ECONOMIA 2015
Crisi del lavoro: la soluzione è nella sovranità
di
Fabrizio Fiorini
(*)
Correva
l’anno 2010 e il vecchio, glorioso, Istituto Nazionale della
Previdenza Sociale aveva già da tempo avviato le procedure
telematiche dei propri servizi. Decine di migliaia di lavoratori
dipendenti, che fino a poco tempo prima avrebbero dovuto sopportare
estenuanti attese presso gli uffici dei Patronati o dello stesso
Istituto per conoscere il proprio estratto conto contributivo ed
avere quindi una sorta di proiezione di quello che sarebbe stato il
proprio assegno pensionistico, si videro assegnato un pin,
una parola chiave con cui accedere al sito internet dell’Inps e
consultare quindi in tempo reale la personale situazione
previdenziale.
Erano
però anche i tempi in cui la cosiddetta «precarizzazione» procedeva
a gonfie vele sulla sua strada, sospinta dal vento di una produzione
normativa che smantellava a «forza di legge» un sistema di tutele
sociali e un ordinamento giuslavoristico che aveva regolato per
decenni, e nonostante una guerra perduta, il lavoro nazionale.
Man
mano, la tipologia contrattuale classica, quella del lavoro
dipendente a tempo indeterminato, andava perdendosi sempre più nei
meandri normativi criminosamente architettati da un potere
legislativo di stampo liberista che si baloccava con strampalati e
interessati concetti di «flessibilità», «competitività»,
«modernizzazione».
La forma contrattuale con cui
all’epoca sempre più lavoratori venivano inquadrati, privandoli
delle tutele sociali proprie del lavoro dipendente, era quella dei
co.co.co. o co.co.pro., presunte «collaborazioni
coordinate e continuative» o «a progetto», attraverso le quali i
datori di lavoro potevano impiegare manodopera de facto
dipendente senza che del lavoro dipendente avessero le incommoda(1)
quali le ferie, i permessi, le mensilità supplementari, il
trattamento di fine rapporto, e così via.
Tuttavia, nonostante tale anomala forma di inquadramento lavorativa
fosse oramai ampiamente diffusa, ai «collaboratori continuativi» e
ai «collaboratori a progetto» (tecnicamente definiti
«parasubordinati») l’Istituto di previdenza non estese la
possibilità di accedere, con una semplice procedura telematica,
all’estratto conto contributivo e a conoscere dunque quale sarebbe
stato, una volta cessato il rapporto di lavoro, l’entità del proprio
trattamento di pensione. Interpellato sulla questione, l’allora
presidente dell’INPS, quel pluri-incaricato e remuneratissimo
Antonio Mastrapasqua non ancora vittima delle tribolazioni
giudiziarie che lo vedranno in seguito protagonista(2), lasciò
libera una «voce dal sen fuggita»: «se dovessimo dare la
simulazione della pensione ai parasubordinati – disse – rischieremmo
un sommovimento sociale».
Naturalmente, per affermare la colpevolezza o l’innocenza del
vecchio presidente dell’INPS dalle molteplici accuse che gli sono
rivolte si dovrà attendere l’esito dei procedimenti giudiziari;
tuttavia, una colpa evidente può essergli rinfacciata senza dover
attendere la sentenza dei tribunali: quella di aver peccato di
eccessivo ottimismo. Se infatti le ragioni per un «sommovimento
sociale» davvero avrebbero ragione di sussistere, certo è anche che
questa nazione, questo popolo, sembrano essere ancora privi dello
slancio, della volontà, finanche della mera rabbia che sarebbe
necessaria per vedere finalmente i nostri concittadini ribellarsi
dinanzi a un sistema di sfruttamento e di smantellamento dei diritti
dei lavoratori che si manifesta quotidianamente in tutta la sua
furia distruttrice.
Nelle
pagine che aprono questo numero de l’Uomo libero, Mario
Consoli ha descritto con precisione gli effetti devastanti che la
precarizzazione e liberalizzazione del lavoro (che oggi non a caso è
più esaustivamente definito «mercato del lavoro») hanno avuto sul
tessuto sociale della nazione. Non si tratta solo di un problema,
pur estremamente rilevante, di certezza del reddito, di
sopravvivenza, di conservazione dell’ordine sociale: siamo altresì
di fronte alla morte civile di una nazione, all’annichilimento degli
uomini sia nei termini di realizzazione individuale sia in quelli di
partecipazione alla comunità di popolo.
