IL PROCESSO DEGLI 88 FASCISTI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO
MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F.
Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator
Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755
IL PROCESSO DEGLI
88 FASCISTI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo X-Francesco Fatica L'organizzazione clandestina
fascista in Calabria merita una particolare menzione, sia per il numero
degli imputati nel processo che si tenne a Catanzaro nell'aprile 1945,
che per l'importanza delle strutture finalizzate al sabotaggio ed alla
guerriglia che vennero scoperte dagli inquirenti. Dalle indagini dei CC.RR.
(Carabinieri Reali) vennero portati in luce quattro centri operativi clandestini:
a Catanzaro, a Nicastro - Sambiase (oggi Lamezia Terme), a Crotone ed a
Cosenza. Ma, come si può ben capire, fu adottata ogni tipo di precauzione
per sminuire agli occhi degli inquirenti la vastità e l'efficienza
dell'organizzazione che operava clandestinamente anche in molte altre zone. I CC.RR. di Nicastro fin dal
settembre '43 avevano dovuto notare le manifestazioni di un'attività
clandestina fascista nel Nicastrese che andò man mano intensificandosi
fino ad arrivare ad attentati dinamitardi intimidatori contro strutture
del partito comunista e abitazioni di personalità antifasciste. Furono arrestati alcuni giovanissimi,
già iscritti alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio), comandati
dallo studente liceale Lionello Fiore Melacrinis: un biondino amato da
tutti, bello, bravo, studioso, ardito e trascinatore. Era una squadra agguerrita
di adolescenti delle scuole superiori, avevano raccolto un notevole armamentario
bellico e si preparavano a ritirarsi sulle montaghe delle Pre Sila, che
sovrastano Nicastro, per passare a vere e proprie operazioni di guerriglia. Nel frattempo tentativi andati
però a vuoto, di sabotaggi di ponti a Sambiase ed a Soverato, portarono
alla scoperta di altri clandestini e di notevole quantità di materiale
esplodente. Ancora una scoperta dei CC.RR.
questa volta nei pressi di Cosenza: il sottotenente Vittorio Bruni aveva
consegnato armi del Regio Esercito ai clandestini fascisti. Intanto, per una fortuita
coincidenza, quasi contemporaneamente veniva segnalato nei pressi di Crotone
un trasporto clandestino di bombe a mano che portò, dopo varie vicissitudini,
al rinvenimento di un notevole deposito di armi da guerra in un casolare
di proprietà del marchese Gaetano Morelli, maggiore dell'esercito
in congedo. Morelli aveva sacrificato
beni personali per finanziare l'organizzazione di una squadra che era ormai
pronta a prendere la via della Sila per operare con sufficiente armamento,
vettovaglie ed attrezzature. Tutto questo non fu ovviamente rivelato al
processo ma l'entità del materiale bellico ritrovato era un indizio
abbastanza eloquente. Le vettovaglie invece furono del tutto trascurate. Le indagini furono spinte
in tutte le direzioni e fu relativamente facile trovare indizi che incriminarono
a Catanzaro alcuni dei promotori dell'organizzazione e portarono alla scoperta
di altri depositi di armi e munizioni. Il tenente Pietro Capocasale
era stato prima dell'arresto, un attivo coordinatore dell'organizzazione
clandestina. Aveva tessuto una fitta rete di collegamenti per conto del
principe Valerio Pignatelli con i gruppi citati e con molti altri rimasti
clandestini, disseminati in tutta la Calabria. Dopo breve latitanza fu arrestato
a Bari l'avv. Luigi Filosa che aveva raccolto attorno a sè in Cosenza
un gruppo di professionisti, studenti universitari e fascisti di ogni estrazione
sociale, giovani ed anziani, di Cosenza e della provincia, ed era in collegamento
anche col resto della Calabria, con la Puglia e con Napoli. Essi si preparavano alla guerriglia
raccogliendo armi e vettovaglie, ma si preparavano anche ad effettuare
sabotaggi in grande stile, prendendo di mira i tralicci dell'alta tensione
che portavano l'elettricità prodotta dalle centrali idroelettriche
della Sila. Le centrali erano sorvegliate
da reparti "alleati", ma le linee elettriche restavano vulnerabilissime1. Il tenente Capocasale, nei
suoi giri di ispezione e coordinamento, aveva raccomandato in particolare
ai ragazzi di Nicastro di mantenersi calmi per poter meglio prepararsi
ad intervenire non appena le circostanze si fossero mostrate favorevoli,
evitando così di compromettere la clandestinità con azioni
troppo scoperte in un piccolo centro, dove , le indagini potevano essere
mirate più facilmente. Ma le sue raccomandazioni furono spesso trasgredite,
sia per la linea dura che il notaio Ugo Notaro, anziano fascista intransigente,
capitano di fanteria in congedo, voleva imporre, sia per la naturale irruenza
di molti giovanissimi clandestini che, autonomamente e spavaldamente, continuarono
ad usare esplosivi anche dopo l'arresto dei loro coetanei più sfortunati. Gli "Alleati", secondo
un clichet ormai abitudinario, lasciarono il processo agli italiani di
Badoglio. Il Tribunale Militare Territoriale della Calabria, con sede a
Catanzaro, fu investito della responsabilità di istruirlo. Ma gli
ufficiali del Regio Esercito non dimostrarono affatto entusiasmo e tanto
meno zelo per l'incarico ricevuto, anzi adoperarono ogni possibile solerzia
per limitarne la portata2. Può apparire strano
che un tribunale militare in tempo di guerra non operi nell'ambito del
codice penale militare di guerra. Bande armate, fucilazioni,
invece, furono argomenti immediatamente scartati. Così essi passarono
disinvoltamente all'art. 270 del codice penale: associazione sovversiva.
Ma anche questa imputazione venne successivamente derubricata, con l'aiuto
degli avvocati della difesa, in associazione a delinquere Francesco Tigani Sava, nel
suo documentato studio sul "processo degli 88", afferma che i
giudici fecero una sentenza destinata ad essere facilmente annullata per
mettersi al sicuro contro eventuali capovolgimenti di fronte, ma non si
può escludere che essi sentissero, sia pure sotto la divisa dell'esercito
regio, battere ancora un cuore che non riusciva a dimenticare del tutto
l'amore per l'Italia e per i suoi figli. Analogamente il magg. Oreste
Pecorella capo di stato maggiore del SIM (Servizio informazioni militari),
che aveva redatto il rapporto sull'argomento con oggetto: movimento fascista
nell'Italia meridionale, sfumò molto le responsabilità degli
aderenti alla cospirazione, negò che fra i vari gruppi clandestini
scoperti esistessero collegamenti. Addirittura poi, venuto a conoscenza
delle notizie sulle armi segrete tedesche (bomba atomica, la nube misteriosa
sul nord Europa, l'offensiva di Von Rustedt), andò a trovare Nando
Di Nardo, detenuto nella certosa di Padula, trasformata in campo di concentramento
per duemila fascisti, e gli dichiarò di aver evitato di citare nel
suo rapporto tanti particolari a sua conoscenza, che avrebbero indubbiamente
aggravato la posizione degli imputati e che avrebbero consentito il collegamento
del processo degli 88 fascisti di Calabria con quello del principe Valerio
Pignatelli e altri fascisti napoletani e calabresi3. In quell'occasione Pecorella,
dopo aver usato parole di stima e di solidarietà, quasi di complicità,
si raccomandò apertamente affinchè Di Nardo convincesse Pignatelli
a non infierire su di lui nel caso che le parti dovessero invertirsi. Il
6 aprile del '45, dopo circa un anno di istruttoria, i giudici, finito
il dibattimento, si riunirono in camera di consiglio4. Le strade di Catanzaro brulicavano
di folla; fascisti e simpatizzanti si agitavano minacciosamente sotto il
naso di carabinieri e poliziotti radunati in tutta fretta. L'aula magna del tribunale,
affollatissima di pubblico, era vigilata dall'alto attraverso i finestroni,
da carabinieri armati di mitra ostentatamente rivolti in basso verso il
pubblico. La Corte temporeggiava. Finalmente,
appena poco prima dell'alba, le strade si sfollarono; dopo ben 19 ore di
camera di consiglio, i giudici si decisero a leggere la sentenza: 10 anni
di reclusione per Pietro Capocasale, 9 anni per Gaetano Morelli, 8 anni
per Luigi Filosa e per Attilio e Giuseppe Scola (di Crotone) ancora 8 anni
per Antonio Colosimo, Nino Gimigliano e Aldo Paparo (di Catanzaro) nonchè
Ugo Notaro (di Nicastro), 6 anni per chi fu ritenuto partecipante più
attivo, mentre 4 anni per i semplici partecipanti. Infine ai minorenni
24 mesi di reclusione. Altri imputati per cui non era stato possibile raggiungere
la prova di colpevolezza, vennero assolti. Era l'alba del 7 aprile. Appena letta la sentenza,
una sorta di ruggito di rabbia sgorgò dalla folla e gli imputati
in piedi di fronte ai giudici allibiti esplosero nel canto di "Giovinezza";
era un raptus generale, i carabinieri sui finestroni, confusi, non sapevano
cosa fare. Più tardi, nel chiuso
del furgone cellulare che li riportava in carcere, il mastodontico brigadiere
Putortì e i carabinieri di scorta, con gli occhi rossi dalle lacrime
trattenute, si unirono ai condannati nel canto di "Giovinezza".
