pertanto ineludibile la necessità di adattare le forme ed i costi contrattuali
alla struttura produttiva e occupazionale propria dei nuovi modelli di
"accumulazione snella", aventi come riferimento non più la grande
industria ed il modello fordista o taylorista, ma le piccole e medie imprese.
Da
anni si parla di piccola e media impresa spesso in maniera strumentale e quasi
sempre per attirare consensi politici, senza che sia mai stato attivato un
preciso progetto destinato al definitivo consolidamento del settore.
E'
ora, invece, di cominciare a considerare l'importanza di tale tessuto
produttivo, inserendolo in un progetto socio-economico e di sviluppo incentrato
sugli ideali della partecipazione dei lavoratori alla gestione ed agli utili
delle aziende, sulla base della libera accettazione di statuti partecipativi che
consentano alle singole imprese di stabilire il livello interno di
coinvolgimento, di responsabilità e di rappresentanza del lavoro.
E
questo, in un contesto nuovo di democrazia aziendale che definisca - assicurando
la partecipazione attiva alla vita dell'azienda di tutte le maestranze - gli
obiettivi della crescita, le caratteristiche della quota flessibile della
remunerazione, i tempi, i modi, le forme della produzione e la indispensabile
qualità della stessa.
Insomma,
la sfida della democrazia partecipativa non può non passare, innanzi tutto,
attraverso l'importante esperienza del mondo del lavoro e la rivisitazione e la
trasformazione dei vecchi rapporti di produzione e dei vecchi modelli.
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