COME FURONO RITROVATI I CORPI DEI SETTE FRATELLI GOVONI
Oltre il silenzio ...
per non dimenticare, mai !
" E' destino che gli uomini di coraggio
siano uccisi dai vili.
Quando godete della libertà
che i coraggiosi vi hanno regalato,
pensate a coloro che sono passati
come passa una carezza nel vento"
Le
pagine dei libri di storia della resistenza sono piene dei fatti
relativi ai fratelli Cervi; ogni anno, in occasione delle date storiche i
giornali pubblicano articoli su articoli che fanno rivivere quel
tragico avvenimento, rinfrescando la memoria degli italiani che, in
genere, sono "facili a dimenticare", e per riproporre, con la solita
monotona formula le aberranti "atrocità nazifasciste".
La casa dei fratelli
Cervi, in quel di Campegine, trasformata in "museo della resistenza", il
pellegrinaggio continuo di cittadini e di scolaresche colà convogliate
dalle organizzazioni di partito predisposte, l'onore della visita di
capi di stato, innumerevoli volumi pubblicati sulla vicenda, sono
testimonianze che, come ha scritto l'ex Presidente della Repubblica
Sandro Pertini, dimostrano come:
"nella storia dei Cervi
si possa diventare antifascisti partendo dai valori più elementari ed
essenziali: l'amore per l'uomo, il culto della famiglia, la passione per
il lavoro dei campi."
In questa terra padana,
altri sette fratelli contadini questi valori elementari li conoscevano
nello stesso identico modo, anche loro avevano il culto della famiglia,
la grande passione per il lavoro e sapevano amare gli uomini ma,
purtroppo, erano schierati dalla parte opposta, erano dei "fascisti", di
conseguenza i pennivendoli del regime non hanno mai scritto, né mai
scriveranno alcuna riga a ricordo di sette contadini che, stranamente
secondo certe teorie addomesticate, vestivano in "camicia nera".
I Govoni vivevano a non
molti chilometri di distanza da Campegine e precisamente a Pieve di
Cento, in Provincia di Bologna ai confini con le Provincie di Modena e
Ferrara, paese immerso nella medesima grande campagna; sono stati
barbaramente uccisi a guerra ultimata solamente perché due di loro
avevano aderito alla R.S.I..
Di conseguenza, in
questo paese, non sono stati eretti monumenti o musei, né per loro sono
stati scritti ponderosi libri apologetici, qui, probabilmente la terra
che lavoravano aveva un "humus" diverso dal reggiano, poiché né folle di
cittadini, né scolaresche "intruppate", né Capi di Stato vengono
convogliati a visitare questi luoghi di martirio, nessun segnale
turistico indica "casa Govoni" e nemmeno sulla casa di campagna è stata
posta una scritta che dice "su questa terra, in questa casa i sette
fratelli Govoni vissero il senso della loro vita, su quest'aia vennero
presi e portati a morte".
Forse lo stesso papa'
Govoni era tanto diverso nella sua dimensione di padre mutilato delle
sue sette creature, da vedersi rifiutato, in morte, un necrologio in
commemorazione del secondo anniversario della sua scomparsa.
Evidentemente tanto scomodo è questo ricordo alla Repubblica Italiana, nata dalla "resistenza".
E' forse stato meno
coraggioso dell'altro disgraziato padre, nel portare avanti la sua
esistenza con coraggio e con tenacia sino alla fine dei suoi giorni,
senza riconoscimenti, o medaglie al valore, chiuso nel suo grande
dolore?
11 Maggio 1945. La
guerra è da poco finita, in una casa colonica tra Pieve di Cento ed
Argelato vengono uccise, dopo orribili sevizie, 17 persone, tra queste, i
sette fratelli Govoni. Come detto in questa località viveva una
famiglia di contadini composta dal padre, Cesare Govoni, dalla madre,
Caterina Gamberini e dai loro otto figli: il primogenito. Dino aveva 41
anni, sposato, due figli, artigiano falegname, era iscritto al Partito
Fascista Repubblicano; il secondo, Marino, aveva 33 anni e anche lui
aveva aderito alla RSI, nessuna accusa era mai stata portata nei loro
confronti, terzogenita, Maria, che fu l'unica a salvarsi poiché, sposata
si era trasferita ad Argelato con il marito e i partigiani non
riuscirono a trovarla; seguivano: Emo, trentadue anni, viveva con i
genitori e non si interessava di politica, così come Giuseppe, 30 anni
sposato, anche lui faceva il contadino ed aveva un figlio di tre mesi,
poi vi erano: Augusto, di 27 anni e Primo di 22 anni, celibi, lavoravano
la terra con i genitori ed anche loro non si erano mai interessati di
politica; l'ultimogenita si chiamava Ida, venti anni, appena sposata e
madre di un bambino di due mesi, anche lei come il marito mai avevano
svolto politica attiva.
