La commissione di
epurazione fu un organo che, dopo la caduta del fascismo, fu incaricato
di rimuovere dai loro incarichi le persone più coinvolte con il passato
regime.
IL PROCESSO A PIETRO CARUSO QUESTORE DI ROMA
Il problema cominciò a sentirsi in Sicilia prima regione
liberata dagli alleati ma il Governo militare d'occupazione (l’AMGOT,
Allied Military Government of Occupied Territories) preferì dedicarsi
prima agli immani problemi di estrema urgenza e si limitò a compilare
una lista nera degli elementi giudicati pericolosi.
Ci fu una certa differenza di comportamento tra gli
americani che amministravano la Sicilia occidentale rispetto agli
inglesi che nella Sicilia orientale furono più rigorosi. Nel complesso,
però, salvo sporadiche eccezioni, solo i prefetti e i podestà dei comuni
più importanti furono sostituiti. I podestà dei piccoli paesi,
continuarono a collaborare con l’amministrazione Alleata, così come i
funzionari comunali.
Nell'Italia amministrata dal governo Badoglio, prima
dell'armistizio di Cassibile non ci fu quasi epurazione salvo singoli
episodi anche controversi come la morte di Ettore Muti.
Dopo l'8 settembre gli Alleati continuarono, in genere una linea morbida e il governo italiano assumeva solo gradualmente compiti amministrativi nei territori riconsegnati dalle autorità militari.
Dopo l'8 settembre gli Alleati continuarono, in genere una linea morbida e il governo italiano assumeva solo gradualmente compiti amministrativi nei territori riconsegnati dalle autorità militari.
Nel dicembre del 1943 fu emanato un primo decreto:
“Defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato, degli enti locali
e parastatali, degli enti sottoposti a vigilanza o tutela dello Stato e
delle aziende private esercenti pubblici servizi o d’interesse
nazionale”. Apposite Commissioni d'epurazione dovevano giudicare i
soggetti che erano allontanati dalle loro cariche e dichiarati
temporaneamente sospesi e che avevano dovuto compilare appositi
questionari.
EPURAZIONE”
ALL'AMERICANA.....CHI FASCISTA E CHI NO....
La rivista online Slate ha
pubblicato alcune fotografie di un documento dell’esercito statunitense del
1944. L’esercito elenca dettagliatamente tutte le persone che il governo
militare in Italia avrebbe dovuto considerare fascisti e quindi rimuovere e
isolare dalla vita politica del paese. Il documento doveva serviva alla
Commissione di Controllo Alleata (ACC), l’organo militare incaricato
dell’amministrazione civile nei territori liberati degli eserciti alleati. In
Italia l’ACC venne stabilita dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e cominciò
i lavori nel novembre di quello stesso anno. I compiti principali della ACC
erano assicurarsi che i vari servizi civili continuassero a funzionare, che la
popolazione venisse sfamata e che fosse ragionevolmente protetta dalle malattie
e genericamente da altri rischi. In sostanza svolgeva le funzioni di un normale
governo civile, e in alcuni casi le svolse in maniera piuttosto sbrigativa e
autoritaria. Tra gli altri compiti, però, c’era anche preparare il terreno per
una restituzione dei poteri agli italiani: per fare questo serviva assicurarsi
che le persone compromesse con il regime fascista restassero lontane dalle
istituzioni. Per questo motivo venne stilato questo documento, che indicava
dettagliatamente chi era da considerare un fascista e chi no. Alla fine,
mettendo insieme tutte le categorie elencate, la lista finiva per includere una
larga maggioranza della classe dirigente italiana: nella lista erano inclusi
tutti i dirigenti del partito fascista, tutto il governo, parte della
magistratura, tutti i direttori e capiredattori dei giornali, tutti gli
amministratori locali e tutti quegli imprenditori che avessero avuto a che fare
in un modo o nell’altro con l’amministrazione pubblica .
