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Italia - Repubblica - Socializzazione
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da "Archivio
Guerra Politica"
L'uso politico della
giustizia
Vincenzo Vinciguerra
Fra le tante
leggende che la democrazia italiana alimenta quella relativa all’indipendenza
della magistratura è una delle più accreditate.
Il terzo potere dello Stato è, in realtà, subalterno a quello esecutivo che di
esso dispone a proprio piacimento ora come scudo per difendersi ora come spada
per offendere.
Possiamo affermare, senza timori di smentite, che in questo Paese ci siano stati
– e ci siano ancora oggi – giudici giusti ma che sia semplicemente inesistente
la giustizia, che viene sempre subordinata da quanti sono chiamati ad affermarla
agli interassi dello Stato, ovvero a quelli della classe politica dirigente che
lo Stato guida e controlla.
E’ normale, pertanto, che una classe politica cinica e spregiudicata abbia
sempre utilizzato, quando lo ha ritenuto necessario, la magistratura come
un’arma contro gli avversari politici per piegarne la resistenza.
Classico rimane l’esempio del processo per l’oro di Dongo il cui esito poteva
avere conseguenze devastanti per il Partito comunista italiano, i cui uomini
erano stati i protagonisti dell’arresto di Benito Mussolini e dei componenti del
governo della Repubblica sociale italiana a Dongo il 27 aprile 1945, e del
sequestro di documenti e di ingenti somme di denaro in loro possesso di gran
parte dei quali se ne persero le tracce.
Nei primi mesi del 1947 è all’esame dell’Assemblea costituente l’inserimento
nella nuova Costituzione del Concordato fra Stato e Chiesa, firmato da Benito
Mussolini l’11 febbraio 1929.
Come vincere la scontata opposizione delle sinistre e, in particolare, del
Partito comunista guidato da Palmiro Togliatti?
La domanda se la pose il presidente del Consiglio del tempo, Alcide De Gasperi,
e la risposta venne trovata in un’operazione di ricatto politico-giudiziario
relativo proprio alla scomparsa di buona parte del cosiddetto “oro di Dongo”.
Non ci sono, manco a dirlo, prove certe ma la sequenza degli avvenimenti lascia
pochi dubbi.
L’8 gennaio 1947 il generale Leone Zingales è inviato da Roma a Milano, in
missione temporanea presso la locale procura militare, per dirigere l’inchiesta
sulla scomparsa del cosiddetto “oro di Dongo”.
Un mese più tardi, fra il 10 e il 15 febbraio, Zingales ordina l’arresto di
dirigenti e militanti comunisti sospettati di aver concorso a far sparire
documenti e valuta in possesso di Benito Mussolini.
Il 20 febbraio, l’ufficiale parte per Roma dopo aver annunciato ai giornalisti
che porta con sé “tutti i documenti relativi al processo per il tesoro dell’oro
di Dongo… Non c’è dubbio – aggiunge – che il tesoro di Dongo debba considerarsi
preda bellica agli effetti dell’art. 236 del codice penale militare”.
Il 15 marzo, senza alcuna motivazione, il generale Leone Zingales viene
destituito dall’incarico e gli atti relativi al processo per l’oro di Dongo sono
trasmessi alla Corte di cassazione.
Tre giorni più tardi, il 18 marzo, Alcide De Gasperi informa monsignor Giovanni
Battista Montini che i comunisti hanno deciso di votare a favore
dell’inserimento nella Costituzione dei Patti del Laterano.
Il 21 marzo, Ruggero Grieco, in un’intervista concessa a “Toscana nuova” afferma
che il Partito comunista voterà contro l’inserimento del Concordato nella
Costituzione, perché rappresenta “patti sottoscritti dal fascismo e che
contengono anche principi contrari alla Costituzione stessa”.
Le affermazioni dell’alto dirigente comunista sono clamorosamente smentite da
Palmiro Togliatti che, il 24 marzo, ordina al gruppo parlamentare comunista
convocato per l’occasione di votare a favore dell’inserimento dei Patti
lateranensi nella Costituzione.
La correlazione fra l’insabbiamento del processo per l’oro di Dongo del 15 marzo
1947, con l’invio degli atti in Cassazione, e la decisione clamorosa di Palmiro
Togliatti di votare a favore dell’inserimento del Concordato nella Costituzione
nove giorni più tardi, il 24 marzo, non sfugge agli osservatori più attenti i
quali non esiteranno a parlare di “Dongo ut des”.
È solo un esempio, questo del processo per l’oro di Dongo, di come sia possibile
usare la magistratura per fini politici, anzi perfino per scopi personali, per
faide interne alla stessa Democrazia cristiana.
Lo prova il caso della morte di Wilma Montesi, rinvenuta cadavere sulla spiaggia
di Torvajanica, a Roma, il 16 aprile 1953.