I dati e le circostanze
riportate, scaturirono dalla sentenza con la quale l'8 Febbraio 1953,
la Corte d'Assise di Bologna, condannò gli autori di quei massacri.
La strage dell' 11
Maggio 1945, venne preceduta da altri orrendi delitti individuali e di
massa compiuti da una "banda" di partigiani che scorrazzava nella zona,
con piena licenza di uccidere i fascisti.
Difatti, qualche giorno
prima, molte altre persone vennero prelevate dalle loro case e portate
in un isolato casolare di Voltareno di Argelato. Uno dei protagonisti,
che era sfuggito alla cattura ed al massacro, vide parecchie cose e dopo
un periodo di omertà forzata, parlò, provocando in quel modo
l'intervento delle autorità.
La sera del 9 Maggio
vennero eliminate, dopo innumerevoli sevizie, dodici persone; si
trattava della Professoressa Laura Emiliani di S. Pietro in Casale,
dell'ex Podestà di San Pietro, Sisto Costa con la moglie Adelaide ed il
figlio Vincenzo e dei cittadini di Pieve di Cento: Enrico Cavallini,
Giuseppe Alberghetti, Dino Bonazzi, Guido Tartari, Ferdinando Melloni,
Otello Moroni, Vanes Maccaferri e Augusto Zoccarato.
Il giorno seguente
iniziò l'operazione di prelievo dei fratelli Govoni; il luogo del
carcere e poi del supplizio fu una casa colonica di un contadino che,
avendo avuto un figlio ucciso dai fascisti, doveva tenere la bocca
chiusa per quello che sarebbe successo. Il primo ad essere prelevato fu
Marino:
"In realtà i partigiani
contavano di arrestare, quella sera, tutti i fratelli Govoni. In casa,
però trovarono solo Marino, il terzogenito. Gli altri, fatta eccezione
per le due figlie che abitavano ormai altrove, erano tutti in giro per
il paese. I più giovani si erano recati a ballare. I Govoni, infatti,
non sospettavano lontanamente di essere già tutti in "lista". Nei giorni
successivi all'arrivo delle truppe angloamericane erano stati convocati
dal comando partigiano, interrogati e quindi rilasciati perchè a carico
loro, non era emersa alcuna accusa. Il mancato prelevamento degli altri
fratelli indusse i partigiani ad accelerare i tempi dell'azione nel
timore di vedersi sfuggire le prede dalle mani.
Riuscirono così, nella
notte, a raccogliere tutti gli altri fratelli compresa la giovane Ida,
che implorava di non staccarla dalla bambina che doveva allattare, anzi
presero anche il marito che poi venne scaricato dal camion che li
trasportava, cammin facendo.
Vennero portati tutti in un grande camerone adibito a magazzino e subito:
"su di loro cominciò a sfogarsi la ferocia dei partigiani"
Alla mattina
successiva, altre 10 persone di San Giorgio in Piano furono condotte in
quella prigione per condividere la sorte dei fratelli Govoni; erano
andati tranquilli, poiché i partigiani avevano detto loro che si
trattava di "comunicazioni" che li riguardavano, presso la caserma dei
carabinieri, erano: Alberto Bonora, Cesarino Bonora e Ivo Bonora di 19
anni, nonno, figlio e nipote; Guido Pancaldi, Alberto Bonvicini,
Giovanni Caliceti, Vinicio Testoni, Ugo Bonora, Guido Mattioli e Giacomo
Malaguti. Tutte persone rispettate in paese per la loro onestà, ma con
un difetto, erano anticomunisti. L'ultimo, anzi, aveva combattuto contro
i tedeschi con l'esercito del Sud, ed era appena rientrato al paese.
Erano le ultime ore per
i diciassette rinchiusi nel casolare di campagna e i registi di quel
drammatico dramma di sangue si incaricarono di far confluire sul posto
un buon gruppo di "comparse", della loro stessa specie, per compiere
collettivamente un rituale sanguinario degno delle più orripilanti
celebrazioni sataniche.