Ma come
si è giunti a tale scempio? Come si è arrivati alla morte del lavoro
nazionale? Quale disegno criminoso si cela dietro l’operato degli
amministratori della cosa pubblica degli ultimi lustri, quali sono
gli strumenti utilizzati per mettere in atto una mattanza sociale
dalle simili proporzioni?
Inizialmente, si preparò il
terreno dal punto di vista strutturale e dell’indottrinamento di
massa. Correvano i primi anni Novanta del Novecento, gli anni delle
privatizzazioni, delle crociere sul panfilo Britannia, della
moralizzazione interessata di «Mani Pulite», della necessità,
strombazzata ai quattro venti, di smantellare un sistema politico
che – pur nella sua innegabile corruzione e marcescenza – aveva
garantito una relativa stabilità socioeconomica alla nazione grazie
alla effettiva, pur se parziale, continuità col periodo pre-bellico
nei termini di partecipazione statale, diffusa previdenza sociale,
economia mista.
Ma i
«tempi moderni» bussavano alle porte, e da ogni parte – sulla
stampa, nella propaganda partitica, dalla magistratura – si levavano
appelli affinché un sistema vecchio, corrotto e burocratico fosse
abbattuto. Il pubblico impiego, in quel frangente, subì un colpo
mortale. Non solo a causa delle privatizzazioni(3) che dismisero la
gran parte delle partecipazioni statali nell’apparato produttivo e
industriale della nazione, ma anche il pubblico impiego nel senso
più stretto del termine finì per dover subire la degradazione da
«servizio allo Stato», da missione sociale adempiuta da funzionari
in nome di un servizio alla collettività, a mero «impiego»
privatisticamente gestito nel nome della competitività economica e
del concetto liberista di «Stato minimo».
Concetti quali quelli di mobilità, di ingresso dei privati, di
riduzione delle garanzie, di regolamentazione privatistica dei
rapporti di lavoro, di cancellazione della «funzione pubblica»,
facevano il loro mortifero ingresso nella sfera del pubblico
impiego. Un’azione legislativa mirata(4), sostenuta dalle velleità
di «rinnovamento» imposte alla pubblica opinione da una martellante
propaganda, agiva per definire i contorni di questa abdicazione
dello Stato. L’Italia, in quegli anni, vide definitivamente
scomparire quei burocrati (nel senso migliore del termine) che,
talvolta con competenza e dedizione, avevano retto la struttura
organizzativa dello Stato. In tempi recenti, corrotti e degenerati
finché si vuole, ma fatto sta che, con l’acqua sporca, gettarono via
anche il bambino: cancellarono il volto dello Stato dalle strutture
e dai servizi quotidianamente fruiti dai cittadini.
Naturalmente, anche la sfera del lavoro privato non poteva non
adeguarsi al nuovo corso della politica nazionale. A tappe forzate,
lente ma inesorabili, un sistema – quello che ebbe scaturigine
spirituale, etica e normativa nella Carta del Carnaro del 1920 e
nella Carta del Lavoro del 1927 – fondato sull’equilibrio del
sistema produttivo e sulla tutela dei lavoratori, veniva
smantellato.
Inizialmente, con il già menzionato «pacchetto Treu»(5), con cui si
ufficializzò la – fino ad allora vietata, alla stregua del
«caporalato» – «interposizione» nei rapporti di lavoro attraverso
l’introduzione del lavoro «somministrato» (all’epoca definito
«interinale») e si ridusse notevolmente la funzione degli Uffici di
Collocamento che di lì a poco sarebbero divenuti «Centri per
l’Impiego».
Poi, il
colpo mortale inferto dalla «legge Biagi»(6) (alla quale ogni minima
critica è passibile delle più aspre condanne per via dell’uccisione,
da parte delle Brigate Rosse, del suo promotore, il professor Marco
Biagi(7)) che riprendendo lo spirito della citata legge 421 del
1992, sancì il passaggio di competenze dalla sfera pubblica a quella
privata del collocamento del lavoratori.
