Blog politicamente scorretto contro la dittatura del pensiero unico. AVV. E. LONGO
OLOCAUSTI DIMENTICATI / LA STRAGE DI VERGAROLLA
Testo di : Gabriele Bosazzi
Pola, 18 agosto 1946.
Sono
passate da poco le ore 14 quando una fortissima esplosione scuote la
città intera. La deflagrazione avviene sulla spiaggia di Vergarolla,
poco fuori il centro cittadino, dove una manifestazione sportiva aveva
attirato qualche centinaio di polesani, in buona parte giovani e
famiglie. Si intuisce subito l’enorme portata della tragedia, che alla
fine conterà oltre un centinaio di vittime, anche se quelle identificate
furono 64. Come si sarebbe capito più tardi, si trattò solo dell’inizio
di una lunga serie di ingiustizie, che continueranno a beffare e ad
offendere anche la memoria di quei martiri innocenti.
In
quell’estate del 1946 Pola era una città che, come tante altre in
Italia, cercava di riprendersi dalle difficoltà, dai danni e dai lutti
causati dalla guerra. Si stavano sgomberando le macerie degli edifici
irreparabilmente distrutti dai bombardamenti alleati e si stavano
ricostruendo le case ancora recuperabili. Persino la facciata del tempio
di Augusto, uno dei simboli della città e delle sue radici, collocato
nel Foro romano, era stata gravemente danneggiata dalle bombe venute dal
cielo; se oggi migliaia di turisti ignari della storia di queste terre
possono ammirarlo, il merito è anche dei polesani di allora che vollero
ripararlo tempestivamente e della soprintendenza ai monumenti di Trieste
che portò avanti i lavori.
Ma
quell’estate del ’46, a differenza della gran parte d’Italia, era
vissuta dai polesani nell’incertezza sul proprio futuro, in bilico tra
Italia e Jugoslavia, nell’impotenza di dover attendere delle decisioni
prese altrove, da grandi potenze probabilmente poco propense ad
ascoltare le ragioni di un paese sconfitto. La città, infatti, dopo
essere stata da sempre legata al territorio istriano e dopo esserne
stata a lungo la capitale, era ridotta ad un enclave occupata dalle
truppe alleate, dopo che, il 16 giugno del 1945, l’esercito jugoslavo
era stato costretto a ritirarsi momentaneamente da Pola, Trieste e
Gorizia, mentre permaneva l’occupazione titina in tutto il resto
dell’Istria, a Fiume e a Zara.
In
città il clima era sempre più pesante, le massicce manifestazioni
popolari che cercavano di dimostrare l’italianità di Pola erano sfociate
in scontri con la più esigua fazione che invece, arrivando
prevalentemente da fuori città, sosteneva l’annessione alla Jugoslavia
di Tito. La conferenza di Parigi era in corso e già si delineava come
una dura punizione per l’Italia, il cui scotto sarebbe stato pagato
proprio dalle popolazioni del confine orientale. In questa prospettiva,
la schiacciante maggioranza dei polesani si era già espressa: attraverso
il CLN dell’Istria, circa 28.000 su 31.000 abitanti aveva dichiarato di
voler abbandonare la città in caso di annessione alla Jugoslavia.
Nonostante
quel pesante clima di contrapposizione, di paura ed incertezza, i
cittadini di Pola, soprattutto le famiglie, cercavano di riprendere una
vita normale, di dare serenità ai propri figli. Anche in quest’ottica,
il 18 agosto molti erano accorsi, sulla spiaggia di Vergarolla, alla
“coppa Scarioni”, una competizione di nuoto organizzata dalla società
nautica Pietas Julia, sodalizio sorto nel 1886 e da sempre impegnato in
campo patriottico oltre che sportivo, tanto da essere stato preso di
mira dalle autorità asburgiche. Si trattava di un sereno pomeriggio di
mare per tante famiglie, nella convinzione di poter trovare uno scampolo
di normalità, di poter dimenticare per qualche ora l’incertezza sul
proprio futuro. Un pomeriggio sereno che fu interrotto da un boato
assordante che sconquassò i vetri di mezza città.