"Si era sparsa,
frattanto, tra i partigiani della 2° brigata Paolo e delle altre
formazioni, la voce che stava per incominciare un "bella festa" nel
podere di Emilio Grazia. Dapprima alla spicciolata, poi sempre più
numerosi, i comunisti cominciarono a giungere alla casa colonica dove
erano già prigionieri i sette Govoni. Non è possibile descrivere
l'orrendo calvario degli sventurati fratelli. Tutti volevano vederli e,
quel che è peggio, tutti volevano picchiarli: per ore e ore nello
stanzone in cui i sette erano stati rinchiusi si svolse una bestiale
sarabanda tra urla inumane, grida, imprecazioni. L'indagine condotta
dalla Magistratura ha potuto aprire solo uno spiraglio sulla spaventosa
verità di quelle ore. La ferrea legge dell'omertà instaurata dai
comunisti nelle loro bande ha impedito che si potessero conoscere i nomi
di quasi tutti coloro, e che furono decine, che quel pomeriggio
seviziarono i sette fratelli Govoni.)
Vi fu poi, una specie
di interrogatorio, a base di maltrattamenti e sevizie, così dice la
sentenza del vero tribunale. Nessuna delle vittime morì per colpi di
arma da fuoco e quando molti anni dopo furono scoperti i corpi si
accertò che quasi tutte le ossa degli uccisi presentavano fratture e
incrinature. Le urla strazianti degli sventurati risuonarono per molte
ore. Alle ore 23 del 11 Maggio tutto era finito. Poi ci fu, tra gli
assassini, la spartizione degli oggetti d'oro delle vittime, mentre gli
oggetti di scarso o di nessun valore furono buttati in un pozzo dove
vennero rinvenuti mentre si svolgeva l'indagine istruttoria. I corpi
delle diciassette vittime furono sepolti subito dopo in una fossa
anticarro, non molto distante dalla casa colonica.
Negli anni successivi
silenzio assoluto. I genitori dei Govoni fecero una ricerca lunghissima e
dolorosissima senza approdare a nulla. Nessuno parlava, tutti, in
quelle zone vivevano nel terrore. La vecchia madre venne anche
picchiata. Poi lentamente, si mosse la macchina della giustizia. Ma
molti tra gli indiziati riuscirono ad espatriare con l'aiuto
dell'organizzazione predisposta dal Partito Comunista, gli altri, pur
essendo stati riconosciuti responsabili di quegli eccidi, di fronte alla
giustizia che applicava le norme della amnistia Togliatti, furono
sottoposti a giudizio esclusivamente per l'uccisione del militare che
aveva combattuto con l'esercito del Sud e condannati; ma in seguito , il
ricorso in Cassazione, le amnistie e i condoni giudiziari, rimisero in
breve tempo, tutti i responsabili, in libertà. Ai due genitori, lo Stato
Italiano, dopo molte perplessità, concesse una pensione di settemila
lire:"mille lire per ogni figlio assassinato”
LA FOSSA COMUNE NELLA QUALE, DOPO OLTRE CINQUE ANNI
DALLA STRAGE, IL 24 FEBBRAIO 1951, VENNERO RINVENUTI I CORPI DEI SETTE
FRATELLI ASSASSINATI E DI ALTRI DIECI CITTADINI UCCISI CON LORO
I FUNERALI DEI SETTE FRATELLI GOVONI CELEBRATI
A CENTO (FERRARA) IL 28 FEBBRAIO 1951
A TUTTI I CADUTI DELLA R.S.I.
I maggiori responsabili furono riconosciuti negli ex partigiani
comunisti Marcello Zanetti
"Marco", comandante della "Paolo"; Luigi Borghi,
"Ultimo", comandante della polizia partigiana; Vittorio Caffeo
"Drago", commissario politico; Delmo Benini "Gino e Vitaliano
Bertuzzi "Zampo". Lo Zanetti non giunse al processo: il destino lo volle
ucciso nel novembre successivo in un incidente stradale ordito per ammazzare un
rivale. Gli altri furono condannati all'ergastolo, ma non fecero un giorno di
carcere perché il PCI li aveva fatti espatriare in Cecoslovacchia, ove rimasero
fino all'ennesima amnistia degli anni '60. Risiedevano tutti a Bologna e il
partito li aveva fatti assumere all'ATC, la municipalizzata dei trasporti, fino
alla pensione.
Vittorio Caffeo, il "Drago". Condannato
all'ergastolo, amnistiato, vigliaccamente fuggito in Cecoslovacchia per eludere
la giustizia. Rientrato negli anni 60, l'Anpi lo eleva a eroe . Ha seviziato,
torturato, massacrato , fra gli altri, Ida Govoni