Sulla morte della ragazza s’imbastisce una speculazione politica che ha come
protagonista l’allora ministro degli Interni Amintore Fanfani che si propone la
liquidazione politica dell’alto dirigente democristiano Attilio Piccioni.
Il figlio di quest’ultimo, Piero, viene difatti indicato da alcuni testimoni
come correo nella morte di Wilma Montesi e partecipante assiduo a certi
“festini” svoltosi in ville di Capocotta.
Tanto basta perché Fanfani crei uno scandalo politico-giudiziario che finirà per
travolgere Attilio Piccioni, con il concorso di giornalisti, ufficiali dei
carabinieri e, soprattutto, del magistrato incaricato di condurre l’inchiesta,
Raffaele Sepe.
Sepe lavora molto con i giornalisti e sul suo conto, il 25 settembre 1954, il
capo della polizia Giovanni Carcaterra può scrivere:
“Magistrato tronfio, ambiziosissimo, ma di buona cultura giuridica, non è
attualmente ben visto dai suoi colleghi quali, prescindendo da ogni
considerazione sul suo operato nell’odierna vicenda, lo considerano un
esibizionista amante di pubblicità”.
Cancellata la “buona cultura giuridica”, il ritratto si adatta perfettamente a
Felice Casson che in Sepe ha un precursore e un esempio, perfino nello
scegliersi come punto di riferimento politico all’interno della Democrazia
cristiana Giulio Andreotti, del quale il disinvolto magistrato si proporrà come
consigliere giuridico.
Nell’estate del 1956, dopo che l’anno precedente la Germania federale è entrata
a far parte dell’Alleanza atlantica, il governo decide di bloccare ogni azione
penale a carico di ufficiali tedeschi che hanno operato in Italia dopo l’8
settembre 1943.
E’ una scelta politica che suscita malumori negli ambienti militari che non
vedono con favore la nomina di un generale tedesco ai vertici della Nato specie
quando questi è il fratello dì un ufficiale che ha avuto un ruolo preminente
nella fucilazione dei militari italiani della divisione “Acqui” a Cefalonia nel
mese di settembre del 1943.
Per tacitare le proteste dei più facinorosi giunge puntuale il tintinnio delle
manette.
Il 23 novembre 1956, a conferma che la storia si può scrivere in modo difforme
da come viene oggi raccontata, il giudice istruttore militare di Roma, Carlo Del
Prato, spicca un mandato di comparizione a carico di Renzo Apollonio ed altri
ufficiali della divisione “Acqui” sopravvissuti, ipotizzando a loro carico i
reati di rivolta continuata, cospirazione ed insubordinazione con minaccia verso
superiore ufficiale, per aver disobbedito agli ordini di “desistere da ogni atto
ostile e di predisporre la cessione ai tedeschi delle armi pesanti”, inducendo
“la truppa alla rivolta per commettere atti di ostilità contro i tedeschi al
fine di creare il ‘fatto compiuto’” e, in questo modo, contrastare militarmente
le truppe germaniche.
In altre parole, la responsabilità del massacro di Cefalonia non ricade sui
tedeschi ma sugli ufficiali che disobbedendo all’ordine del comandante della
divisione “Acqui” di cedere le armi, aprirono il fuoco sui tedeschi provocando
la loro rappresaglia.
Militare o civile la “giustizia” costituisce un deterrente in grado di bloccare
ogni protesta. E, difatti, Renzo Apollonio e gli altri ufficiali tacquero per
sempre.
Ma è negli anni Settanta e seguenti che l’uso politico della giustizia diviene
prassi costante e clamorosa nella quale si distingue l’allievo prediletto di
Alcide De Gasperi: Giulio Andreotti.
Andreotti, presidente del Consiglio designato dei “golpisti”, promuove a partire
dal mese di gennaio del 1973 una seconda inchiesta sul cosiddetto “golpe
Borghese”, dal nome dell’ex comandante della Xa Mas, Junio Valerio Borghese, del
7-8 dicembre 1970.
Affida le indagini al generale Gianadelio Maletti, responsabile dell’ufficio “D”
del Sid preposto alla difesa della sicurezza interna, che tramite il capitano
Antonio Labruna raccoglie le confessioni di Remo Orlandini, braccio destro di
Junio Valerio Borghese, e di altri “congiurati” e redige per Giulio Andreotti un
rapporto nel quale ricostruisce, con nomi e cognomi, l’ambiente “golpista” e le
relative responsabilità.
L’esponente politico-mafioso che Filippo De Jorio bollerà come “Giuda” (e
qualcuno subito dopo gli sparerà alle gambe ) gestirà il rapporto del Sid per
fini personali e politici, decidendo chi dovrà finire sotto processo e chi no,
per affidare infine nell’autunno del 1974 al sostituto procuratore della
Repubblica di Roma Claudio Vitalone, uomo di sua assoluta fiducia, l’incarico di
procedere e di perseguire penalmente i “golpisti”.