La lista che segue definisce le
categorie di persone che devono essere considerate Fascisti e che quindi sono
soggetti al contenuto di questo ordine:
a. le persone che hanno il
titolo o la qualifica di “Sansepolcrista”, “Squadrista”, “Antemarcia”, “Marcia
su Roma”, “Sciarpa Littoria”;
b. una persona che durante il
regime fascista era: un membro del governo centrale, un membro del Gran
Consiglio, un membro dell’Accademia d’Italia, o un membro del Tribunale
Speciale per la difesa dello stato;
c. una persona che è stata
presidente, vice-presidente o direttore di una Corporazione, confederazione,
federazione o sindacato;
d. una che è stata segretario
nazionale, vice segretario nazionale del partito fascista, oppure un membro del
Direttorio nazionale, o un ispettore nazionale;
e. una persona che sia stata
membro del partito fascista e che è stata nominata Senatore dopo il 3 gennaio
1925 e che in conseguenza di questa nomina ha ottenuto un ruolo in una
qualunque amministrazione pubblica o impresa che sia inclusa nel paragrafo 2;
f. una persona che è stata
nominata senatore prima del 3 gennaio 1925 e che successivamente a questa data
è entrata a far parte del partito fascista e in conseguenza ne ha ottenuto un
ruolo in una qualunque amministrazione pubblica o impresa incluse nel paragrafo
2;
g. i membri fascisti del
parlamento;
h. una persona che è stata
segretario federale, vice segretario federale o segretario amministrativo del
partito fascista;
i. una persona che ha fatto
parte di un Direttorio Federale o del Direttorio dei fasci di combattimento o
un fiduciario rionale di un capoluogo di provincia;
l. una persona che è stata
ispettore federale o ispettore di zona del partito fascista;
m. una persona che ha fatto
parte del Tribunale centrale della disciplina federale del partito;
n. una persona che durante il
regime fascista è stata presidente, vice presidente, consigliere o rettore di
un’amministrazione provinciale;
o. una persona che durante il
regime fascista è stato sindaco, vice-sindaco, commissario governativo o
commissario prefettizio di un capoluogo di provincia;
[I sindaci in epoca fascista
erano chiamati podestà ed erano nominati direttamente dal governo]
p. una persona che durante il
regime fascista è stato sindaco di un comune che alla data dell’ultimo
censimento aveva una popolazione di più di 50 mila abitanti;
q. i segretari politici del
partito fascista;
r. i fiduciari provinciali dei
fasci femminili;
s. i presidenti, vice
presidenti, direttori o amministratori di amministrazioni pubbliche o imprese
incluse nel paragrafo 2;
t. i commentatori radio
politici;
u. i direttori e caporedattori
di giornali o riviste politiche;
v. giornalisti professionisti o
pubblicisti che dopo il 3 gennaio hanno fatto propaganda alle idee e agli scopi
politici del fascismo;
x. membri della Milizia
Volontaria di Sicurezza Nazionale in servizio permanente e attivo e che mentre
erano membri di questa organizzazione erano anche:
1. membri della Milizia
Contraerea o della Milizia Costiera;
2. membri della Milizia
Forestale o impiegati nella vecchia amministrazione forestale prima della
creazione della Milizia Forestale;
y. le persone decorate dal
governo tedesco per servizi politici resi al partito nazista;
z. chiunque sia stato membro
della commissione per il Confino di polizia.
2. Le posizione nelle
amministrazioni direttamente o indirettamente controllate dal governo dalle
quali coloro che sono considerati fascisti saranno rimossi includono:
a. qualunque amministrazione
controllata dallo stato italiano incluse le amministrazioni parastatali;
b. qualunque amministrazione di
polizia tranne le unità di polizia che fanno parte dell’Esercito Italiano e che
sono soggette a un separato processo di defascistizzazione;
[La specifica serve ed
escludere l'Arma dei carabinieri, che era considerata fedele al re e quindi in
opposizione al fascismo dopo l'8 settembre 1943]
c. i vigili del fuoco;
d. tutte le amministrazioni che
facevano parte del Governatorato di Roma;
e. un’impresa che in qualunque
momento a partire dal 28 ottobre 1922 ha ricevuto direttamente o indirettamente
assistenza finanziaria o sussidi dello Stato italiano, dalle amministrazioni
provinciali o comunali o dall’ex Governatorato di Roma;
f. un’impresa che controlla o
opera, direttamente o indirettamente:
1. [manca]
2. la produzione o la
distribuzione di gas o elettricità;
3. la raccolta e distribuzione
di acqua;
4. servizi radio e telefonici;
5. cooperative agricole;
6. consorzi di ogni tipo;
7. enti di bonifica;
g. un’impresa che controlla o
opera, direttamente o indirettamente, istituzioni finanziarie, di previdenza o
assicurazione;
h. La Banca d’Italia o
qualunque altra impresa bancaria;
i. un’impresa che è controllata direttamente o indirettamente dallo stato italiano o un ente di diritto pubblico.
i. un’impresa che è controllata direttamente o indirettamente dallo stato italiano o un ente di diritto pubblico.
