LA
RAPPRESENTANZA PER FUNZIONI
di
Rutilio Sermonti
Introduzione
Con questo scritto,
non intendiamo fare polemica. E questo non perché abbiamo qualcosa
contro la polemica in sé, che – a patto di essere in buona fede e
nutrita di contrapposizioni ideali – può essere interessante e,
persino, costruttiva; bensì perché la polemica in cui ci si
vorrebbe, per forza, tirare è stupida ed in malafede. Solo per
spiegarci con qualche esempio, dobbiamo vincere non poco disgusto e
tedio, e lo faremo, quindi, solo in questa breve introduzione al mero
scopo di sgombrare il campo da ciò che non siamo, e che si vorrebbe
che fossimo, per fare da comodo bersaglio alle solite indignazioni
telecomandate ed agli evocatori di spettri, in materiale sintetico
americano. Non ci illudiamo per niente che quando premettiamo abbia
il magico effetto di far cessare le definizioni sceme ed i logori
aggettivi che i servitorelli del potere continueranno ad affibbiarci,
fedeli al compito loro assegnato, né che masse di sprovveduti la
smettano di modellare su quelle espressioni le loro cosiddette
opinioni sul nostro conto. Ci basti la coscienza di averli chiariti,
una volta per sempre, certi punti polemici, per passare, finalmente,
ad esporre le nostre autentiche idee ed i lineamenti dello Stato che
noi vogliamo realizzare. A chi rifiuterà la discussione su quel
terreno – l’unico degno e fecondo – e preferirà continuare a
tirar fuori i soliti pupazzetti, per ritardati mentali, opporremo
soltanto, per l’innanzi, il nostro silenzioso disprezzo. E veniamo
agli esempi di espressioni insensate di cui sopra dicevamo. La prima
è:
Nostalgici.
Noi saremmo gli
irriducibili nostalgici del passato regime. Perché, i nostri
avversari che sono? C’è una differenza, però: che il regime di
cui sono tanto nostalgici loro è fallito e fatiscente , ma ha ancora
preoccupanti velleità di ripristinarsi, Dio ci salvi, mentre quello
di cui auspicheremmo il ritorno è cessato a suon di bombe da tre
quarti di secolo e sarebbe oggettivamente impossibile ricostruirlo.
Tra l’altro, fu determinato e dominato dalla personalità di Benito
Mussolini, assassinato nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, La
nostra azione politica mirerebbe – si pensa – a riportarlo in
vita? Ci piace inoltre citare non un politologo ma un insigne
filologo: il Prof. Giacomo Devoto, Dizionario etimologico (Le
Monnier, Firenze, 1986, voce Nostalgia. (“Dal greco nòstos
(ritorno) e algìa sofferenza (per il desiderio) del ritorno”).
Ora per ritornare in un tempo o in un luogo occorre, se non
erriamo, esserci già stati, e tra i nostri aderenti quelli che sono
stati (in età di ragione) in regime fascista non superano lo 0,5%.
Sostenere quindi che noi (e non quelli che ci accusano) saremmo i
nostalgici, prendendo addirittura di sintetizzare con l’aggettivo
i nostri contenuti ideali e politici è per lo meno privo di senso. E
diciamo per lo meno. Una variante del tema nostalgici è
quella puri e duri. E’ una diabolica stoccata che rinunziamo a
parare. In effetti, confessiamo che è proprio quello lo stile che
teniamo a imporre a noi stessi, se vuol dire non cedere alle lusinghe
dei facili successi e provare un’avversione quasi fisica per
compromessi inquinanti, quelli con la propria coscienza. D’altro
canto, dopo settant’anni di malefatte del regime di impuri e
mosci prodotto dai nostri sagaci etichettatori, non riusciamo a
capire che cos’abbiano costoro da sogghignare ed ammiccare
gratificandoci dei due predetti aggettivi. E che non afferrano, i
poveretti, che le due caratteristiche da loro beffeggiate ci hanno
compensato della loro scomodità facendoci dono dell’unica libertà
che conta. Una libertà che non somiglia per niente a quella astratta
e con la L maiuscola che essi vanno acchiappando in giro col retino
da farfalle dei loro immortali principi. E veniamo ad altra
bollatura di prammatica:
Antidemocratici.
Che vuol dire? Certo
- come meglio chiariremo nelle pagine che seguono – noi siamo, per
maturo ragionamento e per sofferta esperienza, decisamente contrari
al particolare tipo di democrazia che è stato imposto in
Italia dal 1945 in poi e che loro considerano invece sacro e
inviolabile per sin troppo trasparenti motivi. Siamo contrari perché
rozzo, inefficiente e soprattutto fraudolento. Ma che il potere debba
provenire dal popolo e che debba essere il popolo ad esprimere la
volontà della Nazione, da realizzarsi dallo Stato; questo lo
consideriamo pacifico, e non perché sia scritto putacaso sulle
stelle (Treitschke), ma semplicemente perché è ovvio. L’unica
alternativa alla democrazia sarebbe, infatti, la teocrazia (Nulla
potestas nisi a Deo – San Paolo), e quella ci sembra, nel mondo
moderno, del tutto impensabile. Noi ci siamo quindi convertiti
alla democrazia: siamo sempre stati nell’ambito di essa, e non
accettiamo lezioni in proposito, tanto meno dai fautori della
partitocrazia (e cioè proprio della democrazia falsa e alibistica),
né ci interessa essere accolti nella eterogenea famiglia di quelle
cosche con pretesto ideologico che sono i partiti come sinora intesi.
La politica è per noi cosa ben più seria (e cerchiamo di farlo
capire agli altri) che il cosiddetto gioco democratico della
caccia al potere, magari a fettine (lottizzazione) o una volta per
uno (alternanza) in cui i giocatori si arrogano tutti d’accordo il
diritto e la capacità di rappresentare il popolo, mentre non
rappresentano che la ristretta e parassitaria casta dei politici di
mestiere. Ancora una piccola messa a punto sul razzismo, altro
burlotto compicciato dagli antirazzisti per cacciarcelo in
mezzo a incendiare le nostre vele. Consideriamo il problema
razziale, come è fragorosamente posto in Occidente su cliché
americano, una fuorviante mistificazione. Noi prendiamo atto
dell’esistenza sulla Terra di diverse razze ed etnie, ed abbiamo
per tutte il massimo rispetto, come anche delle diverse
culture che esse hanno saputo esprimere. E non alludiamo soltanto a
quelle complesse e imponenti come la greca, o cinese, o islamica, ma
anche a quelle più piccole, più selvagge o più tribali.
Un professore occidentale con tre lauree che mancasse di rispetto
a un minuscolo capotribù Pigmeo analfabeta, dimostrerebbe soltanto,
a nostro avviso, di essere un presuntuoso imbecille. Consideriamo
quindi sacrosanta e legittima l’aspirazione di ciascuna razza ed
etnia – a seguire le concezioni, a darsi le istituzioni ed attuare
il modo di vita più congeniale al proprio spirito e alle proprie
tradizioni. In altri termini, a realizzarsi secondo il proprio
essere. Di conseguenza siamo nettamente contrari alla cosiddetta
integrazione razziale che non è che il protervo e blasfemo
tentativo di imporre all’umanità intera il modello di
civilizzazione di matrice anglosassone-calvinista portato
dall’imperialismo capitalista; modello materialistico ed
economicistico che, troncando le nostre radici e quelle altrui, vuol
trasformare il mondo in un colossale mercato senz’anima né volto.
Tacciare di razzismo, con bigotta indignazione, che non sia
integrazionista è quindi un ignobile trucco, attuato da ben noti
centri apolidi di potere finanziario. La loro e non altra è la
sopraffazione razziale, quel miscuglio contro natura è la causa
dell’odio e della stessa esistenza del problema, quello il razzismo
perverso contro cui ogni uomo che non abbia l’anima del servo deve
combattere. Lo scostumato che picchia un Marocchino perché tale lo
consideriamo alla stregua del tifoso che malmena il sostenitore della
squadra ospitata fuori dello stadio. Non è razzismo da farsi
venire le convulsioni: è solo cattiva educazione.
Un’ultima piccola
notazione sulla famosa:
Polemica Fascismo-
Antifascismo
Che qualcuno ci
invita a superare.
Noi non dobbiamo
superare proprio niente, per il semplice fatto che non ce ne siamo
mai lasciati coinvolgere. La polemica Fascismo-Antifascismo l’hanno
sempre fatta solo gli antifascisti (come confessa il nome), quando di
polemica si è trattato e non di una miseria pregiudiziale di comodo
a fini consociativi. Comunque non ci riguarda per niente, perché il
fascismo che quei signori si affannano ad esorcizzare non ha nulla
a che fare con le idee che sono le nostre e che di seguito
enunceremo. Non abbiamo nemmeno difficoltà a dichiarare che, se il
Fascismo non fosse altro che quello descritto da “lorsignori”,
e dalle leggi repressive della Repubblica, noi saremmo i primi
antifascisti. Usando il condizionale perché sappiamo che quel
Fascismo non è mai esistito, ma qui si tratta soltanto di un
giudizio storico: non di una tesi politica attuale.
