Zara, per non dimenticare
di Nino Arena
E’ la storia di un piccolo
lembo di Dalmazia e d’Italia conficcato tenacemente con le sue radici
nella sponda opposta dell’Adriatico. Un minuscolo insediamento rimasto
con le sue vestigia, le sue mura e i
suoi
monumenti a testimoniare per sempre la presenza di Roma, della
Repubblica Veneta e dell’Italia in quella babilonia etnica denominata
Jugoslavia ormai disfatta, dai tanti popoli diversi che la compongono e
le contrastanti religioni che li dividono; con gli innumerevoli dialetti
spesso incomprensibili, ereditati nei secoli da influenze barbariche e
da civiltà romane e bizantine, greche e germaniche, veneziane e turche
che in un andirivieni tumultuoso hanno lasciato ovunque i segni del loro
passaggio, spesso selvaggio e deprecato come quello degli avari,
bulgari, serbi e bosniaci, ungari e croati, romeni e macedoni, albanesi,
montenegrini, zingari ed ebrei. Comunità assemblate per costrizione o
necessità di sopravvivenza fra le rive dell’Adriatico e la Sava, fra la
Drava e il Danubio, chiuse a oriente dalla catena carpatico-balcanica.
In questa regione che non ha lasciato tracce rilevanti nel mondo
occidentale di civiltà e di costumi, confluiscono poi tanti cordoni
ombelicali legati allo scorrere dei grandi fiumi europei, radici e
propaggini etniche originate dal grande ma eterogeneo popolo slavo con
russi bianchi, boemi e moldavi, slovacchi e ruteni, da sempre proiettato
verso i mari caldi del Mediterraneo, impropriamente definito un popolo,
omogeneo solo nella definizione letterale ma in realtà diviso,
frazionato, diverso, da sempre in guerra all’interno per contrasti
secolari, profondamente irrequieto, tradizionalmente subdolo, infido in
sé e con gli altri, contrapposto nelle etnie, religioni e costumi.
Sfortunatamente questo caleidoscopio insediato per decisioni politiche
ai confini orientali d’Italia, circondava il piccolo insediamento
italiano d’oltremare, di poco più di 100 kmq che aveva nome Zara, ed
ebbe nefaste conseguenze nel suo futuro determinandone la perdita
dall’Italia. La vogliamo qui ricordare per non dimenticare.
Nel difficile contesto
territoriale ed etnico, Zara appariva agli slavi, ancor prima della 2°
Guerra Mondiale, un irresistibile centro di attrazione e di ammirazione,
suscitando in loro anche invidia e complessi psicologici di rancore.
Agli italiani appariva una gemma solitaria e splendente, incastonata
nell’azzurro del suo mare, vetrina di una civiltà, maestra e punto
d’incontro di culture diverse.
La storia di questa città non
era stata facile nel corso dei secoli, poiché le sue origini più remote
risalgono alla Dalmatia, una parte del territorio della Liburnia
conosciuta meglio come Madera (Jader romana poi Diadora con Bisanzio).
Nel periodo dell’espansione romana del 229 a.C. e della creazione del
protettorato il lirico che legava i jadertini alla potenza di Roma, essi
fornirono navi e marinai provetti in pace e alleati in armi, socii
navales nella prima guerra dalmatica (155 a.C.). Con la Pax romana fu
concesso a Jader il titolo onorifico di Civitates liberae et immunes per
l’aiuto prestato a Roma, titolo poi trasformato in Federatae allorché i
legami militari furono stretti ancor più durante la guerra civile del 48
a.C. nella quale i jadertini furono dapprima alleati con Pompeo in lotta
contro Caio Giulio Cesare e poi a fianco di Ottaviano nel 31 a.C. contro
Antonio. Essi meritarono per la fedeltà ed il valore dimostrati nella
battaglia di Azio, l’ambito titolo di Parens Coloniae assegnato a
coloro che garantivano ed ampliavano la civiltà romana oltre i confini:
allargarono infatti la conoscenza e l’approvazioni delle leggi di Roma
nel cuore dell’Illiria, nella Mesia e in Macedonia, svolgendo una
missione civilizzatrice con dedizione. Integrata più tardi, dopo la
nascita del cristianesimo, in tutta la regione danubiana, Jader
abbracciò infatti con convinzione, fede e sacrifici la nuova religione,
tanto da promuovere l’originario piccolo insediamento cristiano del 2°
secolo a quello più grande e importante dell’Arcivescovado (4° secolo) e
acquisì in tal modo il diritto a partecipare al Concilio di Aquileia del
380 d.C.
Parens Jadertinum, coinvolta
come tante altre regioni romanizzate dell’Europa sud-orientale nelle
negative vicende legate al declino dell’impero romano d’occidente, passò
sotto Odoacre nel 480 ed infine venne assoggettata da Bisanzio nel 538
sotto il dominio dell’imperatore Giustiniano I.