Il 27 luglio 1944 (nel
frattempo capo del governo era Ivanoe Bonomi) fu emanato il decreto
legislativo luogotenenziale n. 159,: “Sanzioni contro il fascismo”, che
regolava l’epurazione dell’amministrazione pubblica e, art.40, istituiva
l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, alla cui guida
veniva nominato il conte Carlo Sforza, repubblicano, coadiuvato da un
Commissariato aggiunto per l’epurazione, a cui venne preposto il
comunista Mauro Scoccimarro. Vennero poi articolate le Delegazioni
Provinciali. L’Alto Commissariato aveva il compito di dirigere e
vigilare sull’operato di tutti gli organi che irrogavano le sanzioni
contro i fascisti (art. 41). Secondo le altre norme:tutti coloro che
avevano partecipato attivamente alla vita politica del fascismo,
conseguendo nomine od avanzamenti per il favore del partito (anche nei
gradi minori); sarebbero altresì stati allontanati i dipendenti delle
amministrazioni che durante il ventennio fascista avevano rivestito
cariche importanti o che, dopo l’otto settembre 1943, erano rimasti
fedeli al Governo della RSI sarebbero stati dispensati dal servizio
mentre sarebbero state previste norme di minore severità nei confronti
dei dipendenti con qualifiche fascisteche non avessero fornito alcuna
prova di settarietà, intemperanza o di mal costume Dispense erano
previste per chi dopo l’8 settembre 1943, si fosse distinto nella lotta
contro i tedeschi, poteva invece essere esentato dalla dispensa e da
ogni misura punitiva.
L'ultimo Alto Commissario in carica fu Pietro Nenni.
LE COMMISSIONI DI EPURAZIONE
Le "commissioni per
l'epurazione", furono regolamentate dal decreto legislativo
luogotenenziale del 13 settembre 1944, n. 198. Il Commissario proponeva
le sanzioni alle "commissioni per l'epurazione", oppure, per membri del
Governo, delle Assemblee legislative o alti gerarchi, all'"Alta corte di
giustizia". Nei procedimenti l'Alto commissariato aveva funzioni di
pubblico ministero.
Il Decreto Luogotenziale n. 159 del 22 aprile 1945 regolamentò ulteriormente.
Secondo le statistiche
ufficiali ci fu un gran numero di procedimenti aperti a carico dei
funzionari, ma prevalse presto un atteggiamento meno rigoroso. Su
proposta del ministro della Giustizia e leader del Partito comunista
Palmiro Togliatti fu poi prevista una amnistia generale.
L'UFFICIO SPECIALE PER LE SANZIONI CONTRO IL FASCISMO
L'Alto Commissariato
cessò di esistere nel febbraio del 1946 con il passaggio delle sue
attribuzioni all'"Ufficio speciale per le sanzioni contro il fascismo",
alla diretta dipendenza della Presidenza del Consiglio dei ministri.
L'Ufficio venne affidato a Pasquale Carugno e si avvalse della
collaborazione dei magistrati: Ruta, Jannaccone, Curcio (futuro
segretario della Commissione per l'esame dei ricorsi dei confidenti
dell'OVRA), Ponzi, De Martino, Milanese, Gabrieli e Caracciolo; e dei
commissari di PS: Scienza e Fontana. Si occupò anche di redigere gli
elenchi dei confidenti OVRA da sottoporre alla Commissione per la
pubblicazione delle liste dei fiduciari OVRA.
Istituito con decreto
legislativo il 27 luglio 1944, lo stesso decreto che istituisce le
“Sanzioni contro il fascismo”, è l’organo che disciplina l’applicazione
dei provvedimenti stabiliti dal decreto riguardanti la
defascistizzazione dello Stato, come la dispensa dal servizio o la
retrocessione in caso di nomina ottenuta in seguito all’ attività
politica svolta sotto il regime fascista.
Presieduto dal
repubblicano Carlo Sforza fino al dicembre 1944, nel gennaio 1945 l’Alto
Commissariato per le sanzioni contro il fascismo è riorganizzato: le
funzioni dell'Alto commissario vengono assunte collegialmente dai
quattro Alti commissari aggiunti sotto la presidenza del Consiglio dei
ministri.
L’attività dell’Alto
Commissariato rimane sostanzialmente contenuta per tutto il 1945: le
sanzioni vengono applicate con lentezza e ottengono scarsi risultati
pratici perché la legge del 1944 e le successive disposizioni, come
quella che prevede l’estensione delle indagini e delle sanzioni alle
imprese private e i provvedimenti volti ad accelerare e a rendere più
rigorosi i processi epurativi, contengono formulazioni ambigue che si
prestano all’interpretazione soggettiva. Parallelamente il Nord diventa
teatro di atti di giustizia popolare verso i fascisti.
Nel 1946, dopo la crisi
del governo di Ferruccio Parri (che ha tra le sue cause scatenanti
proprio i contrasti in materia di epurazione), il nuovo governo di
Alcide De Gasperi, accogliendo le istanze dei liberali, provvede alla
liquidazione formale dell’Alto Commissariato e di tutta la struttura
amministrativa preposta all’epurazione.