Accettiamo, e di buon grado, la discussione, ma solo su quelli che
sono i nostri veri contenuti, e non sulle scempiaggini che non
abbiamo mai pensate né dette e che certi ominidi robotizzati più o
meno autorevoli ci vorrebbero appioppare. Con tale premessa,
veniamo ad enunciare le nostre finalità e le nostre tesi politiche
per quanto attiene alla natura e alla organizzazione della
rappresentanza popolare. E’ una concezione che, se pur ha
lontanissime fonti, mira soltanto ad assicurare al nostro popolo un
avvenire migliore del presente. Se poi qualcuno puntasse contro la
nostra fiamma il dito inquisitore accusandoci di rifarci al Fascismo
storico, non faremmo che invitarlo a leggersi la Costituzione della
Repubblica Italiana antifascista e nata dalla Resistenza. Ci
troverebbe, all’art. 3. la partecipazione dei lavoratori come tali
all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese;
all’art. 4 cpv. il lavoro come dovere sociale; il salario
proporzionato al lavoro prestato e alle esigenze di vita, unitamente
al massimo le ore lavorative all’art. 36. Ancora avanti, all’art.
39 i contratti collettivi validi, erga omines, e al 41 la
programmazione economica; al successivo art. 42 la funzione sociale
della proprietà; al 44 la bonifica agraria e fondiaria; e – dulcis
in fundo – all’art. 46 persino la partecipazione del lavoro alla
gestione delle imprese. Bene: nello Statuto Albertino che reggeva la
democrazia, parlamentare precedente al ventennio di concetti del
genere non v’è la minima traccia, e tutti non uno escluso hanno
fatto la loro comparsa in Italia con l’ordinamento giuridico del
Fascismo anteguerra e della Repubblica Sociale Italiana.
Non sarà che sia
nostalgica pure la Costituzione?
Capitolo I
Il nostro metodo
Riteniamo
assolutamente pregiudiziale alla progettazione di un qualsiasi
sistema politico chiarire a noi stessi e agli altri quali debbano
esserne gli obiettivi
Fare politica (nel
senso nobile della parola) vuol dire ricercare e applicare i migliori
sistemi possibili di gestione della comunità nazionale. Ed è sia
troppo evidente che non si può giudicare della bontà di un sistema
qualsiasi se non in rapporto al fine che con esso si vuol
raggiungere.
Il semplice affermare
che un ordinamento politico persegua il bene pubblico non
basta quindi, se non si pone precisamente in chiaro in che cosa
consiste quel bene del quale si potrebbero dare le
interpretazioni più disparate e addirittura antitetiche, come, di
fatto, avviene. L’insanabile contraddizione tra la nostra
concezione e quelle di matrice illuminista e positivista (dal
liberalismo al comunismo), che preclude l’accesso a qualsiasi
soluzione mista e a reciproche concessioni se non su dettagli
di marginale importanza, sta appunto lì: nella diversa
individuazione del bene pubblico da perseguire, e quindi nella
diversità dei fini. Se uno vuole attraversare un braccio di mare e
un altro un deserto non potranno mai mettersi d’accordo sul punto
se sia meglio una barca o un cammello, anche se sul piano
metodologico hanno ragione tutti e due.
L’osservazione
sembra così palmare è ovvia da poter apparire persino superflua.
Non lo è affatto, invece, tanto che la principale critica che noi
muoviamo al modello di società e di sviluppo che si definisce
moderno, ancor più di quella di essere partiti da presupposti
finalistici e filosofici errati, è quella di aver finito col
formarsi alla cieca per il deterministico e progressivo gioco di
fattori a lui interni, dimenticarsi del tutto persino le proprie
finalità di partenza. Il risultato è che si diano oggi dai più per
scontati obiettivi (come l’omologazione mondiale, la sostituzione
del lavoro con macchine o la facilità di accesso all’informazione)
che non sono altro che la giustificazione a posteriori delle
alterazioni prodotte dai suddetti fattori nell’umanità.
Gli scompensi e le
autentiche alterazioni che continuamente si producono sulla Terra non
sono rimediabili nell’ambito di quel sistema e sono fatalmente
destinati ad aggravarsi, proprio perché si tratta di un ordine
esclusivamente di mezzi che nondimeno si sviluppa secondo proprie
leggi, senza neppur chiedersi ormai quali fini generali vadano
perseguiti, ma solo quelli contingenti di ogni singola azione. Gli
stessi uomini e popoli non sono più altro che mezzi, non si sa
neppure di che cosa e nessuno si cura di saperlo.
Consapevoli di ciò,
noi riteniamo assolutamente pregiudiziale alla progettazione di un
qualsiasi sistema politico chiarire a noi stessi e agli altri quali
debbano essere gli obiettivi a breve e lungo termine, nell’interesse
dell’uomo e della nostra Nazione in particolare. A tal fine
dobbiamo necessariamente aver presenti valori che non sono del
passato ma sono perenni, in quanto sgorganti dalla più autentica
e immutabile natura umana. I nostri continui riferimenti alla
Tradizione sono anche espressione di quel bisogno di uscire
dal quotidiano ricatto della contingenza odierna, che non conosce
altri orizzonti che le proprie deformazioni, per guardarla dalla
posizione soprelevata di una saggezza millenaria.
Liberarsi delle
pastoie concettuali del tempo, riuscire a non farsene condizionare è
indispensabile, quando ci si ponga il problema di scelta dei fini
ultimi e delle linee di vetta. Per converso, un attento esame del
contesto attuale, della sua eziologia e dei suoi meccanismi è invece
di rigore quando si passi allo studio dei mezzi e delle tecniche con
cui si possono invertire le tendenze degenerative e intraprendere la
marcia in salita nella diversa direzione necessaria.
Nella fase
progettuale, dei disegni esecutivi per usare un paragone
costruttivo, occorre, infatti, partire dagli uomini quali oggi
sono, dalla società quale oggi è articolata, dai mezzi
oggi a disposizione delle esigenze (vere e anche false) della
comunità in cui operiamo, e persino dagli influssi che su
quest’ultima sono pesantemente esercitati. Questo e non altro il
metodo di studio e di lavoro che abbiamo prescelto e seguito, né
alcuno ha saputo dimostrarci che ne esista uno migliore.
Capitolo II
Il fine dello
Stato
La
funzione dello Stato e del diritto della nostra concezione politica
sarà innanzi tutto quella di favorire lo sviluppo nei singoli e
nelle comunità delle qualità inespresse e delle valenze
inutilizzate…
Dicevamo sopra che
nessuno pone in dubbio che il fine dello Stato debba essere il bene
pubblico, e quindi domandarsi quale sia l’obiettivo dello Stato
equivale a chiedersi come debba essere concepito quel bene. E’
anche fuor di dubbio che il punto di vista dal quale tale valutazione
va fatta sia quello umano, uomini essendo sia gli studiosi che i
destinatari.
Ma anche il concetto
di uomo – e quindi di umano – pur essendo ben definito dal punto
di vista tassonomico – Homo sapiens – non lo è affatto
per quanto riguarda le sue caratteristiche e necessità che non siano
strettamente fisiche.
Ci corre quindi
l’obbligo di chiarezza di accennare all’idea che dell’uomo
abbiamo noi, almeno per quanto rileva ai fini della presente
indagine, il che è imprescindibile per afferrare il senso di tutta
la nostra impostazione politica che rigorosamente ne deriva. E’ una
visione su cui non possiamo transigere, perché non si tratta di una
nostra peregrina opinione, ma, di un retaggio che umilmente riceviamo
da tutta la saggezza augusta che ha illuminato la Terra – la
Tradizione, appunto – prima che recente invenzione
dell’individuo venisse ad intorbidare le idee ed a
propiziare teorie aberranti.
Non possiamo qui
svilupparlo, e tanto meno dimostrarlo, quel concetto, e dobbiamo
accontentarci di, brevemente, enunciarlo in pochi minuti,
sufficienti perché a quello che continui ad equivocare sui nostri
contenuti si possa dire: imputet sibi.
Ogni
persona umana è dotata di potenzialità tali da lei stessa il più
delle volte insospettate, soprattutto ma non soltanto di ordine
spirituale, da poter fare della propria vita il proprio capolavoro.
Il livello che in concreto riesce a raggiungere, ed al quale si
colloca, dipende in massima parte dalla misura e dalla
direzione in cui esercita tali potenzialità. Ciò è vero,
per i singoli come per i popoli, e spiega come una stessa etnia,
senza rilevanti mutamenti genetici, possa aver attraversato, nella
Storia, momenti brillanti di potenza, di civiltà e periodi di
triste depressione e di dipendenza.
L’uomo
non è divisibile e, quindi, ogni concezione politica che consideri
e cataloghi gli uomini per una sola delle loro caratteristiche,
peggio se puramente estrinseche, espone al pericolo di errori
esiziali. Non esistono gli operai, o i pastori, o i ladri, o magari
i mancini o gli obesi. Nel senso che ognuno dei così definiti
possiede caratteristiche innumerevoli oltre quella espressa dalla
definizione, la quale ultima – rispetto alla sua completa
personalità – è, quasi sempre, del tutto secondaria. Non si nega
che la configurazione di certe categorie, meramente
concettuali sa talora utile a determinati fini pratici o di comodità
d’espressione; purché non ci se né faccia suggestionare fino a
considerarle categorie reali caratterizzanti ed aggreganti. Come
pure occorre guardarsi da quegli effetti della specializzazione che
minacciano di iperatrofizzare nel soggetto una sola attitudine o,
comunque, atrofizzare le altre. Oltre tutto, un avvocato che sia
soltanto un avvocato, oltre ad essere mentalmente spostato, non è
neppure un buon avvocato.