NOTE Il testo è stato emendato dalle numerose
note (vedi numeri di riferimento da 1 a 3) presenti sull'originale cartaceo. MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F.
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INTERVISTA
A DE PASCALE da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo XVI-Francesco Fatica Sappiamo già che trascorse
le vicende descritte nei precedenti capitoli, avvenne, come s'è
visto, l'arresto di Pignatelli e di Guarino e subito dopo anche quello
di Di Nardo, compromesso da una lettera inviata al barone Filippo Marincola
di S. Floro. Restò quindi unicamente
a De Pascale la responsabilità della dirigenza del movimento clandestino
fascista in Campania. Oggi egli è rimasto
l'unico vivente dei responsabili del vertice clandestino fascista dal '43
al '45. A lui quindi mi sono rivolto per attingere direttamente alla fonte
- dopo oltre 50 anni di riserbo - le notizie ed i chiarimenti che meglio
possono concludere questa ricerca storica. — Caro De Pascale, per cominciare, ti prego di
descrivermi i sentimenti che animavano, oltre te, anche i gregari della
lotta clandestina.— De Pascale: - Eravamo ispirati dagli stessi
ideali che ci avevano animati sui campi di battaglia, con in più
la rabbia disperata di vedere calpestato il suolo della Patria da orde
straniere, che gozzovigliavano nelle nostre città, umiliandoci ogni
giorno con la loro arroganza e poi soprattutto sentivamo il bisogno supremo
di riscattare ad ogni costo l'Italia dalla vergogna dell'armistizio e del
tradimento. Anche noi, come i camerati del Nord, ci preparavano a batterci
per l'onore d'Italia. — Ti prego ancora di ricordare qualche nome di
camerati impegnati nella lotta clandestina.— Oltre Di Nardo e il col. Guarino, che teneva
i contatti con le bande armate calabresi, ricordo Nicola Galdo, che stampava
un giornale clandestino con il ciclostile che avevamo recuperato dal G.U.F.,
il prof. Calogero, il libraio Bolognesi, il marchese capitano di vascello
Marino de Lieto, super decorato, eroe della prima guerra mondiale, che
conduceva una sua guerra personale segretissima e solitaria contro gli
anglo-americani, sabotando ponti ed apprestamenti militari, finendo coinvolto
talora addirittura in corpo a corpo come un giovane sabotatore di commando.
Di lui e di qualche altro, che agiva come lui, dicevo che facevano una
loro guerra privata. Ma, naturalmente, debbo
citare ancora l'attivissima ed entusiasta Elena Rega, che poi divenne mia
moglie, Pasquale Purificato, Picenna, il tenente della Decima MAS Bartolo
Gallitto, che attraversò le linee con altri marò. Mi spiace
tralasciare tanti altri nomi di elementi di secondo piano, però
tutti validi, pieni di entusiasmo, disciplinati e pronti ad ogni sacrificio. Ma voglio ricordare ancora,
con venerazione, il tenente di vascello Paolo Poletti, agente dei Servizi
Speciali della RSI, infiltrato nell'OSS americano, che finì torturato
atrocemente, fino ad impazzirne e fu poi assassinato cinicamente dal sergente
americano di guardia. Non si lasciò sfuggire un nome, un accenno,
un indizio. Quando poi anch'io fui
arrestato e detenuto a disposizione del C.S., capeggiato dal famigerato
maggiore Pecorella dei CC.RR., fui ristretto in quei locali a Napoli, in
via Fiorelli, da dove altri giovani dei Servizi Speciali furono prelevati
per essere fucilati a Nisida. Un giorno poi conclusero
che gli interrogatori non avrebbero approdato a nulla e allora tentarono
di eliminarmi con la messa in scena della tentata fuga;ma io ebbi nervi
saldi e non cascai nel tranello. — Inscenare un tentativo di fuga è l'espediente
banalmente, ma cinicamente, usato per coprire un assassinio. Così
fecero con Ettore Muti, così con Paolo Poletti. Possiamo dire che
gli antifascisti non esitavano di fronte agli assassinii.— E' proprio così. In Repubblica Sociale
una serie di feroci, premeditati assassinii innescò la guerra civile. Da Radio Bari prima e Radio
Napoli poi, si incitavano i partigiani all'assassinio sistematico come
metodo di lotta. Noi invece abbiamo sempre evitato attentati sanguinosi
e soprattutto spargimento di sangue fraterno. Eravamo ben informati delle
abitudini e delle abitazioni degli avversari, qui al Sud, ma abbiamo deliberatamente
evitato di innescare rappresaglie che avrebbero lasciato un solco profondo
di odio tra gli italiani. Se pure fossimo stati tentati
di agire in questo senso, avevamo avuto continue, categorie disposizioni
da Mussolini, sia per via radio, ma anche, più esplicitamente, attraverso
il rapporto della principessa Pignatelli. Avremmo potuto facilmente
ripetere a Napoli un attentato simile a quello di via Rasella per ottenere
una strage di rappresaglia simile, se non peggiore di quella delle Fosse
Ardeatine; ma a noi è sempre ripugnata la strategia stragista. Avevamo invece previsto
tassativamente che, in caso di attentati, uno di noi avrebbe dovuto costituirsi
per addossarsene la responsabilità, onde evitare rappresaglie con
vittime civili. La tecnica del "sangue
chiama sangue", come tutti sanno, fu invece largamente attuata dai
comunisti e dai loro accoliti, utili e feroci idioti. Noi no. Al Sud non c'è
stata guerra civile. — Bene; tu sai che anch'io, pur giovane ed impaziente
gregario, oltre tutto lontano dal centro organizzativo e direttivo di Napoli,
avevo lo stesso orientamento tattico, per costituzione morale derivata
dall'educazione fascista avuta nella GIL e nel clima in cui ero vissuto,
ma dobbiamo spiegare adesso: questa organizzazione clandestina che c'era
a fare se non poteva, nè doveva lottare liberamente, senza esclusione
di colpi?— Come già ti ho detto altre volte,
Mussolini voleva assolutamente che, almeno al Sud, fossero evitate le feroci
nefandezze della guerra civile. Noi clandestini avremmo
dovuto entrare in azione alla grande solo nel caso, non improbabile, di
un capovolgimento della situazione militare, cosa che sembrò più
volte imminente, sia per le tanto propagandate armi segrete tedesche (vedasi
bomba atomica) sia per le controffensive, in particolare quella di Von
Rustedt nelle Fiandre che sembrò aver sgominato gli eserciti alleati. Lo stesso maggiore Pecorella,
a contatto con il Servizio Informazioni Militari, quando subodorò
possibile una certa concretezza nelle nostre speranze, si recò alla
Certosa di Padula a perorare presso Di Nardo, colà detenuto, la
sua causa personale, scoprendo sue benemerenze di doppiogiochista, chè
non aveva rivelato tutto quello che aveva scoperto, cercando di non aggravare
la nostra posizione processuale. Concludendo, Mussolini
volle evitare ogni sia pur minimo spargimento di sangue fraterno. Per esempio,
i comunisti di vertice a Napoli, a cominciare da Togliatti, alias Ercole
Ercoli, avrebbero potuto agevolmente essere eliminati. Non fu così. Se oggi nel Meridione non
si è scavato un profondo solco di sangue fra italiani, il merito
è soltanto di noi fascisti e soprattutto di Mussolini. MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F.
Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator
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ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO
NELL'ITALIA OCCUPATAFrancesco Fatica
Elena Rega, figlia del colonnello Cosimo, superdecorato della 1°
guerra mondiale, comandante del 39° rgt. Fanteria, caduto eroicamente
in combattimento nel 1918, proprio negli ultimi giorni di guerra, crebbe
nella venerazione, nel vago ricordo del Padre e nella religione della Patria.
La Patria, come l’abbiamo sentita noi e la gran parte del popolo italiano,
sempre più profondamente legata all’Idea fascista, di cui Elena
divenne una fervente, entusiasta e fedele credente.S’impegnò negli studi e negli sport, com’era nello stile di
vita fascista; fu appassionata particolarmente di atletica leggera fino
a divenire nel 1939 campionessa nazionale di ginnastica artistica. Il relativo
brevetto le fu consegnato a Palazzo Venezia e poi furono introdotti, Lei
e gli altri campioni, dal Duce. E di ciò fu sempre orgogliosa.S’era iscritta alla facoltà di Chimica ed ovviamente aderì
al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di cui divenne ben presto Fiduciaria
Femminile (dal 1938 fino al 1943, data in cui Badoglio fece sciogliere
il PNF, Partito Nazionale Fascista, e le sue organizzazioni).Laureatasi a pieni voti, è stata l’unica analista del Laboratorio
dell’Istituto d’Igiene e Profilassi della provincia di Napoli, di cui divenne
vice direttrice.Mobilitata civile, usava la sua potente motocicletta "Bianchi
freccia d’oro" per gli spostamenti, in città e in provincia,
inerenti ai Suoi compiti d’ufficio. Per poter più agevolmente cavalcare
il suo "cavallo d’acciaio", vestiva eleganti abiti sportivi di
foggia maschile, da Lei stessa ideati, che precorsero i tempi di cinquant’anni,
ma che all’epoca costituivano un abbigliamento rivoluzionario, poco accettabile
per il volgo e per i borghesi bigottamente conformisti e conservatori.
