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Italia - Repubblica - Socializzazione |
I combattenti della
RSI, ultime sentinelle della terra
Premessa necessaria
Il primo fra noi a parlare di resistenza fu il prof.
Carlo Alberto Biggini, ministro dell’educazione nazionale prima del 25 luglio
e durante la RSI, con un articolo pubblicato dal "Popolo di Roma" del
21 aprile 1943. Dopo pochi giorni, infatti, con la caduta di Tunisi, si concluse
l’ultimo atto della nostra tragedia africana. Lo scritto del ministro Biggini,
additando ad insegnanti e studenti la consegna ad impegnare tutte le
energie nel fronteggiare l’imminente sbarco del nemico sulle nostre coste,
suscitò un clima di alta tensione patriottica; la quale raggiunse il suo acme
con il discorso di Giovanni Gentile pronunciato dal Campidoglio il successivo 24
giugno, in cui, come italiano e «non gregario di un partito, che divide», egli
auspicò la concorde unione di tutte le forze per la difesa della Patria, che
stava per essere invasa. Così parlò il ministro: «Questa grande ora della
nostra storia non può non essere viva nella coscienza di ogni docente,
perché viva fu, in circostanze simili, nella coscienza dei nostri padri (…)
Oggi la loro voce ha nelle aule scolastiche un timbro che non ebbe mai; da Dante
a Mazzini tutti i grandi italiani diventano testimoni della certezza che alla
più nobile delle nazioni spetti il più nobile destino (…) La scuola
ha sempre rivendicato a sé il diritto di essere la prima custode dell’integrità
spirituale del Paese, ora più prezioso di questo non vi ha, per fornire di
questo suo privilegio il segno più austero (…) insegnare non può
avere oggi altro significato che insegnare a resistere (…)
Oggi il nostro lavoro non può essere che lotta, affinché la nostra pace sia
una Vittoria». In quel frangente gli italiani percepirono
di vivere un momento cruciale della loro storia. Poi la lotta ci fu e,
sciaguratamente, fu anche fratricida. La cui analisi, però, esige una
preliminare reinterpretazione critica delle sue non poche anomalie, prima fra
tutte quella che, pur avendo essa assunto le caratteristiche di vera e propria
guerra civile, a motivo di attività militarmente irrilevanti
(Eisenhower), è stata contrabbandata come guerra di liberazione nazionale. Anche
la sentenza n° 747 emessa dal Tribunale Supremo Militare in data 26.04.54, nel
generoso intento di eludere che: «… al cospetto delle altre nazioni»
si formasse «una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano»,
gettò un pietoso velo sopra una amara realtà, affermando che: «… la
guerra fraterna non fu inizialmente voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta».
Ciò corrisponde al vero solo in parte, perché –come è stato dimostrato
in sede storica- la guerra civile fu propiziata dal nemico ancor prima dell’8
settembre 1943; nemico che non combatteva il fascismo in quanto tale, bensì
mirava a fiaccare in ogni senso i popoli europei, per meglio dominarli in
seguito.
La guerra civile in Italia
L’Esercito italiano entrò in guerra nel ‘40 senza alcuna
preparazione alla guerriglia-controguerriglia; la classe dirigente fascista –anche
durante la RSI– mostrò una spiccata tendenza alla regolarità-legalità; lo
scontro Ricci-Graziani e le difficoltà che incontrò la costituzione delle
BB.NN., la dicono lunga nel merito; la stessa Wehrmacht, erede del «grande S.M.
prussiano», elaborò le prime disposizioni per la controguerriglia nel maggio
del 1944. Anche nella resistenza, soltanto pochissimi dirigenti comunisti, che
avevano assorbito i concetti leninisti riguardanti l’inimicizia assoluta,
la inseparabilità della guerra partigiana dalla guerra civile e la
ineluttabilità della rivoluzione violenta, possedevano cognizioni di guerra
rivoluzionaria. Ciò li indusse in errori gravissimi: non tollerarono il
biunivoco rapporto che li legava (unico fattore l’antifascismo) agli altri
partiti componenti il CLN, il quale registrò nel suo interno drammatiche
tensioni ed eccidi, molti dei quali attribuiti ai fascisti o insabbiati;
combatterono, come nemico di classe, un esercito costituito da lavoratori e da
figli di lavoratori; infierirono selvaggiamente, dopo il 25 aprile ’45, su
fascisti giovanissimi, che, in buona fede, avevano deposto le armi.