Una
caratteristica peculiare dell’uomo è la sua estrema adattabilità
sia fisica che mentale. Un Tuareg del Sahara ed un Eschimese polare
sono, biologicamente, identici, eppure si trovano a loro agio in
condizioni ambientali agli estremi opposti di vivibilità. L’uomo
acquista facilmente abitudini e, con eguale facilità, le perde,
soprattutto se collettive. E’ una caratteristica che può essere
negativa se si traduce in passività, e scarsa reattività, o se si
tratta di acquisizione di abitudini nocive o degradanti, ma può
conseguire risultati esaltanti se esse propiziano lo sviluppo delle
potenzialità umane di cui dicevo al n.1. E’ il complesso delle
sue abitudini assai più che quello delle sue opinioni o della sua
opulenza che qualifica il livello raggiunta da un popolo.
Di
tutti i catalizzatori che possono favorire in un uomo
l’evidenziarsi e l’applicarsi delle sue potenzialità positive,
ve n’è uno sovrano: l’esercizio della responsabilità.
Altri sono le difficoltà oggettive ed il pericolo. Su tutto ciò
che, al contrario, alimenta la pigrizia interiore e cancella
l’impulso a scavare nella miniera inesauribile del proprio io
emerge invece, per nefandezza, la predicazione dell’uguaglianza
intesa come diritto. Essa distrugge l’aspirazione a migliorare la
propria qualità e riduce le ambizioni a quelle economiche o
tutt’al più sociali, con effetti degenerativi per il
singolo e per l’intera comunità. Una società migliore è,
infatti, solo quella composta di uomini migliori, e l’ignoralo è
la palla al piede di tutti i Socialismi.
Un
uomo è libero solo se padrone di se stesso ed autore delle proprie
scelte. Ne consegue che l’autorità, che oltre ad essere,
in certi limiti, indispensabile per l’ordine civile, condiziona al
più la persona nel comportamento, piuttosto che nella scelta
delle medesime, i nemici più insidiosi ed implacabili della libertà
umana sono il ricatto, che coarta le scelte, e l’inganno,
che le falsa nella loro stessa formazione. Obbligo di una sana
autorità politica è, quindi adoperarsi perché l’autorità sia
liberamente, e consapevolmente, accettata e, soprattutto, sia reso
impossibile esercitare sul popolo il ricatto o l’inganno. La
funzione dello Stato e del diritto, nella nostra concezione
politica, deriva coerentemente dalle affermazioni che precedono.
Sarà, quindi, innanzitutto quella di favorire lo sviluppo nei
singoli e nelle comunità delle qualità anche inespresse e delle
valenze inutilizzate, unica ricchezza inalienabile e garanzia di
progresso per la Nazione. Sarà quella di dar modo al popolo di
determinare la formazione della volontà statuale con modalità che
concedano agli elettori la maggior possibile cognizione di causa e
libertà da condizionamenti. Sarà quella di realizzare la piena
sovranità nazionale e l’indipendenza dai poteri estranei,
ufficiali ed ufficiosi, senza di che non resterebbe al popolo altra
libertà che quella dei detenuti nel cortile del carcere. Sarà
quindi quella di esprimere, nella comunità internazionale, le
autentiche esigenze del proprio popolo e di apportarvi tutte le
virtù di esso. Sarà, infine, quella di garantire che le legittime
attività economiche, manifestazioni anch’esse delle capacità
inventive e realizzatrici della propria gente, da un lato, non
umilino, e deprimano, la mente ed il corpo di chi vi si dedica,
dall’altro, si svolgano in armonia con le superiori finalità
dello Stato medesimo. Vi sono, ovviamente, oltre a queste che sono
tipiche della nostra concezione dello Stato, le molteplici mansioni
che potremmo definire di ordinaria gestione della cosa pubblica e
che tutti, più o meno, gli riconoscono. Ma va avvertito che anche
in esse, che ci guardiamo bene dal sottovalutare, il concetto
generale di pubblico bene, sopra delineato, non va mai pretermesso,
anzi, deve costituirne l’anima vivificatrice.
Capitolo III
Nazione e
Democrazia
…il cittadino
che, in una qualsiasi forma di suffragio, esprime la propria volontà,
non esercita un diritto soggettivo ma adempie ad una pubblica
funzione.
Non è qui il caso di
addentarsi nella questione di priorità tra i due concetti di Nazione
e di Stato, dato che ai nostri giorni la giustapposizione tra essi è
pressoché universale.
Diciamo che la
Nazione è la premessa storica, culturale, biologica,
territoriale e – grosso modo – etnica, mentre lo Stato è un
prodotto politico e giuridico dello spirito, capace di conferire alla
potenzialità – Nazione personalità, organizzazione,
responsabilità e capacità di agire unitariamente.
Ciò anche il caso di
aggregazioni politiche plurinazionali, come un impero (del passato) o
una federazione, con la sua variante dell’esistenza di un solo
Stato per più Nazioni.
Il problema
democrazia viene quindi a porsi in questi termini:
Finalità
dello Stato è il bene della Nazione;
La
volontà dello Stato è determinata dal popolo, o più esattamente
da quella parte del popolo che è, al momento, maggiorenne
(elettorato);
L’elettorato non si
identifica con l’oggetto della volontà la (Nazione) in quanto di
quest’ultima fanno parte, oltre ai non votanti, anche la storia, le
tradizioni, la lingua, la cultura, il territorio e la biosfera (flora
e fauna), le risorse naturali, il patrimonio artistico e le opere
pubbliche in atto, le acque interne e territoriali e soprattutto le
generazioni future, tutti elementi che l’azione dello Stato deve
tenere ben presenti, potendo su di essi grandemente incidere sia in
senso positivo che negativo: conseguenza che stranamente sfugge ai
teorici che sono democratici per convenzione e non per convinzione:
Se
una potestà che si esercita nel proprio interesse si chiama diritto
e una che sì esercita nell'interesse di altri si chiama funzione
,conseguenza ferrea è che i cosiddetti diritti politici
proclamati dal demo-parlamentarismo sono una espressione impropria e
forte di equivoci gravi, ed è di funzioni politiche che si
deve parlare, cominciando dalla massima che risiede nel popolo.
Chi crede nella
democrazia; chi crede cioè che la volontà popolare sia
idonea a formare la volontà dello Stato, può accorgersi che il
cittadino che, in qualsiasi forma di suffragio, esprime la propria
volontà, non esercita un diritto soggettivo ma adempie una pubblica
funzione.
Del resto, anche la
comune espressione democratica popolo sovrano lo conferma.
Anche il sovrano, più assoluto del passato, pur accentrandole
tutte in sé, esercitava funzioni pubbliche. Se non era uno
sciagurato meritevole di deposizione, doveva regnare non secondo il
proprio personale tornaconto ma nell’interesse della o delle
Nazioni a lui sottoposte, e sentire tanto più alta la responsabilità
quanto più ampio il suo potere. Tutti i giudizi storici formulati
sui sovrani del passato non adottano forse un tale metro?
Ma allora a tale
coscienza della propria alta funzione non può neppure sottrarsi la
sovranità popolare, che per essere collettiva anziché
individuale (o magari oligarchica) non ha per questo ragione, natura
e finalità diversa dalle altre.
Funzione, quindi, non
diritto come quello di proprietà o di credito: non è differenza da
poco, anche sul piano effettuale.
Il concetto di
diritto politico ammette, infatti, che l’elettore né faccia
l’uso che crede indirizzando magari il suo suffragio al
conseguimento di un beneficio personale o anche di gruppo; ammette
che il candito a qualunque carica elettiva si procuri i suffragi
promettendo vantaggi a determinate categorie, ambienti o anche
persone, legittima che gli eletti a governare si cavino d’impaccio
caricando sulle indifese generazioni futuri i costi astronomici della
propria dissennatezza e demagogia.
Ma se, cominciando
dal voto che è scaturigine di tutti gli altri poteri, si tratta di
pubblica funzione le cose cambiano radicalmente, e i nocivi
comportamenti sopra accennati integrano addirittura i delitti colpiti
dagli art. 324 e 321 del Codice Penale.
Ma le differenze non si fermano qui
Nessuno può
contestare a chi esercita un diritto soggettivo la facoltà di farlo
stoltamente, avventatamente o senza validi ragioni. Procurarsi le
nozioni e compiere le riflessioni necessarie per agire oculatamente
nella sfera privata è affare di chi agisce.
Ciò non vuol dire,
si badi bene; che anche nella sfera del diritto privato tutti gli
ordinamenti giuridici non considerino illecita ogni azione tendente a
falsare la formazione dell’altrui volontà con la frode o la
suggestione. Consideriamo, nel nostro diritto, gli art. 640 (truffa)
e 643 (circonvenzione) del Codice Penale, nonché gli articoli 1427 e
seguenti del codice civile che prevedono l’annullamento degli atti
compiuti da chi sia stato indotto in errore. E’ evidente che molto
a maggior ragione debbano esser posti fuori legge gli espedienti
surrettizi idonei a indurre in errore o semplicemente a suggestionare
nel senso voluto dall’agente chi eserciti una funzione politica.
Quest’ultimo deve essere messo assolutamente nelle migliori
condizioni per operare le sue scelte in piena autonomia e con la
maggiore possibile cognizione di causa.
I cosiddetti
espedienti propagandistici e le informazioni artefatte, in cui
consiste la sottile arte del politologo di professione in questa
democrazia soltanto apparente; tutta la manipolazione psicologica
dell’opinione pubblica cui i partiti e le forze retrostanti
alacremente si dedicano all’approssimarsi delle tornate elettorali
non sono quindi l’anima della democrazia: ne sono la precisa
negazione.
Capitolo IV
“Corpora”
sociali: 0RGANI DELLA NAZIONE
…
è concretamente possibile e in
che modo far emergere una volontà popolare degna di tal nome?