Ma dei commenti di costoro la nostra irruente Camerata s’infischiava, mostrando
così un aspetto esplosivo del suo carattere forte e ribelle ad ogni
pecorile conformismo.La guerra Erano i tempi difficili ed eroici della guerra. Napoli presa
di mira quotidianamente, notte e giorno, dai bombardieri "alleati",
era stata danneggiata gravemente in tutte le sue strutture; erano i tempi
eroici in cui Riccardo Monaco e pochissimi altri piloti, votati alla morte,
si alzavano in volo con i loro minuscoli aerei da caccia per attaccare
le cosiddette "fortezze volanti"; erano i tempi in cui era difficile
sopravvivere a Napoli; si viveva praticamente rintanati, notte e giorno,
nei rifugi antiaerei, nelle gallerie della metropolitana, nei mille cunicoli
e vani sotterranei dell’antico acquedotto romano.Ma la nostra Elena Rega, mobilitata civile ligia al dovere fino all’eccesso,
più e più volte sfidò la sorte avversa e gli odiati
bombardieri, a bordo della sua veloce motocicletta; moderna amazzone, combatteva
la sua battaglia: correva a svolgere il suo dovere con ardore di vestale,
e con cuore di guerriero, incurante del pericolo.Ma ciò non la distoglieva tuttavia dal soccorrere la povera
gente che aveva bisogno d’aiuto; più di una volta portò a
casa sua povere donne e bambini che avevano fame, che avevano bisogno di
fare una doccia.Allora a Napoli mancava tutto e molto spesso anche l’acqua e poi, tanti
erano coloro che erano rimasti senza casa. La solidarietà patriottica,
cristiana e fascista di Elena Rega ebbe molte occasioni di manifestarsi
allora, ma pure in seguito uniformò appassionatamente sempre la
sua condotta di vita a questa sua connaturata solidarietà, ed ebbe
perciò tanta carità anche nei riguardi degli altri esseri
viventi.Per ragioni del suo ufficio fu inviata a far le analisi delle acque
delle Terme di Castellammare di Stabia, inquinate, ma che si raccomandava
dai superiori di far apparire potabili.La dottoressa Rega, rigorosamente ligia al dovere, non si piegò
alle disposizioni avute ed ovviamente i "superiori" se la legarono
al dito.I 45 giorni Ma vennero i giorni del tradimento, i giorni in cui le
oscure manovre del re e dei massoni del suo entourage esplosero apertamente
nella "seduta del Gran Consiglio del 25 luglio".Elena reagì con tutta la vitale irruenza del suo carattere forte
e spontaneo: incitava tutti i camerati del GUF a reagire, a mantenersi
uniti, a prepararsi alla riscossa. Insieme a Lucia Vastadore e altri camerati,
ebbe violente discussioni con Nicola Foschini, Fiduciario Provinciale del
GUF di Napoli, il quale invece era fermo nel suo proposito di "dare
le consegne" alla nuova burocrazia, autonominatasi "democratica".Con Lucia Vastadore e con altri camerati del GUF e della Legione della
Milizia Fascista Universitaria "Goffredo Mameli", Elena si prodigava
a svolgere propaganda, a rincuorare gli sfiduciati, a raccogliere gli sbandati.
Non era facile, oltre tutto i bombardamenti avevano distrutto mezza Napoli,
molti erano dovuti sfollare nei paesi, in campagna o farsi ospitare da
parenti. I mezzi di comunicazione erano stati colpiti gravemente e venivano
ripristinati faticosamente dovendo superare enormi difficoltà, sicché
si erano persi i collegamenti.Dobbiamo considerare però che il re e Badoglio si erano affrettati
a dichiarare solennemente: «La guerra continua».E la guerra continuava sul serio, al fronte anche se con sfortunate
vicende, non prive di atti di eroismo da parte di singoli o di piccoli
repar ti. E la guerra continuava, sempre più terroristicamente,
anche sul fronte interno.Questa strategia di continuità, quanto mai opportuna per i "badogliardi",
questo insistente richiamo alla realtà della guerra che continuava,
ebbe la prevista e voluta conseguenza di mantenere fermi e disciplinati
i fascisti, che, educati a tenere il culto e l’interesse della Patria al
di sopra di ogni altro interesse, non potevano prendere in considerazione
l’ipotesi di una ribellione o di sommosse e neanche di chiassate di piazza,
che potessero in qualche modo ledere il fronte interno, mentre gli altri
camerati si battevano eroicamente al fronte contro forze nemiche preponderanti.Quindi i fascisti si incontravano, quasi clandestinamente, in case
private, in piccoli gruppi spontanei e disorganizzati.Intanto i gerarchi del fascismo più autorevoli erano stati mobilitati
e spediti lontano. Ettore Muti fu ucciso a tradimento; i reparti della
Milizia erano stati incorporati nel Regio Esercito, cambiati i comandanti
con uomini di fiducia sabauda, così i badogliani avevano fraudolentemente
disgregato le forze sane della Nazione, approfittando della forzata inerzia
dei fascisti.Nel frattempo in città, come avveniva anche altrove, bande di
giovinastri e di perditempo, guidati e assoldati da agitatori comunisti,
si dedicavano a gesti vandalici nei riguardi di targhe, lapidi e simboli
fascisti, spesso anche di un certo valore artistico. I giovani del GUF,
con alla testa l’architetto Antonio de Pascale, invalido della guerra di
Grecia, Vito Videtta, Natale Cinquegrani e Lello Balestrieri, andavano
a caccia di queste squadre di teppisti e attaccavano briga per impedire
i loro vandalismi; ebbene Elena Rega e Lucia Vastadore pretendevano di
prender parte anche a questa specie di "spedizioni punitive",
nonostante che i maschi facessero di tutto per dissuaderle. Queste imprese
si concludevano spesso in violenti pestaggi e tafferugli.La resa Ma quando venne reso noto il cosiddetto "armistizio",
che invece, come ormai sappiamo, era una vera e propria resa senza condizioni,
allora i fascisti si sentirono finalmente liberi di affrontare gli avversari;
lo stratagemma che li aveva inchiodati ad una disciplinata attesa, la frase:
«La guerra continua» che li aveva mantenuti fermi e subordinati,
non valeva più.Elena, invasa dallo sdegno e dalla rabbia, moltiplicò i suoi
sforzi per riannodare le spezzate relazioni con i camerati dispersi in
tanti nuovi domicili; finalmente erano finiti i bombardamenti, ma la città
purtroppo era caduta in preda ai disordini che si incrementavano sempre
peggio: prima i saccheggi dei depositi e dei magazzini militari abbandonati,
quindi uomini irresponsabili svuotarono le carceri, poi cominciarono le
sparatorie, i posti di blocco; mancava tutto, mentre l’esercito s’era completamente
dissolto, pochi partigiani disturbavano la ritirata in atto dei tedeschi
e provocavano rappre saglie, delinquenti di ogni risma, armati, a guisa
di partigiani, delle armi abbandonate dal Regio Esercito, ne approfittavano
per razziare e poi devastare tutto quel che non potevano rubare nelle case
dei fascisti; ma chi all’epoca poteva dire di non essere stato fascista?
Quindi furono prese di mira molte case di benestanti dovunque vi fosse
la possibilità di fare un ricco bottino.Le cose precipitarono. Qualche fascista perse ogni fiducia in una possibile
riscossa. Ci fu chi prese le armi che riuscì a trovare e sparò
disperatamente.Aveva visto crollare, con la sconfitta del fascismo, il mondo intero;
i partigiani sparavano e per reazione, anche tanti fascisti spararono:
isolatamente, spontaneamente, disorganizzatamente, ma disperatamente cercando
la morte, tuttavia trascinando con loro quanti più nemici potessero
colpire.Molti altri partirono per continuare a combattere con l’alleato tedesco,
per l’onore d’Italia.Altri ancora, feriti, invalidi, costretti a restare a Napoli, decisero
di continuare la lotta per l’affermazione dell’Idea, per reagire allo sfacelo
morale e mostrare al mondo intero e agli stessi occupanti , mascherati
da "liberatori", in un grottesco carnevale con lenoni, "segnorine",
ladri e borsari neri, che non tutti gli italiani si potevano comprare con
le amlire o con le PallMall.Si ritrovarono in pochi: i migliori.Solevano riunirsi a casa del camerata Carlo e del figlio Antonio Picenna.