Il primo incontro con le
ostili popolazioni slave può farsi risalire al 615, tempo delle
invasioni barbariche degli slavi orientali (unni e avari di discendenza
mongolia, ucraini, bulgari, slavoni, serbi) che spinsero verso il mare
croati e ungari sistematisi nelle regioni costiere sotto il controllo di
Bisanzio e, dopo la distruzione del regno dei Gepidi, insediatisi
nuovamente ai confini orientali del regno dei Franchi prima, del Sacro
Romano Impero successivamente; dominio, questo, che consacrava Zara
capitale della Dalmazia (752 d.C.) con un suo condottiero (Dux Jaderae),
inserita nel legato di Dalmazia dopo l’atto di sottomissione a Carlo
Magno dell’805 d.C.
Nel 992è la volta di Venezia,
che prende sotto la sua protezione la piccola città adriatica rimasta
indipendente seppur minacciata dagli slavi e il Doge Pietro Orseolo
sconfigge i croati di re Dircislao. Egli riceve dai zaratini il titolo
di Dux Venetiae ed Dalmatiae e associa la città nella sua alleanza
militare, garantendo sicurezza e prosperità duratura soprattutto per le
affinità storiche, culturali, religiose e linguistiche delle comuni
origini. Con l’avvento del Doge Orseolo II la potenza della Repubblica
di San Marco si rafforza, sconfiggendo ancora una volta i croati ed
ottenendo a titolo personale il titolo di Dux Dalmatiae per la
protezione fornita a Zara. Nel 1105 è la volta degli ungari di Colomano,
che assediano a lungo la città difesa con tenacia dai suoi abitanti, i
quali resistono fino all’arrivo della flotta venezianadel Doge Volier,
che sconfigge in battaglia ungari e croati, pacifica nuovamente la
turbolenta Dalmazia e la Serbia non senza aver prima distrutto nel 1123
Belgrado.
Nel 1154 Papa Anastasio IV
eleva al rango di Arcivescovado la sede cristiana di Zara e affida al
Vescovo Lampridio le Diocesi di Ossero, Veglia, Arbe e Lesina che
passano con Zara sotto il controllo ecclesiale del Patriarca di Grado,
nominato per l’occasione Primate di Dalmazia.
Cede lentamente la potenza
bizantina, mentre i turchi dilagano attraverso la Bulgaria nell’Europa
sud-orientale e convertono all’Islam i popoli cristiani, minacciando
così non solo l’aspetto egemonico ma anche religioso della civiltà
aeropea.
Zara resiste anche a questo
nuovo pericolo, rinsalda la sua fede cristiana tanto da meritarsi una
visita del più grande santo italiano – Francesco d’Assisi – che nel 1212
fonda nella città adriatica un convento di frati minori. Le crociate in
Terrasanta si susseguono con vittorie e sconfitte che indeboliscono la
Chiesa di Roma, favoriscono i nemici della fede e provocano scissioni
laceranti.
Zara viene minacciata ancora
una volta da ungano-croati e Venezia deve intervenire nuovamente: per
riscattare la città dalla corona d’Ungheria paga nel 1409 un totale di
100.000 ducati d’oro. Lo stesso anno con bolla promulgata dal Doge
Michele Steno, Zara entra ufficialmente a far parte della Serenissima.
La decadenza dell’impero
bizantino e della Chiesa apre ai musulmani la strada verso il cuore
dell’Europa. I turchi catechizzano i popoli più deboli dei Balcani:
albanesi, macedoni, bosniaci, montenegrini e minacciano nel 1470 la
Dalmazia e Zara. Fu necessario per i popoli europei coalizzarsi per
respingere il pericolo islamico e nel 1571, nella grande battaglia
navale di Lepanto, la flotta turca di Selim II detto Alì Pascià, fu
sconfitta dai condottieri cristiani Sebastiano Veniero, Marcantonio
Colonna e Giovanni d’Austria.
Nel 1606 veneziani e zaratini
combattono i pirati scocchi di origine slava- croata-liburna, che armati
e fomentati dall’Austria gelosa della potenza di Venezia, assalgono,
depredano navi e uccidono con ferocia uomini della Serenissima. Venezia
vede in pericolo i suoi commerci e i suoi insediamenti, minato il potere
ed il prestigio della Repubblica e ostacolano duramente la ripresa
dell’attività dei pirati gia combattuti da Roma. In quel periodo
s’insedia nel litorale dalmato un’altra popolazione slava – i morlacchi
– attratta dalle migliori condizioni di vita e di civiltà. Ma nuovi
rivoluzionari sommovimenti stavano verificandosi in Europa.
Nasce l’astro di Napoleone
Bonaparte che combatte in tutta Europa prussiani ed austriaci,
scandinavi e bavaresi, spagnoli e inglesi, russi e italiani sconvolgendo
regni e monarchi, creando e disfacendo stati affidati poi a parenti.