Le
scene riportate dai testimoni sono terribili: urla strazianti, corpi
mutilati ovunque, arti e brandelli di carne che galleggiavano sul mare,
divenendo preda dei gabbiani che gridavano come impazziti. In città si
diffuse subito la notizia che lo scoppio era avvenuto in quella spiaggia
mentre una colonna di fumo nero si alzava verso il cielo a conferma dei
timori. Molti sapevano che i propri cari si erano recati proprio a
quella manifestazione e corsero a cercare notizie. All’ospedale
cittadino arrivavano decine di feriti ed il chirurgo Geppino Micheletti
continuò strenuamente per due giorni ad operare i sopravvissuti, anche
dopo aver appreso che per i suoi due figli non c’era stato nulla da
fare, anch'essi vittime della sciagura. Si contarono 64 morti ufficiali,
i cui nomi furono pubblicati sul quotidiano L’Arena di Pola già il
giorno successivo; le vittime furono molte di più, in quanto altri
perirono in ospedale i giorni successivi ed alcuni non furono
riconosciuti, in quanto arrivati da fuori città, dalle zone occupate
dagli jugoslavi; oggi si parla di 116 vittime, ma le varie fonti non
sono concordi sulla cifra esatta. Ma cos’era successo in quel maledetto
pomeriggio? Quel che è stato certo fin dall’inizio è che la
deflagrazione è partita da un ammassamento di vecchie mine di
profondità, 28 mine che erano state pescate e bonificate dai marinai
italiani del Comando Marina di Venezia. Erano rimaste lì accatastate
sulla spiaggia fino a quel momento, terribili ordigni bellici ormai
guardati con indifferenza persino dai bagnanti, nell’abitudine di dover
convivere con la guerra e i suoi strumenti, ma soprattutto con la
convinzione che si trattasse ormai di un innocuo e triste residuato.
Secondo
le testimonianze ed alcune immagini, alcuni persino vi appoggiavano
vestiti e vivande o riposavano alla loro ombra. Com’è possibile che
esplodano delle mine disinnescate da un corpo di specialisti? Il
Capitano della Marina Raiola, testimoniò come la squadra al suo comando,
incaricata della bonifica delle mine, si fosse divisa in tre gruppi: il
primo provvedeva a togliere il pericoloso innesco, il secondo
controllava la correttezza del lavoro del primo ed il terzo gruppo
eseguiva un ulteriore controllo su ogni ordigno. Dunque l'innesco era
stato rimosso, ma le mine contenevano ancora tritolo; lo stesso Raiola
affermò che, senza il collegamento di un nuovo innesco, l'esplosione
sarebbe stata impossibile. Anche volendo ammettere un errore umano, pare
assai strano che la deflagrazione sia avvenuta proprio in una giornata
simile, dopo che le mine erano rimaste inerti ed abbandonate per tanti
mesi. Il primo pensiero che assalì i cittadini di Pola, ma anche le
autorità, fu quello dell’attentato. Il vescovo di Parenzo e Pola mons.
Radossi, persona equilibrata e suo malgrado avvezza alle tragedie
dell’epoca, pur senza sbilanciarsi in denunce ed accuse che non
trovavano riscontri certi, affermò nell’omelia durante i funerali: “Non
scendo nell’esame delle cause prossime che hanno determinato un simile
macello, io rimetto tutto al giudizio di Dio (...), al quale nessuno
potrà sfuggire nell’applicazione tremenda della sua inesorabile
giustizia”. Appare ovvio che anche nel suo pensiero si era fatto strada
qualcosa di più di un dubbio.
Molti
altri parlarono da subito di un vile atto di intimidazione, ma in ogni
caso la tragedia ebbe l’effetto di far tracollare definitivamente le
speranze della gente di Pola e di dare la definitiva spinta al massiccio
e rapidissimo esodo dell’anno successivo, convincendo anche gli
indecisi. Non si può negare che la strage di Vergarolla accelerò
clamorosamente quel processo decisionale, convinse quasi tutti che il
destino di libertà, quando non addirittura la sopravvivenza, erano per
loro incompatibili con l’avvento della Jugoslavia di Tito.