Elena era con loro, sempre presente, sempre piena di fede, sempre generosamente
pronta a dare la sua opera, sempre sollecita e valida nel portare il suo
rigoroso contributo progettuale.Più tardi su invito di Francesco Barracu, a mezzo radio della
RSI arrivarono a Napoli dalla Calabria i principi Pignatelli per prendere
contatti con i camerati di Napoli e dare un impulso unitario al movimento
clandestino fascista.I principi si sistemarono in una villetta al Calascione; Elena e la
principessa Maria simpatizzarono subito e s’intesero perfettamente di primo
acchito. Ma anche il principe seppe apprezzare immediatamente la viva intelligenza
e le altre qualità positive di Elena, di cui, spesso, voleva ascoltare
il parere assieme a quello della principessa.Si ritrovarono al Calascione diverse volte, Elena Rega, Antonio de
Pascale, Nando di Nardo, il colonnello Guarino, il ten. di vascello Paolo
Poletti, ma poi ritennero prudente cambiare spesso il luogo d’incontro.Nella villetta del Calascione i Pignatelli invitavano frequentemente
a cena generali "alleati", il capo del SIM badogliano e altre
personalità che potevano, conversando "liberamente", magari
un po’ troppo, dopo una lauta libagione, rivelare notizie militari o politiche,
che sarebbe stato opportuno tenere riservate, e che riuscivano invece di
grande utilità per la RSI e gli alleati tedeschi, una volta ricevute
le relative comunicazioni radio.Ad una di queste cene furono invitati anche Elena Rega, Antonio de
Pascale e Nando Di Nardo, in quanto, essendo stato invitato il gen.Wilson, Pignatelli prevedeva una più larga messe di notizie,
che tutti avrebbero dovuto sforzarsi di memorizzare.Fu necessario fornirsi di adeguati abiti scuri, e l’inesauribile Elena
Rega provvide a reperire da uno zio scapolo, che era stato fanatico della
cosiddetta "buona società", gli abiti più convenienti,
che però dovette correre a prendere in moto nel casi no di campagna
dello zio. Furono poi mobilitate le sorelle dell’architetto per adattare
e sistemare questi abiti.La sera si presentarono tutti e tre, elegantissimi, ma pure seccati
di dover fare le comparse mondane e per di più, poi, proprio con
gli "Alleati", che, oltre tutto, ancora una volta sfoggiarono
la loro maleducazione (american life). Wilson e gli altri, semi sdraiati
sulle poltrone, con le gambe poggiate in alto, bevevano, anzi tracannavano
e parlavano "a ruota libera", i nostri tre, assieme ai principi,
ascoltavano attentamente, rispondevano a monosillabi o provocavano chiarimenti
e …memorizzavano.Elena Rega aveva l’abitudine di sfogarsi tracciando in un suo diario,
sui generis, pungenti ritratti delle persone conosciute, pur facendo bene
attenzione a non scrivere nulla che dovesse rimanere segreto. Così
tornò dai Pignatelli col suo "lavoro", che fece molto
divertire i principi, ma poi, più concretamente, passarono tutti
a mettere insieme e riordinare le informazioni raccolte nella serata precedente
in modo da avere un quadro il più possibile completo della situazione
politica e militare. Queste preziose notizie venivano poi trasmesse in
codice a mezzo radio al Nord.Fascismo clandestino Quando, più tardi, fu vigliaccamente assassinato
a Firenze Giovanni Gentile, Elena ne fu particolarmente colpita, trovando
nei camerati del vertice clandestino fascista lo stesso sdegno e la stessa
volontà di reagire. Si ritrovarono tutti, in effervescente, solidale
agitazione, a casa Pignatelli: i principi, Elena, de Pascale, Di Nardo
e Guarino. Si progettava febbrilmente una reazione, ma non come avrebbero
certamente pensato i nostri nemici: cioè spargendo sangue fraterno
al Sud.In diverse sedute prese corpo l’audace progetto di far commemorare
Giovanni Gentile a Firenze dal filosofo Benedetto Croce, che, nobilmente
memore dell’antica amicizia, aveva già acconsentito, tramite l’editore
Casella, vicino di casa e frequentatore abituale dei Pignatelli, ma del
tutto ignaro ed estraneo al movimento clandestino.La difficoltà maggiore, ovviamente, era quella di trasferire
Croce a Firenze e di riportarlo sano e salvo a Sorrento, dove abitava.
Si fecero molte animate discussioni, si presero contatti con la RSI e con
gli alle ati tedeschi, che misero a disposizione per la particolare operazione
un sommergibile medio che avrebbe atteso l’illustre ospite avversario,
ma gentiluomo nelle acque degli isolotti dei Galli, di fronte a Positano;
i tedeschi avevano carte nautiche dettagliate di quella zona particolare,
con tutte le quote degli scandagli del fondo marino. Era stato contattato
anche il comando della X a MAS, che aveva messo a disposizione gli agenti
speciali dislocati nei dintorni di Napoli, i quali avrebbero dovuto scortare
con un rapido motoscafo il filosofo fino al trasbordo sul sommergibile.Fu deciso che avrebbero scortato Croce anche Guarino e de Pascale,
che avrebbero risposto di persona dell’incolumità del filosofo.Furono tenute molte riunioni, in cui vennero studiati i più
minuti dettagli.Valerio Pignatelli, però, prese la precauzione di non tenere
tutti al corrente di tutto, se non per i dettagli che li avrebbero interessati
direttamente, o per cui era richiesta la loro particolare consulenza.Anche nell’elaborazione di questo complesso piano, Pigna (così
si faceva confidenzialmente chiamare il principe) non trascurò di
consultare la principessa Maria ed Elena Rega, che, oltre ad essere particolarmente
intelligente era ben allenata per la sua professione ad essere anche precisa
e attenta a non trascurare ogni benché minimo particolare.Ma per effettuare l’audace piano bisognava superare le titubanze di
Mussolini, che temeva per l’incolumità dell’avversarioospite.Per quanto fossero stati attentamente studiati i particolari esecutivi,
pure non si poteva escludere una qualche imprevedibile circostanza avversa
di guerra. Pertanto l’esecuzione doveva essere rimandata fino all’ottenimento
dell’assenso del Duce.Avendo programmato il famoso viaggio della principessa Maria in RSI,
per incontrarsi col Duce, fu deciso che Maria Pignatelli avrebbe tentato
di convincere Mussolini, durante il colloquio che era stato prestabilito.Purtroppo, come sappiamo, al suo ritorno dal Nord, Maria Pignatelli
fu arrestata, dopo breve latitanza, per cui fu ospitata anche in casa di
Elena Rega, e seguì a breve l’arresto dello stesso principe e poi
di Guarino e Di Nardo.La prigionia Restò quindi de Pascale ad impartire le direttive
del fascismo clandestino a Napoli ed in tutto il Sud. Il sospettoso e furbastro
maggiore Pecorella, del CS, il controspionaggio badogliano, fece arrestare
Elena Rega, ritenendola l’anello più debole della catena, ma aveva
fatto male i suoi conti.Per fiaccarne la resistenza la fece rinchiudere nel carcere di Poggioreale,
ovviamente nel padiglione femminile, dove pure c’era una sezione politica.
Tuttavia il nostro becero maggiore, sprezzando ogni regolamento riguardo
ai detenuti politici, di prepotenza la fece espressamente rinchiudere in
cella con prostitute, ladre, accattone e borsare nere, che dapprima tentarono,
secondo quanto aveva previsto il plebeo maggiore, di offendere violentemente
una persona così diversa dalla loro miseria morale. Ma avvenne un
fatto straordinario: una di quelle disgraziate creature si erse a difesa
della dottoressa, parandosi davanti alle compagne più aggressive,
pronta ad artigliarle con le unghie protese in attacco. «Nooo!»,
urlò. E raccontò a tutte quelle megere ammansite come la
"dottoressa" l’aveva accolta in casa sua e tenuta a pranzo con
i suoi figlioletti, dopo che tutti loro, mamma e bambini, avevano potuto
fare una doccia.Da allora in poi tutte le portarono rispetto e perfino devozione, come
sanno fare talvolta le persone colpite dalla disgrazia.Ma nell’abietto cuore di Pecorella non potevano albergare ovviamente
sentimenti simili.Lo spietato maggiore si beava nel vedere la sua vittima sudare freddo
sotto stringenti ed estenuanti interrogatori, sforzandosi di non rivelare
in altro modo il suo tormento. L’accanito inquirente tentò tutte
le sue consumate arti per convincere la sua "preda" a fare una
sia pur piccola ammissione: tentò con la blandizie, che mal gli
riusciva di fare, e tentò con le minacce che riuscivano naturalmente
spontanee, più credibili ed efficaci. Aveva scoperto, l’aguzzino,
che quella giovane donna, che teneva sotto i suoi metaforici artigli, non
solo aveva una enorme stima di Tonino de Pascale, ma ne era proprio innamorata.
