COME SI GIUNSE A MARZABOTTO
COME SI GIUNSE A MARZABOTTOFilippo Giannini Il 15 luglio 1989 il sig.
Petacco presentò in televisione una delle settimanali trasmissioni
“I giorni della Storia”, la “sua storia” naturalmente. Sul video apparve
una signora presentata dal Petacco esattamente con queste parole. “La signora
Clara Cecchin aveva otto anni il 19 agosto 1944, abitava a Valla, vicino
S. Terenzio Monti, sulla strada per Marzabotto. Il suo paese fu visitato
il 19 agosto 1944 dal famoso maggiore Reder delle SS con i suoi uomini
e molti fascisti: G.N.R., Brigate Nere, forse anche Xa Mas che lo accompagnavano
per fare quello che potete immaginare...“. A questo punto il Petacco diede
disposizione di immettere, in video, un breve filmato sull’episodio, quindi
riprese la trasmissione in diretta e riferendosi alle vittime disse: “...gente
normale, bambini piccoli anche feti, perché i fascisti e i tedeschi
sventrarono anche alcune donne incinte. Sì, c'erano anche i fascisti
e li comandava un certo Ludovici”. Dopo di che passò la parola alla
signora Cecchin che testimoniò, efficacemente, il dramma da lei
vissuto. In quel massacro dove morirono 107 persone la signora Cecchin
fu l'unica miracolosamente sopravvissuta. Nella sua chiara e raccapricciante
esposizione, sempre pungolata da Petacco, la signora Cecchin nominò
sette volte i “tedeschi” e mai i “fascisti”. Terminata la testimonianza
della superstite, Petacco riprese: “La lunga striscia di sangue tracciata
da Reder e dai suoi dalla Versilia su in Lunigiana fino a Marzabotto, non
fu un atto di ferocia gratuita, aveva un suo disegno strategico. I partigiani
erano diventati una forza importante. Impegnavano tre divisioni tedesche
e i tedeschi non avevano molte divisioni a disposizione sulla linea Gotica
che era a ridosso della linea di sangue tracciata da Reder. Kesselring
voleva avere le spalle al sicuro, quindi diede ordine a Reder di fare terra
bruciata e spargere il terrore. I partigiani, in quel momento erano già
forti, potevano contare su circa 80.000 uomini impegnati in tutto il Nord
Italia. Operavano ormai da mesi perché le prime formazioni erano
nate subito dopo l'armistizio nel tardo autunno del '43”. Nell'accusa lanciata da Petacco,
circa la presenza di “fascisti” nelle stragi, per quante ricerche abbiamo
fatto ci risulta che nessun “fascista” o componente dell'esercito della
R.S.I. abbia partecipato a quella serie di massacri. Di Ludovici, comandante la
Brigata nera di Carrara, scrive Giuseppe Mayda in “Storia illustrata” n.
75 del Giugno 1972 pag. 67 ma si tratta di una operazione compiuta il 23
Agosto 1944 dalle S.S. a Vinca (20 Km. da Fivizzano - Massa Carrara) da
uomini del Battaglione di Reder. Il reparto italiano non entrò nel
paese. Reder non era presente. Da “I giorni dell'odio” pag.
XXIV Alberto Giovannini attesta: “Uno degli episodi più noti della
rappresaglia tedesca è rappresentato dalla strage di Marzabotto.
Una cosa che al riguardo non è detta, nella commemorazione ufficiale,
è però che, con la popolazione locale, furono massacrati
il cappellano delle Brigate nere di Bologna e alcuni fascisti che, conosciute
le intenzioni germaniche, si erano precipitati a Marzabotto per tentare,
in qualche modo, se non di evitare, almeno di ritardare la feroce esecuzione
di massa”. Mancano, purtroppo, più approfondite prove su questa
interessante testimonianza. Infatti, se quanto riferito da Giovannini rispondesse
a verità, si vorrebbe far passare per assassini, secondo la tesi
di Petacco, coloro che, in effetti, sarebbero dei martiri. Altra dichiarazione simile
a quella fornita da Giovannini, ci viene data da Angelo Carboni nel: “Elia
Comini e i confratelli martiri di Marzabotto” pag. 86 “Un giovane, allora
studente di teologia Alfredo Carboni mi racconta come la vigilia di San
Michele, il 28 settembre '44 trovandosi nella località Fornace,
poco sotto la chiesa parrocchiale di Salvaro, un soldato della Guardia
Repubblicana, già suo compagno di scuola alle elementari, di cui
non può citare il nome, gli disse chiaramente: “O Alfredo, scappa
e mettiti in salvo, perché domani ci sarà qui una tale razzia,
che non resterà nemmeno il filo per tagliare la polenta”. Frase
caratteristica questa del nostro Appennino, per significare che non sarebbe
rimasto nulla. Quale è stata la “lunga
striscia di sangue tracciata da Reder”? A parte il quadro “militare” ricostruito
con cifre buttate là disinvoltamente, “la lunga striscia” è
fantasiosa trovata del Petacco perché trattasi di azioni di rappresaglia
svolte dallo stesso reparto in zone di retrovia distanti tra loro 200 Km.
circa e in tempi diversi. Chi era Reder e quali furono le giustificazioni
dei tedeschi per tante atrocità? Per una serena valutazione storica,
che non debba risentire di condizionamenti emotivi, è necessario
immergersi in quel drammatico periodo che fu la guerra: il '43 e il '45.