LE SANZIONI CONTRO IL FASCISMO
Era stato lo stesso
Governo del re ad inaugurare, accanto ai provvedimenti rivolti a
defascistizzare l’apparato pubblico, quelli contro i responsabili del
regime appena rovesciato, quando aveva adottato il 9 agosto del ‘43 il
decreto-legge sull’avocazione “dei profitti di regime”. Era trasparente
l’intento della monarchia di prendere le distanze dal fascismo per
evitare di restare coinvolta dal crollo di un sistema di cui pure era
storicamente responsabile.
Dopo l’armistizio vi fu
una ragione in più, per l’obbligo imposto dagli alleati di fare
l’epurazione. Cioè di rimuovere dai posti occupati nelle amministrazioni
pubbliche e nelle aziende di interesse nazionale i fascisti più
espressivi.
A tanto provvide il
decreto-legge 28 dicembre ‘43, che applicò l’epurazione a tutti gli
appartenenti alle amministrazioni civili e militari dello Stato ed ai
dipendenti di ogni altro ente e istituto pubblico o sottoposto a tutela o
vigilanza dello Stato, nonché delle aziende concessionarie di pubblici
servizi o di interesse nazionale, che avessero militato nel partito
fascista con le qualifiche di “squadrista”, “marcia su Roma”, “sciarpa
littorio”, o di gerarca. Per gerarchi si intendevano i dirigenti
nazionali e federali, i presidi delle province, i segretari politici ed i
podestà dei comuni superiori ai 50 mila abitanti.
L’applicazione delle
sanzioni fu estesa ai fascisti che si fossero resi colpevoli di “fatti
costituenti attentato alla libertà individuale”. Poche le deroghe; in
particolare per i fascisti che dopo l’8 settembre avevano collaborato
alla lotta contro i tedeschi e per quelli che, avendo svolto scarsa
attività politica, meritavano di restare in servizio per particolari
competenze o benemerenze.
I provvedimenti
relativi agli alti gradi furono demandati al Consiglio dei ministri;
tutti gli altri a speciali Commissioni. La complessiva azione “per
l’epurazione della Nazione dal fascismo” fu ricondotta ad un Alto
Commissariato istituito con decreto-legge del 13 aprile 1944 (ma il
primo Alto Commissario, Tito Zaniboni, era stato insediato nella carica
fin dal febbraio precedente).
Le sanzioni salirono di
tono con i governi espressi dalla coalizione antifascista, per impulso
dei partiti di sinistra. Il decreto-legge 26 maggio 1944, n. 134, adottò
provvedimenti di carattere penale per la “punizione dei delitti e degli
illeciti del fascismo”, che trovarono una migliore sistemazione nel
successivo decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159,
nel quale furono accorpate tutte le “sanzioni contro il fascismo”.
In materia penale, con
l’abrogazione di tutte le disposizioni emanate a tutela delle
istituzioni e degli organi politici creati dal fascismo ed il
conseguente annullamento delle sentenze già pronunciate in base a tali
disposizioni, si volle affermare una responsabilità penale di livello
costituzionale per gli atti con i quali era stato favorito l’avvento del
regime compromettendo la sicurezza e l’ordinamento dello Stato.
Per i membri del
governo fascista ed i gerarchi del fascismo “colpevoli di aver annullate
le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il
regime fascista, compromesse e tradite le sorti del Paese” fu prevista
la punizione “con l’ergastolo e, nei casi di più grave responsabilità,
con la morte” (da notare che quando di lì a poco l’Italia cancellò la
pena di morte dal suo ordinamento, il relativo provvedimento mantenne
ferme non solo le disposizioni dei codici penali militari, ma anche
quella contenuta nelle sanzioni contro il fascismo).
I giudizi relativi
furono demandati ad un’Alta Corte di giustizia composta da un presidente
e da otto membri “nominati dal Consiglio dei ministri fra gli alti
magistrati, in servizio o a riposo, e fra alte personalità di
rettitudine intemerata” (della quale fu poi previsto lo sdoppiamento).
Si trattava in buona sostanza di un tribunale straordinario, di nomina
del potere politico.
Al giudizio della
magistratura ordinaria furono sottoposti gli organizzatori di squadre
fasciste responsabili di violenze e devastazioni e coloro che avevano
diretto “l’insurrezione del 28 ottobre 1922″, in base all’articolo 120
del codice penale del 1889, nonché coloro che avevano promosso o diretto
“il colpo di Stato del 3 gennaio 1925″ e coloro che avevano in seguito
“contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime
fascista”, secondo l’art. 118 dello stesso codice. Secondo le leggi del
tempo sarebbero stati puniti invece i responsabili di altri delitti
commessi “per motivi fascisti o valendosi della situazione politica
creata dal fascismo”.