C’è
secondo noi un preciso motivo per cui il Liberalismo, come figlio del
Socialismo, non è riuscito a realizzare alcuna democrazia che tale
sia effettivamente. Ed il motivo risiede nel suo astratto
individualismo, fratello siamese dell’egualitarismo. Le persone
reali, infatti, non sono affatto uguali, mentre, gli individui
astratti si.
La
grossolana concezione di un popolo, come somma aritmetica di tante
unità fungibili, doveva inevitabilmente arrivare alla realizzazione
della democrazia attraverso il suffragio universale periodico
indifferenziato, che è la parodia della democrazia. Una massa
ingente di siffatti individui, presupposti senza qualità o
qualificazione di sorta, è chiamata ad esprimere la sua volontà
che dovrebbe essere vincolante, uno actu, su tutti gli
orientamenti che lo Stato dovrà assumere fino alla successiva
consultazione. E’ chiaro che non è neppure pensabile sottoporre ad
ogni elettore un voluminoso questionario – redatto poi da chi? –
dai milioni di risposte dal quale estrarre, poi, magari con un
computer, gli indirizzi politici del Paese. E allora ci si limita a
sottoporre, all’individuo, nomi o liste di nomi, compilati
da incontrollate organizzazioni private che non hanno altro requisito
che quello di riuscire a compilare e presentare dette liste,
chiedendogli di delegare a qualcuno di quei nomi la scelta degli
indirizzi medesimi. Le persone corrispondenti ai nomi sono del tutto
sconosciute all’individuo in cabina elettorale se non
per vago e generico sentito dire o per le intenzioni da loro
dichiarate nelle rispettive propagande, restando ben chiaro
che esse non sono appunto obbligate ad attenersi ai programmi
esposti, bensì sono legittimate a fare – conseguito il potere –
esattamente il contrario.
Tutti
sanno, anche se fingono di ignorarlo, che, con un meccanismo del
genere, non si esprime nulla che possa seriamente qualificarsi
volontà popolare e che la democrazia concretantesi nel
sistema vigente, per quanto la si stiracchi e rappezzi, non è che
una mera convenzione verbale. Consideriamo la cosa evitando
accuratamente le astrazioni e le presunzioni legali di cui si
pascono i liberaldemocratici. E’ oggettivamente impossibile
– dicevamo – che il popolo, nel suo complesso, possa esprimere
una articolata volontà politica. Tutto ciò che si può richiedere
ad ogni cittadino è che concorra alla designazione delle persone,
che tale funzione dovranno esercitare, facendo quello che in
antico faceva l’Aristocrazia, con la sola variante che, anziché
nominata dall’alto – semplicemente perché non esiste più nessun
alto – essa è espressa dalla base. Cambia l’origine della
designazione, ma il fine di essa è sempre lo stesso: scegliere
i migliori per quella funzione. Bene può dirsi che una
democrazia deve avere un obiettivo aristocratico.
Se
bene impostata, e strutturata, essa conseguirà lo scopo, altrimenti,
ne scaturirà una classe politica disastrosa come quella che
imperversa, in Italia, dalla "Liberazione" in quà. Non se
ne può accusare l’avversa sorte: è rigorosamente
consequenziale. E pretendere che essa sia legittimata dalla
volontà popolare, come oggi è estratta, è solo una
mistificazione.Se non che qualsiasi attività organizzata, come è o
dovrebbe essere quella dello Stato, è giocoforza che sia attuazione
di una volontà o, almeno, di un compromesso tra volontà diverse.
Essendo quella popolare, come visto, soltanto un alibi, occorre
chiedersi quale altra, o quali altre, volontà siano effettivamente
realizzate. La domanda, s’intende, è del tutto retorica, dato che
lo sappiamo tutti benissimo, a cominciare dai politicanti democratici
di successo.
Chi,
malgrado tutto, aspira sinceramente ad una democrazia che sia
veramente tale, ed anche efficiente, deve porsi invece altra domanda
tutt’altro che retorica: è concretamente possibile, ed in
che modo, far emergere una volontà popolare degna di tal nome?
E’
almeno singolare che, a porsi sul serio tale quesito, siamo tacciati,
soltanto noi, di antidemocrazia!
Cercheremo
qui, compatibilmente col nostro proposito di concisione, di dipanare
il filo del nostro ragionamento, attenendoci al metodo scientifico di
risalire dal noto all’ignoto.
La
volontà è, in natura, un attributo esclusivo della persona umana.
Quando si parla di volontà di qualcosa di diverso da una persona, si
ricorre i realtà ad una similitudine, o meglio ad una metonimia,
usando come parametro la volontà individuale. E’, quindi, sano
criterio cominciare con l’osservare come, in una persona, si forma
una volontà. Sul piano fisiologico, essa è certamente elaborata dal
cervello, ma, è altrettanto certo che un cervello, da solo, non
avrebbe nulla da elaborare. Il cervello è un collettore continuo di
tutti gli stimoli, le richieste, gli allarmi, le sensazioni di
benessere e di malessere che gli pervengono non solo dagli organi di
senso ma da tutti gli organi del corpo. Dagli organi ed i tessuti che
li compongono, si badi, non dalle singole cellule. Ed ogni organo ha
una o più funzioni, le quali interagiscono e possono influire, anche
in modo determinante, sullo stesso funzionamento del cervello.
Ecco
che la volontà può, a ragione, ritenersi un prodotto dell’intero
organismo, ed il principio, trasposto in politica, si chiama
democrazia. Non si ignora affatto che, nella formazione della volontà
delle persone, influenza, e nei migliori prevalente, abbia l’attività
dello spirito, e cioè considerazioni attinenti a valori ed impulsi
che trascendono le esigenze materiali dell’organismo pensante. Ma
tale verità, tutt’altro che sconsigliare l’applicazione alla
politica del paradigma organico, la rende, anzi, come vedremo, ancor
più appropriata e feconda.
La
trasposizione che proponiamo e anch’essa, beninteso, una
similitudine. Ma prende a paradigma l’ordine naturale, che ha nella
persona umana uno dei più splendidi esempi, e siamo fermamente
convinti che i riferimenti all’ordine naturale siano assai più
fecondi di spunti, allorché si tratta di costruire un ordine
artificiale, che non intere biblioteche di opinabili filosofie.
Ebbene,
la nostra osservazione in umiltà dell’ordine naturale come è
espresso nel nostro organismo, manifestazione e specchio di quello
sovrannaturale, ci porta a trarre altre precise conseguenze riguardo
il nostro problema di dare senso ed articolazione alla volontà
collettiva. Comincia col farci giudicare ridicola la pretesa di
considerare il soggetto di quella volontà, cioè il popolo, come
una somma di individui indifferenziati che possono suddividersi con
un qualsiasi criterio convenzionale. Il raggruppamento secondo
funzioni e organi diversi è, per le nostre cellule
conditio sine qua non per fare dell’insieme di esse un’unità
vitale ed armonica che possa possedere una volontà, e, analogamente,
che la complessa vita di una Nazione si articola in funzioni. Tali
funzioni sono svolte da pluralità di persone, unite nei corpora
sociali. Ve ne sono di molti generi, qualificati dalla loro attività
che può essere morale, culturale, produttiva, di autodifesa, di
educazione intellettuale e fisica, etc. E’ un corpus una scuola
come una fabbrica di stoffe, u sindacato come una società sportiva,
la polizia come la magistratura; persino le attività criminali
tendono, come è noto, a costituirsi in corpora. E corpora di uno
stesso genere possono, non solo concettualmente ma effettivamente,
formare aggregazioni funzionali più ampie, che chiamiamo
corporazioni.
Ci
sembra invero che tali corporazioni effettive ed operanti,
equivalenti per la Nazione a quelli che per la persona sono gli
organi, si prestino molto meglio ad esprimere la volontà dei loro
appartenenti destinata a comporre organicamente la volontà generale
del popolo, che non gli attuali partiti, voluti e strutturati solo da
una esigua parte dei cittadini, in base a bandiere ideologiche
sempre più confuse ed indefinite, di cui il generico corpo
elettorale non ha che un’idea vaga e fluttuante.
Anche
a dimostrazione che non ci lasciamo assorbire troppo dalla metafora
di Menenio Agrippa, dobbiamo evidenziare alcune rilevanti differenze
tra persone che costituiscono un popolo e le cellule che compongono
un organismo vitale. Ne abbiamo, del resto, già accennato a
proposito della nostra concezione enunciata al capitolo II, numeri
uno e due in particolare.
La
prima è che un uomo che si dedica ad una delle funzioni sociali, pur
acquisendo in essa particolari abilità e sviluppando talune
abitudini piuttosto che altre, è sempre, fortunatamente, molto meno
specializzato che le cellule di un particolare organo, onde un
filosofo somiglia molto più ad un carpentiere che non una fibra
muscolare ad un leucocito.
La
seconda è che, per l’indivisibilità dell’uomo integrale, anche
per svolgere la funzione più limitata e specifica un uomo impiega
la sua intera personalità, compresi gli aspetti e le valenze di essa
che nulla hanno a che fare con la funzione stessa.
La
terza è che un uomo può svolgere contemporaneamente diverse
funzioni, e, quindi, appartenere di pieno diritto a più
corporazioni, anzi, questo costituisce il caso più
frequente.Un chirurgo che insegni all’Università e pubblichi
libri, saggi ed articoli appartiene, evidentemente, a pieno titolo,
alla funzione sanitaria , a quella dell’insegnamento ed a quella
pubblicistica; Ma anche un modesto operaio che pratica il calcio
agonistico sarà legittimato a far valere la propria volontà non
solo nella formazione degli organi rappresentativi della propria
categoria produttiva, ma, anche in quelli della propria disciplina
sportiva.