In quegli anni l'attività partigiana si manifestava nel Centro Nord
Italia con imboscate, attentati alle vie di comunicazione, colpi contro
singoli soldati o civili. Questi fatti, che i partigiani chiamavano “azioni
di guerra”, lasciano comunque comprendere le cause che portarono a spietate
rappresaglie nell'Appennino emiliano. A seguito di queste “azioni di guerra”,
il Maresciallo Kesselring, Comandante supremo delle forze tedesche in Italia,
lanciò il 1 Agosto 1944, un manifesto con il quale avvertiva che,
qualora quelle “azioni” fossero continuate: “...ha ora impartito alle proprie
truppe i seguenti ordini: 1) Iniziare nella forma più
energica l'azione contro le bande armate di ribelli, contro i sabotatori... 2) Costituire una percentuale
di ostaggi in quelle località dove risultano esistere bande armate
e passare per le armi i detti ostaggi tutte le volte che nelle località
stesse si verificassero atti di sabotaggio”. Kesselring era un soldato
d'onore, ma chi eseguì gli ordini non lo era. Kesselring, nel compilare
il sopracitato ultimatum, si avvalse delle Convenzioni Internazionali firmate
da quasi tutti i Paesi. Tra questi l'Italia e la Germania. Dal volume “Diritto
Internazionale” alla voce “Combattenti” fra l'altro si enuncia: “2. Sulla
base delle Convenzioni del L'Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre...si
possono classificare quattro categorie di legittimi combattenti. Nella prima rientrano i militari
delle Forze Armate regolari di uno Stato belligerante, purché indossino
una uniforme conosciuta dal nemico, portino apertamente le armi, dipendano
da ufficiali responsabili e dimostrino di rispettare le leggi e gli usi
di guerra... 4. Gli illegittimi combattenti
vengono dovunque perseguiti con pene severissime e sono generalmente sottoposti
alla pena capitale. Nella guerra terrestre i franchi
tiratori che operano nelle retrovie nemiche, infiltrandosi alla spicciolata
sotto mentite spoglie, vengono passati per le armi in caso di cattura,
lo stesso dicasi per i sabotatori”. Sempre dal “Diritto Internazionale”
voce “Rappresaglia”: 2. La rappresaglia si qualifica
innanzitutto come “atto legittimo”... La rappresaglia, condotta obiettivamente
illecita, diventa, per le particolari circostanze in cui viene attuata,
condotta lecita. La rappresaglia è, fondamentalmente, una “sanzione”,
cioè una reazione all'atto illecito e non un mero atto lecito, la
cui liceità deriva dall'esistenza di un precedente atto illecito. ...Poiché la rappresaglia
si pone come “risposta” ad un illecito, per essere legittima deve obbedire
a queste condizioni: vi deve essere stata lesione di un diritto o di un
interesse giuridico dello Stato autore e deve essere mancata la riparazione...non
può mai violare le leggi umanitarie, cioè fondamentali ed
elementari esigenze di umanità...La scelta delle misure da infliggere
spetta allo Stato offeso. Questo, però, prima di passare all'azione,
deve assicurarsi che l'offensore non voglia o non possa riparare il danno...Compiuto
inutilmente questi passi, potrà applicare le misure che meglio crederà
uniformando però la sua condotta alle condizioni di legittimità
che abbiamo sopra esposte... La rappresaglia è, cioè, un
atto di violenza isolato nel tempo e nello spazio, avente lo scopo di imporre
il rispetto del diritto in relazione ad una violazione subita, sì
che deve cessare appena riparata l'offesa. La nostra legge di guerra, approvata
con R.D. 8-VII-1938 n. 1415, regola poi la materia delle ritorsioni e delle
rappresaglie in tempo di guerra con gli art.: 8-9-10, All. A...(1) Come postilla è interessante
riportare quanto previsto, sempre dal “Diritto Internazionale”. 5...L’art. 33 della IV Convenzione
di Ginevra del 1949, in deroga a quanto prima era consentito dall'art.
50 dei regolamenti del L'Aja del 1899 e del 1907, proibisce in modo tassativo
le misure di repressione collettiva, di cui si ebbe abuso delittuoso nell'ultimo
conflitto”. (Dettato non rispettato, dopo, dagli americani dal Vietnam
alla Somalia). Stabilite le parti essenziali del “Diritto Internazionale”,
come si presentava il fenomeno “partigiano” nel territorio bolognese? Le azioni partigiane, fra
la fine del '43 e gli inizi del '44 furono isolate e a carattere individuale
fino all’attentato condotto contro il Federale Eugenio Facchini, ucciso
con sette colpi di pistola il 26 gennaio 1944 a Bologna. Agli inizi di quell'anno i
socialisti non disdegnavano di continuare il dialogo, iniziato da tempo,
con esponenti della R.S.I. e si mantennero quindi decisamente neutrali.