E’ palese, nell’insieme
di queste norme, il superamento del principio di irretroattività della
norma penale, che tuttavia non sarebbe stato sufficiente di per sé solo
senza il concorrente travolgimento di altre barriere, quali l’autorità
della cosa giudicata, la prescrizione, le cause estintive del reato e
della pena. Vi provvide l’articolo 6 del decreto del 27 luglio.
Restarono fuori dalla previsione solo i delitti punibili con la pena
detentiva non superiore nel massimo a tre anni.
Fu disposta altresì la
sospensione temporanea dai pubblici uffici o dall’esercizio dei diritti
politici nonché l’assegnazione a colonie agricole o a case di lavoro
fino a dieci anni per coloro che, avvalendosi della situazione politica
creata dal fascismo o per motivi fascisti avevano compiuto fatti di
particolare gravità che, pur non integrando gli estremi di reato,
fossero apparsi “contrari a norme di rettitudine o di probità politica”.
Per i membri delle
Assemblee legislative o di enti ed istituti che con i loro voti ed atti
avevano contribuito “al mantenimento del regime fascista ed a rendere
possibile la guerra” fu prevista la declaratoria di decadenza da parte
dell’Alta Corte, senza pregiudizio delle altre sanzioni.
Furono considerate come
circostanze attenuanti un atteggiamento ostile al fascismo prima
dell’entrata in guerra e la partecipazione alla lotta contro i tedeschi;
motivo di non punibilità l’essersi “particolarmente distinti con atti
di valore” nella lotta ai tedeschi.
Accanto alle norme
penali dirette a colpire le responsabilità connesse all’avvento ed al
mantenimento del regime fascista, il decreto del 27 luglio 1944
introdusse il reato di collaborazionismo con l’occupante tedesco.
L’ipotesi fu ricondotta ai delitti contro la fedeltà e la difesa
militare dello Stato contemplati dal codice penale militare di guerra,
rinviando alle pene relative che furono estese ai non militari.
In materia di
epurazione il decreto integrò la disciplina del precedente provvedimento
del ‘43. La dispensa dal servizio in ragione della qualifica ricoperta
fu confermata per gli squadristi, per i partecipanti alla marcia su Roma
e per gli insigniti di “sciarpa littorio” ed estesa ai sansepolcristi,
agli “antemarcia” ed agli ufficiali della Milizia, con la possibilità di
misure disciplinari meno gravi per coloro che non avevano dato prova
“di settarietà e di intemperanza fascista”. La dispensa fu prevista in
via generale: per coloro che, specialmente in alti gradi, col
partecipare attivamente alla vita politica del fascismo e con
manifestazioni ripetute di apologia fascista, si erano “dimostrati
indegni di servire lo Stato”; per coloro che, anche nei gradi minori,
avevano “conseguito nomine od avanzamenti per il favore del partito o
dei gerarchi fascisti”; per coloro i quali avevano dato “prova di
faziosità fascista o della incapacità o del malcostume introdotti dal
fascismo nelle pubbliche Amministrazioni”.
Nel caso di indebiti
avanzamenti o di preferenze nei concorsi per titoli fascisti, in luogo
della dispensa poteva essere disposta la retrocessione o la restituzione
ai ruoli di provenienza.
In parallelo con
l’istituzione in sede penale del reato di collaborazionismo con
l’occupante tedesco, fu prevista in sede disciplinare la dispensa dal
servizio degli impiegati che dopo l’8 settembre avevano seguito il
governo fascista, con la possibilità di misure meno gravi quando gli
interessati avessero dimostrato di essersi trovati esposti a gravi
minacce. Costituiva esimente la partecipazione alla lotta dei patrioti
contro i tedeschi e contro il governo fascista repubblicano.
I criteri dettati per
l’epurazione dei dipendenti pubblici e delle aziende concessionarie di
pubblici servizi o di interesse nazionale furono estesi infine agli albi
per l’esercizio di professioni, arti e mestieri, dei quali fu disposta a
tal fine la revisione.
In tema di avocazione
dei profitti di regime, il decreto legislativo 27 luglio 1944 definì
come “profitti derivanti dalla partecipazione o adesione al regime
fascista” gli incrementi patrimoniali conseguiti dopo il 28 ottobre 1922
da chi aveva “rivestito cariche pubbliche o comunque svolta attività
politica come fascista” – nonché dagli ascendenti, dai discendenti, dal
coniuge e da terzi legati da rapporti di associazione o di
cointeressenza – a meno che gli interessati non ne avessero dimostrato
la lecita provenienza.