Anche Zara subisce le vicende napoleoniche che decretano la fine della
gloriosa Repubblica Veneziana: viene ceduta all’Austria col trattato di
Campoformido del 1797, assegnata successivamente nel 1810 al regno Il
lirico ed infine occupata nuovamente dall’Austria col trattato di
Vienna del 1815, dopo Waterloo.
Prima di quest’ultima
cessione, i gloriosi stendardi di Venezia vennero custoditi nell’altare
maggiore della cattedrale di S. Anastasia con una solenne cerimonia cui
partecipò commosso tutto il popolo caratino, consapevole che si era
chiuso mestamente un ciclo storico durato secoli. L’unica speranza era
ormai l’Italia.
La dominazione austriaca fu
senza dubbio la peggiore nella storia di Zara. Iniziarono le pressioni
morali, i processi per i patrioti, le condanne, l’esilio per i più
riottosi e come strumento di costante pericolo le sobillazioni tra le
popolazioni slave contro i zaratini e i dalmati, in genere colpevoli di
amare l’Italia. Sentimenti di avversione e odio che ancora perdurano ai
nostri giorni, come pesante eredità di quel triste periodo di sofferenze
e persecuzioni, che non spense l’amor di patria dei zaratini.
Dalla prima metà del 1800 la
comunità italiana della Dalmazia dovette sostenere una durissima lotta a
costo di persecuzioni, prigione ed esilio per conservare il sentimento
di patriottismo ed alimentare l’irredentismo, opponendosi ai tentativi
di snazionalizzazione e di immissione dei croati.
Nel 1910 un decreto del regio
e imperiale governo austriaco, abolì l’uso ufficiale della lingua
italiana a Zara sostituendola con quella croata: il provvedimento non
trovò mai pratica attuazione perché i zaratini continuarono imperterriti
a parlare italiano o dialetto veneto-giuliano ignorando e ridicolizzando
l’imposizione di Vienna.
Con lo scoppio della 1° Guerra
Mondiale originata dal terrorismo serbo a Sarajevo (quante analogie con
la situazione attuale) ai patrioti zaratini non rimase altra alternativa
che passare la frontiera e arruolarsi nell’esercito italiano per
combattere l’oppressore. Numerosi i volontari irredentisti, i decorati
al valore, i caduti, i feriti, i mutilati. L’ora della redenzione suonò
il 4 novembre 1918 allorchè giunse a Zara la R. Torpediniera AS. 55 che
sbarcò i primi marinai italiani accolti dal tripudio della popolazione e
dalla gioia di vedere innalzare sul più alto pennone del porto il
tricolore d’Italia. Mancava ancora il riconoscimento ufficiale, forzato
anticipatamente nel 1919 dalla spedizione dannunziana che giunse a Zara
da Fiume con 4 navi. L’ammiraglio Millo, disatteso l’ordine del governo
di Roma di bloccare l’iniziativa, fece causa comune col poeta, scortando
le navi, affacciandosi poi al balcone del palazzo del Capitano con il
Podestà Ziliotto per rispondere alle ovazioni della cittadinanza. Il
trattato di Rapallo sancì definitivamente l’unione di Zara all’Italia
nel 1920 con l’isola di Lagosta, sacrificando però le italianissime
città dalmate di Ragusa, Traù, Spalato, Selenico, Cattaro e le isole
vicine. Un altro sopruso compiuto a Versailles, in spregio ai patti
sottoscritti da inglesi, francesi e americani nei confronti dell’Italia
e nonostante il contributo di oltre 600.000 caduti e un milione di
mutilati e feriti dato per la vittoria alleata.
La Francia subentrò
all’Austria nei Balcani riprendendo la politica anti-italiana col creare
condizioni d’instabilità politica ai confini orientali. Seguirono anni
di pace, di commerci fiorenti, di prosperità e benessere diffusi di cui
beneficiarono tutti, ed i zaratini in particolare, godettero di anni
sereni nella ritrovata unione nazionale mentre gli slavi trassero
vantaggio dalla pacifica convivenza.
Con lo scoppio della II°
Guerra Mondiale nel settembre del 1939, per Zara, lontana dalla
madrepatria e isolata dall’Adriatico, a diretto contatto con la
Jugoslavia ambigua nella politica guidata dall’oligarchia serba, il
futuro appariva incerto.