Non fu
certamente questo l’unico aspetto nefasto della «legge Biagi». Fu
introdotto, ad esempio, l’istituto del «lavoro a chiamata» (o
«job on call», come definito da anglismi sempre più in voga),
una legalizzazione de facto del lavoro nero che permette al
datore di lavoro di retribuire e contribuire «in regola» un
dipendente anche per una sola giornata lavorativa al mese, anche se
questi lavorasse tutti i giorni. Un istituto, quello del lavoro a
chiamata, che sostanzialmente azzera il potere sanzionatorio e di
controllo degli Ispettorati del lavoro, costretti a piegarsi a una
legge dalle maglie larghe che rende impossibile l’individuazione di
casi di sfruttamento o di evasione contributiva (8).
Di
natura particolarmente odiosa per via della sua connotazione
vetero-capitalista «ottocentesca», nell’ambito degli istituti
introdotti dalla legge che porta il nome del giuslavorista
bolognese, fu la normazione del cosiddetto «lavoro accessorio» (più
comunemente conosciuto come «lavoro a voucher») attraverso
tale forma contrattuale tuttora decine di migliaia di lavoratori
svolgono le proprie prestazioni in regime di grave carenza di tutele
e devono percepire la loro magra retribuzione recandosi presso gli
uffici postali per convertire in (poco) denaro i «buoni» che vengono
loro «magnanimamente» elargiti da un datore di lavoro che anche in
questo caso può operare svincolato da imposizioni giuslavoristiche
di sorta, da obblighi contributivi, nonché dal potere sanzionatorio
e di verifica degli Ispettorati e del Ministero del Lavoro.
Fu la
stessa «legge Biagi», inoltre, che implementò l’istituto –
utilizzato nella gran parte dei casi come camuffamento di rapporti
di lavoro dipendente – delle «collaborazioni a progetto» (senza
ferie, senza permessi, senza TFR, a contribuzione ridotta), proprio
quei «parasubordinati» per i quali il citato presidente dell’INPS
Mastrapasqua prevedeva, bontà sua, un «sommovimento sociale».
Di tali
sommovimenti, tuttavia, fino ad ora se ne sono visti ben pochi. Tra
i primi responsabili di questo lassismo non possono che essere
annoverati quei sindacati che hanno definitivamente abdicato dal
loro ruolo di organizzazioni di difesa dei lavoratori e che si sono
trasformati in ufficio protocollo delle deliberazioni dei governi
più antipopolari che la storia nazionale ricordi.
È
sufficiente entrare in una sede dei sindacati per averne lampante
dimostrazione di come questi si siano oramai trasformati in lucrosi
«centri servizi» che impiegano manodopera a basso costo per esperire
le loro pratiche a pagamento (quali le dichiarazioni dei redditi) e
che si prodigano con mielosa dedizione all’assistenza agli immigrati
che presso i loro uffici possono trovare servizi finalizzati ai
«ricongiungimenti familiari» o al conseguimento di ogni sorta di
beneficio gravante sulla Previdenza nazionale.
Le
organizzazioni sindacali, sostenendo l’invasione immigratoria, si
privano così della loro primaria finalità e della loro stessa
natura: alla difesa dei lavoratori italiani preferiscono la causa di
chi arriva in Italia a far loro concorrenza.
Inoltre, non tragga in inganno la gratuità con cui patronati e
sindacati offrono al pubblico gran parte dei loro servizi. Non solo
infatti sono retribuiti dallo Stato, ma tali servizi fungono anche
da «grimaldello» per l'acquisizione di nuovi tesserati con tanto di
trattenuta sindacale in busta paga. Un tempo si diventava
sindacalizzati per meglio difendere i propri diritti, oggi per avere
lo sconto sulla denuncia dei redditi o per saltare la fila con la
domanda di assegni familiari.
Sono
quei sindacati che hanno venduto l’anima per i trenta denari messi a
loro disposizione da una legge ad hoc(9) e che sono oramai
capaci di distinguersi esclusivamente per la loro sospetta
dabbenaggine, per la loro organizzazione di concerti, «eventi
culturali», manifestazioni «colorate» sempre più frequentate dai
rampolli festaioli della buona borghesia e sempre più disertate
dagli operai(10).