Chi prese, con decisione, l'iniziativa di condurre la lotta contro il fascismo
furono i comunisti (gradualmente, seguirono tutti gli altri partiti, per
non perdere l'opportunità di schierarsi dalla parte di coloro che
condussero la lotta contro il fascismo e “l'invasore nazista” nell'interesse
dei futuri vincitori). Nelle montagne si organizzarono
bande di partigiani, delle quali parleremo più innanzi. Nelle città i comunisti
riuscirono ad organizzare gruppi di guerriglia. Nei primi mesi del '44
a Bologna i comunisti, guidati da Giuseppe Alberghetti, nome di battaglia
“Cristallo”, furono i primi a raccogliere adesioni per la nuova forma di
guerriglia. Ritengo opportuno riportare
la tecnica adottata dai comunisti per radicalizzare la guerra civile, specialmente
nell'Emilia e, come giustamente rileva Pisanò nella sua “Storia
della Guerra Civile in Italia”, a pag. 1162 “...una tecnica che trova ancora
oggi la sua spietata applicazione in ogni Paese del Mondo (vedi Vietnam)
dove i comunisti tentino la conquista del potere”. Per capire con quale determinazione
i comunisti applicarono quella “tecnica”, anticipo che nelle sole strade
di Bologna furono uccisi, in attentati, più di 450 fascisti o “presunti
tali”. I comunisti, con queste “azioni”, si aspettavano spietate rappresaglie
ma queste, sia per gli ordini di Mussolini, sia per il sangue freddo dimostrato
dai Prefetti, furono rare e, in ogni caso, mai proporzionate alle perdite
subite. Per capire quale fosse la
“tecnica” che i comunisti intendevano porre in essere, riporto un ampio
stralcio del libro “7° Gap.” di Mario De Micheli - Edizioni di Cultura
sociale, Roma 1954: “Sin dall'ottobre 1943 il
partito comunista aveva preso l'iniziativa di costituire le “Brigate d'assalto
Garibaldi” e i “Gruppi d'azione patriottica”: le brigate dovevano operare
sulle montagne, i gruppi dentro la città...I G.A.P. dovevano essere
gli arditi della guerra di liberazione, i soldati senza divisa...Essi dovevano
combattere in mezzo all'avversario, mescolarsi ad esso, conoscerne le abitudini
e colpirlo quando meno se lo aspetta... i complici del fascismo e del tedesco
non avrebbero più dovuto trascorrere i loro giorni indisturbati,
in quiete e tranquillità, avrebbero, invece, dovuto vivere d'ansia,
guardandosi continuamente attorno, trasalendo se qualcuno camminava alle
loro spalle...Portare la guerra e la morte in casa del nemico era insomma
la direttiva con cui sorgevano i G.A.P...”. Ecco come i capi comunisti
riuscirono a superare gli scrupoli morali che nascevano negli animi dei
componenti dei G.A.P. “...creare la mentalità dell'attacco armato
sull'uomo fu oltremodo difficile, occorreva vincere scrupoli e inquietudini
morali oltreché il timore dello scontro diretto col nemico. Se può
essere abbastanza semplice nel fuoco del combattimento “a sangue caldo”
diciamo, colpire e uccidere, non è altrettanto semplice colpire
a sangue freddo con studio, premeditazione e calcolo...Il partito dunque
dovette far sentire la sua volontà in maniera energica, dovette
ancora una volta intervenire, illuminare, spiegare.. È opportuno
aggiungere che, in quell’epoca non si era ancora creato quel clima di eroismo
che ha poi permesso tante memorabili gesta... Ai primi di gennaio, a Bologna,
erano stati organizzati soltanto una decina di uomini con questi criteri;
dieci uomini divisi in due squadre. S'incominciò col deporre
le bombe a scoppio ritardato nei luoghi di residenza del nemico. La prima
bomba di questo tipo fu collocata alla finestra del Comando tedesco di
Villa Spada. I tedeschi che ancora non si attendevano colpi del genere
in Bologna, furono irritatissimi. Lanciarono un manifesto carico di minacce
e imposero il coprifuoco dalle 18 alle 6 del mattino: era il 18 gennaio...”. È difficile credere
che i capi e gli organizzatori di queste “azioni” non conoscessero le “Convenzioni
Internazionali” e le relative deliberazioni del diritto di rappresaglia.
Tutto lascia credere, invece, che si volesse giungere ad estreme esasperazioni
per ovvie finalità politiche che certi ambienti son riusciti, nel
corso degli anni e sino ai nostri giorni, a così ben sfruttare. Ecco, in merito, sempre del
già citato “7° G.A.P.” “L'ostacolo più grande da sormontare
per il timore delle rappresaglie contro la popolazione, il pensiero che
per una azione militare compiuta contro un tedesco o un fascista decine
d'inermi e di innocenti sarebbero stati giustiziati. Allora non era ancora
evidente a tutti che l'unico modo per stroncare il terrorismo dei nazifascisti
fosse quello di non dar tregua al nemico, di raddoppiare i colpi...”. Così operavano i “gappisti”
in città. Come agivano invece le “brigate” in montagna e principalmente
nei più vicini contrafforti appenninici nei pressi di Bologna? In questa località
ed esattamente fra i fiumi Reno e Setta, operava, fra il settembre '43
ed il settembre '44 la formazione armata dei partigiani della “Stella Rossa”,
denominata “Brigata” posta agli ordini di Mario Musolesi di anni 29. La
leggenda racconta che (dalla citata opera “Storia della guerra civile in
Italia” pag. 1176): “i partigiani si batterono con coraggio leonino contro
le S.S. e difesero i monti di Marzabotto palmo a palmo, seminando il terreno
di uomini caduti con le armi in pugno: anche il comandante della “Stella
Rossa” restò fulminato da una raffica nemica; ma alla fine questi
eroi furono sopraffatti e i superstiti riuscirono a stento a raggiungere
le linee anglo-americane...i tedeschi si scagliarono come bestie feroci
contro la popolazione civile della zona e 1850 innocenti caddero massacrati
confondendo il loro sangue con quello dei gloriosi partigiani rossi...”.
A commento di quanto sopra Pisanò continua: “Ma se questa è
la leggenda ben altra è la verità”. Infatti la verità
è completamente diversa. I partigiani uccidevano in agguati tedeschi
isolati, fascisti in divisa e non. I tedeschi, guidati da Reder, regolarmente
scagliarono la loro ira contro le popolazioni indifese e non solo nella
zona di Marzabotto come vedremo appresso. Si chiede Don Carboni nell'opera
già citata (pag. 32): “Si era in tempo di guerra: la guerra ha le
sue tremende leggi di sterminio e di vendetta: se ammazzate un tedesco
(che importanza aveva l'ammazzare un tedesco nello svolgimento e nell'economia
generale della guerra?) verranno fucilati dieci civili... Chi dobbiamo
ringraziare noi, parenti delle vittime, delle reazioni tedesche? Non certo
gli eroi che le provocarono e dopo si eclissarono dandosi alla fuga!”.