Così tentò di terrorizzarla minacciando terribili ritorsioni
sull’oggetto dei suoi sentimenti. Tuttavia, come sappiamo, Elena Rega,
non solo aveva un carattere forte e coraggioso, ma era estremamente intelligente
e non si lasciò giocare dal rozzo e vanesio maggiore, neanche quando
questi le dichiarò, in tono suadente e quasi paterno, che da lei
e soltanto da lei dipendeva la salvezza del suo amato. Naturalmente tali
manovre laceravano l’animo di Elena, ma lei si sforzava di non darlo a
vedere e probabilmente ci riusciva, perché vedeva benissimo, da
quella attenta analizzatrice delle persone che era sempre stata, che il
Pecorella si arrabbiava stizzosamente.Il sadico torturatore aveva fatto arrestare già una volta de
Pascale, rilasciandolo, poi, dopo una ramanzina, ma tenendolo d’occhio,
sperando che si scoprisse con qualche mossa falsa.Nel frattempo però il controspionaggio "alleato" ruppe
gli indugi e procedette all’arresto di de Pascale con un tragicomico e
scenografico copione da operetta, circondando tutto l’isolato dove abitava
ed intimando con altoparlanti ai cittadini della zona di restare in casa.
Arrivarono, nella cieca foga della loro arrogante irruenza poliziesca,
ad arrestare qualche altro incauto, ma innocuo passante.Gli abitanti del rione e la folla dei curiosi rapidamente radunatasi
videro scendere l’architetto fortemente scortato e portato via su una jeep,
che dovette aprirsi la strada tra due ali di folla.La notizia fece il giro della città e per vie misteriose giunse
al carcere di Poggioreale; fu riferita ad Elena con mille precauzioni per
quell’intuito femminile che aveva fatto presagire qualcosa alle sue disgraziate,
ma ormai solidali compagne.Naturalmente Elena ne soffrì enormemente, pur non potendo conoscere
i particolari spaventosi a cui fu sottoposto il suo Tonino, su cui Pecorella
sfogava la sua impotenza di sbirro, facendolo addirittura biliosamente
imprigionare in manicomio e pretendendo, contro ogni regola, che fosse
rinchiuso nella stessa cella dove imperversava un pazzo furioso. Tonino
de Pascale per difendersi era costretto a barricarsi addirittura sotto
la branda. Ma c’è ancora di peggio; de Pascale aveva ancora una
brutta ferita di guerra aperta sulla spalla, che secerneva pus e che aveva
bisogno di continue medicazioni.Una suora caritatevole lo soccorreva di tanto in tanto, approfittando
dei momenti di stanca del pazzo furioso, portandogli garze sterili e disinfettanti.Il badogliano maggiore Pecorella pensava di trovare de Pascale annichilito
dopo un tale trattamento, ma dopo molte sedute di interrogatori dové
convincersi che era tutto tempo sprecato.Poi l’architetto de Pascale fu trasferito; doveva essere portato al
carcere di Poggioreale, i carabinieri che dovevano scortarlo erano stranamente
armati di mitra e portavano addirittura l’elmetto. Durante la traduzione
improvvisamente il portellone del furgone si spalancò, producendo
un assordante rumore, , il vecchio trabiccolo però, come se l’autista
(che non poteva non aver sentito) fosse complice, continuò la corsa
rallentando solo un poco. I carabinieri puntarono i mitra aspettando che
l’architetto cogliesse l’occasione per sgattaiolare via, ma questi ebbe
nervi saldi e non si mosse, guardando fissamente negli occhi i suoi malintenzionati
custodi. Così fu bussato all’autista che questa volta sentì;
il portellone fu chiuso dall’esterno e de Pascale fu portato ancora vivo
a Poggioreale.Elena Rega non conobbe i particolari della criminale persecuzione di
Pecorella, se non molto più tardi; tuttavia la sua sensibilità
femminile, il suo perspicace intuito, le facevano temere il peggio: temeva
per Tonino, non temeva per sé. Era questo il maggior tormento della
sua prigionia.Intanto i segugi del CIC (Counter Intelligence Corp) e del FSS (Field
Security Service), i servizi di controspionaggio americano ed inglese,
avevano esaminato i diari di Elena Rega, dove Ella era solita schizzare
sfoghi politici e saporose descrizioni denigratorie degli antifascisti
più in vista, e vi avevano trovato anche il ritratto, ovviamente
molto critico e pungente, del maggiore Pecorella; così, divertendosi
un po’ malvagiamente, chiesero ad Elena di leggere il pezzo che riguardava
Pecorella in presenza dello stesso. Ella non si fece pregare: coraggiosamente
lesse all’allibito ed umiliato maggiore quanto aveva scritto già
prima ancora di conoscere personalmente i suoi metodi, ma dovette sforzarsi,
lucidamente, di non aggiungere considerazioni più attuali e ben
più aggressive.Francesco Fatica Elena
aveva un carattere fortemente impulsivo, ma riusciva, con la sua intelligenza
e forza morale, a dominarsi perfettamente quando lo richiedevano le circostanze.Finalmente Pecorella
si stancò di infierire contro una donna che sembrava invulnerabile,
o forse, più probabilmente, furono gli "Alleati" che ritennero
di porre fine ai vani sforzi di Pecorella.A questo punto,
per capire meglio lo svolgimento di vicende del fascismo clandestino, debbo
riportare brevemente un aspetto dei retroscena di quel periodo storico.Tra gli ufficiali
dei servizi di controspionaggio "alleati" , in particolare nel
CIC americano, c’erano alcuni anticomunisti, che combattevano, sì,
la loro guerra senza esclusioni di colpi, ma si preoccupavano anche, intelligentemente,
del dopo.Le regioni dell’Italia
occupata erano minacciate da un partito comuni sta, agli ordini di Mosca,
sempre più virulento; al Nord, loro stessi erano costretti a servirsi
dei partigiani comunisti, ma si rendevano conto che questi avrebbero minacciato
ancora peggio l’indipendenza della nazione italiana, in quanto erano al
servizio di Mosca. Degli uomini che si erano schierati con Badoglio e con
il re non avevano alcuna stima: avevano tradito una volta, avrebbero "badogliato"
ancora.Dunque era necessario
preservare per le prevedibili future lotte anticomuniste, quegli italiani
che avevano dimostrato di avere una forza morale integerrima. E che si
sperava, come poi avvenne, di poter schierare, a difesa anche (e purtroppo
soprattutto) dei loro (americani) interessi, nella lotta anticomunista.Capitava così
che (paradossalmente, ma fino ad un certo punto) alcuni "Alleati"
usassero preservare i fascisti più coraggiosi: quelli che si erano
esposti nel dissenso e nella lotta clandestina, e perché no, appena
fosse fattibile, tentassero preservare anche quegli agenti speciali della
RSI che era possibile sottrarre ai plotoni di esecuzione. Un solo esempio:
Carla Costa.Per liberarli dalle feroci rappresaglie
dei loro biliosi avversari connazionali: li tenevano in campo di concentramento
per la durata della guerra. Ad altri toccò di restare in carcere,
ma per quegli americani c’era lo stesso impegno: non dovevano essere
abbandonati alla libidine di sterminio degli antifascisti.Gli "Alleati" si illudevano
anche di rieducare alla democrazia i fascisti reclusi in questi campi,
ma usavano metodi controproducenti, anche perché i campi di concentramento
e le carceri erano gestiti da personale rozzo e prepotente, non proprio
scelto al meglio.Dunque Elena Rega non fu fucilata, non
fu neanche condannata a morte; non fu giudicata da un tribunale militare
italiano, a cui pure era stata deferita e da cui fu incriminata per reati
punibili con la pena di morte, assieme ai Pignatelli, a de Pascale e ad
altri uomini di punta del fascismo clandestino e della X a MAS e allo stesso
Junio Valerio Borghese.Il processo fu bloccato; il relativo incartamento
è tuttora "coperto dal segreto di Stato".Per sottrarre Elena dalle grinfie dei
vari "Pecorella" al soldo dell’invasore, fu inviata "in
campo di concentramento per la durata della guerra". Dapprima fu ristretta nel settore femminile
del Campo di concentramento di Padula, il famigerato "371 PW Camp
di Padula " gestito dagli inglesi nella allora fatiscente Certosa,
dove trovò la compagnia della camerata Maria Pignatelli, anch’essa
giudicata meritevole di essere "preservata in campo di concentra
mento per la durata della guerra".I sacrifici e le privazioni di ordine
materiale oltre che morale che Elena fu costretta a sopportare nel campo
di "Padula" furono gravi: basti pensare che gli inglesi, che
gestivano il campo, nei primi tempi non si vergognarono di dare da mangiare
ai prigionieri ghiande e niente altro. Tanta proterva perfidia era già
stata corretta quando arrivò Elena, ma la fame era sempre tanta,
perché gli inglesi non erano affatto rispettosi di tabelle dietologiche
né della convenzione di Ginevra. Bisognava poi sopportare le angherie
delle guardie del campo, indiani, che erano sempre pronti ad infierire
sui prigionieri, forse per una malcelata forma di razzismo alla rovescia,
ovviamente con il beneplacito degli inglesi.Ma per sua fortuna Elena aveva la compagnia
ed il cameratismo della principessa Pignatelli e di altre camerate italiane
e tedesche. E, di tanto in tanto, Le veniva concesso di partecipare, insieme
alla principessa a qualche raro colloquio con il principe Pignatelli, con
Di Nardo o con Picenna, reclusi nel settore maschile del campo. Tuttavia
non si deve pensare che nel campo ci fossero soltanto fascisti; a Padula
erano state recluse anche persone che non avevano commesso "crimini
fascisti"; erano persone che, per loro sfortuna, si erano trovate
a dar fastidio, o non avevano voluto inchinarsi ad un qualche altezzoso,
rapace e tracotante ufficiale "alleato".Il 25 maggio 1945 il campo di "Padula"
fu chiuso; molti civili, giudicati innocui e ravveduti dagli ufficiali
del campo, furono rimessi in libertà; ormai la guerra era finita.Tanti altri invece furono trasferiti nel
"R civilian internee camp di Collescipoli" (Terni), dove
"R" sta per "Recalcitrants". Il campo
era tenuto dagli inglesi. .Ritenevano, gli "Alleati", che i recalcitrants
dovessero essere ulteriormente rieducati, o che fossero addirittura
incorreggibili.In questo campo fu selezionata quindi
l’aristocrazia spirituale del Fascismo.Elena Rega e Maria Pignatelli furono,
giustamente, trasferite a Collescipoli, onoratissime del titolo di "recalcitrants".Ma la perfidia inglese giunse ad immaginare
un sistema per dividere italiane da tedesche: furono scelte alcune tra
le più altezzose, rozze e presuntuose prigioniere tedesche perché
imponessero alle italiane i lavori più avvilenti. Queste umiliazioni
ferirono profondamente tanto Elena Rega che la principessa Pignatelli.
