La dittatura perfetta avra´ la sembianza di una democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitu´ dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitu´.
venerdì 2 luglio 2021
"ANZIO COME BAGDAD, ECCO PERCHE’ DECISI DI COMBATTERE"
"ANZIO COME BAGDAD, ECCO PERCHE’
DECISI DI COMBATTERE" Un volontario della Repubblica Sociale ricorda
la sua scelta: "Sapevo che la guerra era persa, ma non sopportavo
l’idea del tradimento"
Barbara Palombelli ROMA - «Sapevo che la guerra era persa,
dopo il 25 luglio e l'8 settembre... Ma non sopportavo l'idea del tradimento.
Mi dava fastidio questa storia italiana per cui, ogni volta che le cose
si mettono male, noi passiamo dall'altra parte, ci mettiamo sempre con
i più forti. Avevo diciassette anni, dovevo completare l'ultimo
anno di ragioneria a Udine, dove vivevo con la mia famiglia. Noi - allora
- non sapevamo nulla dei campi di sterminio, dell'Olocausto, eravamo veramente
alla periferia del Paese. Era l'inverno del '43: scappai di casa di notte,
volevo andare a fare la mia parte, mi arruolai volontario con i paracadutisti
della Folgore. Mio padre disse che non mi avrebbe mai perdonato
... ». Le immagini delle guerre e delle liberazioni sono
sempre uguali. C'è un Paese che entra nel caos, ci sono monumenti
e statue da abbattere, c'è chi sale sul carro armato dei vincitori,
c'è chi arraffa quello che può, chi scappa alla ricerca di
una nuova identità. E c'è chi ritiene di dover restare fedele
a dei valori, proprio nel momento in cui vengono dichiarati fuorilegge
e sconfitti... Il soldato semplice Luciano Orsettigh, classe 1926, è
oggi un signore in pensione che ama leggere libri, passeggiare con la sua
cucciola terrier, comunicare con il mondo dalla sua stanza con una radiotrasmittente
potentissima. Di politica non si è mai occupato, «e non
sono mai stato neanche un fazioso, mai portato la camicia nera... ero un
giovane innamorato della mia patria e volevo difenderla fino all'ultimo.
Per questo ideale, ho pagato un prezzo alto: sono stato per due anni prigioniero
degli americani, insieme a migliaia di italiani che forse oggi, vedendo
le immagini in televisione ... stanno ricordando, come me, tempi lontani». Orsettigh fu fatto prigioniero dalla Quinta divisione
americana proprio all'alba del 4 giugno 1944, il giorno della liberazione
di Roma: «Dopo qualche mese di addestramento in Umbria, alle Fonti
del Clitunno, fui destinato alla settima compagnia della Folgore, nella
primavera del '44, fummo spediti al fronte, ad Anzio. Eravamo 110-120,
tutti volontari, tutti giovanissimi. I nomi di tutti, oggi, è impossibile
ricordarli... C'era un Fiocchi, figlio della dinastia di imprenditori delle
munizioni. C'erano i fratelli Civita, romani, rossi di capelli come me,
c'era Camuncoli, figlio di un giornalista del Corriere della Sera. Tre
mesi di trincea di campagna fra Roma e Anzio, senza caserme né tende.
Per dormire, c'era una grotta, andavamo lì a turno. Gli americani
avanzavano dal mare verso Roma e noi dovevamo rallentare il loro cammino,
a costo di essere distrutti. Di quei 120, restammo vivi in sei. Sapevamo
che era una missione disperata: saremmo finiti o morti o prigionieri. L'ultimo
ordine che ricevemmo, il 2 giugno, era quello di coprire la ritirata delle
altre truppe e delle prime linee tedesche che arretravano: dovevamo tenere
il fronte per 24 ore e poi ritirarci anche noi. Noi rimasti vivi, al calar
della notte, scadute le 24 ore, cominciammo a tornare indietro per ricongiungerci
ai soldati già andati via. Eravamo stanchissimi, ci fermammo in
una cascina abbandonata, lasciata dall'antiaerea tedesca. Al risveglio,
una cannonata sul tetto ci avvertì che era arrivato il momento di
uscire a mani alzate: lungo la strada, scendendo dalla collina, ricordodo
come fosse ieri le decine di carri armati che, infila, stavano per arrivare
nella capitale». Sessant’anni fa, quando eravamo noi un popolo da
liberare, con un regime a pezzi e un esercito allo sbando, gli americani
fecero prigionieri circa 55 mila italiani, di cui 6 mila scelsero di non
collaborare. Orsettigh mi mostra il libro scritto da Gaetano Tumiati nel
1985 (Prigionieri in Texas, Mursia, ndr), dove è raccontatacontata
l'esperienza della detenzione: «Ci ritrovammo improvvisamente
a migliaia in un campo di concentramento a Hereford, su un altopiano ai
confini con il New Mexico. Arrivai là dopo mesi di prigionia in
Africa e dopo un lunghissimo viaggio nella stiva di una nave, sbarcammo
in Virginia e poi attraversammo in treno quasi tutti gli stati del Sud...
Ad Hereford c'erano anche il pittore Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe
Berto, c'erano persone diverse, dai monarchici ai liberali 'non c'erano
solo i nostalgici... eppure, gli americani lo chiamavano il "Criminal
Fascist Camp". Indossavamo divise con scritto ovunque PW, prigioniero
di guerra. Quelli che collaboravano, invece, avevano la divisa militare
americana e una bandierina italiana cucita sul braccio, potevano uscire,
frequentare donne, alcuni poi si sposarono le fidanzate di allora. Noi
no, noi eravamo sempre chiusi, nel cuore della notte capitava anche qualche
legnata, facevamo la fame, al mattino una tazza di caffelatte in polvere
e due fettine di pane di riso... Per guadagnare 80 centesimi al giorno
e mangiare due panini bisognava lavorare: ho raccolto patate fino a spezzarmi
la schiena, in una farm a un'ora di camion dal campo, era l'unico modo
per comprarsi le sigarette e le lamette per radersi». Quando la guerra finisce, i collaborazionisti vengono
liberati subito. Gli irriducibili ci impiegano quasi un anno per tornare
a casa: «Mancavo da tre anni, arrivai nel 1946
- racconta Orsettigh - e mi avevano dato per morto... Mio padre riuscì
a perdonarmi. Ritrovai, per una notte, i miei amici. Non avevo ancora disfatto
il mio sacco, che vennero a prendermi i carabinieri. Mi aspettavano altri
due mesi di galera, per ragioni ancora oggi misteriose: un altro campo
di concentramento, italiano, con tende canadesi piantate nel fango, dalle
parti di Arezzo». Grazie a quella difficile esperienza, Luciano Orsettigh
conquistò un inglese perfetto. «Mi servì per trovare
un lavoro. Da uomo libero, finalmente, scelsi di lavorare per qualche anno
proprio alla base americana di Cormons. Indossavo la loro divisa e organizzai
l'arrivo di 5 mila americani a Trieste. Dalla tuta grigioverde della Folgore,
però, tagliai una striscia di stoffa. Per me, che non sono un uomo
di destra, ha sempre avuto una grande importanza, c'è dentro ancora
oggi il senso del dovere che mi ha portato a quelle scelte. C'è
scritto: "Per l'onore d'Italia". Mi sembra un buon motto, anche
sessant'anni dopo». IL CORRIERE DELLA SERA Quotidiano del 14 Aprile 2003
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