Ne verrà fuori una vicenda giudiziaria grottesca dalla quale usciranno indenni
tutti: dal capo golpista Giulio Andreotti che nessuno oserà chiamare in causa
esplicitamente all’ultimo dei “congiurati”, tutti assolti, anche i rei confessi,
per non aver commesso il fatto.
Giulio Andreotti potrà trasformarsi con la complicità del Partito comunista
italiano da “golpista” a “difensore della democrazia”, da guida degli “eversori
neri” nel loro più spietato persecutore e proseguirà in una carriera politica
sempre più sfolgorante.
Ci prende gusto, Giulio Andreotti, e difatti nell’autunno del 1978, per favorire
la formazione guidata da Mario Tedeschi, “Democrazia nazionale”, e togliere voti
al Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, ordinerà al direttore del
Sismi, generale Giuseppe Santovito di far riaprire l’inchiesta sull’attentato di
Peteano di Sagrado del 31 maggio 1972.
La storia dell’attentato di Peteano e dei successivi depistaggi, Giulio
Andreotti la conosce bene fin dall’inizio perché era lui il presidente del
Consiglio nel giugno del 1972, sa quindi che Carlo Cicuttini era segretario
della sezione del Msi-Dn di Manzano del Friuli, che per farlo operare alle corde
vocali (lui aveva telefonato attirando i carabinieri nella trappola mortale)
Giorgio Almirante gli aveva fatto inviare 35 mila dollari peraltro mai a lui
pervenuti, ma solo ora la verità gli serve politicamente per danneggiare il Msi
ed il suo segretario.
L’operazione fallirà così come “Democrazia nazionale”, ma con l’incauta
decisione di riaprire l’inchiesta sull’attentato del 31 maggio 1972, Giulio
Andreotti ed il servizio segreto militare scopriranno che se ad essi si addice
il ruolo di burattinai non tutti gli uomini sono disposti a ricoprire il ruolo
dei burattini.
Ne riparleremo.
La riapertura dell’inchiesta sull’attentato di Peteano di Sagrado imposta da
Giulio Andreotti sarà posta, poi, alla base di una speculazione politica dal
quale l’unico a trarne vantaggi personali sarà il giudice istruttore di Venezia
Felice Casson.
Procediamo con ordine.
Si è detto e si continua a dire, solo perché affermato dallo stesso Felice
Casson, che la scoperta dell’esistenza della struttura Gladio nell’estate del
1990, è scaturita dalle indagini fatte sull’attentato del 31 maggio 1972 da
cotanto ex magistrato e, in modo specifico, dalle dichiarazioni che io avrei
rese a lui a partire dal 20 giugno 1984.
È falso.
È solo una volgare menzogna sulla quale Felice Casson ha costruito la sua
carriera politica.
La scoperta dell’esistenza della struttura segretissima denominata “Gladio” è
dovuta all’inchiesta sul sabotaggio dell’aereo “Argo 16″, fatto esplodere sul
cielo di Marghera dai servizi segreti israeliani il 22 novembre 1973, condotta
dal giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni.
Lo dicono i fatti e le date.
Il giudice istruttore Carlo Mastelloni, nel corso della sua inchiesta, la sola
condotta con serietà nei confronti dei servizi segreti israeliani, scopre che
l’aereo esploso in volo a Marghera, l'”Argo 16″, era in dotazione al servizio
segreto militare e che era adibito al trasporto di armi e di uomini condotti
nella base segreta di Alghero (Sardegna) per esservi addestrati, non solo
militari ma anche ex militari e civili.
Non basta, Carlo Mastelloni accerta l’esistenza di depositi di armamento ubicati
nella zona Nord-est del Paese che, ufficialmente, non sono di pertinenza delle
Forze armate bensì di una struttura la cui esistenza è segreta, anzi
ufficialmente negata.
Come si vede gli elementi per affermare che il giudice istruttore Carlo
Mastelloni ha scoperto l’esistenza della struttura “Gladio” ci sono tutti:
– la base segreta di Alghero per l’addestramento di civili ed ex militari;
– il mezzo di trasporto, l”‘Argo 16”;
– i depositi clandestini di armi, munizioni ed esplosivi, i cosiddetti
“Nasco”;
– qualcuno dei responsabili come il generale Gerardo Serravalle che Carlo
Mastelloni interrogherà il 20 aprile 1989.
Per giungere alla conclusione dell’indagine manca solo il riconoscimento
ufficiale da parte del governo che, viceversa, opporrà il segreto di Stato.
È doveroso porre in rilievo come non ci siano connessioni di sorta con le
indagini sull’attentato di Peteano di Sagrado, con la mia persona, con le mie
dichiarazioni sull’esistenza di “strutture parallele” dello Stato coinvolte
nella guerra politica.