Questa è la domanda di don Carboni, giusta e naturale: “Che importanza
aveva ammazzare un tedesco?”. Questa domanda va trasferita
e analizzata nel contesto politico del disegno organico costruito dai più
alti vertici del comunismo internazionale: uccidere un tedesco (o un fascista),
attendere la rappresaglia e, di conseguenza, guidare il terrore e l'odio
dei civili nella direzione desiderata e atteggiarsi, quindi, a giudici
e vendicatori di tante vittime innocenti. Non possiamo che dar atto della
loro cinica abilità. Ma cosa accadde esattamente
a fine settembre 1944 nella zona di Marzabotto? Ancora dal “I confratelli
Martiri di Marzabotto” pag. 34: “Va pure ricordato che qualche giorno prima
della strage qualcuno, segretamente, aveva avvertito la popolazione della
imminente rappresaglia, ma quando si seppe che c'erano famiglie di agricoltori
decisi ad abbandonare tutto per mettersi in salvo, i partigiani li minacciarono
con queste parole: “se non vi uccidono loro, vi uccidiamo noi se andate
via: qui ci siamo noi a difendervi!”. Questa testimonianza è
stata resa da Bruno Paselli, agricoltore di San Giovanni di Sotto di Casaglia...”. Dato che i fascisti non parteciparono
mai ad azioni di stragi, tralasciamo la lunga lista di “azioni di guerra”
condotta dai partigiani nel colpire i militari fascisti (o supposti tali),
in quanto desideriamo seguire la storia del maggiore Walter Reder e delle
sue S.S., principalmente, ma non solo nella zona di Marzabotto. La brigata partigiana “Stella
Rossa” nella primavera del '44 raggiunse la cifra di 500 effettivi. “Si
trattava in gran parte di comunisti o simpatizzanti comunisti che non tardarono
ad assimilare gli spietati sistemi di guerriglia instaurati dagli emissari
del P.C.I.”. Gli attentati contro militari tedeschi iniziarono con proditoria
sistematicità. A Rioveggio due ufficiali tedeschi stavano passeggiando
con due ragazze. Furono presi alle spalle e uccisi. I nazisti concessero
24 ore affinché gli autori dell'attentato si presentassero, dopodiché
scelsero 11 ostaggi. Da quel che si dice a Rioveggio, gli attentatori erano
del luogo, eppure lasciarono fucilare senza intervenire 11 innocenti. I partigiani continuarono
ad uccidere tedeschi e fascisti isolati. Racconta Don Alfredo Carboni,
parroco a Ronca di Monte S. Pietro. Di questi fatti poco eroici se ne verificarono
decine. A Gabbiano di Monzuno, per esempio, due tedeschi che stavano acquistando
uova dai contadini furono sorpresi da una pattuglia partigiana comandata
da un certo “Aeroplano”. I tedeschi capirono subito di non essere in grado
di opporre resistenza e alzarono le mani in segno di resa. Ma i comunisti
spararono ugualmente uccidendone uno. L'altro venne trascinato prigioniero
alla base partigiana. Conoscendo di fama la ferocia dei guerriglieri il
soldato tedesco tentò inutilmente di impietosirli mostrando anche
le fotografie della moglie e dei suoi due bambini. Lo legarono con i piedi
ad un paletto e gli inchiodarono le mani trafiggendole con due pugnali.
Poi lo lasciarono morire così. Il parroco di Riposa (un comune
di Bologna), Don Libero Nanni, nativo del luogo dove si verificò
un altro barbaro massacro, nel quale trovarono la morte anche suoi intimi
parenti, si fece promotore di far erigere un tempietto titolato “Monumento
Sacrario ai Caduti di Piano di Fetta”. Nel quarantesimo anniversario dell'eccidio
fu scoperta una lastra marmorea e una lampada votiva dalla fiamma sempre
accesa. A ricordo dell'evento fu distribuito fra i presenti un foglio commemorativo
ove fra l'altro si legge: Una pagina di storia quasi dimenticala. “Nel
lontano luglio del 1944, nel turbine della guerra sempre più distruttrice,
l'alta valle del Setta e precisamente piano di Setta, fu scossa improvvisamente
dalla feroce, fulminea, terrificante rappresaglia, che seminò morte,
incendi, rastrellamenti. Nella notte del 20 luglio,
in un breve scontro fra partigiani e tedeschi (era una colonna che raggiungeva
il fronte lungo la statale del Setta) ci furono feriti e morirono due tedeschi.