Ma il loro morale non ne riuscì fiaccato, anzi dobbiamo pensare
che le due gentildonne, più che mai legate dal cameratismo consolidato
in anni di comuni sofferenze fisiche e morali, avessero elevato il loro
morale e la grinta al massimo, se dobbiamo credere a quanto scrive uno
storico comunista: «La principessa Maria Pignatelli organizza
cerimonie celebrative del fascismo e perfino sfilate».1 Ma le
angherie degli inglesi non per questo erano meno dispotiche: si pensi che
un soldato inglese arrivò a freddare cinicamente sul fatto la giovane
camerata Nicoletta de Terlizzi, sotto gli occhi delle sue esterrefatte
compagne di reclusione, perché si era sdegnosamente rifiutata di
andare a ballare con lui.2 *** Elena Rega tornò alla vita civile
dopo l’amnistia del giugno 1946.La vita civile! Era stata licenziata per….
"abbandono di posto" ! No, non era una barzelletta; soltanto
i "superiori" non avevano saputo trovare nella sua carriera burocratica
una qualsiasi piccola ombra a cui appigliarsi per licenziarla, per liberarsi
di una così ingombrante vestale del dovere, della legalità
e della dirittura morale; e per giunta fascista.Gli avvocati Nando Di Nardo e Francesco
Saverio Siniscalchi (da poco quest’ultimo tornato dalla RSI, Di Nardo aveva
anche lui recuperato la libertà in seguito all’amnistia) la difesero
nella causa che fu intentata ed ottennero la riassunzione della camerata.Ma non era finita; la fedele seguace dell’Idea
cadde sotto la scure dell’epurazione.Anche Tonino de Pascale aveva ripreso
la vita civile e, com’era nell’ordine delle cose, si sposarono.Elena poté dispiegare le sue doti
affettive e pratiche nella creazione di una nuova famiglia, una nuova cellula
della Società. E nell’allevamento e nell’educazione di due splendide
figlie, ma anche di moltissimi affezionatissimi cani e gatti.Un romanziere fantasioso e attento agli
effetti emozionali sui lettori, chiuderebbe qui la storia a lieto fine
di Elena.Ma questa è una storia vera; Elena
Rega de Pascale l’ha scritta con la Sua vita intensamente e rigorosamente
vissuta. La famiglia, fulcro dei suoi interessi vitali, non l’ha distratta
dai suoi doveri sociali, anzi, anche nel nome della famiglia, per l’avvenire
della Sua famiglia e per l’avvenire di tutte le altre famiglie, Elena Rega
de Pascale ha continuato la sua battaglia rigorosa e attenta per il Fascismo,
marciando idealmente a fianco al marito, nel Fronte dell’Italiano, nei
primi fervidi anni del MSI e nel MIF di nuovo con la principessa Maria
Pignatelli .E continuò a partecipare alle cerimonie
celebrative del fascismo con lo stesso fervente animo e con la stessa incorruttibile
fede della giovane Elena Rega, quella irriducibile "recalcitrant",
reclusa nell’"R internee civilian camp di Collescipoli". NOTE1 Pier Giuseppe Murgia, Il vento del
Nord, SugarCo Edizioni, Milano, 1975, p. 123.2 Lettera che la principessa scrisse a
David Rousset (fine 1949). Archivio di Stato di Cosenza, b. 32, f. 43,
Sf. 5.NUOVO FRONTE N. 228 Maggio 2003 e N. 229 Giugno 2003.
MARIA
PIGNATELLI E IL FASCISMO CLANDESTINO AL SUDFrancesco Fatica
Maria era la figlia prediletta
dell’Ammiraglio conte Giovanni Emanuele Elia, nacque a Firenze nel 1894,
crebbe nella piena adesione alla massima "Vivere pericolosamente’’,
poi adottata anche dai fascisti, praticò sport audaci e amò
rischiare in lunghe e temerarie navigazioni a vela.Sposò, molto giovane, il marchese De Seta, ma dopo due anni
si separarono.Maria e Valerio Pignatelli si incontrarono una prima volta, ma presero
vie diverse. Molto più tardi, nel 1942, quando di sposarono, pur
essendo già maturi, unirono due caratteri avventurosi ed impetuosi,
entrambi prorompenti nel più appassionato amor di patria, spinto
fino ad osare l’estremo sacrificio. Va aggiunto, comunque, che non era
impossibile trovare tali valori in uomini, donne, giovani ed anche giovanissimi
cresciuti nel clima fascista.Due caratteri molto simili dunque, con interessi e forti sentimenti
comuni, si incontrarono e tavolta si scontrarono, giungendo però
ad ottenere, in un comune afflato, la conquista delle mete agognate, essendo
fervidi esponenti di una certa nobiltà che ancora conservava gelosamente
il culto del coraggio, dell’onore e della dedizione quasi fanatica alla
Patria.A Napoli, a partire dal dicembre del ’43, i Pignatelli riuscirono a
intraprendere rapporti "amichevoli e cordiali’’ con il mondo dell’antifascismo
e con le massime autorità del governo badogliano nonché degli
eserciti di occupazione, al solo scopo di ricavarne informazioni preziose
di carattere politico e militare.I Pignatelli, come ho scritto in un precedente articolo, ebbero stretti
rapporti con i fascisti clandestini di Napoli e dintorni, di cui diressero
l’attività, collegandola a quella delle altre province occupate
dall’invasore.Intanto aveva preso contatto con Pignatelli anche il Tenente di Vascello
Paolo Poletti, agente speciale della RSI, nome in codice Paolo Masi, che
era riuscito ad infiltrarsi nell’OSS (Office of Strategic Service, il servizio
segreto americano, che nel dopoguerra diventò la CIA).Giovanni Artieri, nella sua Cronaca della Repubblica Italiana
racconta come il principe e la principessa si sistemarono strategicamente
in una villetta sulla centrale collina di Monte di Dio, nella piazzetta
del Calascione, villetta che fu frequentata da intellettuali antifascisti
e dal più qualificato mondo militare inglese e americano presente
a Napoli, dalle massime autorità del governo del "Re’’, dal
generale Wilson - con cui Pignatelli si era stretto d’amicizia in circostanze
tragiche in Russia, durante la rivoluzione – dai capi dei servizi segreti
militari (l’Intelligence Service, inglese – l’OSS, americano – il SIM,
italiano), dai capi dell’amministrazione di occupazione (AMGOT, Allied
Military Government of Occupied Territory), dal prefetto badogliano, dai
generali "alleati’’ di passaggio per la città.A tutti questi nemici i principi Pignatelli, soffocando ogni repulsione,
offrivano ricevimenti e lauti pranzi, in una cornice aristocratica abbagliante
e… "con roba calabrese’’ allora irreperibile a Napoli, ottenendone
preziose informazioni militari e politiche1.Scrisse Giovanni Artieri del principe e della principessa2:
"Lavoravano, insomma nel rosso dell’uovo. Apparivano insospettabili
agli occhi inglesi e americani; Valerio per le innumerevoli relazioni collegate
con la sua vita negli Stati Uniti, per la sua amicizia con Alexander Kirk
e innumerevoli diplomatici americani e inglesi; lei, per uguali relazioni,
specialmente nell’establishment britannico e fin quasi ai gradini del trono;
perfetti inoltre nelle lingue che parlavano con l’accento di Oxford, passaporto
di efficacia insuperabile presso il mondo anglossassone. Così tra
l’ottobre 19433 e l’aprile 1944, nel cuore stesso di
Napoli e del mondo antifascista e anglo-americano, visse e operò
una cellula binaria singolarissima, che animò gran parte della ‘resistenza’
nell’Italia meridionale’’.Pignatelli e sua moglie raccoglievano larga messe di notizie preziose
per la RSI, ma anche, ovviamente, per l’attività clandestina.Intanto al principe fu trasmesso, per radio, l’ordine di recarsi nella
RSI, lasciandosi però la possibilità di tornare al Sud. Pignatelli
riuscì ad ottenere un lasciapassare, ma soltanto per sua moglie,
attraverso i buoni uffici del T.V. Paolo Poletti (infiltrato, come si ricorderà,
nell’OSS americano). Infatti la principessa, in quanto donna, avrebbe suscitato
minori sospetti.Maria Pignatelli, accompagnata dal dott. Avallo, genero del questore
fascista Stracca, fece un primo tentativo di passaggio delle linee il 2
aprile, nella zona dell’8a Armata, tra Vasto e Lanciano (zona
conosciuta abbastanza dettagliatamente da Nando Di Nardo, del direttivo
clandestino fascista). Ma furono fermati dal FSS (Field Security Service,
il controspionaggio inglese) e per quattro giorni di sospettosi controlli
trattenuti in zona. Finalmente furono rilasciati per intervento del T.V.