L’inchiesta e le indagini del giudice istruttore Carlo Mastelloni non fanno
riferimento, nemmeno indirettamente, ad episodi diversi da quello
dell’abbattimento dell'”Argo 16” sul cielo di Marghera il 23 novembre 1973, non
richiamano verbali e testimonianze di altre inchieste.
L’indagine del giudice istruttore Carlo Mastelloni si svolge in un ambiente
esclusivamente militare e tende ad accertare le responsabilità dei servizi
segreti israeliani nell’omicidio di quattro militari italiani (l’equipaggio dell”‘Argo
16″) e quelle di quanti in Italia si erano prodigati per cancellare le tracce di
una strage che porta impresso il marchio della Stella di David.
E’ una verità, questa ora affermata, che non si può smentire.
Il 18 ottobre 1988, il giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni chiede al
Sismi informazioni relative a “plurimi depositi di armamento siti in Veneto e
nella zona nordorientale del Paese… destinati a civili o ex militari addestrati…
nel Centro occulto sito in Alghero, Sardegna”.
C’è, in questa richiesta, tutto quello che serve per dire che il segreto su
“Gladio” non esiste più, che è stato scoperto tutto quello che c’era da
scoprire.
Ma il 20 ottobre 1988, l’ammiraglio Fulvio Martini, direttore del Sismi, oppone
al giudice Carlo Mastelloni il segreto di Stato:
“Comunico che tutti i dati richiesti sono coperti dal segreto di Stato. Il
Presidente del Consiglio dei ministri, informato per le vie brevi, ha
autorizzato quanto sopra”.
Il giudice istruttore Carlo Mastelloni non demorde e il 4 novembre 1988 si
rivolge direttamente al presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, per chiedere
la rimozione del segreto di Stato.
Richiesta legittima, ai sensi della legge 801 di riforma dei servizi segreti,
perché Carlo Mastelloni sta indagando su una strage, reato per il quale non
sarebbe opponibile il segreto di Stato.
Il 28 dicembre 1988, viceversa, il presidente del Consiglio Ciriaco De Mita
conferma l’apposizione del segreto di Stato bloccando in questo modo l’inchiesta
di Carlo Mastelloni.
La storia potrebbe finire qui, con l’amara conclusione di una verità scoperta
dal giudice istruttore Carlo Mastelloni e negata da un presidente del Consiglio
democristiano.
Il destino, però, ha disposto altrimenti.
Il 22 luglio 1989, torna a ricoprire la carica di presidente del Consiglio il
rappresentante di “Totò o’curtu”, Giulio Andreotti.
Nel mese di ottobre del 1989, la casa editrice Arnaud di Firenze pubblica il mio
libro, “Ergastolo per la libertà. Verso la verità sulla strategia della
tensione”, all’interno del quale oltre a giudizi sprezzanti nei confronti di
Felice Casson, c’è un passo dedicato alle “strutture parallele”:
In Italia – scrivevo – esiste “un’organizzazione segreta, composta di militari e
di civili, alla quale sono affidati compiti politici e militari, in possesso di
una rete di comunicazione propria, di armi, esplosivi ed uomini addestrati ad
usarli. Una super organizzazione, questa, che da anni, dall’immediato
dopoguerra, ha creato una struttura di comando parallela a quella ufficiale
esistente ed ha arruolato ed addestrato all’uso delle armi ed al sabotaggio
migliaia di uomini in tutto il Paese. Una super organizzazione che, in mancanza
dell’invasione sovietica che non c’è stata, né ci poteva essere, si è assunta
per conto della Nato il compito di evitare slittamenti a sinistra degli
equilibri politici del Paese. Come lo ha fatto, con l’assistenza dei servizi
segreti ufficiali, delle forze politiche e militari, lo sappiamo tutti anche se
la paura impedisce a troppi di dire qualche parola che aiuti a far luce su
questa realtà ancora presente nel nostro Paese”.
Il libro stampato nel mese di ottobre, compare nelle librerie nel mese di
novembre.
Il 9 di quella stesso mese di novembre del 1989, cade il muro di Berlino e
vengono aperte per la prima volta le frontiere fra la Germania federale e quella
orientale.
È la fine del comunismo internazionale ed interno.
Fino a quel momento le mie dichiarazioni sulle “strutture parallele” hanno
suscitato interesse solo in alcuni magistrati che, però, non hanno mai
approfondito il tema né svolto indagini.
Il solo magistrato che ha negato alla radice ogni credibilità alle mie
affermazioni è stato proprio lui: Felice Casson.
Il 15 aprile 1987, ascoltato in seduta segreta dalla Commissione d’inchiesta
monocamerale presieduta dal democristiano Gerardo Bianco, Felice Casson si era
esibito in un violento attacco personale alla mia persona, concluso con le
fatidiche parole:
“Non credo ad una sola parola di quello che dice meno che alla sua personale
responsabilità nella strage di Peteano”.