Il 21 luglio trascorse lento e cupo; la mattina del 22 luglio si scatenò
la rappresaglia: rastrellati gli uomini, razziato il bestiame, le donne
e i bambini terrorizzati; gli anziani uccisi in un numero quasi imprecisato:
forse 20. L'età? Dai 60 agli 80 anni! Tutta la valle fu percorsa
dal pianto e dal terrore... Era la prima, grossa rappresaglia della Provincia
di Bologna, preludio alla grande rappresaglia di San Martino, Monte Sole,
Casaglia. Gardelletta, Marzabotto, Pioppe di Salvaro, San Vincenzo, Piano
di Setta - 15 luglio 1944”. Non si presentò alcuno
a rivendicare la responsabilità dell'attentato né da parte
dei partigiani fu tentato alcunché per salvare gli ostaggi. Il 23 luglio 1944 a Pioppe
di Salvaro fu ucciso un altro tedesco. Furono rastrellati 10 infelici e
uccisi a colpi di mitra. Né l'autore (o gli autori) dell'uccisione
del tedesco, si presentò per salvare gli ostaggi né un colpo
di fucile fu sparato dagli “uomini” del “Lupo” per salvare quegli innocenti. L’attività della Brigata
partigiana “Stella Rossa” è un perpetrare di fatti del genere. Non
va dimenticato che, nel frattempo si susseguivano attentati mortali contro
fascisti (o supposti tali) isolati. Ecco, ad esempio, quanto riporta uno
dei “bollettini di guerra” diramato dalla “Stella Rossa”: “10 agosto: Una
pattuglia del 4° distaccamento procedeva al fermo del fascista Bertoletti
Duilio in località Farneto. È stato in seguito giustiziato”
“11 agosto: Una pattuglia del 1° distaccamento procedeva al fermo di
un fascista repubblichino in permesso a Castel dell'Alpi. Veniva recuperato
un moschetto con relative munizioni. Il fascista veniva più tardi
passato per le armi”. “14 agosto da una nostra pattuglia
veniva catturato il fascista Zagnoni Lucio che veniva giustiziato”. E così
di seguito. Tornando alle azioni che riguardavano la guerriglia contro
i tedeschi, si legge sull’“Indicatore Partigiano” n. 4 del 1949 ove viene
riportato uno dei “Bollettini di guerra” della “Stella Rossa”: “I agosto:
Nostra pattuglia in servizio esplorativo si scontrava, nei pressi di Castel
d'Alpe, con una pattuglia guardafili tedesca composta da un sottufficiale
e un soldato. All'intimazione dell'altolà tentarono di fuggire.
Venivano presi, interrogati e confessavano di trovarsi in servizio. Venivano
passati per le armi”. Pisanò osserva: “...lo strano principio, contrario
alle norme e alle convenzioni accettate in qualsiasi Paese e da qualsiasi
esercito, in base al quale dei soldati fatti prigionieri potevano essere
fucilati perché “confessavano di trovarsi in servizio”. Ad ogni azione di questo tipo
seguivano rappresaglie con incendi, distruzioni, massacri di ostaggi: sette
fucilati a Molinelle di Veggio, dieci a Molpelle. Pochi giorni dopo tredici
a Sesso Pontecchio e così di seguito. Nessun partigiano osò
alcunché per tentare di salvare quella povera gente. Eppure si trovavano
nei pressi. Nel frattempo la guerra continuava
e la pressione degli alleati, a sud di Bologna si stava intensificando:
il Comando tedesco aveva necessità di avere le spalle sicure e le
strade senza minacce di attentati. I tedeschi inviarono negli
accampamenti dei partigiani della “Stella Rossa”, alcuni parlamentari con
la proposta che, se i partigiani fossero rimasti al loro posto, senza intraprendere
azioni di disturbo contro i tedeschi questi, a loro volta, si impegnavano
a non iniziare alcuna rappresaglia. I parlamentari tedeschi furono
trucidati. Questo fatto indusse il Comando germanico ad agire con la più
grande decisione. E veniamo ai terribili giorni
di fine settembre 1944 e alla cosiddetta “Strage di Marzabotto”. Marzabotto fu insignita di
Medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione: “Incassata
fra le scoscese rupi e le verdi boscaglie dell'antica terra etrusca Marzabotto
preferì ferro fuoco e distruzione piuttosto che cedere all'oppressore. Per quattordici mesi sopportò
la dura prepotenza delle orde teutoniche che non riuscirono a debellare
la fierezza dei suoi figli, arroccati sulle aspre vette di Monte Venere
e di Monte Sole sorretti dall'amore e dall'incitamento dei vecchi, delle
donne e dei fanciulli. Gli spietati massacri degli inermi giovanetti, delle
fiorenti spose, e dei genitori caduti non la domarono ed i suoi 1830 morti
riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni
di quanto possa l'amore per la Patria”. Abbiamo visto che alcune persone
avevano preavvisato la popolazione dell'imminenza di un grande rastrellamento,
dato che proprio in quei giorni nella zona di Marzabotto apparve un manifesto,
un vero ultimatum, a firma delle SS und Polizeifuehrer-Oberitalien-West,
ove, fra l'altro, era chiaramente indicato: “...1) chi aiuta i banditi
è un bandito egli stesso e subirà lo stesso trattamento;
2) Tutti i colpevoli saranno puniti con la massima severità...Gli
autori degli attentati ed i loro favoreggiatori saranno impiccati sulla
pubblica piazza. Questo è l'ultimo avviso agli indecisi...” Cosicché
a seguito di questi ammonimenti la popolazione locale aveva iniziato ad
allontanarsi dalla zona. Come abbiamo precedentemente indicato, i partigiani
intervennero e proibirono a quella povera gente di mettersi in salvo, costringendoli
a tornare indietro garantendo che, se i tedeschi li avessero minacciati,
i partigiani della “Stella Rossa” li avrebbero protetti. Fra il 20 e il 25 settembre
era affluita nella zona una formazione di “SS PanzerGrenadieren” della
divisione “Reichsfuehrer” ammontante ad 800 uomini circa. Alla loro testa
era il maggiore Walter Reder. Questi era un austriaco di
29 anni. Fu sospettato, a suo tempo, di essere coinvolto nell'assassinio
del cancelliere Dollfuss nel tentativo nazista del 1934. Tentativo vanificato
dal deciso e pronto intervento di Mussolini. Durante l'estate del '44 la
brigata “Stella Rossa” aveva raggiunto una forza di 1500 uomini, ben armati
e riforniti dai continui lanci aerei degli alleati. La strage avvenne, come detto,
nelle alture delimitate dai fiumi Reno e Setta e prese il nome da Marzabotto. I tedeschi iniziarono le razzie
all'alba del 29 settembre, bruciando e massacrando senza distinzione di
sesso e di età: Cresta di Gizzana 81 morti; Casaglia 148; Casa Benuzzi
38; Caprara di Marzabotto 107; S. Giovanni 47; Cradotto, Prunaro e Steccola
145; Cerpiano 49; Sperticano 13; Pioppe di Salvaro 48. In totale 676 morti!