Difatti, salvo rarissime eccezioni, da entrambe le parti
contendenti non emersero personalità autenticamente rivoluzionarie, dotate di
forti convinzioni, d’indipendenza di giudizio e di vocazione alla lotta anche
nella solitudine. Tant’è che ben presto gli italiani si divisero in attivisti
della NATO e in quelli del Patto di Varsavia, così palesando tutto il proprio
servilismo nei confronti dei «padroni del vapore», USA-URSS-Vaticano.
Si deve però aggiungere che, come sostiene Pacifico D’Eramo con il suo libro
di perenne attualità "La liberazione dall’antifascismo", c’è:
«… incompatibilità tra l’abito mentale e morale fascista e la guerra
partigiana, per quanto ciò significa di bene e di male. Mancanza, da parte
fascista, di una tradizione e di uno spirito rivoluzionari, della volontà di
opporsi al potere costituito, ma anche necessità di agire a viso aperto,
di battersi per i propri ideali sul campo di battaglia e non mediante l’insidia,
il colpo alla nuca, la premeditata provocazione dell’odio, l’uccisione di
connazionali inermi. Non di meno, è attuale anche la riflessione di C. Peuy:
«Le mani più pure della guerra straniera sono più pure delle mani più pure
della guerra civile».
L’attività della resistenza italiana fu diretta:
1) ad uccidere proditoriamente fascisti e tedeschi, anche
secondo le direttive giornaliere di radio Londra;
2) a molestare le formazioni militari di uno Stato italiano de
facto, che tuttavia: «… emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l’autorizzazione
dell’alleato tedesco», rispetto quello de jure, che: «… esercitava
il suo potere sub condicione nei limiti assegnati
dal comando degli eserciti nemici» (pag. 35 della sentenza),
e dava luogo ad una fiera ed efficiente difesa contro il nemico sui confini di
terra, di mare, di cielo. I partigiani, invece, agirono d’appoggio alle truppe
nemiche e sostennero (i soli socialcomunisti) persino la pretesa di Tito di
portare il nostro confine orientale fino a Cervignano. Conclusa la pace, i
partigiani R. Pacciardi e P. E. Taviani concessero rispettivamente l’installazione
delle basi americane in Italia e la "Zona B" del Territorio Libero di
Trieste alla Iugoslavia;
3) a disturbare le truppe non di un esercito occupante (non
dimentichiamo che fu lo S.M. di Badoglio a sollecitare presso i tedeschi l’invio
in Italia di 16 divisioni), bensì quelle di una Nazione alleata. Ciò la
distingue nettamente dalle formazioni partigiane operanti in altri paesi contro
eserciti realmente invasori.
4) tale resistenza fu contraddistinta da completa dipendenza
dagli eserciti nemici (e che fossero nemici lo conferma il più alto
Organo della giustizia militare dell’Italia attuale), i quali la diressero, la
finanziarono e armarono. Lo dimostrano: il Promemoria di accordo fra il CLNAI e
il Comando supremo alleato sottoscritto a Caserta il 07.12.1944, la presenza di
un capo militare designato dagli Alleati nella persona del gen. R. Cadorna, la
occhiuta missione militare alleata con sede in Svizzera, e le altre commissioni
paracadutate nelle zone in cui si verificavano deviazioni dai compiti loro
assegnati;
5) i partigiani italiani, per altro, furono riconosciuti del
governo c.d. legittimo mediante provvedimento del 28.02.1945, con grave
pregiudizio giuridico delle azioni precedentemente compiute.
In Italia, quindi, le resistenze furono due:
* quella della RSI, nel corso della quale circa 800 mila
italiani, subendo con profonda ripulsa ed amarezza la guerra civile,
combatterono tenacemente contro gli angloamericani e contro le bande slave che
premevano sul confine orientale. Questa perse la guerra con onore e
acquisì il diritto di risorgere nell’avvenire;
* quella dei partigiani degli angloamericani, i quali
-malgrado la volontà contraria di taluni suoi protagonisti pensosi del bene
della Patria– agì in funzione di finalità opposte agli interessi del popolo
italiano. Questa non ha saputo vincere la pace ed è responsabile della
degenerazione morale, politica sociale e religiosa del popolo italiano.