A dire il vero, il Casson nell’ordinanza istruttoria del 4 agosto 1986 si era
impegnato a distruggere la credibilità dell'”imputato principale” e del
testimone, mentre in quella del 3 gennaio 1989 non c’è riferimento alcuno alle
mie dichiarazioni, tantomeno a quelle sulle “strutture parallele”.
Giunge, però, l’ora degli sciacalli.
Giulio Andreotti, oltre che degli affari della mafia, si occupa anche di quelli
politici interni ed internazionali.
Il crollo del comunismo internazionale, la conversione fulminea alla
socialdemocrazia dei comunisti italiani guidati da Achille Occhetto, la
conoscenza pregressa dei fatti relativi ai depistaggi seguiti all’attentato di
Peteano come presidente del Consiglio del tempo, l’ambizione di concludere la
sua nefasta carriera come presidente della Repubblica obbligando Francesco
Cossiga a dimettersi anzitempo (lo affermerà lo stesso Cossiga, senza essere
smentito) con i voti del Pci, suggeriscono a Giulio Andreotti l’avvio di
un’operazione che preveda ancora una volta l’uso politico della giustizia.
Per fare un’operazione “sporca” servono gli uomini adatti, e a compare Giulio
Andreotti non manca la capacità di individuarli.
Il fine dell’operazione è quello di giungere ad elezioni anticipate per la
presidenza della Repubblica proponendo sé stesso come candidato sostenibile
anche dai parlamentari comunisti, ed il mezzo è rappresentato da uno scandalo
che possa travolgere Francesco Cossiga che di “Gladio” è stato uno dei
responsabili politici.
Lo scandalo si crea collegando la struttura “Gladio” ad un attentato di indubbia
gravità come quello di Peteano di Sagrado che, il 31 maggio 1972, aveva
provocato la morte di tre carabinieri.
Le mie dichiarazioni, fino a quel momento trascurate, neglette, non considerate
anzi addirittura bollate come inattendibili da Felice Casson divengono ora
preziose per stabilire un collegamento fra la struttura e l’attentato, fra
Gladio ed il sottoscritto.
Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, della struttura segreta il giudice
istruttore Carlo Mastelloni ha scoperto tutto quello che c’era da scoprire,
addirittura nel 1988, ma è stato fermato dal segreto di Stato.
Giulio Andreotti, in quel mese di dicembre del 1989, avrebbe dovuto
semplicemente rimuovere il segreto di Stato, ammettere l’esistenza della
struttura “Gladio” e consentire al giudice istruttore Carlo Mastelloni di
proseguire e concludere la sua inchiesta che, però, verte su una strage commessa
dai servizi segreti israeliani, quindi non serve.
Inoltre, Carlo Mastelloni è una persona onesta come uomo e come giudice, qualità
che lo rendono inviso a Giulio Andreotti e, soprattutto, inutile per il
conseguimento degli obiettivi che si è prefisso il presidente del Consiglio.
Per i propri scopi, Andreotti necessita di un uomo ”tronfio e ambiziosissimo”,
assolutamente privo di scrupoli e di senso morale: Felice Casson.
Il 6 dicembre 1990, a poche settimane di distanza dalla pubblicazione di
“Ergastolo per la libertà”, si presenta da Felice Casson il generale Pasquale
Notarnicola, ex responsabile della Ia divisione del Sismi.
L’ufficiale parla con Casson dei depositi di armi ed esplosivi, stabilisce un
collegamento arbitrario fra lo spostamento dei “Nasco” iniziato nella primavera
del 1972 e l’attentato di Peteano, riferisce che l’ammiraglio Fulvio Martini
conosceva in quegli anni i nomi degli autori dell’attentato.
E’ attendibile il generale Pasquale Notarnicola?
Forse no, se non altro perché il 28 giugno 1989 era stato rinviato a giudizio
insieme al generale Ninetto Lugaresi ed altri proprio dal giudice istruttore
Carlo Mastelloni per aver favorito la fornitura di armi da parte dell’Olp alle
Brigate rosse.
In ogni caso, Notarnicola viola il segreto di Stato imposto dal presidente del
Consiglio Ciriaco De Mita quasi un anno prima, distoglie l’attenzione
dall’inchiesta sul sabotaggio dell’aereo “Argo 16″ condotta dal giudice
istruttore Carlo Mastelloni e traccia la pista che è politicamente più opportuna
per Giulio Andreotti coinvolgendo la struttura “Gladio” nell’attentato di
Peteano di Sagrado del 31 maggio 1972.
Felice Casson intuisce che quella che gli viene offerta è un’opportunità unica,
quella che gli consentirà di creare il piedistallo sul quale basare la sua
futura carriera politica, e s’impegna nella nuova indagine.