E mentre si perpetravano questi eccidi dove erano i 1500 partigiani? Va detto che gli uomini del
“Lupo” (Mario Musolesi) negli ultimi giorni del settembre '44 erano in
attesa dell'arrivo degli alleati. Avevano allentato la vigilanza e tutti
si erano dati a libagioni, bevevano e si coricavano con le loro donne,
convinti ormai che, per loro, la guerra fosse finita. All'attacco dei tedeschi i
partigiani, anche per l'allentata cautela, non tentarono alcuna difesa
e, mentre alcuni si “ritirarono” verso Monte Sole, altri fuggirono verso
le linee alleate. Chi difese i civili dalla rabbia teutonica? Ecco quanto
racconta il partigiano Guerrino Avani in “Marzabotto parla” nelle pagine
46-47: “Prima dell’alba del 29 settembre, assalita da soverchianti forze
nemiche la brigata si trovò stretta in una morsa di fuoco. Dopo
alterne vicende una parte di noi fu asserragliata sulla cima scoperta di
Monte Sole, chiusa in una trappola impossibile da infrangere date le nostre
scarse forze (?) in confronto al numero e all'armamento del nemico...Dalla
cima del monte, col binocolo seguivo i movimenti dei “nazifascisti” (?). Appena giorno avevo contato
54 grandi falò di case isolate o a gruppi, bruciare intorno vicino
e lontano. Dal mio posto di osservazione vidi quanto i nazisti fecero nel
Cimitero di Casaglia, la gente ammucchiata fra le tombe e loro che preparavano
le mitraglie. Provammo a sparare, ma la distanza era troppa per un tiro
efficace (perché non si avvicinarono? n.d.r.)...Vidi cinque nazisti
trascinarsi dietro sedici donne legate una all'altra con un grosso cavo;
una stringeva al petto un bimbo di pochi mesi... Era per noi straziante
assistere a fatti simili, impotenti a intervenire e tale visione terribile
era più... debilitante che il fuoco nemico”. Ecco il giudizio nel già
citato volume di Angelo Carboni a pag. 50: “...la verità è
una sola: i partigiani della “Stella Rossa” provocarono coscientemente
le rappresaglie tedesche, lasciando incoscientemente che le SS massacrassero
centinaia di civili né mai poterono ritornare sui luoghi seminati
dalle vittime da loro provocate”. Per una più esatta
valutazione sulle persone che componevano la brigata “Stella Rossa” va
ricordato che ai primi colpi dell'attacco tedesco alcuni partigiani, approfittando
della occasione, uccisero il loro capo Mario Musolesi detto “Lupo” per
rubargli un tesoro che questi aveva accumulato per distribuirlo, diceva,
a guerra finita, per alleviare le sofferenze di coloro che, dalla guerra,
avevano subito più dolorose conseguenze. Quindi è una mistificazione
quello che sostengono i partigiani e cioè che il Lupo cadde combattendo
eroicamente per contrastare l'attacco delle SS. Altra montatura riguarda il
numero dei caduti nell'“Eccidio di Marzabotto” indicato in 1830 vittime,
cifra imposta dai partigiani a guerra finita. Ma la mistificazione apparve
palese quando risultarono fra le vittime, persone ancora in vita, caduti
nella prima Guerra Mondiale, deceduti per polmonite o per bombardamenti
e, addirittura, nomi di fascisti uccisi durante (e dopo) la guerra civile. Scrive al riguardo Pisanò
a pag. 1136 dell'opera già citata: “È sufficiente del resto
una rapida visita al Sacrario inaugurato a Marzabotto nel 1961 per rendersi
conto della mistificazione comunista. Nel Sacrario, infatti, sono raccolte
solo 808 salme. Di queste, però, 195 sono di persone che morirono
per scoppi di mine, o di militari deceduti nella Prima Guerra Mondiale:
solo circa seicento appartengono a vittime del massacro...”. II primo ottobre 1944, quindi
a poche ore dall'eccidio, il Rag. Grava, segretario comunale di Marzabotto
inviò un dettagliato rapporto alle autorità di Bologna e
si presentò al vice prefetto De Vita che non credette al racconto
del Grava e minacciò di farlo arrestare. Il povero segretario comunale
di Marzabotto descrisse con tanta concitazione “lo spettacolo terrificante”
da non essere creduto, tanto che lo stesso “Resto del Carlino” smentì
“...le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie
in tempo di guerra...”. Oppure ordini superiori imposero di sconfessare
quanto, in effetti, era avvenuto. Ma molti profughi, fuggiti
dalle zone colpite dalle rappresaglie, si riversarono nelle città
del Nord e quelle notizie non poterono non giungere sino a Mussolini. A questo punto, per meglio
fotografare i fatti nel loro insieme, riteniamo opportuno tornare indietro
nel tempo e, ripartire dal momento dell'arrivo in Italia di Reder nel maggio
1944. Reder è reduce dal fronte russo ove ha lasciato il suo braccio
sinistro e, per questo fu soprannominato “il monco”. Inizialmente il suo reparto,
il 16° battaglione della 16a divisione “SS Panzer Grenadieren Reichsfuehrer”
si schiera sul fronte di Cecina-San Vincenzo (Livorno) quindi, a seguito
della sia pur lenta, ma persistente pressione degli alleati segue il ripiegamento
delle linee germaniche. Il 25 luglio Reder è sull'Arno, il 9 agosto
è a Pietrasanta. Qui il suo reparto è sottratto dal fronte
e riceve l'ordine di tener “pulito” il retrofronte. Così inizia
la marcia dell'orrore e sangue che lo guidò dalla Toscana all'Emilia
sino a Marzabotto. 12 agosto: Sant'Anna di Stazzema
(Lucca) e zone circostanti 560 morti. 19 agosto 1944: Bardine S. Terenzio:
a seguito di un attacco di partigiani ad un camion tedesco che procurò
ai nazisti la perdita di 16 militari furono uccisi 53 civili. Nello stesso giorno giunsero
a Valla 107 infelici (solo 5 uomini) posti sotto un pergolato e fucilati:
in totale 160 infelici trovarono la morte. Il conto esatto: 10 per ogni
tedesco ucciso. Inutile ricordare che non solo non si presentò mai
un autore degli attentati alle autorità tedesche per salvare gli
ostaggi, ma mai si arrischiò un intervento, da parte dei partigiani,
per tentare di difendere i paesi ed evitare le rappresaglie. 24 agosto 1944; Vinca, Gragnola,
Monte di Sopra, Ponte di Santa Lucia, Branza di Cucina; in questa zona,
sembra che non ci fossero partigiani, così almeno attestava la sentenza
di condanna di Reder: “...non c'erano partigiani, non c'erano combattimenti...