Ci
sembra, però, e meglio lo vedremo in seguito, che differenze del
tipo di quelle brevemente accennate, non solo non siano affatto
controindicative all’applicazione alla Comunità nazionale del
paradigma organismo e cioè della rappresentanza per funzioni,
ma ne aumentino anzi considerevolmente i pregi.
Soprattutto
la prima e la seconda delle differenze sopra elencate recano a loro
volta ad altra differenza molto positiva, che costituisce
addirittura, per chi ne comprenda lo spirito, uno dei caratteri
peculiari e pregnanti del sistema politico organico.
Osservavamo
prima che, nella formazione della volontà di una persona, oltre alle
richieste e stimoli provenienti dagli organi e tessuti, gioca un
ruolo pervalente il suo spirito, la cui forza determinante dei
processi cerebrali si esercita al di fuori del sistema sensoriale e
cenestetico, con modalità che la filosofia positiva non potrà mai
comprendere e neppure descrivere ma la cui realtà è al di sopra di
ogni dubbio.
La
trasposizione dello schema organico alla politica non implica però
affatto ne ignorare quella fondamentale verità ne escogitarne
sostitutivi istituzionali. Se cellule, tessuti ed organi non hanno
attività spirituale e quindi il loro concorso alla formazione della
volontà deve ritenersi soltanto parziale, gli uomini che compongono
i corpora sociali, quali che ne siano le funzioni, tale
attività posseggono tutti, se pur in gradi diversi. Quindi il flusso
di messaggi che, nell’ordinamento organico da noi proposto,
confluirebbe dagli organi, funzioni ai centri decisionali a formare
la volontà unitaria dello Stato contiene già in se la
componente spirituale. Non solo, ma, essendo i prodotti dello spirito
umano molto più omogenei che la miriade di diversi interessi
materiali e di punti di vista particolari, in sede di sintesi la loro
influenza tenderà necessariamente ad aumentare ancora, con gli
auspicati effetti analogici in vista di quel concetto superiore di
bene pubblico già prospettato.
Capitolo
V
Economia-
funzione e Corporativismo economico
Carattere
fondamentale e premessa del Corporativismo fascista fu la concezione
unitaria dell’economia come funzione nazionale
Quando
parliamo di corporativismo, si ritiene ordinariamente che noi si
voglia semplicemente riferirci all’assetto economico-produttivo
quale fu introdotto ed applicato in Italia tra il 1926 e il 1943,
sostenendone la praticabilità attuale e proponendone la
restaurazione.
Tale
opinione è incompleta, inesatta e gravemente riduttiva.
Nell’affermare
questo, ben lontana da noi è l’intenzione di ripudiare quel
sistema, i cui caratteri positivi sia in termini di equilibrato e
costante sviluppo, sia in termini di pace sociale sono stati
conclamati dai risultati conseguiti, che nell’attuale disastro
nazionale sembrano sogni dorati ed irreali, sono stati ammirati ed
invidiati da tutto il mondo e sono stati male scopiazzati perfino da
Roosewelt.
Raramente
come a questo proposito l’almirantiano “non ripudiare non
restaurare” calza a pennello.
Riteniamo,
infatti, che, per parlare oggi di Corporativismo in termini politici
e non storici occorra innanzi tutto separare in quell’esperienza
del Fascismo- regime ciò che era legato ad irripetibili condizioni
di quel tempo, dai principi che conservano validità quali che siano
le circostanze nazionali ed internazionali. Occorre poi studiare
quali possono essere nell’attuale contesto e problematica i casi ed
i criteri di eventuale applicazione di quei principi.
Proprio
quello che ci proponiamo brevemente di fare, a titolo di
presentazione, o ripresentazione, non escludendo, anzi espressamente
postulando, la necessità di ben maggiori approfondimenti, studi e
dibattiti.
Carattere
fondamentale e premessa del Corporativismo fascista fu la concezione
unitaria dell’economia come funzione nazionale. Va precisato
che l’aggettivo nazionale si riferisce al tipo di società
allora in atto e tuttora vigente, stanti gli errori di partenza e le
potenti interferenze che hanno sinora purtroppo contraddistinto i
conati per la realizzazione dell’auspicabile unità europea; ma
qualora a tale meta si giungesse, quelle concezioni sarebbero
ugualmente valide riferite all’Europa.
Funzione
che diremmo fisiologica delle attività economico-produttive, è
quella di assicurare alle popolazioni i mezzi materiali di
sussistenza, non riferendosi la parola al solo sostentamento, bensì
anche a ciò che forma la qualità e l’ornamento della esistenza
materiale. Corrispettivo ed incentivo per chi si dedica a tali
attività è l’utile sotto forma di profitto o di
retribuzione.
Come
è noto, nelle società tradizionali la funzione economica, era
considerata necessaria ma di natura subordinata, tanto che nei tipi
di ordinamento su quattro livelli, come quello ariio-indiano, gli
operatori economici, vaisia, e i lavoratori manuali, sudra,
occupavano i due inferiori. Altrettanto noto è come la rivoluzione
moderna abbia operato rapidamente l’inversione di funzionalità
per cui cessato il predominio e finanche il sostanziale
riconoscimento dei valori essenzialmente spirituali che informavano i
primi due livelli, non solo la casta dei mercanti, nella quale
vennero a prendere il sopravvento i mercanti di denaro, usurpò lo
scettro dell’Imperium ma le stesse attività produttive
furono private della nobiltà che loro derivava dalla funzione di
sostegno di qualcosa di superiore e si ridussero a mere
procacciatrici di profitto.
Su
una siffatta involuzione della società non è il caso qui di
dilungarsi, essendo stata più che esaurientemente esposta da fonti
di noi bei più qualificate e che sono, malgrado tutto, abbastanza
note e reperibili. Solo per citare un esempio evidente, basta
riflettere su ciò che è accaduto all’agricoltura, che fu per
millenni l’attività produttiva per eccellenza. Fusione della
tecnica col rito, permeata di simbologia sacra, connubio tra
l’umanità e la natura, fucina continua di uomini rudi, saggi e
frugali, essa è ridotta, oggi, solo ad essere la più misera tra le
industrie, tributaria della meccanica e della chimica
all’inseguimento di magri profitti in danno della biosfera.
L’economia
corporativa fu semplicemente il tentativo di invertire la nefasta
tendenza, riportando l’economia al suo ruolo di strumento e
materiale supporto del bene della Nazione, impersonata dallo
Stato, secondo la superiore nozione di bene di cui dicemmo al
capitolo II.
Ma
ciò che bisogna anche comprendere è il metodo con il quale il fine
predetto si volle istituzionalmente realizzare. Esso non consisteva
nel sottomettere la categoria degli imprenditori a quella dei
politici burocrati e tanto meno nel sostituirla con questi ultimi
(comunismo), bensì nell’esaltare e sviluppare nei produttori
stessi, al disopra della loro specificità economica; quelle
qualità di uomo integrale cui abbiamo addietro accennato, che
potevano consentire loro di essere anche politici. Di aprirsi
cioè a quelle valutazioni che-trascendono gli interessi
settoriali-possono estendere gli orizzonti mentali e le aspirazioni
di ciascuno sino a coincidere con quelli, non soltanto economici,
della intera comunità nazionale.
In
un Corporativismo interamente realizzato, la programmazione
economica, che significa appunto finalizzazione dell’economia ad
obiettivi che la trascendono, deve essere compiuta dagli stessi
produttori attraverso gli organi che come tali (corporazioni) e non
come parti nel rapporto di lavoro (sindacati) li rappresentano. Ciò
implica ed implicò allora una profonda riforma-di concezione e di
modo più che di struttura anche dei corpora i cui i
produttori si raggruppano, sia di carattere categoriale (sindacati),
sia in seguito di carattere produttivo (imprese).
Fin
dai primi passi, comunque, le imprese furono considerate come reparti
del pacifico esercito della produzione nazionale unitariamente
intesa, e i sindacati, depurati da ogni aspetto di lotta di
classe, come sostanziali organi dello Stato, tanto da riconoscere
loro il potere di emanare, congiuntamente con quello dialetticamente
contrapposto, sostanziali norme di diritto obiettivo come i contratti
collettivi di lavoro. Autentici organi dello Stato erano per le
Corporazioni (e il loro Consiglio Nazionale, cui era affidata proprio
la programmazione economica, e che erano composte dalle
rappresentanze paritetiche della parte datoriale e quella lavoratrice
relative al settore produttivo che alla corporazione faceva capo.
Si
è obiettato da qualche critico che tale conduzione, indubbiamente
democratica, dell’economia fu contraddetta da una realtà di fatto
in cui le nomine anche sindacali (e di riflesso corporative) erano
influenzate – o per gli alti gradi addirittura compiute – dal
Partito Nazionale Fascista agli ordini del suo Capo.
Ciò
è in gran parte vero, ma non è un’obiezione. Basti pensare che
l’arco della intera esperienza corporativa, dalla legge 3 aprile
1926 al 25 luglio1943, durò appena 17 anni, di cui cinque di guerra
senza contare la Spagna, e che una profonda trasformazione delle
mentalità e delle coscienze qual’era quella necessaria perché il
sistema potesse funzionare senza correttivi non si può ottenere se
non nell’arco di una generazione almeno. Operare una seria
rivoluzione pubblica ed economica, completamente nuova ed inedita
(senza un retroterra, quindi, di esperienza) sul corpo di una Nazione
moderna, i cui meccanismi non si possono fermare un attimo senza
provocare un disastro, è più o meno come apportare geniali
migliorie a un motore di auto mentre la stessa continua a camminare
quotidianamente. E’ una ben ardua impresa, e che il Fascismo
storico sia riuscito a compiere le sue riforme senza provocare crisi
produttive, neanche nel 1944 come i Tedeschi invece temevano, è un
punto a favore di esso a torto dimenticato.