I
governi nazionali, dal canto loro, quando non sono impegnati nelle
varie missioni di vassallaggio internazionale alle dipendenze
dell’amministrazione USA, dalla NATO e della BCE tentano
maldestramente di salvare la faccia, prodigandosi in proclami
altisonanti ed elargendo insignificanti elemosine (gli «80 euro di
Renzi») peraltro ai soli lavoratori dipendenti, ciechi dinanzi al
fatto che chi oggi ha un tale rapporto di lavoro è già da
considerarsi privilegiato in un contesto in cui la gran parte dei
lavoratori svantaggiati deve barcamenarsi in un inferno fatto di
sotto-inquadramento, lavoro semi-nero, «buoni lavoro» (i cosiddetti
voucher), false partite IVA. Elemosine che vengono date con
una mano e tolte – con gli interessi – con l’altra, perché, dicono,
«la coperta è corta», come è d’altronde naturale che sia in un
sistema fondato sulla completa mancanza di sovranità monetaria e di
prestito a usura del denaro da parte della banca di emissione.
Il
governo dell'eurocrazia invece, quello della cosiddetta troika
di Bruxelles che attraverso Commissione e Banca Centrale Europea
detta le linee guida agli esecutivi di un intero continente,
dimostra quotidianamente le propria sordità e cecità dinanzi
all'evidenza del fatto che il sistema produttivo europeo sta
irrimediabilmente avvicinandosi al tracollo, e continua a fare
pressioni e a imporre ricatti a Stati oramai solo nominalmente
sovrani, costringendoli – come primaria misura per «rientrare» dal
debito pubblico e per rispettare le allucinanti disposizioni di
pareggio di bilancio – a esercitare tagli proprio sul lavoro e sulle
garanzie previdenziali, imponendo il dogma della flessibilità e
della precarietà e determinando una assurda pressione fiscale con la
conseguente, generalizzata, depauperazione popolare.
Quello
di cui si necessita, per invertire la rotta che sta spingendo questa
nazione e l'intero Continente sempre più pericolosamente vicini
all'orlo del baratro non sono «riforme», aggiustamenti,
bonus-elemosina o jobs act di sorta. Non sono i canti e i
balli di sindacati colorati e festaioli, non sono gli accorati
appelli e le ripetute, oramai tragicamente comiche, promesse di
«ripresa».
Occorre
riappropriarsi della nostra moneta, uscendo dalla spirale che ci
vede costretti a richiederla in prestito dalla «piovra» della BCE, a
cui rendere poi conto con tanto di interessi e di ulteriori cessioni
di sovranità (Draghi non perde occasione per ricordarlo
minacciosamente).
Riappropriarsi della nostra
identità, interrompendo drasticamente la tratta degli schiavi che
introduce nei confini nazionali flussi incontrollati di immigrati
che non solo ingrassano le fila della criminalità ma che
costituiscono un enorme bacino di manodopera sottopagata, inibiscono
ai nostri connazionali la fruizione dei servizi sociali, riempiono
le casse delle organizzazioni «caritatevoli» ecclesiastiche.
Occorre
riappropriarsi di una giusta ed equilibrata legislazione del lavoro,
fondata su garanzie di stabilità, giusta retribuzione, piena
occupazione ed efficace previdenza, nonché sul rilancio della
produzione che diventerà possibile grazie agli investimenti
conseguenti la riconquista di una piena sovranità monetaria nonché
grazie al ritorno della partecipazione statale al settore economico
strategico. Denunziare tutta la legislazione liberal-liberticida
degli ultimi lustri, perché il lavoro smetta di essere faticoso
strumento di mera sopravvivenza e torni a essere la nostra più
grande ricchezza, quella che scaturisce dalle nostre mani e dal
nostro intelletto.
Occorre
riappropriarsi dello spirito di comunità di popolo, di quella
sovranità che è requisito vitale per ogni uomo libero, di quanto è
nostro, delle nostre vite. Pur nel desolante scenario sociale e
politico che caratterizza in questi decenni la nostra nazione e il
nostro continente, qualche segnale incoraggiante lampeggia
all'orizzonte: alcuni italiani, alcuni europei, non si arrendono.