Solo che Casson fino a quel 6 dicembre 1989 non ha mai preso in considerazione
le mie dichiarazioni sulle “strutture parallele”, non ha mai svolto alcuna
indagine ed ora deve iniziare da zero.
Il ragionamento di Felice Casson è da sempliciotti: se conosco l’esistenza della
struttura segretissima, la sua organizzazione, le sue finalità è perché ne ho
fatto parte, ne sono stato almeno contiguo e l’attentato di Peteano di Sagrado
rientra fra quelli organizzati dai “servizi deviati” nell’ambito della strategia
della tensione.
Il pensiero che io possa aver riunito frammenti di informazione nel corso di
anni di attività politica nell’estrema destra per giungere alla certezza
dell’esistenza di questa organizzazione non lo sfiora, ma per evitare smentite
Felice Casson non chiederà mai di interrogarmi sul punto.
Dal nulla che ha, Casson può iniziare la sua indagine dall’atto istruttorio più
ovvio: interroga, il 15 gennaio 1990, l’ammiraglio Fulvio Martini, direttore del
Sismi, che ovviamente nega tutto.
Felice Casson non sa niente e la prova della sua ignoranza viene dalla richiesta
che, il 19 gennaio 1990, fa direttamente al presidente del Consiglio Giulio
Andreotti al quale chiede documentazione utile per accertare “se nel periodo
1972-73-74 siano stati effettuati nel Friuli Venezia Giulia trasferimenti di
depositi (segreti) di armi, munizioni ed esplosivi a disposizione dei Servizi di
sicurezza”.
Si metta a confronto la genericità della richiesta con quella dettagliata
presentata dal giudice istruttore Carlo Mastelloni al presidente del Consiglio
Ciriaco De Mita, il 4 novembre 1988, e si ha la dimostrazione che Felice Casson
non ha la più pallida idea della struttura sulla quale dovrebbe indagare.
Alla richiesta di Felice Casson del 19 gennaio 1990, il presidente del Consiglio
Giulio Andreotti dovrebbe dovuto rispondere nella maniera più coerente,
confermando cioè il segreto di Stato opposto a Carlo Mastelloni dal suo
predecessore Ciriaco De Mita.
Andreotti, viceversa, tace.
La ragione del comportamento del presidente del Consiglio è evidente: consentire
a Felice Casson di proseguire nelle sue indagini e guadagnare tempo in attesa
del momento opportuno per svelare l’esistenza di “Gladio”.
Ma i mesi passano e Felice Casson, al solito, non scopre un bel niente, neanche
un indizio irrisorio che consenta a Giulio Andreotti di procedere alla revoca
del segreto di Stato.
Il giudice istruttore Carlo Mastelloni, viceversa, chiede ancora una volta la
revoca del segreto di Stato che viene negata, il 18 aprile 1990, dal capo di
Stato maggiore del Sismi generale Paolo Inzerilli.
Il 5 maggio 1990, Giulio Andreotti riceve dal direttore del Sismi, ammiraglio
Fulvio Martini, un “appunto” sulla storia delle Stay-behind e dei loro compiti,
redatto su richiesta dello stesso presidente del Consiglio, che si rende conto
che ormai è prossimo il tempo di agire per favorire Felice Casson.
Il 17 maggio 1990, Giulio Andreotti decide di violare il segreto di Stato
informando Felice Casson che “nell’aprile del 1972 fu deciso e iniziato il
recupero di armi, munizioni e esplosivi dislocati a suo tempo in zone di
possibile occupazione nemica”.
La singolarità del comportamento di Andreotti è data dal fatto che nella
comunicazione inviata a Felice Casson gli ricorda che il giudice istruttore
Carlo Mastelloni aveva presentato a suo tempo analoga richiesta alla quale era
stato opposto il segreto di Stato.
La malafede di Giulio Andreotti è evidente. Sceglie di violare il segreto di
stato per consentire a Felice Casson di andare avanti, ovvero di rivolgersi
ancora a lui come vedremo, ma non lo revoca perché in tal caso Carlo Mastelloni
avrebbe potuto riprendere le indagini e rivendicare la titolarità dell’inchiesta
con la trasmissione al proprio ufficio anche degli atti istruttori compiuti da
Felice Casson.
Quello fra Giulio Andreotti e Felice Casson è un gioco di squadra finalizzato al
raggiungimento di un obiettivo politico, non giudiziario.
Casson esulta perché ora ha prova certa che compare Andreotti conta su di lui e
lui può contare sul compare.
Difatti, proseguendo in questo anomalo rapporto fra un giudice istruttore ed un
presidente del Consiglio, Felice Casson chiede ad Andreotti, il 21 maggio 1990,
maggiori delucidazioni in particolare sul conto dell’ammiraglio Fulvio Martini e
sulla sua partecipazione al ritiro dei depositi di armi, munizioni ed esplosivi
in Friuli.