Anche
un uomo, peraltro, non diventa autosufficiente appena nato, ed
abbisogno per non pochi anni di una Patria potestà, che lo
guidi, né si ritiene ciò contrario al principio di libertà. E’
quindi da comprendere come Mussolini e i suoi collaboratori
nell’ideazione e impianto del sistema corporativo ancora in fase
sperimentale, lo tenessero in certo modo sotto controllo. Un
costruttore che togliesse le casseforme appena colato il cemento
sarebbe un bello sciocco.
Comunque
anche a voler ammettere che le protesi prettamente politiche
al sistema corporativo del ventennio fossero un difetto anziché una
giustificata e temporanea precauzione, non c’è dubbio che oggi
tale difetto non potrebbe riprodursi e che se di protesi
ovvero casseforme vi fosse nuovamente bisogno, - come è prevedibile
– esse dovrebbero essere di tutt’altro genere.
Quello
che invece è importante costatare è che il sistema di
rappresentanza democratica per funzioni proprio del Corporativismo,
si limitò nel periodo fascista – come estensione se non come
finalità – al campo economico – produttivo.
Vedremo
nel capitolo VII se tale limitazione fosse insita nel metodo stesso o
se fosse invece conseguenza soltanto delle particolari e irripetibili
circostanze storiche di allora.
Capitolo
VI
La
riforma dell’impresa
Avendo seguito senza pregiudizi la
nostra esposizione che precede, si dovrebbe agevolmente
comprendere come i Decreti RSI del febbraio-ottobre1944, non solo non
rappresentassero alcuna svolta rispetto al Corporativismo, dualistico
dell’anteguerra ma fossero di esso la successiva e coerente fase…
La
nostra indagine sulle valenze attuali e future dell’idea
corporativa sarebbe gravemente carente se non dedicassimo la dovuta
attenzione all’ultima applicazione di essa, sia in ordine logico
che di tempo. Alludiamo alla riforma del rapporto d’impresa che,
preannunciata sin dal primo programma fascista del 1921, fu in
realtà, secondo noi, alquanto anticipata rispetto ai tempi
fisiologici della propria maturazione, a causa del precipitare
della situazione militare.
Per
comprendere il significato profondo e la portata innovatrice non solo
economica di quella riforma, comunemente detta socializzazione
bisogna completamente prescindere da abusate espressioni come più
alta giustizia sociale (concetto talmente vago che lo usano
tutti, e come tale è da accantonare) e non farsi ipnotizzare dal
beneficio per i lavoratori consistente nella partecipazione agli
utili.
Se
è veramente prevedibile che dalla riforma sarebbe derivato anche un
reale beneficio in termini di introiti per i lavoratori, esso sarebbe
stato conseguito in forza del miglior rendimento dell’impresa
grazie al maggior impegno delle maestranze diventate partecipi, alla
impossibilità di scioperi, agitazioni e sabotaggi, all’acquisirsi
del senso di responsabilità di ognuno; non certo alla diversa
distribuzione del famoso plusvalore marxiano.
Anche
nella applicazione integrale del principio partecipativo, che era
dichiaratamente destinata a succedere a quella paritetica del 1944, e
cioè nella totale esclusione del capitale della gestione delle
imprese, con trasformazione del capitale azionario in
obbligazionario, dall’utile di impresa si sarebbe comunque dovuto
sottrarre il pattuito interesse agli obbligazionisti (che non oscilla
come i dividendi, ma vanno pagati anche negli anni magri) e la parte
da rinvestire in migliorie tecniche: Si aggiunga la retribuzione
partecipativa dell’imprenditore (diventato Capo dell’impresa) e
l’aliquota di utili da versare necessariamente a una Cassa comune,
di natura assicurativa, destinata a garantire comunque ai
lavoratori-partecipanti un minimo mensile di introiti anche in crisi
settoriali o aziendali, e si comprenderà come gli utili da
distribuire oltre l’assegno fisso non possono andare al di là di
un premio di produzione.
Quella
che conta, enormemente conta, è la partecipazione alla gestione,
destinata – come dicemmo – a diventare gestione totale.
Utile
per un equivocare sulla vera essenza di usare il termine
socializzazione, sostituendolo con l’espressione completa
socializzazione delle imprese. Una socializzazione era,
infatti, già in atto nel sistema capitalistico, al punto che ormai
gestioni individuali si registravano soltanto nell’artigianato e
nella piccolissima industria. MA ERANO SOCIALI GLI IMPRENDITORI, NON
L’IMPRESA! Si finiva anzi, attraverso il mercato delle azioni col
realizzare la separazione della figura dell’imprenditore da quella
del capitalista, iniziandosi così già spontaneamente il processo
portato a termine coi provvedimenti socializzatori, che trasferivano,
con felice strappo giuridico, l’imprenditore diventato capo
dei lavoratori nella categoria di questi ultimi.
Il
regime capitalista, però, quella separazione aveva permesso
l’irruzione trionfale del potere finanziario nella gestione della
produzione, colle conseguenze distorcenti già accennate sulla
funzione della medesima.
L’uomo
della strada definisce, ch’esso, la Lancia come una fabbrica di
automobili, ma commette un grave errore giuridico ed economico. La
Lancia è solo una società (per azioni) proprietaria di una
fabbrica di automobili, che potrebbe benissimo vendere come un
oggetto, lavoratori inclusi, senza la minime cessione di azioni. Il
fatto che io possieda una pipa non fa di me una pipa!
Tutta
la comunità umana che coordinatamente e gerarchicamente si dedica a
vari livelli alla produzione e dalla cui attività dipende la qualità
della produzione stessa, rimane, nell’impresa capitalistica,
estranea all’impresa stessa e legata ai titolari (di regola una
S.p.a. o una S.r.l.) da un mero rapporto contrattuale (rapporto di
lavoro). In questo è l’aberrazione.
Si
badi bene che il neo-capitalismo, pilotato dai fabbricanti di denaro
fasullo, non tende affatto di per sé a deprimere il costo del
lavoro, e questo non in virtù delle cosiddette battaglie
sindacali, bensì per la necessità del primo di continuo
incremento dei consumi, che ha trasformato i proletari di una volta
in borghesi (e, con l’aggravarsi della crisi, in disoccupati).
Così
stando le cose, si dovrebbe agevolmente comprendere come i Decreti
del Duce del febbraio e dell’ottobre 1944, non solo non
rappresentassero alcuna svolta rispetto al Corporativismo
dualistico dell’antiguerra, ma fossero di esso la successiva e
coerente fase, anch’essa intermedia e graduale rispetto alla
realizzazione finale: tutta la gestione a tutto il lavoro.
Metà
di tutto l’ordinamento economico fascista fu, infatti, come s’è
visto, quella di restituire all’uomo (integralmente inteso): non
l’inesistente (homo oeconomicus) la titolarità e la
conduzione dell’attività produttiva, proprio perché solo in tal
modo si poteva ricondurre l’economia al suo ruolo di strumento
al servizio degli interessi globali della comunità, soprattutto
quelli di ordine superiore, che l’uomo come tale può percepire,
l’economia di mercato no.
Ci
vuole poi molto a capire che, finché sono le forze economiche a
controllare anche la politica, si può anche straparlare di
democrazia ma farne una vera è impossibile?
Quanto
al metodo, esso fu costantemente quello della gradualità delle
riforme (dall’ordinamento sindacale di diritto, 1926, alla
rappresentanza, corporativa, 1933-39, alla socializzazione delle
imprese, 1944) necessaria come vedemmo perché l’attuazione di esse
non provocasse alcuna crisi, scopo che fu pienamente raggiunto anche
in Repubblica Sociale, la cui saldezza economica anche fra tante
rovine sbalordì addirittura i liberatori giunti dal Sud.
La
socializzazione delle imprese, che trasformava la componente umana
delle aziende (oggetto e non soggetto diritto) in imprese
socializzate aventi personalità giuridica (sia pure con la
partecipazione paritetica degli azionisti-capitale privi peraltro di
rappresentanza sindacale), il rapporto di lavoro subordinato in
rapporto associativo e la mercede in acconto fisso sugli utili,
rappresentava quindi un proseguimento rettilineo sulla strada della
libertà e della dignità umana.
Tra
l’altro, essa aveva l’effetto di aumentare ulteriormente
l’estensione è l’incidenza del potere popolare (che sono i
produttori se non popolo?) sulla gestione effettiva della cosa
pubblica, attraverso il peso determinante che nell’emendata
costituzione, sviluppatosi il principio della Camera dei Fasci e
delle Corporazioni (1939), avrebbe esercitato la Confederazione
Generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti.
Era
quindi anche la socializzazione un’affermazione essenziale di reale
democrazia, e, infatti, il primo atto dei vincitori fu quello di
revocarla, dimostrando ancora che il vero nemico della democrazia non
è la demonizzata dittatura ma la falsa democrazia.
Venendo
all’attualità, del principio partecipativo, basterà considerare
come i mali che con esso si intendeva scongiurare, e cioè
l’incontrastato dominio sui popoli della cinica plutocrazia
apolide, si siano oggi gravemente incancreniti (i belati
umanitaristici ed ecologisti da salotto o da scoop giornalistico
lasciamo com’è noto il tempo che trovano), mentre la loro logica
subumana arriva, persino ad inquinare gli ambienti di coloro che sino
a ieri se ne dichiaravano oppositori.