Carenze semantiche del termine "partigiano"
Al centro delle varie interpretazioni del
"partigiano" si colloca, per acutezza e completezza d’indagine
storico-giuridico-filosofica la "Teoria del partigiano" (Il
Saggiatore, Milano 1981), pregevole opera del noto filosofo del diritto e dello
Stato, Carl Schmitt, alla quale, in questa sede, ci riferiamo solo di sfuggita.
Come è noto, le convenzioni internazionali dell’Aja e di Ginevra individuano
nella irregolarità e illegalità i precipui caratteri distintivi
dell’azione partigiana, e quelli accessori nella mobilità, impegno
politico, carattere tellurico, clandestinità e oscurità. Però, dal
momento che nel corso di eventi bellici non sono da escludere azioni malavitose
e mercenarie, adottando soltanto questi parametri, si corre il rischio di
raccogliere sotto la medesima categoria più soggetti diversi e fra loro
antinomici e, omettere l’elemento fondamentale della prassi rivoluzionaria, la
sorpresa. Ciò deriva dall’abusato sofisma che presenta la guerra
rivoluzionaria come minore, rispetto a quella regolare vista come maggiore.
Nondimeno, potendosi la prima valere degli aspetti più complessi della
psicologia (si pensi alle innumerevoli varianti della prassi cui può dar luogo
il volontarismo soggettivistico, secondo il quale le situazioni non sono
valutabili se non dal modo in cui il singolo soggetto le percepisce) è da
considerarsi arte più sottile e creativa della seconda. Comunque sia, è
assurdo comprendere la nozione e il carattere della guerra partigiana come
contemplata in un orizzonte in cui appaiano una pluralità di situazioni tutte
ordinate –come in teologia– ad unico fine. Senza cioè tener conto che è la
volontà autonoma individuale a guidare le azioni umane, e, quindi, che le
finalità ad esse sottese non possono che essere giudicate, secondo situazioni
operative oggettivamente e soggettivamente diverse.
Esaminiamo ora due personaggi esemplari, J. G. Tupac Amaru e
R. Bentivegna. Il primo, dopo circa 300 anni di massacri e di orrende nefandezze
perpetrate dagli spagnoli nella sua terra e ai danni della sua gente, si
ribellò e in fine, legato a quattro cavalli, venne cristianamente fatto
squartare nella piazza di Cuczo. Il secondo, in assenza di altrui massacri, ne
compì un primo al fine di provocarne un altro più grande contro i propri
concittadini. Uccise poi, a sangue freddo, un suo compagno di partigianeria
perché, in un unico disegno criminoso, aveva strappato un manifesto comunista.
Non venne squartato. Anzi, gli venne concessa una ricompensa al V.M.. Questi due
uomini tanto diversi posso essere davvero accomunati nell’unica definizione di
«partigiani»?
Il termine «partigiano», usato come sostantivo o come
aggettivo, fatto derivare da Parteiganger (=adepto di un partito) o da un
vago «prender partito», non potendo assumere sempre un significato univoco,
atto a caratterizzare l’insieme delle azioni partigiane, necessita pertanto di
una più consona ridefinizione. La medesima lacuna è avvertita anche da Schmitt
quando ammette che: «I diversi tipi di guerra partigiana possono ben mescolarsi
e assomigliarsi nella pratica concreta, tuttavia nel fondo continuano a
differenziarsi così profondamente da diventare il criterio secondo cui si
vengono a formare certi schieramenti politici».
A nostro avviso, per addivenire ad un appropriato criterio
assiologico, s’impone quindi una più precisa focalizzazione delle motivazioni
su cui si fonda ogni singola azione partigiana. In altri termini, escludendo le
azioni meramente malavitose, il significato di partigiano non può non
implicare una radicale discriminazione fra:
* formazioni armate che agiscono a scopi mercenari;
* franchi tiratori;
* spie e sabotatori;
* gruppi di rivoluzionari che, seguendo un progetto di
rivoluzione mondiale, si battono per sconvolgere lo status quo nel
proprio o in altri paesi;
* rivoltosi di ogni specie;
* formazioni armate autoctone (regolari o non) che lottano,
all’interno del proprio paese, contro eserciti invasori, nella «…
più nobile di tutte le guerre, quella che un popolo combatte sul proprio suolo
per la difesa della libertà e dell’indipendenza» (von Clausewitz).
Ai componenti di queste ultime non dovrebbe essere dato altro
nome che quello di patrioti, anzi, secondo la bella definizione
schmittiana, quello di «ultime sentinelle della terra», che ben
si addice ai Combattenti della RSI.
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