Poletti dell’OSS.Tornata a Napoli, Maria ritentò il passaggio il 9 seguente,
giorno di Pasqua, accompagnata da Paolo Poletti, ma anche, purtroppo, dal
Ten. Nuvolari del SIM, (Servizio Informazioni Militari, badogliano) che
però prendeva ordini direttamente dagli inglesi. Nuvolari, ovviamente
nascondendo i suoi intenti, si era infiltrato nell’organizzazione di Pignatelli,
avendone guadagnata la fiducia con fervorose e cordiali dichiarazioni di
fede fascista e di strenua volontà di riscattare l’onore nazionale.Questa volta il passaggio delle linee fu tentato nella zona di Cassino,
dove operava la Va armata americana.Poletti e Nuvolari accompagnarono la principessa fino al punto in cui
Ella si avviò a passare le linee inoltrandosi poi, arditamente,
nei campi minati della terra di nessuno.A Roma Maria Pignatelli si recò dagli intimi amici Marincola
di S. Floro, che la ospitarono, ma che soltanto più tardi scoprì
impegnati nel doppio gioco; si incontrò quindi con Barracu, venuto
apposta da Milano e fu portata prima da Kesserling e subito dopo in aereo
da Mussolini, che voleva essere minutamente informato sull’attività
clandestina fascista e voleva soprattutto essere sicuro che nessuna provocazione
fosse attuata, facendo così evitare sanguinose rappresaglie in grado
di accendere la miccia della guerra civile anche al Sud.Fu stabilito un cifrario sulla base, in chiave nove, della poesiola
satirica "La vispa Teresa’’, allora molto nota, ed un codice da adoperare
nella trasmissione per i prigionieri di guerra (Pignatelli era "Il
Cappellano’’, Barracu era "Ciccio’’, Mussolini "l’autocarro’’
e via di seguito). Prima di ripassare le linee per ritornare a Napoli la
principessa lanciò per radio, nelle trasmissioni dalla radio nazionale,
questo messaggio convenzionale al marito: "Bertuccia Maria, Vittoria
Bertucci, Alba Mercoles’’4.Maria Pignatelli tornava a Napoli accompagnata dall’affascinante attrice
cinematografica russa Vittoria Odinzova, che era stata fidanzata del figlio
e con la quale era rimasta in amicizia. Sulla misteriosa comparsa di questa
avvenente donna sono state fatte mille illazioni; scartando le giustificazioni
piuttosto banali portate poi al processo del principe, viene spontaneo
collegare una bella e avventurosa attrice a vicende di spionaggio. Si disse
che Poletti avrebbe chiesto di avere l’affascinante attrice a Napoli, e
fu spiegato perché ne era l’amante, ma noi sappiamo che Poletti
era un agente speciale della RSI. La Odinzova avrebbe potuto molto bene
giocare il ruolo della "Mata Hari’’, allargando così la rete
di informatori già esistente.Ma l’Intelligence Service, che aveva infiltrato il suo agente Nuvolari,
essendo al corrente della vera identità della principessa – che
aveva inutilmente usato la precauzione di attraversare le linee sotto il
cognome da ragazza (Maria Elia) – non appena questa ritornò al Sud,
pretese dagli americani l’arresto dei principi, nonostante le disperate
manovre del Tenente di Vascello Poletti, il quale per salvare i principi,
finì per scoprire il proprio gioco.Fu anch’egli arrestato e torturato ferocemente, fino a farlo impazzire
in una villetta isolata alle falde del Vesuvio, nei pressi di Torre del
Greco, dove gli "alleati’’ tenevano i loro "interrogatori’’.Poletti non parlò. Ormai ridotto ad un povero essere urlante
fu tradotto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (CE) ed ivi rinchiuso
nella cella n. 8, la cella imbottita riservata ai pazzi furiosi. E siccome
si dibatteva urlando ingiurie e strappandosi i vestiti di dosso, fu denudato
del tutto e ammanettato. Ma lui continuò a sgolarsi rabbiosamente,
lanciando ingiurie sempre più sanguinose agli angloamericani.Il 19 maggio del ’44, il sergente americano di guardia, indispettito,
con la prepotente arroganza degli invasori – un piccolo sergente, ma tracotante
di proterva iattanza, un sergente precursore del grosso sergente Bush di
oggi – lasciò aperta a bella posta la porta della cella e, non appena
Poletti continuando ad urlare, nudo ed ammanettato, uscì nel corridoio,
gli scaricò addosso la pistola di ordinanza.Il principe e la principessa, probabilmente a causa delle loro amicizie
importanti e forse anche per soffocare lo smacco delle compromissioni delle
alte personalità che erano state loro ospiti, furono "interrogati’’
con metodi meno feroci, ma psicologicamente spossanti. La principessa,
considerata più debole, fu messa al muro due volte, inscenando finte
fucilazioni. Nei primi tempi furono detenuti nella villa De Falco sulle
pendici del Vesuvio, nei pressi di Torre del Greco: forse la stessa villa
dove era stato torturato il martire Poletti e, prima e dopo di lui, altri
Agenti Speciali della RSI.Intanto anche Di Nardo fu compromesso per una lettera inviata a Roma
al barone Marincola di San Floro a mezzo del Tenente Sorrentino.Avvenne la delazione del barone o di sua moglie, americana, che decise
probabilmente di "servire gli interessi del suo Paese in guerra’’,
come scrive ancora l’Artieri. Ne seguì l’arresto di Di Nardo, che
era subentrato a capo dell’organizzazione clandestina fascista e, naturalmente,
del Tenente Sorrentino. È da pensare che era stata segnalata in
precedenza anche la principessa Pignatelli.Risultati vani gli interrogatori fatti dagli "alleati’’, i Pignatelli
furono passati al CS (che aveva sede a Napoli in Via Fiorelli n. 12) capeggiato
dal maggiore Pecorella, dei CC.RR (Carabinieri Reali), che, tra le altre
angherie, in stato d’ira – ma era finta e premeditata quest’ira – arrivò
a colpire l’anziana principessa con il calcio della pistola sulla fronte,
provocandole una ferita lacero-contusa che sanguinò abbondantemente.
Era appunto questa una manovra meditatamente intimidatoria a doppio effetto,
come vedremo meglio.Per inviare i messaggi dal CS di Via Fiorelli, Pignatelli finì
per servirsi degli stessi militari incaricati di sorvegliarlo, evidentemente
ben disposti a lasciarsi convertire, ed ansiosi di riscattarsi dal servaggio
agli "alleati’’. Quattro di essi furono scoperti e imprigionati, ma
tennero sempre un contegno virile e dignitoso, alla pari degli altri detenuti
politici.Arrestato anche Di Nardo, al vertice dell’organizzazione restò
de Pascale.A dargli man forte nel ricollegare gli elementi dell’organizzazione
clandestina scompaginati dai sopravvenuti arresti, attraversò le
linee il Guardiamarina Bartolo Gallitto degli NP della Xa. Gallitto,
agente speciale, richiese l’invio di un bravo radiotelegrafista, che fu
paracadutato prontamente, ma si rivelò purtroppo un agente doppio
che tradì; così furono arrestati gli agenti speciali operanti
a Napoli e, con essi, anche de Pascale ed Elena Rega di cui ho parlato
in un precedente articolo.Dopo l’occupazione di Roma, il principe fu tradotto a Regina Coeli.
