Il blog politicamente scorretto coordinato dall' avvocato Edoardo Longo
IL LUNGO GOLPE CONTRO L' ITALIA
Di Reporter
Il primo golpe storico
contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro
presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino
Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande
Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana,
temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di
sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo:
impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come
fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella
inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando
crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a
spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale:
ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di
rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto
europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A
Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani
della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a
sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa
degli italiani.
E’ la drammatica
ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager
pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il
blog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del
governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista
europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione
tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del
piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che poté. Poi a Roma
arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col
ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco.
Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo
gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e
da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il
governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità»,
racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di
pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul
“pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche
dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che
stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».
Questa, riassume
Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale
stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi
europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave.
Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale
italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica
filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è
l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di
Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione
eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente
collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi
americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer
molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata,
aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la
strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio”
aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato
come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del
fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro.
Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti
dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay
Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con
l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia
italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle
stragi nelle piazze.
Alla fine degli
anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva
dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita,
secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di
sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col
divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi
finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da
“prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto,
emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il
rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli
interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il
debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”,
ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato,
disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero
per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli
investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era
sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i
trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
Al piano
anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire
dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e
preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li
acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in
un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e –
da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la
Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di
flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la
precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di
quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore
delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive
di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni
’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi
più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano
la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in
attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice
ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si
guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo
investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra
deindustrializzazione».
Alla caduta del
Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio
della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese –
“promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel
panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di
grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda
Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli
investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con
le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la
nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo
tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa
che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi
Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie
industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da
Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo
smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica,
Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme
(alimentare), nonché la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il
Credito Italiano.
Le banche, altro
passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca
universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del
credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle
attività finanziarie speculative. Denaro ricavato da denaro, con
scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario
di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini:
nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila
trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche»,
pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è
cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga
della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce.
Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel
mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i
rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della
“catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia”
nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da
«centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti
sui loro libri paga».
Quindi, aggiunge
Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di
derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007
si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca
prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose,
cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la
massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la
somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia –
riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di
liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i
conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente
tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche –
americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè
«più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».
Va nella stessa
direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il
“quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la
crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo
visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto
non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal
numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a
casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi
fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo
perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia,
le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero
sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è
stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso
suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale
dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il
potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il
Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.
Per l’Europa
“lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello
sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi
fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi
se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa
pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie
d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela
Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare
alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico
come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10
volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il
problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è
ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi
di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è
il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che,
ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi
di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul
lastrico il popolo greco.
Domanda: «Questa
gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche
contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in
questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono
davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita
ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come
avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione
del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano
criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg,
Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono
tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si
riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il
problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati».
L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali
allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è
sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati
indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi
da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli
Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush,
padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è
chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno
agevolati nella loro ascesa».
Non abbiamo amici.
L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo
la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo
strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni,
gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno
interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente
“ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione
drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo,
di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata
Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà
di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora
che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato
interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi
settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in
Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi
strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della
trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come
quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
Prima, però,
bisogna mandare a casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e
rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria.
Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista
che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle
organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per
contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di
dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i
sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme
sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da
attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che
torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di
Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione:
la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio
della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il
produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa
lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E
naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della
vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo
categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza
la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in
disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è
disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine
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