In pratica, Casson indaga sul conto del direttore del Sismi, Fulvio Martini, in
collaborazione con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti che, il 2 luglio
1990, gli farà pervenire la risposta contenente dettagli sulla carriera militare
dell’alto ufficiale.
Il rapporto fra Giulio Andreotti e Felice Casson è ormai consolidato e così,
senza aver mai scoperto nulla, il magistrato, il 7 giugno 1990, chiede al primo
un incontro che avviene il 20 luglio 1990.
Sul contenuto del colloquio con Giulio Andreotti, il ciarliero Felice Casson non
ha mai detto nulla, anche se qualcosa si evince dalla lettera che lo stesso 20
luglio il presidente del Consiglio invia al presidente del Cesis per
comunicargli la sua decisione di autorizzare Felice Casson a recarsi presso la
sede del Sismi per prendere visione e prelevare documenti relativi all’indagine
che sta compiendo.
Quale sia l’indagine non è dato da sapere.
In questo modo, senza aver mai scoperto nulla ma forte dell’ipotesi suggeritagli
il 6 dicembre 1989 dal generale Pasquale Notarnicola sul collegamento fra
l’attentato di Peteano di Sagrado e la struttura “Gladio”, Felice Casson si reca
a Forte Braschi, sede del Sismi, e “scorre” quanto aveva già scoperto due anni
prima, nel 1988, il giudice istruttore Carlo Mastelloni.
L’operazione politica ora può svilupparsi pienamente con l’attacco a Francesco
Cossiga, al quale partecipa entusiasticamente Felice Casson come preventivato da
Giulio Andreotti.
Il 3 agosto 1990, Giulio Andreotti scopre le carte del gioco che ha diretto
utilizzando Felice Casson. Si reca, difatti, nella sede della Commissione
parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi e s’impegna a trasmettere
una relazione predisposta dallo Stato maggiore sulla Stay-behind, proseguendo:
“Sulla base di quanto mi è stato riferito dai servizi, tali attività sono
proseguite fino al 1972, dopodiché sì è ritenuto che non ve ne fosse più
bisogno. Sia sul problema in generale, sia sullo specifico accertamento fatto in
occasione dell’inchiesta sulla strage di Peteano da parte del giudice Casson,
fornirò alla Commissione tutta la documentazione necessaria”.
La malafede di Andreotti è evidente, difatti la relazione predisposta dallo
Stato maggiore avrebbe dovuta essere consegnata al Comitato parlamentare di
controllo sui servizi segreti e non certo alla Commissione parlamentare
d’inchiesta sul terrorismo e le stragi, e lo “specifico accertamento” fatto da
Felice Casson sull’attentato di Peteano non ha dato risultato.
La conferma viene dallo stesso Felice Casson che, interpellato il 27 ottobre
1990 dal sostituto procuratore della Repubblica di Roma Franco Ionta per sapere
se nell’inchiesta sull’attentato di Peteano ci siano elementi riferibili a
“Gladio”, risponde che non ce ne sono e si dichiara disposto a dichiarare la
propria incompetenza ad indagare sulla struttura.
Insomma, un bluff.
Come già nel 1973-74 aveva utilizzato il generale Gianadelio Maletti e il fidato
Claudio Vitalone per imbastire il processo per il “golpe Borghese” e
trasformarsi da imputato in accusatore, così nel 1989-90 Giulio Andreotti usa il
generale Pasquale Notarnicola e l’affidabilissimo Felice Casson per mettere alle
corde Francesco Cossiga e proporsi come presidente della Repubblica con
l’appoggio del Partito comunista italiano, al quale offre lo smantellamento di
una delle strutture segrete utilizzate nel corso della guerra fredda,
ipotizzandone il diretto coinvolgimento in un attentato nel quale avevano perso
la vita tre carabinieri.
Come Giulio Andreotti, anche Francesco Cossiga conosce bene la verità
sull’attentato del 31 maggio 1972, quindi reagisce rabbiosamente alla manovra
che vede il suo collega di partito come mandante e Felice Casson come esecutore,
ma non si dimette.
L’operazione si rivela fallimentare, anzi si rivolge contro chi l’ha ordita.
Il tempo dell’impunità per Giulio Andreotti volge al termine e nel giro di due
anni sarà lui a trovarsi sotto accusa per i rapporti con la mafia.
Svelare l’esistenza di una struttura segreta della Nato, con ripercussioni in
tutta Europa, per una faida interna alla Democrazia cristiana e tentare la
scalata alla presidenza della Repubblica costa caro a Giulio Andreotti che per
la prima volta vede rivolgersi l’arma giudiziaria contro di lui.