c'era soltanto povera gente terrorizzata...”. I tedeschi passarono per
le armi chiunque incontrassero. 17 settembre 1944: Bergiola
(Carrara). Anche se non risulta che Reder in persona prendesse parte attiva
alle stragi di questa zona, è certo che il suo reparto ne fu artefice.
107 persone furono trucidate lungo le sponde del Frigido. A Bergiola 72
le vittime, maggioranza delle quali donne e bambini. (2) E, infine, 29 settembre-1
ottobre: Marzabotto. E così il cerchio si chiude. È doveroso ricordare
che fra le tante centinaia di vittime di quei tristi giorni: 95 erano sotto
i 16 anni, 110 sotto i 10 anni, 22 di 2 anni, 8 di un anno e, addirittura
15 lattanti. Il 4 agosto nel ricevere l'ordine
da Kesselring di adottare contromisure nell'attività partigiana,
il generale Wolf - responsabile delle azioni antiguerriglia - compilò
una circolare che terminava: “L'onore del soldato richiede che ogni misura
di repressione sia dura, ma giusta”. Da quello che abbiamo visto
la repressione risultò al di là del limite della schizofrenia
omicida e, quindi decisamente ingiusta. Il grado di brutalità raggiunto
forse è conseguenza inintenzionale di operazione intenzionale. Ma
le vittime innocenti furono reali; ed è altrettanto reale che tutto
fu pianificato per giungere a cercare e procurare rappresaglie per un preciso
e ben disegnato scopo politico. Abbiamo visto con quale criterio
i tedeschi intendevano la rappresaglia e la voce di tante atrocità
giunse fino a Mussolini, il quale il 17 agosto inviò una lettera
all'ambasciatore Rahn, con la quale protestava violentemente per le azioni
poste in essere dalle S.S.. Nella lettera Mussolini evidenziava i rapporti
provenienti dalle province colpite e così esponeva il suo pensiero
(stralcio dalla lettera): “...Dall'insieme delle segnalazioni che vi ho
fatto in questa lettera, ne risulta che bisogna finirla con le requisizioni
indiscriminate che hanno ridotto alla miseria intere province, finirla
con le rappresaglie indiscriminate ... insomma bisogna dare ai 22 milioni
di italiani della valle del Po la sensazione che esiste una Repubblica,
un Governo e che tale Governo è considerato alleato e il suo territorio
non è una “preda bellica” dopo 12 mesi dal riconoscimento ufficiale
da parte del Reich...Occorre quindi che questo sistema sia cambiato, poiché
in questa maniera non si riesce a distruggere la piaga del ribellismo,
ma si fanno dei nuovi clienti al ribellismo stesso e si allontanano le
simpatie di quelli rimasti a noi fedeli”. Questa lettera di Mussolini
trovò riscontro e simpatia in Kesselring che emanò, il 22
agosto, nuovi ordini per reprimere, o almeno, moderare il furore dei suoi
soldati. Egli faceva rilevare, fra
l'altro: “...le misure di rappresaglia i cui effetti si ripercuotono in
ultima analisi sulla popolazione civile anziché sui ribelli. In
dipendenza di codeste azioni si è venuto a cancellare in molti la
fiducia nelle Forze Armate Germaniche... Sin da questo momento bisogna
che i capi preposti alle azioni di rastrellamento ricevano precise istruzioni
circa il modo di agire contro la popolazione civile di paesi infestati
dai ribelli e circa le misure di rappresaglia da adottare contro i banditi...In
linea di massima le misure di rappresaglia devono colpire soltanto i ribelli
e non la popolazione civile innocente. A questo riguardo mi appello al
senso di responsabilità dei singoli comandanti...”. Abbiamo visto come le azioni
con attentati e colpi di mano da parte dei partigiani siano continuate
e come da parte tedesca si sia risposto disattendendo, completamente, gli
ordini di Kesselring del 22 agosto. Proprio nel mezzo delle nuove,
dissennate rappresaglie tedesche il 15 settembre Mussolini inviò
una nuova, secca nota di protesta a Rahn: “Ho lo stretto dovere e insieme
il più profondo rammarico di dovervi segnalare un'altra serie di
episodi di rappresaglia avvenuti in questi ultimi tempi in diverse parti
del territorio della Repubblica, ad opera di reparti militari o di polizia
germanici. Richiamo soprattutto la vostra
attenzione sul fatto che sono stati uccisi molte donne e molti bambini
e incendiati interi paesi gettando nella disperazione più nera centinaia
di famiglie. Credevo che la circolare diramata in data 22 agosto dal Feldmaresciallo
Kesselring avrebbe posto fine alle rappresaglie cieche, ma debbo constatare
che si continua con lo stesso sistema...Come uomo e come fascista io non
posso più a lungo sopportare la responsabilità, sia pure
soltanto indiretta, di questo massacro di donne e di bambini...”. Purtroppo, nonostante i ripetuti