(*)
Direttore della rivista l’Uomo Libero
(1) Dall’antico brocardo latino «ubi commoda, ibi
incommoda» («ove vi sono cose vantaggiose, vi sono cose
svantaggiose») vengono fatte discendere la natura essenziale
e il principio giuslavoristico del rapporto di lavoro
dipendente, per cui a fronte del potere direttivo e
disciplinare del datore di lavoro devono sussistere le
tutele a vantaggio del dipendente, tra le quali naturalmente
la previdenza e l’assicurazione obbligatoria.
(2)
Ad esempio, quella che lo vede indagato – come direttore
generale dell’Ospedale israelitico di Roma – in una truffa
ai danni del Servizio Sanitario Nazionale, o le varie
vicende correlate ai suoi venticinque (!) incarichi di
presidente di varie società o collegi sindacali.
Mastrapasqua – un dirigente, giova ricordarlo, che può
contare su una retribuzione annua superiore al milione di
euro – è stato altresì coinvolto in una torbida storia di
«acquisto» di esami universitari presso la facoltà di
Economia e Commercio dell’Università di Roma, ove sostiene
di essersi laureato nel 1984.
(3)
Il regime di «competitività» che si sarebbe instaurato in
seguito al processo di privatizzazioni avrebbe giovato
all’economia nazionale – sostenevano i molteplici imbonitori
dell’epoca – determinando un miglioramento e una maggiore
diffusione dei servizi, nonché un calo delle tariffe. Tale
rosea premonizione fu smentita non solo dalla realtà dei
fatti, ma addirittura dalla Corte dei Conti (Rapporto del 10
febbraio 2010) che denunciò a chiare lettere il fallimento
su tutta la linea del nuovo corso economico e politico.
(4)
Molto incisiva in tal senso fu la Legge n. 421 del 23
ottobre 1992 in materia di sanità, pubblico impiego,
previdenza e finanza territoriale (Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana n. 257 del 31
ottobre 1992 – Supplemento Ordinario n. 118)
(5)
Legge n. 196 del 24 giugno 1997 in materia di promozione
dell’occupazione (Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana n. 154 del 4 luglio 1997 – Supplemento Ordinario n.
136).
(6)
Legge n. 30 del 14 febbraio 2003 in materia di occupazione e
mercato del lavoro, attuata dal D.Lgs. N. 276 del 10
settembre 2003 (Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana n. 235 del 9 ottobre 2003 – Supplemento Ordinario
n. 159).
(7)
Evento che dovrebbe indurre a riflettere sul senso
dell’azione terroristica e sulle sue ricadute politiche
nefaste, quando non addirittura eterodirette e funzionali a
obiettivi opposti a quelli per cui ufficialmente viene messa
in atto.
(8)
Non sussisteva infatti l’obbligo, da parte del datore di
lavoro, di effettuare preventivamente e in modo documentato
la chiamata del lavoratore, rendendo in tal modo impossibile
ogni funzione di controllo sulla regolarità della
prestazione. Tale obbligo sarebbe stato introdotto solo
successivamente dalla Riforma Fornero, ma – fatta la legge
trovato l’inganno – fu altresì introdotta la possibilità di
«annullare» le giornate lavorative dopo la fine della
prestazione.
(9)
Legge n. 413 del 30 dicembre 1991 istitutiva dei Centri
Autorizzati di Assistenza Fiscale (Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana n. 305 dei 31 dicembre 1991 –
Supplemento Ordinario n. 91).
(10) Emblematico il caso recente della fallita mobilitazione
sindacale che contestava al movimento di popolo cosiddetto
«dei forconi» (che peraltro li aveva saggiamente snobbati)
di aver ceduto alle «infiltrazioni fasciste». In quei giorni
a Torino, una contro-manifestazione della Triplice
sindacale, sostenuta da ANPI e partitini vari della
sinistra, in una città dove fino a dieci anni prima
avrebbero mobilitato decine di migliaia di lavoratori, vide
partecipare meno di cento persone.
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