Nella primavera del 1941 la
guerra si avvicinò anche a Zara, e i 9.000 uomini del suo presidio al
comando del generale Emilio Figlioli si prepararono a difenderla contro
la “Jadranska”e reparti di altre due divisioni, numericamente
superiori come uomini e armamento. In aprile iniziarono le operazioni di
guerra con incursioni di bombardieri slavi sulla città, che causarono i
primi morti fra civili e militari; intervenne la caccia italiana a
respingere gli assalitori e il 12 dello stesso mese iniziava l’offensiva
generale con l’avanzata italiana oltre Bencovazzo, S. Cassiano, Nona e
la breve ma vittoriosa campagna terminava alcuni giorni più tardi con
l’occupazione di Knin. Seguirono gli anni difficili e subdoli della
guerriglia comunista dei titini con attacchi isolati, agguati alle
autocolonne, ai presidi, con distruzioni, incendi, sabotaggi, morti,
feriti e tanti dispersi mai più ritrovati. Poi nel settembre 1943 giunse
inaspettato l’armistizio di Badoglio. All’annuncio che l’Italia cedeva
le armi, il comandante del XVIII Corpo d’Armata generale Umberto Spigo,
ebbe disposizioni dal comando 2° Armata di trattare con i tedeschi la
difesa della città e il delicato problema dell’ordine pubblico. Secondo
l’accordo stipulato con il comando della 114° divisione Jager, le
autorità civili di Zara avrebbero continuato a svolgere le loro
funzioni, le truppe italiane avrebbero mantenuto l’ordine in città
assieme ai reparti tedeschi mentre il comando germanico avrebbe assunto
il controllo del circondario. Fu un accordo durato pochi giorni poiché
il comando del Corpo d’armata abbandonò improvvisamente Zara
rifugiandosi via mare a Venezia e lasciando le unità dipendenti nel
caos, senza ordini, con conseguente sbandamento morale e materiale e
repentino cambiamento di politica da parte tedesca. In più taluni
responsabili militari, su istigazione dei generali Ambrosio e Roatta,
ormai al sicuro a Brindisi, ricercarono accordi con i partigiani
comunisti di Tito per “un’azione in comune contro i tedeschi e per la
consegna di armi, munizioni”. Iniziava il caos e a farne le spese
furono i zaratini, gli italiani, i militari che non avevano accettato
una così innaturale e brutale alleanza dopo aver duramente combattuto
per lunghi anni i partigiani. Un robusto presidio rimase in città; erano
i fanti del 291° rgt., i bersaglieri dell’11°, i genieri, gli
artiglieri, le CC.NN. della 107° Legione, le guardie alla frontiera, i
carabinieri, i finanzieri, gli agenti di P.S., tutti decisi a opporsi
agli slavi, collaborando con i tedeschi, onde evitare pericoli alla
comunità italiana. Ad essi si unirono i legionari della DICAT e i
reparti territoriali delle posizioni “Diaz”, “Rispondo”, “Cadorna” con
numerosi avieri del campo d’aviazione di Demonico.
L’armistizio fu vissuto dai
zaratini con comprensibile sgomento e timori per il futuro, ma anche con
la fiducia che i soldati italiani non li avrebbero abbandonati
considerando che l’Italia non esisteva ormai più come entità politica,
non aveva governanti e il suo territorio era invaso dagli alleati anglo
americani e dai tedeschi traditi.
La situazione precipitò perché
Hitler, condannato severamente il tradimento italiano (perpetrato
soltanto da Badoglio e dal suo clan di traditori – n.d.a.) volle
“regalare” ai croati di Ante Pavelic tutto il territorio che il
Poglavnick poteva occupare ai margini del suo stato, includendovi Zara,
con la nomina a prefetto del dr. Vittorio Ramov e a sindaco di Andrja
Relja. Nel contempo l’organo deliberante dei titini – l’AV-NOJ-
decretava subito l’inclusione nella nascente federazione jugoslava di
Fiume, dell’Istria, di Zara ampliando, ancor più di Pavelic, le
rivendicazioni territoriali degli slavi, convinti che ormai era il
momento di dettar legge. In questa gravissima situazione, provocata dal
Re e da Badoglio, quando tutto ormai sembrava perduto, arrivava
provvidenzialmente per l’Italia e gli italiani il ritorno di Mussolini
alla guida responsabile del Paese, una presenza autorevole e necessaria
per contrastare l’invadenza tedesca, respingere le pretese slave e dare
un senso alle speranze ormai affievolite degli italiani, soprattutto di
coloro che per dislocazione geografica e situazioni locali erano i più
esposti al pericolo.
Quale primo provvedimento
urgente, Mussolini, dopo aver parlato con Hitler riusciva a far
accantonare l’idea del prefetto croato, nominando il dr. Paolo
Quarantotto, che, impossibilitato a raggiungere al più presto Zara,
veniva sostituito dal seniore Vincenzo Serrentino, già comandante la
DICAT zaratina. L’ufficiale, trovandosi sul posto, prese immediatamente
possesso della carica ricevendo pochi giorni più tardi regolari
credenziali da parte del Governo della RSI. Venne coadiuvato nelle sue
funzioni dal prefetto vicario dr. Giacomo Vuxani e come Podestà dal dr.