Approssimandosi la
liberazione dell’Alta Italia, fu data particolare enfasi all’azione
diretta a punire i collaborazionisti, sottolineando il ruolo popolare
nel fare giustizia sul grande dramma che aveva spaccato il Paese. Il
decreto legislativo 22 aprile 1945, n. 142 demandò il giudizio sui reati
contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, commessi dopo l’8
settembre “con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o
collaborazione col tedesco invasore e di aiuto o di assistenza ad esso
prestata”, a Corti straordinarie d’assise presiedute da un magistrato e
composte da quattro giudici popolari, scelti negli elenchi proposti dai
Cln. A sostenere l’accusa furono ammessi anche avvocati scelti fra
quelli designati dai Cln. Una sezione speciale della Cassazione fu
costituita per i ricorsi contro le sentenze delle Corti straordinarie.
Il decreto si preoccupò
di stabilire una sorta di presunzione di legge circa la sussistenza del
reato di collaborazione con il tedesco invasore per coloro che avevano
ricoperto – e per ciò solo – particolari cariche nel regime di Salò:
componenti del governo, dirigenti nazionali del Pfr, capi provincia e
segretari federali del partito, direttori di giornali politici,
ufficiali superiori in formazioni di camicie nere con funzioni
politico-militari.
Mentre si perseguiva
l’attività fascista pregressa, non si mancò di colpire qualsiasi
tentativo di riproporla nella vita del Paese. Con il decreto legislativo
26 aprile 1945, n. 195 divennero reati la ricostituzione sotto
qualsiasi forma o denominazione del partito fascista (punita con la
reclusione da dieci a venti anni) e lo svolgimento di “attività fascista
impedendo o ostacolando con atti di violenza o di minaccia l’esercizio
dei diritti civili o politici dei cittadini” (reato punito con la
reclusione da tre a dodici anni). La promozione e il finanziamento di
bande armate al fine di svolgere attività fasciste furono puniti con la
reclusione fino a trent’anni.
Questo insieme di
misure e di sanzioni – penali, disciplinari, amministrative, finanziarie
– se corrispondeva al giudizio storico-politico sul fascismo di chi vi
si era opposto o aveva dissentito, non risultava accettabile a quanti
avevano costituito la base del sostanziale consenso su cui il regime si
era retto fino alla sconfitta. Questi potevano riconoscere di essersi
sbagliati e convenire largamente sulla improponibilità di qualsiasi
ritorno a un’esperienza condannata dalla storia, ma ricusavano
comprensibilmente la criminalizzazione indiscriminata della loro
partecipazione a quella esperienza.
La delusione provocata
dalla sconfitta e la condanna dell’estrema protervia che aveva spaccato
il Paese avrebbero propiziato una larga accettazione di una qualche
forma di giustizia politica ristretta ai massimi responsabili delle
decisioni che avevano portato al drammatico epilogo della guerra, nonché
del corso anche tardivo della giustizia senza aggettivi per punire i
delitti che erano tali secondo la legge del tempo, commessi in nome del
regime.
Ma le sanzioni contro
il fascismo andarono ben al di là, con un rigore e un’ampiezza che solo
una rivoluzione avrebbe potuto legittimare.
Una rivoluzione fatta e vinta.
Senonché la rivoluzione
non c’era stata, essendo caduto il fascismo per linee interne e non
avendo avuto le forze potenzialmente rivoluzionarie la possibilità di
farla. Non essendo stata fatta, non poteva ritenersi vinta.
Era soltanto collassato
il regime da abbattere. Ma era collassato senza travolgere lo Stato
storico che si accingeva a rinnovarsi nella continuità.
L’applicazione di una
normativa di tipo rivoluzionario, che costituiva una rottura rispetto
alla continuità dell’ordinamento, affidata a strutture che di quella
continuità erano espressione, non poteva che vanificarla. Ciò sia per
ragioni oggettive di tipo sistematico, sia per il comportamento dei
soggetti che incarnavano gli apparati pubblici che si trovarono ad
essere al tempo stesso vittime e irrogatori delle sanzioni.
Le difficoltà oggettive
di ordine sistematico trassero alimento dallo stesso linguaggio usato
dalla normativa sulle sanzioni: un linguaggio idoneo a condannare il
fenomeno fascista in termini storico-politici, ma scarsamente adatto a
definire con rigore tecnico ipotesi di illecito penale o amministrativo
al livello delle responsabilità personali di chi vi aveva concorso.