Ci
sembra quindi che per noi rimasti in piedi e immedesimati nella
missione, che non temiamo di definire sacra, del riscatto dell’uomo,
una riforma dell’impresa nel senso inviato come ultimo messaggio da
Mussolini sia uno dei punti assolutamente irrinunciabili.
Capitolo
VII
Lo
Stato organico
…la
democrazia non è per noi un principio religioso: è solo un metodo
(anzi un’espressione estensibile a tutta una serie di possibili
metodi) per designare e legittimare l’aristocrazia politica della
Nazione.
Registravano,
a conclusione del V capitolo, che le realizzazioni corporative nel
ventennio si limitarono al campo del lavoro e della produzione, del
quale tendevano ad attuare la rappresentanza organica anche
nell’organo legislativo (Camera del Fasci e delle Corporazioni).
Noi
pensiamo che tale limitazione derivasse non da una proprietà del
sistema ma da una contingenza storica. Il Fascismo aveva conquistato
tutto il potere in due tempi (1922 e 1925 e l’esperienza
corporativa era cominciata solo l’anno successivo con la legge
sindacale 563. Tutta l’area politica era quindi occupata dal
Fascismo e dal suo Capo, che indubbiamente poteva vantare un consenso
popolare senza precedenti, non solo in termini numerici (98,33% nelle
elezioni 1929 e 99,84% in quelle del 1934), ma soprattutto in
intensità e convinzione. Mussolini era certo (e quasi tutti gli
italiani di allora con lui) di interpretare ed esprimere rettamente
la volontà politica della Nazione, senza che neppure
esistesse il problema di come distillarla dalla volontà del
popolo (abbiamo visto come i due concetti non si identifichino).
La volontà economica, conservando essa, più nella univocità dei
fini ultimi, vastissimi margini di opinabilità, era espressa, col
sistema organico per funzioni, dagli organi corporativi, peraltro
anch’essi sotto sorveglianza.
Non
comprendiamo – sia detto per inciso – come i liberaldemocratici,
di vecchia fede o catecumeni, possono menare tanto scalpore di ciò,
dato che loro giunsero al potere in Francia nel 1789, e si ebbero in
seguito prima una serie di sanguinose (quelle sì!) dittature, poi
l’autocrazia napoleonica e finalmente, dopo la parentesi della
Restaurazione, la Francia cominciò a funzionare…liberalmente (e
poi democraticamente) solo oltre mezzo secolo dopo la presa della
Bastiglia. Il Fascismo, dall’inizio del regime alla sua violenta
soppressione ebbe solo, includendovi la R.S.I., vent’anni a
disposizione.
Ora
quelle condizioni storiche sono cessate e la volontà della Nazione è
tutta da determinare. La difficoltà che una democrazia deve
affrontare e superare è quindi lo studio di un metodo di espressione
della volontà popolare e di assunzione di essa come volontà dello
Stato che dia le migliori garanzie di sincerità e di efficacia.
Per
quanto attiene alle funzioni produttive, il metodo corporativo
antiguerra può essere assunto come paradigma con minime varianti,
anche per le questioni di inquadramento, e cioè per la fissazione
dell’ambito e composizione delle corporazione.
Non
così per le funzioni non produttive, ma non meno importanti se,
attraverso la volontà popolare, si vuole esprimere l’anima della
Nazione in metodo completo. Nel sistema tra le due guerre, per i
motivi esposti, le valenze prettamente spirituali o politiche erano
affidate per l’espressione al Partito Nazionale Fascista e alle sue
filiazioni Opera Nazionale Dopolavoro, Opera Nazionale Balilla (poi
G.I.L.), Opera Nazionale Combattenti, Opera Nazionale Maternità e
Infanzia, Accademia d’Italia, Consiglio Nazionale delle Ricerche,
Comitato Olimpico Nazionale Italiano ed altre minori, con una
copertura di campo abbastanza completa.In parte, contribuiva
alla espressione di valenze nazionali non produttive anche la
Confederazione Fascista dei Professionisti e Artisti. Ora, né l’uno
né l’altra, esistono più, né esiste un’imposizione politica
unitaria già determinata. Noi siamo convinti che il sistema della
rappresentanza per funzioni sia il più consigliabile anche per il
settore extraeconomico, e abbiamo già accennato e spiegheremo
nell’ultimo capitolo il perché. Si tratta di strutturarlo, e il
compito non è facile, sia perché si pone per la prima volta, sia
perché esistono categorie morali che presentano notevoli difficoltà
a volerle inquadrare in corporazioni. Basti por mente a quella
fondamentale sia come soggetto che come oggetto di politica che è la
funzione delle casalinghe.
Anche
quelle difficoltà però, con impegno intellettuale e cauta
sperimentazione andranno superate.
Quel
che è certo è che fare della sovranità popolare un sacro
principio, dinanzi al quale bruciare incenso a profusione, e poi
attuarla col semplicistico e sospetto sistema del suffragio
universale indifferenziato e delle liste partitiche, collegi
uni-o-plurinominali, presidenzialismo o parlamentarismo,
maggioritario e proporzionale, vuol dire screditare la democrazia,
non realizzarla, e vuol dire lasciare lo Stato in preda di poteri
arbitrari e incontrollati, estranei sia alla volontà popolare che
agli interessi nazionali e ai quali la pseudo-democrazia funge
soltanto da compiacente paravento.
Quando
Sorel affermava: La democrazia è il Paese della cicogna dei
finanzieri senza scrupoli, non alludeva certo al principio del
governo fondato sulla volontà del popolo, ma alla forma
partitocratrica a suffragio indifferenziato che aveva sotto gli
occhi. E la realtà attuale proclama con terribile evidenza quanto il
pensatore di Cherbourg, già quasi un secolo addietro, avesse
ragione.
Noi,
che in fatto di metodi politici non abbiamo religioni ma solo
convinzioni, sentiamo in compenso troppo rispetto per il nostro
popolo per continuare a propinargli tra inchini e salamelecchi una
siffatta patacca.
Sta
bene la sua volontà e non si vede a quale altra volontà ci
si potrebbe riferire, ma che sia autentica volontà, analoga nella
sua funzione a quella che guida le azioni di un essere umano e non
astrazione cabalistica, e che sia idonea a coprire l’intero campo
delle manifestazioni di ogni tipo e livello di cui si compone la vita
e in cui si manifesta la validità di una Nazione. Che sia autonoma e
non condizionata o estorta; qualificata e non vaga e generica; e
infine che la classe politica risultantene sia veramente tenuta ad
attuarla e non possa, previe le genuflessioni l’uso, metterla da
parte e farsi i propri comodi.
Solo
da tale punto di vista, il fallimento evidente e rovinoso delle
istituzioni introdotte in Italia dalla Liberazione non è un
fallimento della democrazia, bensì soltanto di uno di quei
metodi, purtroppo tuttora vigente con insignificanti ritocchi. E solo
in tale ottica non è necessario abbandonare il principio generale
del fondamento popolare del potere per realizzare un sistema politico
che sia elemento essenziale di progresso e non causa di degradazione.
Senza
affrontare la problematica tecnica, ci preme qui almeno fissare i
criteri fondamentali che a nostro avviso dovrebbero presiedere
all’adozione di una rappresentanza democratica per funzioni:
Non
si tratta di una rappresentanza di interessi. Ogni membro del
parlamento delle Funzioni, anche se tale diviene di diritto per
l’elezione alla sua carica da parte della corporazione di
appartenenza rappresenta tutta la Nazione, analogamente a quanto
dispone l’art. 67 della Costituzione vigente; solo egli apporta
all’attività legislativa l’opinione qualificata e l’esperienza
specifica della funzione che lo ha espresso, e ciò non
nell’interesse di quella categoria ma della Nazione intera.
La
designazione del proprio presidente nazionale (o come altro sarà
denominato) e degli altri suoi rappresentanti al vertice da parte di
ogni corporazione avverrà secondo le regole, nelle ipotesi ed
eventualmente secondo le cadenze previste nello Statuto
liberamente datosi dal corpus medesimo, che dovrà al massimo
rispettare alcuni requisiti generali da fissarsi per legge.(**) La
stessa elezione da parte della corporazione farà acquistare però
automaticamente all’eletto la qualifica di membro del parlamento.
Ogni corporazione potrà sostituirne uno o più a norma del proprio
Statuto, in ogni momento.
La
quantità dei deputati (si chiamino così o altrimenti) assegnati ad
ogni corporazioni non potrà ovviamente essere commisurata al numero
dei rispettivi iscritti, dato questo del tutto rilevante per chi
abbia afferrato lo spirito della riforma proposta, bensì
all’importanza della funzione relativa nella vita della Nazione.
Siamo
contrari all’ipotesi di due camere, l’una economica e l’altra
politica, sia per la dipendenza gerarchica dell’economia rispetto
alla politica, sia perché la valenza politica, e cioè quella di
ragionare uti cives e parte integrante della personalità di
ognuno, anche se espresso da una corporazione produttiva. Il nostro
sistema punta a valorizzare la polivalenza dell’uomo, non le sue
specializzazioni deformanti.
Le
elezioni nei singoli settori corporativi dovrebbero avvenire per
gradi territoriali, preferibilmente che per sub-categorie. Per
esempio, gli agricoltori della provincia di Pesaro parteciperebbero
tutti, nella loro pubblica funzione di elettori primari,
all’elezione del loro direttivo corporativo, che a sua volta
eleggerà il suo rappresentante all’assemblea regionale di
settore. A questa spetterebbe, tra le altre mansioni, l’elezione
del proprio rappresentante dell’organo direttivo della
corporazione nazionale, che dovrebbe a sua volta eleggere nel
proprio seno i deputati degli agricoltori al parlamento nazionale.