Fu
forse anche per effetto di quell’esplosione che 28.000 polesani se ne
andarono in pochi giorni appena diffusa la notizia della firma del
Trattato di Pace, senza aspettare di poter regolarmente esercitare il
diritto di opzione come previsto dal trattato stesso, il che avrebbe
voluto dire aspettarne l’entrata in vigore (15 settembre), quindi
tornare ad esporsi all’occupazione delle truppe jugoslave. Per i
cittadini di Pola quell'episodio fu l'apice di un clima di paura che si
era diffuso in tutta la Venezia Giulia fin dal settembre del ’43, quando
la guerra prima lontana era venuta a bussare alle porte di tutti e si
presentò come una guerra fratricida. La Pola del 1946 seguiva con
trepidazione le trattative di pace di Parigi sperando di rimanere
italiana, non solo per la salvaguardia della propria identità nazionale,
ma anche per pura e semplice paura del ritorno a un incubo già
recentemente sperimentato. La parola “foiba” era entrata come uno
spettro nell’immaginario collettivo nel settembre del ’43, con la prima
ondata di terrore che causò in Istria le prime centinaia di vittime
innocenti da parte dei partigiani di Tito; il centro di Pola ne era
rimasto immune grazie alla presenza di un forte contingente tedesco, ma
così purtroppo non fu per frazioni e comuni circostanti che pagarono un
caro prezzo di vite umane.
Dopo
la ripresa del controllo da parte dei tedeschi ed un altro anno e mezzo
di logorante guerra civile, con attentati partigiani e rappresaglie
tedesche come altrove, il terrore era tornato a vestire la bustina con
la stella rossa: dal 2 maggio al 16 giugno del ’45, i polesani avevano
visto portar via dalle loro case alcune centinaia di persone, con accuse
ignote o alquanto vaghe e pretestuose. Dopo la creazione della zona A
occupata dagli anglo-americani, in cui era compresa anche Pola, in
attesa del trattato di pace, la città fu temporaneamente restituita alla
normalità, ma si trovò umiliata nel suo ruolo di enclave circondata
dalla zona di occupazione jugoslava, tagliata fuori dal suo storico
retroterra, dal quale arrivavano gli echi del perdurare di soprusi e
delitti da parte dei titini.
Dopo
i solenni funerali delle vittime, cui partecipò commossa tutta Pola, si
capì che le beffe del destino, in spregio alla memoria di quelle
vittime, non erano che all’inizio. Per tanti anni, ufficialmente, non fu
identificato alcun colpevole, che fosse stato per dolo o per imperizia.
Le autorità di occupazione anglo-americane aprirono un’inchiesta, che
fu ben presto ufficialmente abbandonata con la stipula del “diktat” di
Parigi ed il conseguente abbandono di Pola da parte delle truppe
alleate.
Eppure
quelle indagini ufficialmente senza sbocco ed apparentemente
inconcludenti, se non a delle prove inconfutabili erano arrivate almeno a
delle precise conclusioni supportate da dati attendibili, ma mai
divulgate. Un tanto è emerso all'opinione pubblica appena pochi anni fa,
dopo 62 anni dalla vicenda, quando dei documenti riguardanti Vergarolla
sono stati trovati presso gli archivi dei servizi segreti inglesi di
Kew Garden, a Londra, da due giornalisti triestini che pubblicarono
quanto scoperto in un dossier.
I
rapporti del servizio segreto inglese venuti alla luce citano come
fonte – definendola attendibile - il controspionaggio italiano
denominato “CS”, identificato nell'808° Battaglione, gestito da
Carabinieri, dipendente dal Servizio segreto militare SIM e fin dall’8
settembre del ’43 in stretta collaborazione coi servizi inglesi.