Tanto più considerando che ad applicare le sanzioni avrebbero dovuto
attendere non già organi di giustizia politica, ma organi
giurisdizionali (la stessa Alta Corte era composta di magistrati) e
amministrativi, operanti nel quadro segnato dai princìpi generali
dell’ordinamento preesistente e dagli indirizzi giurisprudenziali
consolidati.
A riprova di ciò che
determinò l’inidoneità tecnica della normativa, coniugata con l’azione
riduttiva degli organi chiamati ad applicarla, gioverà qualche richiamo.
Al di là della
casistica riferita a specifiche qualifiche di regime, la previsione di
reato consistente nell’aver contribuito a mantenere in vigore il regime
fascista “con atti rilevanti”, si prestava per l’ambiguità della
definizione, ad un ventaglio di interpretazioni oscillanti fra una
lettura del termine nel senso di “apprezzabili” fino al significato di
“determinanti”. Nel primo caso sarebbe stata riferibile a qualsiasi
forma di concorso al sostegno del regime, cioè in pratica quasi a tutti,
nel secondo soltanto ai vertici che avevano realmente pesato nella
vicenda. Lo spazio lasciato all’interprete da una formulazione così
approssimativa consentì una lettura restrittiva che vanificò ampiamente
la portata della previsione.
Non diversamente
accadde per le ipotesi di reato demandate al giudizio dell’Alta Corte,
se questa in una rilevante sentenza del 20 giugno 1945 ritenne
“necessaria la dimostrazione di fatti concreti in nesso causale con la
distruzione delle libertà popolari o con l’annullamento delle garanzie
costituzionali, con la creazione del regime fascista e con l’aver
compromesso e tradito le sorti del Paese”. Parimenti non si ritenne che
le sole mansioni ricoperte potessero deporre per la responsabilità degli
inquisiti, senza un accertamento sui comportamenti posti in essere.
Sintomi questi della difficoltà di trasformare responsabilità politiche
in penali, quando l’azione collettiva di tipo politico si scompone e si
segmenta in una serie di comportamenti personali.
Difficoltà analoghe
comportò l’applicazione delle misure di sicurezza per fatti che, pur non
costituendo reato, fossero risultati “contrari a norme di rettitudine e
di probità politica”: rispetto a quali canoni traducibili in una
definizione giuridica certa ed oggettiva?
Ancora più problematica
risultò l’applicazione dei criteri sui quali si attestò l’epurazione,
quando si vollero colpire “la faziosità fascista”, considerata come
manifestazione di “indegnità di servire lo Stato”, e gli avanzamenti di
carriera per benemerenze fasciste o per i favori dei potenti del regime e
si considerò lo zelo fascista alla stregua di una prova “della
incapacità o del malcostume introdotti dal fascismo nelle pubbliche
Amministrazioni”. Questi erano i giudizi che del regime dava
l’antifascismo e come tali erano legittimi. Funzionavano meno come
canoni di valutazione ex post di comportamenti che, quando erano stati
posti in essere, erano considerati come benemerenze patriottiche
(talvolta dalle leggi del tempo, come per i benefici di carriera).
L’ampiezza e la
severità delle sanzioni crearono un allarme ampio e diffuso negli
apparati burocratici, che risposero con una chiusura a quadrato di pari
ampiezza ed intensità. Fu una reazione di difesa, o se si vuole di
autoconservazione, perfettamente comprensibile e prevedibile, alla quale
non si può attribuire un significato politico altro che per gli effetti
che determinò. A caldo essa fu una reazione di tipo qualunquistico,
come si prese a dire dalla testata del battagliero e colorito periodico
(“L’Uomo qualunque”) fondato nel dicembre ‘44 dal commediografo
napoletano Guglielmo Giannini per dare voce al disorientamento dei più
ed all’avversione per l’esarchia del Cln. Successivamente divenne una
ragionata ricerca all’interno del quadro politico espresso dal Cln delle
posizioni che potevano assicurare la pacificazione nazionale.
Non può meravigliare,
pertanto, che la defascistizzazione dello Stato divenne una ragione di
coagulo di forze assai estese, e certamente non marginali per il ruolo
ricoperto nella vita del Paese, contro i partiti di sinistra, che
dell’epurazione e più generalmente delle sanzioni contro il fascismo si
erano fatti alfieri ed ispiratori, tenendo vistosamente il controllo
dell’Alto Commissariato. Meraviglia semmai lo stupore opposto e la
spiegazione in chiave di mene reazionarie.