Elezioni
primarie potrebbero essere previsti dagli Statuti di corporazioni
molto numerose anche per subcategorie produttive.
Sarebbe,
con tale sistema, con i capi delle assemblee nazionali di
corporazione e non con i segretari dei partiti che il Capo dello
Stato o il Presidente del Consiglio designato dovrebbero consultarsi
per la scelta dell’esecutivo.
I
sindacati, finché permanesse la struttura dualistica dell’impresa,
conserverebbero la loro funzione di parte nelle controversie
collettive di lavoro e tenderebbero probabilmente alla unificazione,
una volta vanificato il loro collegamento colle diverse parti
politiche, e cioè i partiti. Cessata, infatti, per questi ultimi
ogni presunzione rappresentativa, essi si ridurrebbero a
circoli per la diffusione di idee e orientamenti, e potrebbero
perfino diventare utili.
(*)
Obbligo di deposito e controllo di legittimità da parte del
Consiglio di Stato.
Capitolo
VIII
Una
democrazia realizzata
Sarà
veramente la sua opinione (del cittadino) a determinarlo, in
un ambito a lui ben noto, e non quella fabbricata dagli opinion
makers stipendiati.
Esposti
così per linee generali i fini, i principi e i metodi di
consultazione popolare per funzioni, che costituiscono parte
rilevante dei nostri contenuti politici, concludiamo questa rapida
dichiarazione d’intenti esponendo i vantaggi (in parte già
accennati passim nell’esposizione) che secondo noi la
rappresentanza corporativa o per funzioni presenta, nell’interesse
della comunità nazionale di oggi e di domani, rispetto ai meccanismi
di consultazione popolare attuali, e a cagione dei quali vantaggi la
riteniamo l’unico tipo di soluzione praticabile dei problemi che
invece limitandosi alle variazioni sul tema del parlamentarismo e del
suffragio universale indifferenziato – si presentano come
insolubili.
I
- Scegliere, da parte dell’elettore primario, nell’ambito
provinciale, il proprio collega che ritiene più idoneo sia
quale presidente della locale corporazione che quale rappresentante
di essa a livello regionale è cosa ben diversa che, da parte
dell’elettore attuale, scegliere in funzione di rappresentanza
generica nell’intera popolazione, tra persone o liste di persone
che non conosce se non dalle faccione sorridenti stampati sui
manifesti, o al massimo dalle intenzioni da loro dichiarate (senza
impegno). Non ci sembra occorra dimostrare come, nel primo caso, egli
sia in grado di compiere una valutazione e una scelta più autonoma,
più motivata e con maggiore cognizione di causa. La sua scelta sarà
di conseguenza assai meno influenzabile e pilotabile da abili
espedienti subliminali, da informazioni manipolate o da presentazioni
faziose da parte dei mass-media asserviti, come si sa, a lobbies di
coscienza nazionale assai dubbia, che la libertà di stampa e di
antenna, per quanti correttivi le si possono trovare, esonera da
qualsiasi obbligo di sincerità ed obbiettività.
Gli
elettori di secondo e terzo grado, a loro volta, dovranno operare le
loro scelte fra canditati che personalmente conoscono e possono
direttamente valutare dall’acume, l’equilibrio e la preparazione
dimostrata durante le sedute dell’organo collegiale di
appartenenza.
E’
quindi prevedibile che, procedendo per vari gradi di elezione, mentre
nel primo sarà prevalente criterio di scelta la serietà e il
prestigio professionale, nei gradi successivi andrà acquisendo
sempre maggior peso la valutazione delle capacità politiche, che chi
deve rappresentare al vertice una intera funzione nazionale deve
possedere.
2°
- Un rappresentante di corporazione nazionale, di diritto membro del
parlamento, risulterà in tal modo da una selezione di qualificazione
crescente.Se canone basilare della democrazia è la convinzione che
il popolo abbia la capacità di conferire saggiamente le proprie
deleghe, deve, discenderne la convinzione che uomini provenienti
dalle varie funzioni e così selezionati siano di gran lunga
preferibili ai cosiddetti politici professionali, la cui
responsabilità non consiste nella qualificazione a legiferare, ma
nell’abilità nel farsi eleggere e nel restare a galla con
qualsiasi mezzo.
3°
- Il sistema di elezione graduale, capillare e differenziata,
svolgentesi con continuità in una miriade di piccole assemblee di
categoria senza clamore né kitsch e senza imbrattamento di
muri né slogan azzeccati verrebbe a rendere estremaamente
problematico se non impossibile influenzare le candidature o il
successo di esse con l’uso spregiudicato dei grandi mezzi di
diffusione stampati o radiotelevisivi da parte delle potenze che li
controllano col denaro o il ricatto. L’accusa da più parti rivolta
alla democrazia non avrebbe più fondamento, essendo in realtà
rivolta non alla democrazia in sé ma alla semplicistica e in
autentica forma di democrazia in atto, che si presta a tutte le
manipolazioni da parte di chi ne conosca i riposti segreti.
4°
- Il ricambio continuo e permanente nella composizione degli organi
elettivi (anche alle elezioni regionali o comunali potrebbe
applicarsi identico sistema, utilizzando le stesse articolazioni per
funzione) segnerebbe la fine delle carnevalesche e dispendiosissime
campagne elettorali, le cui conseguenze negative sono a tutti note, a
cominciare dalla necessità da parte degli eletti assunti al potere
di rimborsarsi nell’esercizio di esso degli esborsi sopportati per
conseguirlo o di onorare gli impegni verso chi ha pagato per loro. La
colossale macchina della corruzione politica si incepperebbe presto
per mancanza di clienti, oltre ché dello spazio di manovra cui oggi
è abituata.
Lo
Stato guarirebbe, inoltre del singhiozzo periodico delle nefaste
legislature, con la possibilità già notata di formulare e
attuare piani di lungo respiro, senza che i prodotti della
politica nascano già marchiati col timbro maligno della precarietà.
Non parliamo poi della famosa alternanza da qualche
sprovveduto addirittura auspicata, che può avere un grossolano senso
(un po’ per uno non fa male a nessuno) solo se si capisce il potere
come un premio e un privilegio, ma se le mansioni politiche sono
rettamente sentite come un gravoso compito e responsabilità al
servizio della Nazione è addirittura insulsa. E’ una ben strana
etica democratica quella consistente solo nelle regole
deontologiche per lo sport dell’assalto alla stanza dei bottoni.
5°
- La suddivisione dell’elettorato non in base alla collaborazione
politica, spesso assai sbiadita o inesistente, ma in base alla
funzione svolta nella vita della Nazione, insieme all’assegnazione
di un numero determinato di parlamentari a ognuna di dette funzioni,
stroncherebbe finalmente il pernicioso gioco del formarsi o
sciogliersi di coalizioni e delle altre manovre parlamentari,
cui la volontà degli elettori è del tutto estranea e che ostacolano
gravemente la serietà e tempestività degli interventi legislativi e
la loro finalizzazione soltanto all’interesse generale.
6°
- I partiti, privati di una funzione rappresentativa puramente
usurpata, sarebbero concepiti soltanto come centri di elaborazione e
diffusione di dottrine e di metodi, giudicati dal pubblico più
sensibile e interessato alle problematiche politico-sociali in base
alla attendibilità delle rispettive tesi e al livello dei loro
esponenti, dando in tal modo (quelli che sopravvivrebbero) alla
libertà di pensiero e al pluralismo la giusta funzione e
collocazione nel piano generale, che è quella di stimolare
nell’elettorato la riflessione e le facoltà critiche.
7°
- La politica attiva perderebbe il carattere ludico di competizione
fra fazioni intene a sopraffarsi a vicenda, inutile sperpero di
energie annullatesi a vicenda i cui risultati abbiano sotto gli
occhi, e diverrebbe finalmente quello che deve essere: LO SFORZO DI
SODDISFARE LE AUTENTICHE ESIGENZE DELLA NAZIONE, ESPRESSE DAL POPOLO
ATTRAVERSO I CORPI INTEMEDI CHE NE’ ASSOMMANO E ARTICOLANO LE
FUNZIONI VITALI, TRASFORMATE IN VOLONTA’ DELLO STATO. SAREBBE
ATTUATA COSI’ L’UNICA DEMOCRAZIA VERA E COMPIUTA: LA
DEMOCRAZIA ORGANICA.
Siamo
perfettamente consapevoli delle difficoltà di realizzare il progetto
che precede, in presenza di una classe politica come
l’attuale, rissosamente discordie in superficie ma massicciamente
concorde nell’intenzione di mantenere le attuali istituzioni,
stiracchiandole tutt’al più in un senso o nell’altro a
seconda delle varie e contrastanti furberie.
Vi
si potrà comunque arrivare soltanto per gradi, se il popolo italiano
–a sua volta unanime nell’averne fin sopra ai capelli di costoro
– prenderà compiuta coscienza che, perdurando gli strumenti
politici attuali, ogni possibilità di esprimersi gli è sottratta.
Di
un’altra cosa siamo però anche consapevoli: che tanto più il
ripudio dell’attuale democrazia-truffa sarà procrastinato per
l’influenza dei poteri spuri cui essa è propizia, tanto più grave
sarà il danno per la nostra Patria e più doloroso e drammatico sarà
il trapasso. E’ quindi nostro dovere verso i morti, e ancor più
verso i nascituri dedicare ogni nostra forza a che quella presa di
coscienza avvenga il più presto possibile.
Rutilio
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