e decisi interventi di Mussolini presso Rahn, le azioni di repressione
continuarono con sanguinoso crescendo fino ai massacri della zona di Marzabotto. Una ancora più violenta
protesta di Mussolini chiamò in causa direttamente Hitler; questi
predispose una commissione d'indagine composta di varie personalità
diplomatiche e di alti ufficiali i quali iniziarono immediatamente le indagini. Al termine di queste, la commissione
provvide alla sostituzione del Comandante militare della piazza di Bologna
con la motivazione di aver tenuto nascosto i fatti. Nella relazione della
commissione, fra l'altro, era scritto: “...(i tedeschi sono dispiaciuti
che) qualche donna o bambino siano morti a Marzabotto, ma si è trattato
soprattutto di fatalità dato che si trovavano asserragliati nei
rifugi dei partigiani”. Questa parte della relazione
non è davvero una valida giustificazione per la folle e, soprattutto
indiscriminata vastità delle stragi, però, non possiamo non
ricordare, ancora una volta, che nel momento in cui i civili tentarono
di fuggire dalla zona, che poi sarebbe diventato il teatro delle stragi,
i partigiani della “Stella Rossa”, lo impedirono minacciandoli e rassicurandoli:
“Se non vi uccidono loro vi uccidiamo noi se andate via: qui ci siamo noi
a difendervi” ! E, dato che abbiamo visto
quanto sia valsa quella promessa (“noi a difendervi”!) e tutto lo svolgersi
delle azioni successive, non può non far nascere l'atroce sospetto
che quella minaccia-promessa sia servita solo perché i partigiani
della “Stella Rossa” intendessero farsi scudo di poveri innocenti. Altra obiezione potrebbe nascere
spontanea; perché alle prime notizie di indiscriminate stragi Mussolini
non inviò nelle zone “a rischio” elementi militari della RSI per
proteggere dai tedeschi (e dai partigiani) le popolazioni minacciate? La
risposta può risultare ovvia; Mussolini doveva evitare che la già
difficilissima convivenza con “l'alleato” degenerasse sino allo scontro
armato che, se questo si fosse verificato, si sarebbe esteso nel resto
dell'Italia del Nord con sviluppi imprevedibili. È da notare, infatti,
che i combattenti repubblicani posti nei vari fronti dalla Liguria alla
Dalmazia ignoravano quello che i tedeschi stavano commettendo ai danni
della propria gente. È facilmente immaginabile quali sarebbero state
le conseguenze se le notizie fossero giunte in tutti i reparti operativi.
Riteniamo che per questo motivo Mussolini abbia preferito tenere le notizie
circoscritte il più possibile. Gli effetti dell'armistizio
dell'8 settembre concedevano a Mussolini ristretti margini di manovra ma
si deve pur riconoscere che, anche se tali, seppe responsabilmente sfruttarli.
E quali furono le ultime “azioni” di Reder? Questi, a seguito della firma
della resa delle truppe tedesche, fuggì in Baviera e fu, dopo pochi
giorni, catturato dalle truppe americane a Salisburgo. Il governo Badoglio aveva
spiccato, sin dal gennaio 1945, ordine di cattura con l'accusa di “criminale
di guerra”. A carico di Reder pesavano accuse per sterminio di ebrei, fucilazioni
di comunisti polacchi e partigiani russi. Reder fu consegnato alle autorità
italiane e fu processato nel Tribunale militare di Bologna. La condanna,
emessa nel 1951 fu l'ergastolo. Nell'aprile del 1967 Reder si rivolse alla
popolazione di Marzabotto, dichiarandosi pentito. Il Consiglio comunale
di Marzabotto, ascoltati i parenti delle vittime e i superstiti, rifiutò
la liberazione. Una serie di petizioni, provenienti
dalla Germania, dall'Austria e dall'Inghilterra riproposero la grazia per
Reder. Questa grazia fu concessa dopo alcuni anni e dopo lunghe insistenze
e reiterate dichiarazioni di pentimento. Concludiamo ricordando la
requisitoria nel processo di Bologna del Pubblico Ministero, Maggiore Stellacci
che disse fra l'altro: “...Il soldato si distingue dagli assassini perché
ha un senso del limite della propria azione”. Giudizio che ci trova assolutamente
consenzienti; ma, se deve essere punito colui che arreca male, altrettanto
colpevole è chi potendo evitare che il male venga commesso, non
si adopera a questo scopo. Più spregevole poi è colui che,
per il raggiungimento di una determinata finalità, opera affinché
il male venga posto in essere. NOTE (1) Cfr. Luisa Dinando, ass.
Diritto internazionale Università Torino. (2) Reder non prese parte
attiva, secondo le testimonianze del partigiano Giannardi, rese al processo
contro lo stesso Reder. Responsabile fu il ten. Fischer. Reder fu assolto
per queste imputazioni.
STORIA VERITA'
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