Il solo a trarre beneficio dall’operazione è Felice Casson che, nel corso degli
anni, grazie ai rapporti politici e giornalistici che coltiva assiduamente,
riesce ad imporsi all’opinione pubblica come lo “scopritore” di “Gladio”, come
già aveva fatto per l’inchiesta sull’attentato di Peteano di Sagrado.
E, su una fama immeritata e mendace, riesce a farsi portare in Senato da
quell’ex Partito comunista i cui interessi Felice Casson ha sempre servito.
La verità, viceversa, è quella che abbiamo documentata in queste pagine
basandoci sui fatti e sulle prove che vedono il giudice istruttore Carlo
Mastelloni giungere all’individuazione della struttura segreta, delle sue
articolazioni, della sua base segreta, del suo mezzo di trasporto e dei suoi
depositi clandestini di armi, munizioni ed esplosivi nel 1988, ben due anni
prima della “scoperta” ufficiale.
Una verità, quella raggiunta da Carlo Mastelloni, che è stata bloccata da due
presidenti del Consiglio – Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti – e poi dirottata
per abietti motivi dal secondo nell’ufficio di Felice Casson che, come aveva già
fatto per l’attentato di Peteano di Sagrado, si è ben prestato a prendersi il
merito di aver scoperto quello che altri prima di lui e meglio di lui avevano
scoperto ed affermato.
Giulio Andreotti sapeva bene di non poter contare sulla complicità del giudice
istruttore Carlo Mastelloni per portare a termine la sua manovra politica.
I disonesti sanno riconoscere gli onesti. E Andreotti sapeva che Carlo
Mastelloni ha sempre fatto esclusivamente il giudice e il giudice avrebbe
continuato a fare, che avrebbe certamente indagato sulla ipotesi suggerita dal
generale Pasquale Notarnicola del collegamento fra Peteano e Gladio ma, poi,
avrebbe finito per smentirla per assoluta mancanza di indizi.
Non restava, pertanto, che Felice Casson le cui inchieste erano di tipo
giornalistico-giudiziarie e capace, per assoluta mancanza di scrupoli e
smisurata ambizione, di trasformare una mera ipotesi in una certezza, sia pure
giornalistica e non giudiziaria, sulla quale speculare per ricavarne tante
interviste e tanta pubblicità per, poi, farei un suo ingresso che riteneva
trionfale in politica.
Ma la mediocrità dell’individuo è emersa in tutta la sua evidenza nei tentativi
grotteschi di farsi eleggere sindaco a Venezia, per due volte, senza riuscirci e
nel restare confinato nel ruolo di sherpa senatoriale.
Rimane ancora irrisolto il problema dell’uso politico della giustizia, della
facilità irrisoria con la quale uomini politici possono manovrare a loro
piacimento la magistratura promuovendo inchieste, determinando processi e
condizionandone a priori l’esito.
Un problema che investe direttamente la politica e la magistratura, perché senza
la complicità consapevole di tanti magistrati tutto questo non sarebbe mai
accaduto né potrebbe ancora ripetersi.
Non si può governare la magistratura con un Consiglio superiore che è un mero
organo politico in cui gli amici e gli amici degli amici riescono puntualmente a
garantire le carriere di magistrati che, ictu oculi, rappresentano gli interessi
dei partiti di riferimento e non quelli della giustizia.
Allo stato possiamo pacificamente escludere che il potere giudiziario sia
indipendente da quello esecutivo, e lo provano le carriere prima giudiziarie e
poi politiche di tanti magistrati che rappresentano l’aspetto deteriore di una
magistratura che preferisce servire gli interessi della politica e dei politici
piuttosto che quelli della legge e della giustizia.
L’esempio che abbiamo portato in queste pagine è solo uno dei tanti che
costellano la storia della magistratura italiana nel dopoguerra, e che hanno
finito per togliere all’ordine giudiziario ogni credibilità.
Ci sono uomini, magistrati, che in silenzio hanno fatto e continuano a fare il
loro dovere. Abbiamo citato in passato Guido Salvini ed ora Carlo Mastelloni,
attualmente procuratore della Repubblica a Trieste, che dovrebbero essere
portati ad esempio dinanzi ad un’opinione pubblica che, viceversa, ha sempre
assistito sconcertata alle esibizioni dei Claudio Vitalone e dei Felice Casson
(solo per citare due esempi) e si è sempre chiesta chi dovrebbe proteggere
questo popolo dall’ingiustizia e dalla menzogna se questi sono i campioni della
magistratura passati poi alla politica.
La risposta si trova nello ristabilimento delle verità travisate e falsificate,
e nei provvedimenti da assumere a carico di quanti hanno trasformato il mestiere
di giudice in un redditizio affare personale.
Nulla di eccezionale serve fare per condannarli all’oblio: è sufficiente
applicare le norme del codice penale che sanzionano il millantato credito, il
depistaggio e la calunnia.
È il modo migliore per iniziare a ripulire Tribunali e Parlamento.
Vincenzo Vinciguerra