Il
primo documento, datato 19 dicembre 1946 ed intitolato
significativamente “sabotage in Pola”, afferma che fonti attendibili
davano per certa la matrice terroristica dell’esplosione, come opera
dell’OZNA, la famigerata polizia segreta jugoslava che triestini,
fiumani ed istriani conoscevano già bene come protagonista di arbitrari
arresti e deportazioni, fin dall’immediato dopoguerra. Il documento va
addirittura oltre, facendo il nome di uno dei “sabotatori” che avrebbero
innescato le mine e che sarebbe scomparso successivamente al fatto. Si
tratterebbe di tale Giuseppe Kovacich, fiumano, già indicato come un
agente dell’OZNA “molto attivo nel perseguire gli italiani” da un altro
documento dei servizi segreti italiani del 6 luglio del ’46, quindi
precedentemente alla strage. Un’ulteriore informativa fornita
dall’intelligence italiana a quella inglese aveva segnalato inoltre,
sempre nel mese di luglio, dei movimenti sospetti alla periferia di
Pola, con protagonista un esponente comunista italiano, che avrebbe
distribuito delle armi ad altre persone e che in seguito, ricercato
della polizia, sarebbe fuggito oltre la linea di occupazione alleata,
stabilendosi a Fasana. Va detto che alcune testimonianze del giorno
della strage riferirono di aver visto un uomo allontanarsi da Pola in
barca proprio verso Fasana; va ricordato anche che altri testimoni
parlarono di un uomo che si era aggirato con fare sospetto vicino alle
mine poco prima dell’esplosione, tracciandone una descrizione fisica
molto vicina a quella fatta relativamente al Kovacich dai servizi
segreti.
Dunque
pochi mesi dopo la terribile strage i servizi inglesi e italiani
parlavano chiaramente di “sabotaggio” ed avevano pochi dubbi sul fatto
che si fosse trattato di un attentato con il quale la polizia segreta
jugoslava intendeva intimidire gli Italiani di Pola e non solo. Appare
grave il fatto che anche le autorità italiane, attraverso i servizi
segreti, avevano ben più che un indizio in merito alla vicenda, eppure
non fecero niente per approfondire le indagini, non cercarono di
perseguire i responsabili, non denunciarono la cosa alla comunità
internazionale, che peraltro stava decidendo le sorti del confine
orientale. Insomma più di qualcuno sapeva, tutti tacquero e lasciarono
che la vicenda finisse dimenticata in fondo ai cuori dei polesani. La
giustizia, come spesso accade in tutto il mondo, non ha fatto il suo
corso.
Diversi
anni prima che uscissero queste notizie, alcune verità erano comunque
emerse grazie alle silenziose ricerche di alcuni volenterosi, tra cui
l'esule polesano Lino Vivoda, che nella strage perse il fratello Sergio
di soli 8 anni. Vivoda attesta che poco dopo la strage, Bepi Nider,
(celebre esule rovignese e polesano d'adozione, autore di scritti e
toccanti poesie) assieme ad un ufficiale inglese, trovò in una cava
prossima alla spiaggia di Vergarolla tracce di un innesco, identico a
quelli usati allora nelle miniere dell'Arsa (a pochi chilometri da
Pola); proprio nella vicina cittadina di Albona, aveva un delle sue più
importanti sedi istriane l'OZNA, che aveva già terrorizzato Pola durante
l’occupazione dell'anno precedente.
Dopo
aver scritto in merito vari articoli sulla stampa degli esuli ed aver
rilasciato interviste anche a giornali, Vivoda entrò in contatto con un
giornalista del quotidiano croato Glas Istre, che nel 1999 aveva scritto
vari articoli su Vergarolla, rivelando un fatto inedito: un ex
partigiano jugoslavo, suicidatosi anni prima, aveva lasciato una lettera
in cui si diceva schiacciato dal rimorso, per aver fatto parte del
gruppo che organizzò la strage, su incarico dell'OZNA; il biglietto
manoscritto, che il giornalista croato dice di aver visto personalmente,
non è stato però recuperato. Nel suo ultimo recentissimo libro
autobiografico “In Istria prima dell'esodo”, Lino Vivoda riporta il nome
del suicida: Ivan (Nini) Brljafa, che da ulteriori ricerche risulta
essere stato uno dei primi membri del partito comunista croato
clandestino di Pola, durante la guerra un “gappista” responsabile di un
attentato contro una mensa di ufficiali tedeschi, nonché in seguito
membro dell'OZNA, attivo tra Fasana e Peroi, nell'agro polesano.