Qui, a metà luglio, ricevette in modo del tutto insolito – dati
i regolamenti carcerari – la visita di suo cognato, il principe Antonio
Pignatelli di Terranova, che fu guidato direttamente nella sua cella, accompagnato
dal procuratore generale del Tribunale americano di Roma, presentatogli
come un caro amico. Il cognato si offrì di tirarlo fuori dal carcere
con l’aiuto dell’amico americano, ma Pignatelli rifiutò recisamente,
a meno che non fossero contemporaneamente liberati la principessa e gli
altri imputati.Dopo aver trascorso un paio di mesi a Regina Coeli, Pignatelli fu trasferito
nel campo di concentramento di Padula, ricavato nella celebre Certosa,
dove incontrò altri duemila camerati colà ristretti, polarizzando
ogni attività politica e morale degli internati.Il 19 marzo 1945 fu trasferito nel carcere di S. Giovanni a Catanzaro
per essere processato da quel Tribunale Militare. Condannato a soli 12
anni di carcere per la buona disposizione dei giudici del Tribunale Militare
– ma anche e soprattutto per la condiscendenza lungimirante di alcuni di
quegli "alleati’’ che già da allora pensavano a preservare
i fascisti in funzione anticomunista – fu scarcerato il 1° luglio 1946,
usufruendo dell’amnistia Togliatti, che era stata concessa, invece, come
tutti sappiamo, per salvare i criminali comunisti.Maria Pignatelli, al contrario, non fu mai processata: fu tenuta in
vari campi di concentramento, sottraendola, così, alla pervicace
e persecutoria "giustizia democratica’’ del Regno di Vittorio Emanuele
prima, e di Umberto poi. E quegli "alleati’’ anticomunisti che vollero
preservarla, ebbero buon fiuto, perché, come vedremo, seppe essere
un’efficace e strenua combattente anticomunista, ma fu anche antidemocratica,
perché seppe sempre conservare i principî basilari dell’idea
fascista, come purtroppo non è avvenuto per tanti presuntuosi "ducetti’’.Maria Pignatelli aveva avuto modo di mostrare le sue altissime qualità
quando svolse la sua missione in RSI, missione che iniziò affrontando
tranquillamente le insidie dei campi minati durante l’attraversamento delle
linee nella zona di Cassino e che portò a termine con perizia di
diplomatico, facendosi apprezzare e stimare da italiani e da tedeschi.
Fu ricevuta anche da Kesserling nel suo quartiere generale sul monte Soratte;
durante una colazione con Barracu e Kesserling, questi ebbe a scrivere
su di un cartoncino, che era sul tavolo: "Se l’Italia ha molte donne
intrepide come lei è una nazione che non può morire’’.Ed effettivamente Maria Pignatelli fu una donna intrepida anche quando
fu "interrogata’’ dagli "alleati’’, che usarono mezzi di tortura
morali, di estrema violenza psicologica ed intimidazioni scientificamente
studiate, arrivando a metterla al muro per ben due volte per finte fucilazioni.Passata poi al C.S. (controspionaggio badogliano), fu minacciata con
la pistola in pugno dal Capitano dei CC.RR. del C.S. De Fortis, che la
schiaffeggiò "come una qualsiasi ladruncola’’. Sempre nei locali
del C.S., essendo stata percossa, come accennato, col calcio della pistola
dal Maggiore Pecorella, fu vista con la fronte sanguinante dall’architetto
de Pascale colà detenuto, che la incontrò – restandone desolatamente
sgomento per lei – mentre usciva insanguinata dall’ufficio del Maggiore,
intanto che l’architetto vi veniva introdotto. Non è da ritenere
che l’incontro fosse stato un caso fortuito; appare chiaro invece che la
coincidenza fu voluta per ottenere un doppio effetto depressivo, effetto
devastante poi per de Pascale, il quale vedeva una camerata che venerava,
ridotta a grondare copiosamente sangue dalla fronte restandone tutta imbrattata,
sul viso, sul collo, sulla veste. Il feroce aguzzino sapeva bene che la
fronte è una zona molto irrorata dal sangue e che quindi una ferita
in quella zona produce un effetto clamoroso.Anche la principessa fu portata a Roma e rinchiusa alle Mantellate
(il carcere femminile), a disposizione degli inquirenti "alleati’’
e poi nel campo di concentramento di Padula, dove si ritrovò con
la camerata Elena Rega, di cui ho avuto occasione di parlare su questa
rivista.È da ricordare che, secondo quanto testimoniò Antonio
Bonino, vice-segretario del P.F.R., Mussolini, richiedendo la consegna
del principe Valerio Pignatelli e Signora, offrì in cambio qualsiasi
persona, non escluso lo stesso Ferruccio Parri.Alla chiusura del famigerato campo di Padula, Maria fu trasferita in
quello di Collescipoli (Terni) tenuto dagli inglesi e da qui in quello
di Miramare (Rimini), anch’esso inglese, da dove riuscì ad evadere
audacemente, conducendo poi vita clandestina, sotto i falsi nomi di Teresa
Marchi e Teresa Manfredi, fino al 9 dicembre 1947 e cioè fino all’entrata
in vigore del trattato di pace.In tutte le carceri ed i campi dove fu rinchiusa, la principessa divenne
guida morale e politica delle altre internate. Anche lo storico comunista
Pier Giuseppe Murgia ha ammesso che la principessa svolgeva a Collescipoli
intensa attività politica tra le recluse ed "organizzava perfino
sfilate’’.Tornata alla vita civile, si interessò sempre di aiutare i camerati
perseguitati dalla sventura, impersonata dagli antifascisti più
spietati.Maria Pignatelli è quindi degna di essere iscritta nell’albo
d’oro delle donne fasciste che tutto diedero alla Patria, quali furono
le Ausiliarie, quali le giovanissime e meno giovani franche tiratrici di
Firenze e di altre città.Va aggiunto che, dopo la guerra, mentre ancora si nascondeva sotto
nomi di copertura, fondò il MIF (Movimento Italiano Femminile, Fede
e Famiglia) che si proponeva di mantenere alta la fiamma della fede fascista
attraverso le sue pubblicazioni e la sua attività. Svolse anche
una valida ed intensa attività assistenziale verso i fascisti perseguitati
dall’antifascismo militante e dalle istituzioni "democratiche’’. Mi
propongo di scriverne in un prossimo articolo.Il MIF organizzò le donne in tutta Italia, naturalmente cercò
di rintracciare e di ingaggiare tutte le Ausiliarie che riuscì a
contattare. Ma non reclutò soltanto donne; molti uomini vi parteciparono
attivamente, tra questi, naturalmente spiccava Valerio Pignatelli.Maria raccontava che il MIF le era stato ispirato dallo stesso Mussolini,
quando l’aveva ricevuta a Gargnano il 16 aprile 1944, durante la sua missione
in RSI. Il 18 aprile fu fondato il SAF.Ha scritto Roberto Guarasci: "La coincidenza del periodo, la sostanziale
identità di intendimenti e di compiti, la esclusiva composizione
femminile, fanno pensare che nelle intenzioni di Benito Mussolini i due
movimenti dovevano essere quasi due facce della stessa medaglia, destinato
l’uno alle terre occupate e l’altro ai territori della RSI5’’,
rilevando ed evidenziando la singolare coincidenza che due soli giorni
dopo si concretizzò nella nascita del SAF nella Repubblica Sociale
Italiana.Il MIF ebbe momenti di grande fervore e fu in relazione con molte organizzazioni
politiche, anche all’estero, in Europa ed in America, come vedremo in seguito
dettagliatamente.La principessa fu la segreteria generale del MIF, e donna Rachele Mussolini
ne fu la presidentessa.Nel dopoguerra il principe e la principessa scrissero molti appunti
per redigere un libro di memorie sull’attività clandestina. Ma il
6.2.1965 Valerio Pignatelli morì a Cerchiara (CZ) senza aver portato
a termine la sua fatica.Le sue carte furono consegnate, anni dopo, dalla principessa al giornalista
Marcello Zanfagna, deputato del MSI-Dn, il quale, preso da mille impegni
contingenti, non seppe trovare il tempo per portare a termine il libro
che si era proposto di pubblicare.Peggio ancora, i documenti di Pignatelli, insieme a tutte le carte
di altro genere, andarono ineluttabilmente perduti in una disgraziata vicenda
di alienazione di immobile, alla morte prematura di Marcello Zanfagna.Ci restano oggi il rapporto che Pignatelli inviò il 7.6.1948
alla Corte Centrale di Disciplina del MSI, la memoria di Nando Di Nardo,
le ripetute testimonianze dirette dello stesso Di Nardo e dell’arch. Antonio
de Pascale, i quali ressero, dopo Pignatelli, il comando generale della
lotta clandestina fascista nell’Italia meridionale, e l’intervento di Bartolo
Gallitto al Convegno di Studi Storici organizzato dall’ISSES a Napoli nel
novembre 1998.Prima di morire, in un incidente stradale in Calabria, nei pressi di
Nicastro (oggi Lamezia Terme) la sera del 10 marzo 1968, Maria Pignatelli
aveva incaricato l’avv. Verrina di depositare l’archivio del MIF presso
l’Archivio di Stato di Cosenza dove è possibile consultarlo ancora
oggi. Attesta Guarasci che Maria Pignatelli "aveva scritto un lungo
memoriale sul passaggio delle linee e sul colloquio avuto con il Duce,
intitolato Ok, Storia della resistenza al Sud, memoriale che aveva
intenzione di pubblicare e che sembra fosse inizialmente contenuto nel
fondo da noi consultato e riordinato’’.Purtroppo se ne è perduta ogni traccia; si può, a ragion
veduta, ipotizzare che fosse contenuto tra le carte consegnate a Zanfagna. NUOVO FRONTE N. 230 Settembre 2003. (
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