Nicola Luxardo. Restava da affiancare alle autorità nominate l’apparato
istituzionale, ossia la Questura con gli agenti di P.S., i carabinieri,
la guardia di finanza e gli altri organismi dello Stato fra cui le
FF.AA. presenti in città con un rgt. Di formazione (col. Francesco
Minghillo) composto da fanti, bersaglieri, militari di altre Armi e
Specialità, mentre si riattivava la 107° Legione CC.NN. al comando del
console Pietro Montesi-Righetti e si reclutavano numerosi volontari che
costituivano una Cp. D’assalto (C.M. Francesco Vijack), un nucleo
speciale d’azione (S.C.M. Renato Miliardi). Complessivamente 3.500/4.000
uomini compresi i militari addetti ai servizi d’ordine pubblico.
Al comando del Gruppo
Carabinieri di Zara rimase il magg. Trafficanti, coadiuvato dal
comandante di tenenza ten. Terranova.
A dare man forte al neo
costituito presidio militare, giungeva la banda MVAC (Milizia Volontaria
Anti Comunista) al comando del 1° seniore Tommaso David (banda
“Obrovazzo” composta da volontari dalmati filoitaliani, cui si univano
la Cp. Studenti volontari dalmati “Vucassina” ed un nucleo di fascisti
mobilitati dal PFR al comando del federale dr. Mario Petronio.
Con questi uomini a
disposizione, Serpentino tenne a bada i croati di Pavelic e i partigiani
titini, poiché la banda “Obrovazzo”, che aveva recuperato armi e
materiali abbandonati dal R.E. e reclutato numerosi sbandati, portò una
ventata di entusiasmo e di speranza ai zaratini, controllando le strade
di accesso alla città sino all’arrivo dei reparti tedeschi, presidiò la
strada Zara-Obrovazzo permettendo l’afflusso di una colonna di
artiglieria della 114° Div. Jager rimasta bloccata dai partigiani a
Bencovazzo, mentre il comandante David “arruolava” migliaia di sbandati
del R.E. ed evitava loro un duro futuro di prigionia in Germania
costituendo battaglioni di lavoratori per la Wehrmacht. Presidi
consistenti venivano attivati a Obrovazzo, Bencovazzo, Zemonico, Sakosan
e a Ulja per completare le difese esterne di Zara.
L’opera del prefetto
Serrentino fu particolarmente difficile, piena di ostacoli, condotta con
caparbia determinazione fra l’ostilità croata e la diffidenza tedesca,
ma nella convinzione profonda di tutelare gli interessi italiani e la
salvaguardia fisica e morale di migliaia di connazionali in grave
pericolo.
Un certo risveglio
dell’attività partigiana nel circondario, convinse i comandi tedeschi ad
effettuare alcune operazioni di controllo e polizia, ed alla banda
“Obrovazzo” fu assegnato il compito di ripulire i dintorni e le isole
armando le motobarche “S. Eufemia”e “Corsara” con mitragliere. Si ebbero
scontri a Comino, S. Cassiano, Boccagliazio, Paco, Bevilacqua, Nona con
la fuga di bande di partigiani comunisti che subirono la perdita di
numerosi caduti, feriti e prigionieri. Fra questi una quarantina di ex
militari del R.E., che David salvò da sicura morte dopo essere stati
considerati “franchi tiratori”dai comandi tedeschi per l’appartenenza al
btg. “Mameli”, composto da badogliani (aveva subito 53 morti fra cui 3
ufficiali, uno dei quali identificato per il capitano Cuccioli), postisi
al servizio di Tito ed operanti nella zona di Carin, Murvizza, Oltre.
Qui venne catturato il famigerato capo banda Joko Lasmanovic, autore di
efferati delitti. Nell’operazione il capitano Coppola, vice comandante
della “Obrovazzo”, rimase ferito. Si ebbe un altro tentativo croato di
insediare Ramov, dopo che lo stesso si era sistemato nella Legazione di
Croazia, ma la stessa notte un gruppo di arditi fece sloggiare il
rappresentante di Pavelicassieme ad un gruppo di sostenitori croati
fatti giungere alla spicciolata per tentare di creare il fatto compiuto,
dalle autorità della Nezavisma Orzava Heratska.
Un grande sostegno morale al
lavoro improbo del prefetto Serrentino venne dato dal battagliero
“Giornale della Dalmazia” diretto da Feri de Pauer Perretti, che
raccolse la voce e le speranze di tanti patrioti italiani sparsi nella
Dalmazia e a Zara, li incoraggiò, infondendo loro fiducia, sostenendo
sempre le aspirazioni della comunità italiana.
Era sorprendente constatare
come nei periodi più oscuri e difficili, uscissero improvvisamente dal
nulla uomini responsabili, spesso sconosciuti, di grande statura morale,
di elevato ascendente, destinati, quasi per un disegno del fato, ad
affrontare compiti gravosi e a risollevare il morale di tanti infelici
compatrioti.