Se della rivoluzione
erano mancati i presupposti e le condizioni, il rinnovamento democratico
passava per la continuità dello Stato, che non voleva significare
conservazione istituzionale (non lo fu), ma solo mantenimento dell’alveo
della legge per una transizione ordinata, cioè tale da garantire le
libere scelte dei cittadini elettori. In una situazione del genere
occorreva recuperare il massimo possibile dei consensi al rinnovamento
senza provocare traumi velleitari alla continuità.
Criminalizzando
indiscriminatamente un’intera fase della storia nazionale, che era stata
vissuta dal Paese con larga ed indiscutibile partecipazione, le
sinistre si alienarono l’attenzione dei ceti colpiti dalle “grida”,
senza avere la forza di portare alle estreme conseguenze le liste di
proscrizione, salvo poi ad attribuire alla “restaurazione clandestina”
(l’espressione é di Calamandrei) gli effetti di un loro errore di calcolo politico.
DIFFAMATE, DIFFAMATE, QUALCOSA RESTERA’
Un documento interessante: il
Comando Regionale Lombardo del CLN invita a:
- intraprendere una “campagna
diffamatoria-denigratoria” nei confronti degli esponenti della RSI;
- attribuire loro ogni sorta di
violenze nei confronti di persone e cose;
- scrivere contro di loro
lettere anonime diffamatorie ai loro diretti superiori
(in: Giuseppe Rocco, Com'era
rossa la mia valle, Milano 1992)
Letta così sembrerebbe una
“normale” attività di propaganda (anche un po’ stupida), se non fosse che,
sulla base di queste diffamazioni e lettere anonime sono stati costruiti molti
processi del dopoguerra e più di uno ci ha rimesso la pelle a ridosso del 25
aprile
LA SERIETA’ E LO STILE DI QUESTA AULA DI GIUSTIZIA DI UN
TRIBUNALE DI UNA CITTA’ DEL NORD, NON DA CREDITO A QUESTI TRE “GIUDICI” CON
ARMI ALLA MANO, CHE INTENDONO GIUDICARE LE
LORO VITTIME
IL PROCESSO AL MARESCIALLO RODOLFO GRAZIANI
IL PROCESSO AL COMANDANTE VALERIO BORGHESE
Guido Buffarini-Guidi, ministro dell’interno della Repubblica Sociale di Salò,
a giudizio davanti alla Corte d’Assise Straordinaria, Milano, 22 luglio 1945.
BUFFARINI GUIDI PRIMA DELLA FUCILAZIONE
Fra
i maggiori processi politici effettuati a Roma ancora prima del termine
della guerra, era quello contro il questore di Roma Caruso. Il
tribunale riconosceva l'imputato colpevole, e lo condannava alla pena
capitale, che veniva eseguita, mediante fucilazione alla schiena. Subito
dopo la cessazione delle ostilità, invece, veniva processato il
Ministro degli Interni della RSI Buffarini-Guidi, sfuggito alla sorte
della maggior parte dei suoi colleghi, fucilati a Dongo senza processo.
Buffarini-Guidi veniva condannato a morte e benché in gravi condizioni
di salute, veniva fucilato
UNA PAGINA DEL SETTIMANALE “FOLLA” EDITO A MILANO NELL’ IMMEDIATO DOPO GUERRA. VIENE
DOCUMENTATA L’ ESECUZIONE DI BUFFARINI
GUIDI
IL PROCESSO A PIETRO CARUSO QUESTORE DI ROMA
MILANO GIUGNO 1945
I DETENUTI FASCISTI RINCHIUSI NEL
CARCERE DI SAN VITTORE SI AFFACCIANO AI
FINESTRONI PER COMUNICARE CON I LORO FAMIGLIARI
La professoressa Silvia Zappi, segretaria del Fascio Femminile di
Biella durante il ventennio ed anche nel periodo della Repubblica Sociale
Italiana.
Le foto la ritraggono durante manifestazioni ed attività organizzative
, intenta a befane fasciste e corsi di cucito.
Nonostante ciò, già alle manifestazioni del 25 aprile viene citata in
una scritta vergata col gesso su una vetrina di via Italia :"Dove sono
Giraudi, Zappi e Raviglione?" (Giraudi verrà ucciso e gettato nel canale
Cavour e mai ritrovato, Raviglione maciullato insieme ad altri fascisti da un
grosso autocarro a mo di rullo compressore sul piazzale dell'Ospedale
Psichiatrico di Vercelli). Venne condannata a 20 anni di reclusione, alla
interdizione dai pubblici uffici (per una professoressa al licenziamento) ed
alla confisca di tutti i suoi beni. L'eccezionale documento, ritrovato
fortuitamente nell'archivio personale di un capo partigiano, riporta la
distinta dei mobili e degli oggetti personali della sua modesta abitazione
distribuiti ad estranei.
Nessun commento:
Posta un commento