Tutto
questo, a già oltre quarant'anni dalla strage, emerse solo nella stampa
triestina e croata. Per decenni, quindi, il destino ha continuato a
beffare le vittime di Vergarolla, con la lunga e strisciante offesa data
dall’oblio; l’Italia dimenticò subito quelle vittime innocenti e
perlopiù giovanissime e mai un governo italiano cercò di aprire
un’indagine o chiese alle autorità alleate, (da considerarsi
responsabili dell’accertamento della verità visto che occupavano Pola in
quei tristi giorni), di rendere pubbliche le risultanze dell’inchiesta.
Nessuno storico di rilievo nazionale esaminò la vicenda, nessun
rappresentante dello stato italiano rese mai omaggio a quegli Italiani,
nessuna delle odierne trasmissioni che trattano le cosiddette stragi di
stato irrisolte, si arrischia ad accennare alla vicenda della spiaggia
polesana. Persino nella memorialistica editoriale delle associazioni
degli esuli, la strage di Vergarolla ha occupato per tanti anni uno
spazio inspiegabilmente modesto.
Oggi
finalmente si è ricominciato a parlarne, anche se perlopiù a livello
locale e nell’ambito dell’ambiente della diaspora giuliano-dalmata.
Alcuni storici hanno iniziato a trattare l’argomento, compresi
naturalmente quegli illuminati che, senza neanche approfondire troppo la
vicenda, la liquidano come un incidente, frutto dell’irresponsabilità
di chi organizzò la manifestazione su una spiaggia con delle mine,
incidente secondo loro montato ad arte da vecchi e nuovi nazionalisti ed
imperialisti italiani.
Il
doloroso evento che scosse Pola italiana nei suoi ultimi giorni viene
ricordato da una “timida” pietra a lato del duomo di Pola, che non osa
neanche far riferimento a delle vittime ne tanto meno al contesto in cui
esse morirono, che non lascia neanche minimamente capire all’ignaro
forestiero che la vede a che cosa si riferisca, ma che forse è già
qualcosa di importante, trovandosi in un contesto non facile, ancora
refrattario ad una lettura serena e veritiera della storia istriana. Il
medico Micheletti, che salvò tante vite accantonando il dolore per la
perdita dei due figli, ha anche lui il suo piccolo cippo sul sagrato del
duomo di Pola ed un degno monumento a Trieste, sua città d’origine, in
piazzale Rosmini. Due anni fa, in cima al colle di San Giusto, è stata
eretta una grande lapide, con incisi i nomi delle 64 vittime
riconosciute. Da diversi anni, presso il cippo a lato del Duomo di Pola,
la ricorrenza viene celebrata dalla locale rappresentanza dei “rimasti”
(Comunità degli Italiani di Pola), assieme ad una delegazione di esuli
(Libero Comune di Pola e Circolo Istria). Chi non si trova d'accordo con
il riavvicinamento ai “rimasti”, commemora separatamente la ricorrenza
del 18 agosto a Trieste, presso il cippo di San Giusto. Insomma, anche
nel ricordo di una così terribile strage, prevalgono divisioni e rancori
da ambo le parti.
Forse
è proprio questo che ci chiedono quelle giovani anime: ricordarle ed
onorarle, insieme a tutte le vittime giuliane, fiumane e dalmate di
quella triste stagione; ricordarle però accantonando gelosie,
personalismi, antipatie, protagonismi, divisioni ideologiche e di
partito. Tutte cose che, insieme ai fiori, hanno donato l’ultima beffa
anche ai morti di Vergarolla."
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