In campo avverso si stava però
preparando il destino di Zara con un disumano accordo fra Tito e i
comandi alleati ispirati da Churchill: distruggere dal cielo le città
per costringere i suoi abitanti ad abbandonarla e cancellare così
forzatamente la presenza italiana, creando le premesse per una
balcanizzazione imposta dagli slavi con la forza delle armi e sostenuta
dagli anglo-americani. Non era tanto importante causare migliaia di
vittime fra la innocente popolazione civile, quanto imporre col terrore
una precisa volontà politica; non importava agli anglo-americani
distruggere con le bombe insigni monumenti creati nel corso di 16 secoli
di civiltà, quanto costringere la cittadinanza terrorizzata ad
abbandonare Zara, che nel nuovo assetto geo-politico stabilito dai tre
grandi a Yalta, doveva essere assegnata a Tito ed inserita nei confini
d’influenza del comunismo sovietico e dei suoi satelliti.
Gli anglo-americani, che
vantavano fra l’altro precedenti criminosi per attacchi terroristici
alle città italianee tedesche, che avrebbero distrutto in primavera la
storica abbazia di Montecassino senza giustificazione, si prestarono di
buon grado al crimine.
Il 2 novembre 1943, ricorrenza
dei defunti, l’aviazione inglese compiva la prima incursione su Zara
uccidendo 154 cittadini e 18 militari, ferendo alcune centinaia di
persone, distruggendo storici edifici fra cui la famosa cereria, il
palazzo comunale, scuole come il liceo-ginnasio, la centrale via Roma,
case di civile abitazione. Seguiva il 28 novembre un altro attacco,
questa volta diurno e senza possibilità di errori, colpendo Val de
Ghisi, il palazzo di Giustizia, una scuola elementare, le Poste e
Telegrafi, la casa della GIL, le caserme “Diaz” e “Cadorna”, abitazioni
civili con numerosi morti e feriti, la scuola agraria e il piccolo
piroscafo “Selenico”affondato in porto. In due incursioni oltre 200
morti civili.
Il 16 dicembre nuova
incursione degli inglesi con la distruzione della Banca Dalmata, della
canonica della chiesa ortodossa, del Palazzo della Provincia, del
Ginnasio “D’Annunzio” e delle case in calle Val di Maistro, Borgo
Erizzo, S. Maria, Pappuzzeri, S. Rocco, Porta Catena. Ma non era finita:
nella notte una nuova incursione con bombe incendiarie provocava ancora
vittime e terrore fra la gente, desiderosa ormai di fuggire per salvarsi
da morte certa. La mancanza di mano d’opera e di attrezzature adatte
rendeva impossibile il recupero dei morti e lo sgombero delle macerie.
Lo scopo voluto da Tito cominciava a realizzarsi con l’abbandono di Zara
da parte dei suoi abitanti. Lo stesso criterio dell’intimidazione fu
usato a Fiume, lasciando indenne dai bombardamenti la vicina Susak
abitata prevalentemente da croati.
Si ebbero in totale su Zara 54 incursioni
e circa 4.000 morti (il 20% della popolazione), molti non identificati
perché rimasti sotto le case diroccate e la distruzione di circa l’85%
del centro abitato: una perdita culturale, storica e artistica
irrimediabile.
Alla fine del 1943
Serrentino inviava un primo rapporto a Mussolini mettendolo al corrente
della situazione tragica che viveva la città, dei morti subiti, dei
feriti intrasportabili, degli insepolti, degli sfollati, delle
difficoltà alimentari e sanitarie, delle asportazioni effettuate dai
tedeschi. Il prefetto assicurava il Duce che sarebbe rimasto al suo
posto e non avrebbe ceduto alle pressioni esterne; chiedeva solo aiuti e
sostegno morale per i zaratini. Mussolini assicurava Serrentino di fare
il possibile e mobilitava Coceani a Trieste per aiutare Zara, istituendo
una linea aerea fra Venezia-Trieste-Pola-Zara gestita con idrovolanti e
personale italiano sotto il controllo tecnico della Marina germanica.
Per Ante Pavelic mostrava il meritato disprezzo per il voltafaccia:
“…nella miseria non ci sono amici ed i popoli ragionano come gli
individui che li compongono” scriveva a Serrentino mentre Coceani
organizzava una colonna di aiuti per Zara, intesa a salvare il maggior
numero possibile di sfollati nel ritorno, soprattutto i dalmati, rimasti
senza alcun sostegno e autorità, angariati dai croati, uccisi dai
titini, prelevati e scomparsi nel nulla. Partivano per Zara le navi
“Mameli” e “Marco” che mettevano in salvo a Trieste 500 connazionali
mentre un altro migliaio affluiva via terra con autocolonne tedesche.
Serrentino ringraziava Coceani per l’aiuto fraterno e scriveva:
“qui non si capisce più per chi lottiamo e per chi
siamo pronti al sacrificio. Se vincono i nostri amici (tedeschi) Zara
sarà croata; se vincono i nostri nemici (slavi) Zara sarà jugoslava. Ed
allora? Per noi è una tragedia comunque.”
Si intensificavano su Zara i bombardamenti dal cielo,
mentre gli aerei della Croce Rossa che la collegavano venivano
sistematicamente incendiati o abbattuti dall’aviazione alleata, rendendo
sempre più precari i contatti con la RSI e Trieste. All’opera di
distruzione collaboravano incredibilmente anche aeroplani italiani del
sud, inseriti nella Balkan Air Force, eseguendo il mitragliamento del
motoveliero “Primo” incendiandolo, mentre gli alleati provocavano
l’affondamento dell’”Elettra”, il famoso panfilo-laboratorio di
Guglielmo Marconi, del piccolo piroscafo “Sansego” e di altri piccoli
natanti, che isolavano ancor più le città dall’Italia. In tutto questo
sfacelo morale e materiale, i tedeschi lavoravano sistematicamente per
spogliare di ogni bene, attrezzature, materiale utile (fra cui
suppellettili e masserizie private) Zara e i suoi dintorni, caricando il
tutto su grossi Junkers che facevano la spola fra Demonico e la
Germania.
Fra i tanti eventi sconsolanti
e squallidi un vecchio sacerdote – Don Giacomo Molenda – Parroco di S.
Simeone di Curzola, più volte minacciato di morte dagli slavi croati e
dai titini per i suoi sentimenti di italianità, arriva con una barca a
Zara, scende con le sue malferme gambe sul molo, s’inginocchia e bacia
le bianche pietre di Dalmazia piangendo la sua gioia di morire vicino
agli italiani. Morirà alcuni giorni più tardi. Monsignor Munzani,
Arcivescovo di Bibigno, e Don Eleuterio Lovrotic parroco di S.
Anastasia, accorrono dov’è richiesta la loro opera di sacerdoti;
confortano, aiutano moralmente i derelitti, benedicono i morituri,
consolano i superstiti. Soprattutto preziosa l’attività pastorale di Don
Lovrotic che con un piccolo altarino portatile raggiunge in bicicletta
nei luoghi più lontani gli sfollati, celebra la S. Messa, aiuta come può
i suoi cristiani mentre le chiese di Zara vengono distrutte una dietro
l’altra dalla furia nemica: S. Maria, S. Demetrio, S. Anastasia, la
Vergine dell Salute, la Madonna del castello, il battistero e con le
chiese i monumenti della città, le sue fabbriche fra cui la Vlahov e la
Luxardo famose in tutto il mondo ed orgoglio degli imprenditori
zaratini.
Il presidio tedesco collabora
nell’opera di soccorso, ed encomiabili sono i carabinieri del tenente
Terranova, i VV.FF del comandante Schitarelli, i militi UNPA del
comandante Tornago, i militari della CRI e l’aiuto sostanziale del
colonnello Von Schenen che risolve molti problemi della città.
Nel mese di maggio 1944, parte
del presidio italiano viene sgomberato verso Trieste di scorta a
centinaia di esuli, i tedeschi iniziano a minare le infrastrutture
portuali, i macchinari, il materiale rotabile mentre la città muore
lentamente in una avvilente agonia, distrutta nel suo tessuto morale ed
umano, priva di abitanti, semi deserta, paralizzata nelle sue attività
ma ancora decisa a non cedere alle avversità, sorretta soltanto dalla
volontà.
Nell’estate rimanevano in
città alcune centinaia di sopravvissuti sui 22.000 abitanti iniziali col
90% dell’abitato distrutto. Restavano ai loro posti di responsabilità il
prefetto, il podestà, le organizzazioni di soccorso, la CRI, le
istituzioni tradizionali (era rientrato nella RSI il comandante Tommaso
David chiamato da Mussolini ad un importante e delicato incarico). Ma la
tragedia non era ancora conclusa. Un pugno di ardenti patrioti che la
storia ci ha consegnato nelle pagine più dolorose del calvario degli
italiani di Dalmazia, restavano in città per affermare il loro diritto
di cittadini zaratini ed italiani, ad impedire che i croati ne
prendessero possesso o i titini la fagocitassero nella loro federativa
multietnica. Fra costoro non possiamo non citare i fratelli Luxardo
Pietro e Nicolò, titolari della famosa distilleria del Maraschino di
Zara. Pietro, presidente dell’opsedale provinciale, fu l’anima
dell’opera di soccorso ed assistenza ai degenti, attuò lo sfollamento
degli ammalati, riorganizzò i servizi d’emergenza, si adoperò
attivamente per identificare i morti nei bombardamenti, e dare un nome
alle vittime, un segno di ritrovamento ai parenti.Nicolò, nobile figura
di irredentista, pluridecorato al v.m., consigliere nazionale fin dal
1939, prese a cuore le sorti della città tanto amata e dei suoi
concittadini, e quando la sua fabbrica venne distrutta liquidò le
spettanze ai suoi dipendenti ma rimase come il fratello al suo posto di
responsabilità fino al momento in cui assieme alla moglie Bianca Ronzoni
venne prelevato dai titini nell’isola di Selve, trasferito sotto scorta
in barca all’isola Lunga per essere, si disse, interrogato dai
partigiani comunisti. I coniugi Luxardo non giunsero mai all’isola
Lunga, poiché durante il tragitto, immobilizzati con funi alle mani e
con al collo una grossa corda con un pesante macigno, vennero
barbaramente gettati in mare e scomparvero per sempre nell’Adriatico che
avevano tanto amato, ancor più per loro e per noi che li piangiamo
amarissimo.
Il 29 settembre 1944 il
prefetto Serrentino inviava a Coceani l’ultimo disperato messaggio:
“sono alla disperazione, non ho viveri, non ho denaro”. Mussolini
interveniva facendo pervenire in aereo una notevole somma di danaro per
le più importanti necessità e si adoperava per far sgomberare gli ultimi
italiani dalla città e circondario, ancora sino agli ultimi giorni di
combattimenti di fine ottobre, quando un C.T. tedesco rimpatrierà per
ordine del Duce il prefetto che delegava come suo rappresentante il vice
prefetto dr. Fiengo per tutelare i circa 10.000 connazionali che
restavano nella zona. Col Fiengo rimanevano il commissario del PFR
Alacevich, il ten. Terranova, il podestà dr. Luxardo.
Poche decine di carabinieri,
finanzieri e guardie di P.S. rimasero a Zara fino al 1° novembre,
allorché i tedeschi abbandonarono nella notte la città portandosi verso
Obrovac, Gospic, Karlobag preceduti dai croati di Pavelic in ritirata.
Subito dopo i carabinieri prendevano sotto controllo la città che nella
mattina del 2 novembre – triste anniversario – veniva occupata dai
titini e subiva per la prima volta nella sua storia l’oltraggio di
essere calpestata dagli slavi. Sui campanili smozzicati di S. Simeone e
S. Anastasia e su altre case sventolavano ancora le ultime bandiere
italiane a testimoniare per sempre l’amore dei zaratini per la Patria
lontana e perduta. Fu un momento di grande commozione per i pochi
superstiti che assistettero piangendo alla cerimonia. Subito dopo
arrivarono i partigiani titini della 19° brigata dalmata, che con la
minaccia delle armi strapparono le bandiere dalle chiese, dalle case,
dalle distrutte caserme, uccidendo all’istante il coraggioso tenente
Terranova che aveva personalmente issato sulla chiesa il tricolore
d’Italia, cominciarono la caccia all’italiano con l’arresto di centinaia
di connazionali colpevoli soltanto di sentirsi italiani. Gli autori
degli arresti e delle delazioni furono Drazevje e Joko Modric del
Grandski Narodni Odbor, colpevoli della deportazione e della morte di
almeno 900zaratini.
Il 10 novembre il tribunale
del VII Corpus dell’EPLJ condannò sbrigativamente ed illegalmente alla
pena di morte 29 zaratini e due giorni più tardi fu fucilato Pietro
Luxardo, prelevato dal carcere della caserma “Vittorio Emanuele”. I
titini inscenarono una ignobile farsa citandolo “in giudizio” il 22
novembre 1945, ben sapendo di averlo ucciso esattamente un anno prima, e
lo condannarono all’impiccagione in contumacia. Anche Monsignor Munzani
venne imprigionato, confinato a Lagosta, accusato more solito di
“fascismo” e detenuto per oltre 6 mesi.
L’eroico prefetto Vincenzo
Serrentino venne catturato a Trieste dai titini nel maggio 1945,
deportato, imprigionato, processato e condannato a morte nel 1947, anno
in cui venne ucciso a Selenico. Con lui furono eliminati altri
componenti del comitato di assistenza per i profughi dalmati e zaratini
guidato dal senatore Antonio Sacconi, che per lunghi mesi aveva svolto a
Trieste una encomiabile opera di soccorso.
Un altro oltraggio a Zara
venne perpetrato dai nuovi barbari con la distruzione insensata delle
lapidi e delle targhe marmoree romane, veneziane, italiche; con lo
scalpellamento dei leoni di S. Marco, l’incendio delle biblioteche
italiane, con manoscritti preziosi e documenti storici, nel tentativo di
sradicare la cultura e la storia della gloriosa città adriatica.
Oggi Zara vive simbolicamente
col suo “libero comune in esilio” in Italia; vive col ricordo dei suoi
santi e dei suoi martiri e noi viviamo con questi nostri sventurati
fratelli la loro sofferenza e la loro nostalgia, mentre nubi fosche si
addensano ancora sulla perduta città e mettono nuovamente in pericolo il
restante patrimonio artistico e culturale, testimonianza della presenza
di Roma e dell’Italia. Intanto gli slavi hanno deciso di uccidersi
ancora fra loro. Come sempre.
Articolo tratto da STORIA VERITA’ anno
IIn. 7 luglio-agosto 1992